9.

Otto anni. Se è nato nel 2006, ha otto anni. Si chiama André.

Michele continua a fissare il buio fuori della finestra; dovrebbe andare a letto, sono ore che è qui in piedi. Questa storia l’ha guardata da ogni possibile lato, mescolando tutto – Mirko, le sue notti blu, Caterina, Courmayeur – e adesso non rimane che la realtà: l’esistenza di un bambino nato otto anni fa, la cui madre a un dato momento ha affermato di averlo avuto da suo figlio. Bisognerebbe però ricordare che a volte si prendono abbagli giganteschi, e questa è la prova che assurdità del genere non succedono solo a quelli che finiscono in televisione a sbraitare contro il vicino. O che, una volta risolto lo smisurato equivoco, sgomberano tutto con una bella risata e gran pacche sulla schiena: «Ma pensa un po’ che mi doveva succedere». Così vorrebbe andasse. Uscire domani dallo studio di quell’avvocato, vedere l’angoscia svanire dalla faccia di Larissa, tornare a respirare a pieni polmoni e andare a festeggiare, ma sì, con un bel bicchiere di vino alle dieci di mattina nel primo bar che capita. Rientrare a casa subito, disinteressarsi del bambino, della donna, dell’evidenza che Courmayeur per Mirko era sempre stata una seconda casa e quindi è probabile, probabilissimo, che invece sia tutto vero.

Ma se lo è, che cosa è successo dopo? Hanno intentato una causa contro Mirko? Mirko l’ha persa? Ha dovuto riconoscere il bambino? L’ha mantenuto quegli ultimi tre anni in cui è vissuto? Lo vedeva? Vedeva la donna? E poi, e forse è questa la pressante domanda di partenza, perché – se era una falsità – non ha detto niente neppure a Caterina?

Deve essere vero, pensa fissando un punto che ormai non ha più contorni.

«Altrimenti a qualcuno lo avresti detto».

La luce che apre il giorno è affilata e fragorosa. Sembra che la tiri fuori, la montagna, invece di illuminarla. Michele non ha dormito e fissarla gli fa male agli occhi, che scosta dal vetro per posarli sulla moglie.

«Sei già pronta?».

«Sbrigati».

«La chiamiamo?».

«Aspettiamo giù».

Scendono nella sala della colazione, una stanza piccola che dà sul prato dei meli. Sono gli unici, gli altri ospiti ancora a letto, o già in città. È una giornata bellissima, fredda. Troppo per andare a rifugi, che in questo periodo dell’anno sono chiusi. In montagna adesso c’è da ammazzarsi, a meno che non si abbia un paio di sci ai piedi e i bordi di una pista ai lati. Sciare, non hanno mai sciato. Neppure Mirko, che si annoiava a quel su e giù sempre uguale. A lui piaceva infilarsi nei boschi, far prendere sacri spaventi a sua madre svanendo ore dopo il tramonto per tornare con le guance rosse di freddo e la luce di scoperte incredibili negli occhi. «Le marmotte!» era una volta. «Gli stambecchi!» un’altra. «Un camoscio bianco» aveva detto una sera con lo stordimento che porta la convinzione di aver visto un prodigio.

Caterina scende subito dopo, ancora più pallida di ieri.

Arriva la padrona, chiede cosa bevono: «Mio marito è andato a prendere i croissant, tra poco torna».

Fanno sì con la testa, ma non li mangerà nessuno. Solo una tazzina di caffè, un tè blando per Larissa, che lo gira minuti interi prima di accorgersi che non ci ha messo lo zucchero.

«Andiamo?» chiede Caterina, anche se non sono nemmeno le otto. Meglio aspettare davanti alla porta dell’avvocato, concordano, che immersi nella pace inaccessibile di questo posto. Michele pensa che ha sbagliato a prenotare lì: un albergaccio sopra l’autostrada sarebbe stato molto meglio.

«Benvenuti a Gattaca» diceva Mirko quando si davano appuntamento in centro. Lui scendeva bardato e puzzolente dai suoi sentieri nascosti e li incontrava al bar sotto la scuola, ansioso di levarsi da lì. La popolazione di Courmayeur non gli piaceva; non gli piacevano la ricchezza, i beige e blu dei milanesi, le loro abbronzature già perfette prima ancora di mettere piede in montagna. Piede che posavano sui soliti tracciati battuti da tutti, per fortuna, cosicché lui avesse per sé quelli segreti, dove si arrampicavano soltanto le guide.

E gli abitanti di quel pianeta fantascientifico brulicano in questa mattina spettacolare dentro e fuori bar, negozi, parcheggi; flemmatici e signoreggianti, di un’eleganza magnifica. Loro tre fanno la figura della servitù in libera uscita, ma sono troppo tesi per accorgersene, troppo sgualciti dalla notte trascorsa ognuno dentro il proprio sgomento.

Lo studio di Gianluca Garda è all’imbocco di via Roma. A continuare, superata la chiesa, si arriverebbe all’agenzia immobiliare di Federica Grosso. Non ne hanno fatto parola, Michele guarda di sfuggita Caterina per capire che intenzioni abbia – è presto, potrebbero fare un salto fino là a dare una sbirciata alla vetrina – ma lei non accenna a voler proseguire oltre. Si ferma davanti al portone, legge il citofono, suona. Pare tranquilla, ma sono già due volte che Larissa le chiede qualcosa e lei non risponde. È panico, capisce Michele seguendola su per le scale, panico terribile che, sulla soglia dello studio, la fa voltare verso di loro e aprire la bocca in una richiesta che rimane muta. Abbassa la testa, spinge la porta. Michele e Larissa capiscono benissimo che vorrebbe entrare sola, ma fanno finta di niente.

La ragazza che li accoglie è straniera. Bionda, la faccia larga da russa, il corpo quadrato. Scatta in piedi a farli accomodare, offre un caffè, un bicchiere d’acqua. Michele si domanda se sappia di loro e stia simpatizzando, se Garda sia a corto di clienti, o se sia lei a essere così gentile.

Michele fa sedere Larissa, dice che sì, sono in anticipo ma aspetteranno lì se non le dispiace.

«Nessun problema» risponde lei, e dall’accento Michele capisce che è americana. Una giovane americana del Vermont, probabilmente, con lineamenti che nel ritaglio della finestra sul Monte Bianco stanno a meraviglia. Sente la tentazione di parlare in inglese, ritrovare quel poco di familiarità che qui dentro si fa sottile peggio di una carta velina. Che diavolo ci facciamo in questo posto, vorrebbe esplodere mentre va da un angolo all’altro della sala d’attesa perché non riesce a star fermo. L’opposto di Caterina, che pare diventata di cera. Una cera gelata dalle prospettive che devono transitarle davanti ogni minuto che passa, accatastate una sull’altra a comporre il mosaico variopinto del disastro che, forse, sta per travolgerli tutti.

Alle spalle della scrivania di Garda c’è un poster immenso: quel panorama di New York che tutti sembrano aver appeso da qualche parte. Chissà se l’ha notato Michele, che è entrato nell’ufficio dritto come un proiettile e a momenti salta in braccio all’avvocato.

«Prego, accomodatevi».

Garda ha aperto una cartellina, dei file sul computer.

«Questi sono i genitori di mio marito» ha specificato Caterina, stranita dal dirlo di nuovo dopo così tanto tempo.

Garda fa un cenno del capo, si mette a sfogliare le carte.

«La lettera che suo marito ha ricevuto» dice a Caterina, «è stata mandata il 18 settembre 2006».

Michele lo fissa: è una domanda?

«La mia cliente, la signora Federica Grosso, mi ha chiesto di inviarla all’indirizzo del signor Mirko Torre informandolo che la signora si era rivolta a me per avviare il riconoscimento di paternità del figlio».

«Sì, è quello che è scritto nella lettera» interviene Michele.

Garda gira gli occhi per un attimo nella sua direzione, poi torna a leggere.

«La lettera è stata recapitata il 20 settembre 2006 al signor Mirko Torre».

Caterina si aggiusta sulla sedia.

«Mi diceva al telefono che lei non ne era a conoscenza?».

«L’ho trovata cinque giorni fa».

Garda stacca gli occhi dal computer, posa la lettera, una copia identica a quella che Caterina ha in borsa, e li devia su di lei.

«Mi diceva che non ha trovato altre comunicazioni indirizzate da questo studio a suo marito».

Occhi piccoli, dentro i quali non si riesce a leggere nulla.

«Esatto».

Michele comincia a scavallare e accavallare le gambe, la mano di Larissa si allunga sulla sua.

«Abbiate pazienza» dice l’avvocato, «ma devo accertarmi che stiamo parlando della stessa lettera, delle stesse persone… prassi».

Prassi.

Michele fissa i suoi occhietti marroni, la faccia triangolare spoglia di segni che ne rivelino l’età, lo sbaffo blu sotto il colletto, nemmeno si fosse pulito l’inchiostro sulla camicia. New York notturna ed esagerata dietro le sue spalle strette, curve verso di loro in un tentativo di empatia che però esce goffo, come se quest’uomo non avesse calore. «Non uscirà mai dal suo ufficetto di Courmayeur, quel Garda» dirà Michele stasera. Uno che da piccolo guardava i compagni di scuola da un angolo, e che nessuno chiamava a giocare in squadra con sé.

«Non è stata intentata nessuna causa».

La notizia arriva all’improvviso, come se Garda avesse deciso di prendere una scorciatoia attraverso tutta la paccottiglia burocratica.

«La signora Grosso non ha voluto instaurare un giudizio per il riconoscimento di paternità del bambino» ripete scandendo.

Caterina appare frastornata.

«Quindi non…».

Michele fissa l’avvocato che non dice niente per venirle incontro, e lo vede di nuovo bambino – affacciato a quell’angolo di cortile dove non riesce a smettere di immaginarlo – portare un giorno un pallone nuovo.

«Signora Torre» dice infine, «il fatto che la signora Grosso non abbia avviato una causa, non significa altro che questo».

Occhi minuscoli. Spalle magre, faccia incolore. Un bambino antipatico. Nonostante il pallone, che probabilmente quella volta gli avevano rubato lasciandolo fuori, ché le squadre erano fatte e per lui non c’era posto.

L’aria si è messa a frizzare nell’ufficio, ha continuato a frizzare lungo le scale e frizza ancora adesso che sono fuori a respirare quell’altra aria potente e fredda che li scuote riavvicinandoli uno all’altro.

«Non significa che il signor Torre non sia il padre naturale del bambino» ha detto Garda, «potrebbero essersi messi d’accordo senza ricorrere alle vie legali, come auspicato nella lettera».

«E lei non ne sa niente?» ha chiesto Michele.

«No» ha risposto lui stringendosi ancora di più nella sua giacchetta a quadri, «non ho più incontrato la signora Grosso».

Com’è possibile?, ha pensato Michele. A cinquecento metri da qui c’è la sua agenzia immobiliare, e magari ti ha pure venduto la casa.

«Intendo in questo studio, signor Torre».

Non si era accorto di aver parlato a voce alta.

Hanno salutato, sceso le scale in silenzio, sono arrivati al parcheggio senza dire una parola. Nello spiazzo si guardano. Caterina ha negli occhi un’ilarità sinistra: il pensiero che Mirko non è padre di nessuno – tutto un equivoco, tutto uno svarione – insieme a un disorientamento infinito.

«Caterina» la chiama Larissa, e sotto quella voce imperiosa e dolce Caterina si scuote, e torna a vederli.