6.
Il dilemma del prigioniero è un gioco non-cooperativo studiato nel 1950 dai matematici Merrill Flood e Melvin Dresher al RAND, Research ANd Development Corporation, e in seguito formalizzato da Albert W. Tucker.
Il dilemma del prigioniero propone questa situazione:
Due sospettati, A e B, sono arrestati dalla polizia. La polizia non ha prove sufficienti per trovare il colpevole e, dopo aver rinchiuso i prigionieri in due celle diverse, interroga entrambi offrendogli le seguenti prospettive: se uno confessa (C) e l’altro non confessa (NC), chi non ha confessato sconterà dieci anni di detenzione mentre l’altro sarà libero; se entrambi non confessano, la polizia li condannerà a un solo anno di carcere; se invece confessano tutti e due, la pena sarà cinque anni di carcere. Ogni prigioniero può riflettere sulla strategia da scegliere tra confessare o non confessare. In ogni caso, nessuno dei due prigionieri potrà conoscere la scelta fatta dall’altro prigioniero.
I prigionieri sono di fronte a un dilemma. Se fossero in grado di mettersi d’accordo e non confessare, allora ciascuno sarebbe condannato a un solo anno di carcere. Però non possono comunicare. Il primo a essere interrogato è il prigioniero A. Essendo un gioco non-cooperativo, per ogni prigioniero è meglio confessare perché, indipendentemente dalla scelta dell’altro giocatore, il suo guadagno personale è più alto confessando. Infatti, se A confessasse, a B converrebbe confessare perché in questo modo sconterebbero cinque anni di carcere; se A non confessasse, a B converrebbe a maggior ragione confessare, perché così facendo lui sarebbe libero, mentre A sconterebbe dieci anni di carcere. L’equilibrio del gioco sta dunque nel confessare.
Secondo la teoria dei giochi, la scelta di confessare dei due prigionieri è detta «strategia dominante»: la strategia ottimale a prescindere da ciò che fa l’avversario. Però è evidente come in realtà sarebbe molto più conveniente per entrambi i prigionieri non confessare, perché sconterebbero entrambi soltanto un anno di detenzione. Ma questa giocata non sarà mai possibile, perché è rischiosa: se l’avversario confessasse, come è razionale che faccia, allora chi non ha confessato sconterebbe dieci anni di carcere, mentre l’avversario sarebbe libero.
L’unica variante che renderebbe vantaggioso per entrambi non confessare è che si trattasse di un gioco cooperativo, cioè che i due giocatori avessero la possibilità di accordarsi preventivamente sulla strategia da adottare.
Michele aveva tentato molte volte di spiegare l’equilibrio di Nash a Mirko, che sul dilemma del prigioniero iniziava a fare ipotesi inverosimili di scavo dei muri e intervento degli alieni.
È a questo che Michele pensa guardando Larissa stirare le camicie. Mirko bambino che lo guardava scaldarsi intorno a un dilemma per lui illogico: ma perché i prigionieri non scavavano un tunnel di notte, mentre le guardie dormivano, per parlarsi e mettersi d’accordo su cosa dire? Perché non si facevano portare delle lamette nascoste in una torta per segare le sbarre della cella e scappare come la Banda Bassotti?
«Mirko, stai attento» lo rimproverava Michele.
Ma Mirko era attentissimo. Era da quell’eccesso di attenzione che derivavano le sue ipotesi, prodotto di un’applicazione quasi fisica. Mirko lo fissava tutto serio e poi esplodeva in esclamazioni frustrate: «Ma è facile!» diceva, e proponeva alabarde spaziali e superpoteri.
«Lascialo un po’ stare» diceva Larissa portandolo in cucina a fare merenda.
«Deve capire» rispondeva Michele, «è un ragionamento semplice».
Mirko ci restava sempre un po’ male quando Michele diceva così, e non serviva a nulla la mano di Larissa sul suo orecchio mentre lo sottraeva alle sollecitazioni di suo padre.
Da piccolo voleva compiacerlo sempre. Solo dopo aveva fatto quella scelta inversa, cominciando a interessarsi alle cose sue. Si era appassionato alla Terra, e un bel giorno era arrivato a casa con quella novità: «Voglio studiare Geologia».
O forse si cresce così. Cambiando. Diventando ciò che si deve essere, obbedendo a una natura che con i tentativi di un padre non ha niente a che fare.
Michele si siede, segue con lo sguardo il ferro da stiro che si infila sotto il colletto e scivola lungo il dorso. Prima colletto e polsini, aveva spiegato Larissa quella volta che lui si era messo in testa di imparare a stirare, poi il dietro e per ultimo il davanti. «Me l’ha insegnato la suora di mia madre» aveva detto, riferendosi alla monaca del convitto femminile per cui la madre cuciva le divise negli anni Sessanta. Suor Sip, la chiamavano, perché, oltre a essere la responsabile della stireria, era quella che rispondeva all’unico telefono dell’istituto, chiamando le ragazze al piano con un altoparlante che le faceva saltare tutte dallo spavento.
«Te la porti, questa?».
Larissa lo guarda, una camicia azzurra in mano: «Si sgualcisce dopo un’ora che ce l’hai addosso».
«Non puoi aspettare fino a domani?».
Sua moglie apre la camicia di fronte a sé, la avvicina: «Ha una macchia» dice gettandola su una sedia, «problema risolto».
Ha già deciso. Partiranno. E se lui non vuole andare, partirà sola. È irragionevole, non sanno neppure se si tratti di un errore, bisognerebbe aspettare che Caterina parlasse con un avvocato, e l’avvocato sicuramente confermerà una svista burocratica.
Sicuramente è questo. Figuriamoci se Mirko ha fatto un figlio.
Figuriamoci se ha fatto un figlio con una che non è Caterina.
Figuriamoci, pensa Michele fissando l’asse da stiro, se ha fatto un figlio e non mi ha detto niente.
Le previsioni circa gli eventi si riducono a una ricerca o a una descrizione degli equilibri. In altre parole, le strategie di equilibrio sono ciò che prevediamo delle persone.
Questo gli viene in mente. Peter Ordeshook. Le strategie di equilibrio sono ciò che prevediamo delle persone. Dovrebbe saperlo, ormai. È tutta la vita che lo studia.
L’equilibrio che non c’è.
Larissa posa il telefono.
«Perché non me l’hai passata?».
Sua moglie ha gli occhi smarriti, per un momento sembra non ricordare dove metterlo.
«L’avvocato ha detto che Caterina può telefonare al legale di quella donna, oppure, se non se la sente, lo farà lei. Dobbiamo andare, Michele».
Michele posa la tazzina di caffè sul giornale aperto: «Intanto fai chiamare me» dice guardando l’ora, «dovrei trovare quell’avvocato di Milano… Ti ricordi? Sento cosa dice lui e poi decidiamo».
«Io vado».
Michele si alza di colpo: «Adesso mi fai telefonare e te ne stai calma un momento. Partiamo se è il caso di partire».
Larissa lo guarda e non risponde. Rimane in piedi mentre lui cerca nell’agendina il numero dell’avvocato. Le dita si inceppano tra le pagine, un fastidio crescente si mescola alla stizza verso l’aria inebetita di Larissa, che non è mai stata avventata e guarda tu se deve cominciare a perdere le rotelle proprio adesso.
«Stai tranquilla» dice componendo il numero.
E mentre digita sul portatile, gli viene in mente la storia del nome.
Gloria del mondo.
Gliel’aveva detto Larissa.
Mirko, il nome del suo scrittore preferito, significa «gloria del mondo».
Era venuto fuori quando Mirko aveva sedici o diciassette anni. Una sera che era in casa a vedere un film e Larissa si era messa a guardarlo dalla cucina preparando la cena.
«Sai che significa il suo nome?».
«E anche pace» aveva aggiunto, «contiene la radice –mir, che vuol dire pace».
Un po’ come lui, pensa Michele: conteneva una radice. Un’origine, una possibilità, una matrice da cui scegliere se coniugare o no.
«Michele invece significa Chi è potente come Dio?».
Allora gli era piaciuta l’idea. Che il suo nome fosse una domanda così impegnativa. Lo aveva fatto ridere.
«E Larissa?».
«Allegra».
Michele a quel punto era esploso: «Allegra?».
«Allegra» si ripete adesso contando gli squilli nella cornetta.
«Il Tempio di Giove Serapide, a Pozzuoli» aveva indicato Mirko sullo schermo.
Avevano appena finito il trasloco, l’appartamento ancora invaso dagli scatoloni. Libri, perlopiù, per i quali avrebbero faticato a trovare una sistemazione. Larissa avrebbe voluto donarli alla biblioteca dell’università, ma aveva sbattuto contro un muro solidale: i libri no. A un certo punto lei e Michele avrebbero cominciato a incolonnarli per terra, riempiendo ogni angolo della casa di altissime pile tremolanti che, ogni volta che ci passavano accanto, rischiavano di crollare.
Mirko era venuto ad aiutare, ma a un certo punto si era perso in una delle sue ricerche.
«Nel II secolo d.C. il tempio era al di sopra del livello del mare» aveva letto a voce alta, «ma sulle colonne di marmo sono state trovate tracce di bivalvi marini a una quota di quasi 7 metri di altezza. Sai cosa significa?».
Larissa aveva distolto lo sguardo dagli scatoloni in cucina: bisognava cominciare da quelli.
«Che c’era il mare, mamma. Poi è ridisceso. Al tempo di Lyell, l’area in cui era stato costruito il tempio era a trenta centimetri sotto il livello dell’acqua alta. Tutto questo è il risultato di movimenti della Terra che si chiamano bradisismo. Sono movimenti così lenti che le colonne del tempio si sono conservate intatte senza crollare».
Prima la cucina, aveva pensato Larissa, poi con calma il resto. In una settimana, a organizzarsi bene, si sarebbero sistemati.
«Guarda» Mirko aveva cercato la riga sullo schermo, «senti qui. Nei Campi Flegrei, il fenomeno del bradisismo è stato discendente dal II secolo a.C. al IX secolo d.C. Medio Evo, quindi. Ascendente dal X fino al XVI secolo; di nuovo discendente dal XVII secolo fino al 1970; ascendente fino al 1985, anno in cui il suolo ha ripreso ad abbassarsi sebbene con brevi periodi di sollevamento di minore entità avvenuti rispettivamente nel 1989, nel 1994 e nel 2000. Intorno al 2005 la tendenza si è invertita, e da allora è in corso una nuova fase di sollevamento. Affascinante, no? La crosta terrestre che si muove, ma lentamente» aveva spiegato mettendo le mani ad asse, «così lentamente che un tempio costruito nel primo secolo riporta sulle colonne ogni minuscolo movimento del suolo e non crolla. È un fenomeno inspiegabile. Pare che sia dovuto alle variazioni di riscaldamento delle falde freatiche».
«Non so cosa voglia dire, Mirko. Mi aiuti con quelli?».
«Adesso arrivo. Vuol dire che gli aumenti e le diminuzioni della temperatura causano una pressione più o meno forte del vapore acqueo nel sottosuolo, e portano alle deformazioni della crosta superficiale. Secoli di spostamenti lenti che restano visibili sul marmo delle colonne di un tempio. Meraviglioso, no?».
Larissa lo aveva guardato, Mirko aveva sorriso cominciando a farle oscillare le dita davanti: «La terra procede con movimenti lenti, graduali, dolci. Tutto si trasforma con naturalezza. Quello che rimane è il risultato di cambiamenti inevitabili, successi senza traumi, con… saggezza. Ecco, con saggezza. Capisci?».
«Sei come papà» aveva risposto Larissa.
Mirko era rimasto con le mani a mezz’aria: «In che senso?».
«Avete la stessa passione per quello che studiate. Siete identici».
«Ti dà fastidio che te l’abbia detto?» aveva chiesto subito dopo.
«No» aveva risposto lui, «mi fa strano».
«Perché? È bello somigliare al proprio padre. Io dei miei genitori non ho niente e mi piacerebbe—».
«Non è vero».
«Scusa?».
«Non ti è mai interessato appartenere a qualcuno».
«Non dire cretinate» aveva risposto Larissa.
Era finita così, quella conversazione, con una digressione che li aveva raffreddati.
Forse, se avesse ascoltato meglio, Larissa avrebbe trovato l’indizio di un messaggio ancora inintelligibile: tutto accade gradualmente, e inesorabile.