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Guardo Julia, incredula. Per qualche secondo non riesco a parlare. «No, aspetta un attimo», dico alla fine, quando ritrovo la voce. «Selena non era certo un angelo, e sono la prima ad ammetterlo, ma quello che stai dicendo tu adesso significherebbe che faceva star male Ruby di proposito, giusto?»
«La sindrome di Munchausen per procura è un disturbo psichiatrico che spinge chi ne è affetto a far credere malata una persona che non lo è, fingendo che questa persona abbia bisogno di operazioni o trattamenti particolari. È un modo per attirare l’attenzione su di sé. Tutto potrebbe essere iniziato quando a Ruby, da piccolina, hanno diagnosticato questa allergia ai latticini. Selena probabilmente si è crogiolata nelle attenzioni dei medici e degli infermieri e...»
«Ma questo... questo è maltrattamento di minore!»
Julia annuisce, molto seria in volto. «È un’accusa molto grave, lo so. E mi dispiace, davvero. Ma dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi che Ruby non sia affatto malata.»
«Ma non ci sono prove! Cioè, è evidente che Ruby non sta bene. Solo che i medici non hanno ancora capito quali siano le cause.»
Julia fa un sospiro, che riecheggia in tutta la stanza. «Ci ho pensato. Ma Selena ti ha detto che Ruby ha il morbo di Crohn, quando invece gli esami dicono il contrario. Perché l’avrebbe fatto?»
«Io...» Penso alla piccola Ruby, col suo visino delicato e con le gambine magre. Non posso credere che Selena possa aver fatto una cosa del genere alla figlia. Lei l’amava. Voleva proteggerla. Proprio come io voglio proteggere le mie bambine. È per questo che ha lasciato Nigel. Perché temeva che potesse fare male a Ruby.
Julia si avvicina e mi accarezza il braccio. «Lo so, che è molto dura da digerire. E non sto dicendo che sia sicuramente così. È un dubbio... un dubbio tremendo, però. Perché non teniamo d’occhio Ruby? Ecco, sì, teniamola d’occhio. Io adesso vado su a prendere la borsa, le ausculto il petto e verifichiamo se ha l’asma. Va bene?»
Le sorrido, grata di quello che sta facendo, e lei esce dalla stanza.
Vado alla finestra e mi metto a guardare le montagne. Ultimamente, quando le vedo, penso sempre a Dean e alla paura che mi affligge: che lui, cioè, possa nascondersi lassù da qualche parte, in attesa che arrivi il momento giusto per tornare a farci del male. In questo momento invece riesco solo a pensare a Ruby. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa di rosso. Dall’altra parte della strada, proprio di fronte alla chiesa, c’è Nancy col suo impermeabile scarlatto. È assieme a Lydia Ford, la nostra vicina. Si tengono a braccetto e si riparano sotto lo stesso ombrello. Parlano con qualcun altro. Cerco di capire con chi, ma le gocce di pioggia che colano sul vetro non mi permettono di vedere bene. Mi sembra Janice, però. Sì, è proprio lei. Anche Janice ha un ombrello, a fiori in questo caso, e tiene Horace sotto il braccio, con una zampetta che gli penzola nel vuoto. Si conoscono? Pare che parlino fitto fitto, non si tratta di un veloce scambio di saluti tra conoscenti. Ma un secondo dopo Janice si allontana da Nancy e da Lydia e torna verso casa, molto seria, mentre combatte con l’ombrello che il vento rischia di rigirare.
Mi volto dall’altra parte e già non penso più a quelle tre. La mia mente in questo momento è occupata solo da ciò che mi ha appena detto Julia.
La sindrome di Munchausen per procura. Non ne so molto, solo quello che mi è capitato di leggere sui giornali. Ricordo di aver letto del caso di una madre che, tanti anni fa, aveva finto che la figlia fosse malata terminale. Lo aveva fatto per soldi. Ne sono sicura. Le aveva rasato la testa e aveva detto a tutti che aveva il cancro e il motivo era che voleva metter su un gruzzoletto per andarsene a fare la vacanza dei suoi sogni. Selena non aveva fatto niente del genere. Mi volto di nuovo verso la finestra e stringo il davanzale. Ho le mani sudate. Non riesco proprio a credere che Selena potesse essere capace di far stare male di proposito la figlia per fingere che fosse malata. Non l’avrebbe mai sottoposta a tutto ciò che la piccola aveva dovuto subire. Altrimenti vuol dire che era pazza. Sì, sicuramente, i suoi problemi, ce li aveva, ma con Ruby si era dimostrata una mamma amorevole e attenta. No, Julia si sbaglia. Non posso permettere che pensi una cosa del genere di Selena. Offenderebbe la sua memoria. Ma Selena ha ammazzato il suo stesso padre, insiste una vocina nella mia testa. È davvero così impossibile immaginare che fosse capace di far del male anche alla figlia?
Adesso però devo riprendermi perché ci sono cose concrete e reali cui pensare, come il fatto che Nathan sia il padre di Ruby e che Julia non lo sappia ancora. Mi sento confusa e agitata.
Arrivo all’ingresso proprio quando Janice spalanca la porta cercando di governare l’ombrello. Noto che una delle stecche si è spezzata, per cui adesso penzola come un dito rotto. «Ah, salve, cara», mi saluta quando mi vede. Getta l’ombrello sul gradino di fuori e chiude la porta. «Come va?»
«Benino, tutto considerato. Ascolta, mi dispiace molto per tutto ciò che sta succedendo... Ti avrà sicuramente rovinato la vacanza», dico, tutta rammaricata. Ti prego, lasciaci una bella recensione su TripAdvisor.
Ieri abbiamo trovato quella dei Greyson. Il titolo era Una catastrofe. Non ho avuto il coraggio di leggere il resto.
Lei sminuisce la cosa con un gesto della mano. «Figurati, cara. Sto benissimo, invece. Sai, io ci sono cresciuta, qui.»
In effetti mi aveva detto che era venuta a Hywelphilly per far visita alla sorella. «Tua sorella abita in paese?»
«Sì. Si chiama Clara Gummage. Ha una farmacia in centro. Oggi abbiamo passato la mattinata assieme. Domani parto e probabilmente non la rivedrò fino all’anno prossimo. Lei non si può permettere il viaggio per venire da me.»
La farmacista è la sorella di Janice? Sono diversissime. La signora Gummage sembra sempre di cattivo umore, invece Janice è così gioviale e socievole.
Janice mette giù Horace. «Accidenti, è proprio pesante. Sta diventando cicciottello.»
Be’, è un eufemismo. Ma mi sforzo di non ridere mentre lei sale le scale e Horace la segue.
«Sai...» dice girandosi a guardarmi e appoggiandosi al corrimano. Ha di nuovo la strana espressione di quando comincia a blaterare di energie e cose così. «In questa casa sento ancora energie negative. Devi stare attenta, cara. Quelle montagne e quelle colline...»
Cerco di celare il fastidio che provo. Poi però Janice chiude gli occhi. «Sono successe brutte cose in questa casa. E non è ancora finita.»
«Adesso basta!» sbotto.
Lei riapre gli occhi, sorpresa. «Scusami?»
«Ho detto: adesso basta. Non voglio più sentire questi discorsi, Janice. Mi dispiace. Ho due bambine cui pensare. E adesso anche Ruby, che ha appena perso la madre. Non voglio più sentire questi discorsi.»
Lei ridiscende le scale e si avvicina. Ha addosso l’odore della pioggia. «Mi dispiace, cara. Ma sono cose che vanno dette. Questa casa non è buona. Ha una storia. Una brutta storia. Tutti quelli che ci hanno vissuto hanno avuto una vita terribile. Negli ultimi trent’anni è stata quasi sempre disabitata. E un motivo c’è.»
«Allora cosa mi suggerisci di fare?» La mia è una battuta, ma adesso voglio sentire la risposta.
Lei alza le spalle. Indossa un cappotto marrone sopra il suo caffettano preferito e le calze pesanti. «Se vuoi la mia sincera opinione, non credo che in questa casa troverai la felicità. È maledetta. Lo so, che non mi credi, e va bene. Io però te lo devo dire.»
Incrocio le braccia al petto perché mi sono accorta che ho una macchia di tè sul maglione. «D’accordo, grazie tante.»
Lei si avvicina ancora di più, al punto che riesco a vederle i baffi. Mi sfiora la mano. «Tu mi piaci. E mi piace la tua famiglia. Siete brave persone. Però conosco la storia di questa casa. E non parlo solo di Violet Brown, ma anche di quello che è successo dopo. Sono cresciuta qui, ricordi? Da bambini eravamo terrorizzati da questo posto. Era decisamente inquietante. Sai, vicino al cimitero, e tutto il resto. È rimasto disabitato per anni. Nessuno ci si voleva avvicinare, ci giravano tutti alla larga. Non ve l’ha detto l’agente immobiliare quando siete venuti a vedere la casa, eh?» Si allontana e riprende in braccio Horace. «Adesso salgo a fare un riposino. Mi dispiace doverti dire queste cose, cara. Sembri terrorizzata, adesso, ma sarebbe tremendo se qui dentro succedessero altre disgrazie. Magari penserai che io sia un po’ suonata o che tutti questi discorsi siano chiacchiere senza senso, però devi conoscere la verità. Questa casa è maledetta.»
La guardo salire le scale. È chiaro che Janice vuole spaventarmi. Solo non capisco perché.
Adrian non è alla scrivania. Il portatile è spento, con una pila di fogli A4 accanto, disposti a faccia in giù, così che io non possa leggerli. Forse è andato a correre. Sulla scrivania c’è una foto di me con le bambine alle cascate. L’abbiamo scattata quando ci siamo trasferiti. Ho le braccia sulle loro spalle e sorridiamo piuttosto abbronzate. Io e Evie siamo bionde e un po’ selvagge, Amelia è mora e sempre molto composta. A proposito, chissà come sta andando a casa di Orla. Le mie bambine mi mancano sempre quando non sono con me. Da che ci siamo trasferiti, mi sono abituata a passarci più tempo assieme.
Il letto non è stato rifatto e le tende sono ancora chiuse, anche se è quasi ora di pranzo. Allora mi metto a sistemare il piumone e a togliere le pieghe delle lenzuola. Sto sempre a pulire e a sistemare, sempre. Perché, se ho le mani occupate, non devo pensare.
Sento qualcuno che si schiarisce la voce e mi spavento. Julia è sulla porta. Non entra e sembra imbarazzata, come se avesse sorpreso me e Adrian nudi a letto.
«Ho visitato Ruby. Credo che abbia l’asma.»
«Strano che non gliela abbiano diagnosticata finora. È entrata e uscita dagli ospedali per cui non...» Mi fermo. «Che c’è?» le chiedo, quando vedo che sta per aggiungere qualcosa.
«Potrebbe essere stata causata dallo stress. Dopo tutto quello che ha passato.»
Non sono sicura che si riferisca alla morte di Selena o alla sospetta sindrome di Munchausen per procura. Non le rispondo.
«Adesso le faccio una ricetta e le prescrivo un inalatore. Tu però devi andare dal tuo medico curante il prima possibile.» È molto seria ora, m’immagino che sia così sul lavoro. Quando penso a quello che io so e che Julia non sa, provo un moto d’affetto per lei.
Nel sentire la voce di Nathan sulle scale ci zittiamo. A me assale l’ansia, come prima di un esame. Julia sorride. Cara Julia, così piena di fiducia verso il prossimo. Tu non lo sai, ma stai per entrare nella gabbia del leone. Allora mi avvicino e la abbraccio stretta.
«Come mai questo abbraccio?» mi chiede ridendo.
«Per ringraziarti.»
«Ma figurati», risponde lei, arrossendo un po’. Poi mi sorride e sparisce in fondo alle scale. Guardo il punto in cui era, come se la sua energia ci fosse rimasta incollata, e mi viene una grande tristezza. Non solo per Julia, ma anche per Selena. E per Ruby. E per tutto il resto.
Inspiro profondamente e infilo la mano nella tasca per prendere l’inalatore, ma non c’è, devo averlo lasciato di sotto. Allora apro la finestra e faccio entrare un po’ d’aria. Una folata di vento fa sbattere la tenda e richiudo subito. Però un foglio di quelli che stanno sulla scrivania è volato per terra. Adrian si arrabbierebbe a morte se gli incasinassi il manoscritto, sempre che si tratti di quello. Corro a raccogliere il foglio. Quando leggo ciò che c’è scritto, una paura indicibile mi gela il sangue. Vado a controllare il resto della pila. Ci sarà una ventina di fogli. Credevo si trattasse di una parte del suo romanzo, con scene e frasi che non avrei capito. Invece vedo una sola parola, ripetuta all’infinito. Righe e righe di quell’unica parola che riempie le pagine e la mia testa.
Selena.