10
Janice Lowly è una signora grossa e prosperosa, splendente nel suo caffettano a fiori, e ha un carlino sotto il braccio. Me la trovo sulla soglia con un bel sorriso stampato sul viso rubicondo. Tra i capelli crespi porta una gerbera rossa. Mi piace subito, anche se mi prende un colpo quando vedo il cane. In teoria qui non sarebbero ammessi animali.
Evie, dietro di me, quando lo vede, fa un gridolino di gioia.
«Si chiama Horace», dice Janice entrando in casa. Un secondo dopo, Evie è già lì che lo accarezza e che lo coccola. Lui si agita e si contorce, con la linguetta che penzola fuori dalla bocca. Janice sorride tutta contenta. «Gli piaci proprio, tesoro», le dice. Ha un leggerissimo accento gallese. Poi si rivolge a me. «E tu devi essere Kirsty. Ci siamo parlate al telefono.»
«Esatto. Spero che il viaggio sia andato bene.»
Lei annuisce sorridente. «Sì, non abito tanto lontano. Sono di Warwick e sono venuta a trovare mia sorella, che però non ha spazio per ospitarmi.» Torna a parlare con Evie. «E tu come ti chiami, tesoro?»
Evie arrossisce e nasconde la faccia nel pelo di Horace, col risultato che la risposta esce distorta e ovattata.
Janice si accovaccia e avvicina il viso a quello di Evie. «Be’, hai proprio un bel nome.»
Non ho il coraggio di dirle che non sono ammessi animali, anche perché avrei dovuto specificarlo sul sito. Già tremo al pensiero di ritrovarmi la casa trasformata in una specie di Arca di Noè con gli arrivi di questa settimana. A me gli animali piacciono, lo faccio solo per una questione d’igiene e per non creare problemi ai soggetti allergici. Ruby sarà allergica ai cani? Lo devo domandare a Selena.
«Bene, signora Lowly, la sua camera si chiama Caprifoglio.»
Lei si raddrizza, tenendosi una mano sulla schiena. Avrà sessantacinque, massimo settant’anni. Non sono molto brava a indovinare l’età della gente.
«Chiamami Janice, ti prego. La signora Lowly per me sarà sempre e solo mia suocera!» Ridacchia. Chissà, magari, col fatto che la sorella abita in paese, verrà spesso a soggiornare da noi. Mi piace l’idea di poterla conoscere meglio.
«Benissimo. Allora seguimi, Janice, la tua stanza è al piano di sopra, la seconda sulla sinistra. Ti accompagno.» Ha una piccola valigia e un borsone a tracolla. Mi offro di aiutarla, ma lei mi fa cenno che non ce n’è bisogno. «Non è pesante.» Mi segue di sopra, con Evie subito dietro. «È proprio una bella casa», commenta ammirando le pareti grigio chiaro, la moquette color sabbia, gli specchi bordati d’oro e l’arredamento in stile francese.
«Grazie, l’abbiamo ristrutturata noi. Sei la nostra prima ospite», rispondo, senza contare Selena.
«Ma sei di queste parti, vero? Mi pare di sentire un accento gallese, anche se non è marcato come quello della gente di qui. Mia sorella ce l’ha fortissimo.»
Mi metto a ridere. «Gli anni in cui ho vissuto a Londra lo hanno un po’ smorzato, anche se i miei amici londinesi sostengono il contrario. Dicono che sono gallese in tutto e per tutto.»
Janice si ferma in cima alle scale, ha il fiatone. Lo sguardo è rivolto fuori dalla finestra ad arco, che si affaccia sulle montagne. «Che vista magnifica.»
«Sì. Siamo stati fortunati a trovare questa casa.»
Janice si gira a guardarmi. Ha occhi di un colore incredibile. Blu cobalto, credo si chiami. «È successo qualcosa di brutto qui», mi fa.
«Scusa?» le chiedo, pensando di aver capito male. Do subito un’occhiata a Evie, che è sensibile e si spaventa facilmente, ma è tutta presa da Horace, sdraiato ai piedi della padrona.
«Questa casa ha una cattiva energia.»
Oddio, è una di quelle. Lo è pure la mamma di Adrian. È fissata con tutto ciò che è mistico: angeli, auree, energie, spiriti. Io invece non ho tempo da perdere. «Mi stai dicendo che non vuoi restare?» le domando, cercando di mantenere un tono neutro, ma si capisce che sono scocciata. Non voglio che spaventi Evie. «Hai cambiato idea?»
La sua espressione si rilassa. «Devi scusarmi, cara. È solo che sento le energie, tutto qua. Conosci la storia di questo posto?»
Scuoto la testa. «So che è stato costruito alla fine del XIX secolo, verso il 1875, mi pare ci sia scritto sull’atto di vendita. È rimasto disabitato per diversi anni prima che lo comprassimo noi.»
«Vi hanno fatto un prezzo vantaggioso, vero?»
Resto un po’ stupita dalla domanda così diretta. «Be’, diciamo di sì. Ma abbiamo dovuto spendere parecchi soldi per ristrutturarlo.»
«Mmm.» Si guarda intorno e poggia una mano sulla balaustra. «Mia sorella ne saprà sicuramente di più. Vive qui da quarant’anni. Io invece non ho resistito. Me ne sono andata a diciotto anni, quando ho sposato Roy. Anche se ricordo cosa dicevano...» Ma guarda Evie e aggiunge: «Però ne parliamo un’altra volta, quando non ci sono bambini intorno».
Sono davanti alla porta della camera che abbiamo chiamato Caprifoglio, con la chiave in mano. Quando torno a girarmi, Evie è andata di sotto e Horace è di nuovo in braccio a Janice, che sta dietro di me e guarda la scala che porta in mansarda. «Ho sentito che è successo lassù», dice con l’espressione corrucciata. Come faccio a spiegarle che non m’interessano le sue stupide leggende senza sembrare maleducata? È una cliente e dobbiamo farla sentire a suo agio.
«’Successo’, cosa?» le chiedo, sforzandomi di essere gentile.
«È morta una persona...»
Giro la chiave e apro la porta. «Eccoci qui», esclamo, contenta che Evie non senta queste cose. Spero almeno che Janice non se ne esca che anche questa stanza ha un’energia negativa, visto che si affaccia sul cimitero. A saperlo, l’avrei fatta stare nella Fresia, sull’altro lato. Lei mi supera ed entra in camera, con Horace che salta giù dalle sue braccia direttamente sul letto.
«Oooh, ma che bella», fa lei, che sembra aver accantonato tutte quelle chiacchiere sulle energie. Horace sposta il copriletto col muso e soffia col naso. Janice va alla finestra e apre le tende. Ha iniziato a piovere. Si vedono la guglia della chiesa e le lapidi intagliate che sporgono dal terreno, molte rotte o storte.
«Lo so, si affaccia sul cimitero...» le dico, valutando se non sia il caso di proporle un’altra sistemazione.
Lei si gira a guardarmi, seria. «Ma no, cara, la cosa non mi disturba affatto.» Gli occhi lampeggiano. «Credimi, i morti non ti possono far male. È dei vivi che bisogna aver paura.»
Più tardi, dopo che ho finito di passare l’aspirapolvere sulle scale, di spolverare il grosso armadio alla francese all’ingresso e di togliere un alone sullo specchio, arrivano gli altri ospiti. Non vedo l’ora che sia domani e che Nancy prenda servizio.
Sento voci e passi sul brecciolino del vialetto prima che il suono del campanello riverberi per tutta casa. Mia madre spunta dal nulla e va ad aprire la porta, per poi richiuderla decisa. Fuori è già buio. Qualcuno nelle vicinanze deve aver acceso il fuoco perché, assieme agli ospiti, entra in casa odore di fumo. Si presentano come Peter e Susie Greyson. Alloggeranno nella stanza che abbiamo chiamato Giacinto, una familiare con vista sul giardino. Infilo lo straccio per la polvere nella tasca posteriore dei jeans e li vado a salutare.
Avranno poco meno di cinquant’anni. Susie è tozza e bassina, con un bel viso ovale e una massa di capelli neri in testa. Peter, dietro di lei, è alto e magro, coi capelli bianchissimi e radi. Mi ricorda un sergente maggiore. Ci sono anche due ragazzini, con loro. Il più grande – che avrà una quindicina d’anni – pare imbronciato e per niente contento di trovarsi qui, il più piccolo invece sorride. Il viso pieno di lentiggini gli s’illumina quando si accorge di qualcosa alle mie spalle. Mi giro per capire cos’ha attirato la sua attenzione: davanti alla sala hobby c’è Amelia. Ha una felpa lilla col cappuccio e si rigira una ciocca di capelli tra le dita, guardando male il ragazzino. Poi si gira ed entra nella stanza.
Lui infila le mani in tasca, disorientato.
«Piacere, io sono Kirsty», mi presento, mettendomi accanto a mamma.
Susie Greyson sorride. Tra i capelli scuri ha una ciocca grigia che le dona molto e la fa sembrare la signora Robinson del Laureato. «Sei tu la proprietaria?»
Mamma s’impettisce. «Lo siamo entrambe», risponde, e giuro che fa un passo avanti per essere in primo piano rispetto a me. Mi sforzo di non lasciar trasparire la mia irritazione mentre si offre di accompagnarli in camera. Loro la seguono con le borse. Peter Greyson prende fiato a ogni gradino che fa trascinando la valigia sulle scale. Ha la fronte imperlata di sudore. Spero che non stia rovinando la moquette con le rotelle del trolley. Non so dove sia Adrian e se sia il caso di andarlo a chiamare per dare una mano con le valigie. Mamma stordisce i Greyson con informazioni sul posto, come se vivesse qui da anni e non da poche settimane. Li guardo salire le scale un po’ abbattuta, sentendomi quasi di troppo.
«Non te la prendere», mi dice Selena, in piedi sulla porta del salotto con le braccia incrociate al petto. «Zia Carol non lo fa con cattiveria.»
Mi verrebbe da risponderle che non so di cosa stia parlando, ma poi penso che è una di casa e che conosce benissimo le dinamiche, le stranezze e le idiosincrasie della nostra famiglia. Nonostante tutti gli anni che sono passati.
«Lo sai, com’è fatta. Vuole sempre essere al timone, avere il controllo delle situazioni.»
Ricordo che una volta ero scappata a casa di Selena dopo aver litigato con mamma per via dei compiti. Lei aveva ascoltato tutte le mie rimostranze: mia madre era una maniaca del controllo, un’egoista che mi voleva rovinare la vita. Dopodiché, un po’ triste, mi aveva risposto che, se non altro, quel suo comportamento dimostrava che ci teneva, a me. Che era meglio avere una madre asfissiante perché tiene a te piuttosto che una cui non gliene frega un cavolo e che passa tutto il tempo davanti alla televisione a guardare telenovele e a bere vodka.
Tolgo lo straccio della polvere dalla tasca e vado verso di lei. Selena si sposta di lato per lasciarmi entrare in salotto. È vuoto. Chissà se qualcuno ci entrerà, più tardi. Magari si verranno a sedere sul divano e si metteranno a guardare la tv mentre noi ce ne stiamo in cucina a sentirci come intrusi in casa nostra.
Selena mi segue. Ha gli occhi tristi. «È una donna forte. È riuscita a rimanere in piedi sia dopo quello che è successo a tua sorella sia dopo la morte di zio Derren...»
Faccio una smorfia.
«Scusa, non volevo intristirti», mi dice.
«Tranquilla, è tutto a posto.» Ma non è vero. Perdere mio padre è stata la cosa peggiore che mi sia mai capitata. Mi ha segnata più della morte di Natasha. Un giorno c’era e il giorno dopo non c’era più. Non ho ricordo dei giorni in cui è stata male, solo del vuoto che ha lasciato. Ma papà era il mio mondo. Mi faceva sentire al sicuro. Ci teneva tutti sotto la sua ala, persino mamma, e ci faceva sentire in grado di fare qualsiasi cosa, di essere chiunque volessimo essere. Il loro matrimonio non si è sfasciato quando hanno perso Natasha, anzi, si sono avvicinati ancora di più: piangevano assieme, parlavano di lei, andavano a trovarla al cimitero in occasione dei compleanni e del Natale. Nessuno temeva che parlare di Natasha avrebbe fatto star male mamma. No, di lei si parlava sempre. Ha continuato a essere parte della famiglia. È stato solo dopo la morte di papà che mamma è diventata la donna emotivamente repressa che è oggi.
Sono riuscita a comprendere quello che aveva passato solo dopo anni, quando avevo tenuto in braccio Amelia per la prima volta. Adoravo mia figlia. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei. Avrei ucciso chiunque si fosse azzardato a farle del male. Allora avevo pensato a mamma e alla sua piccolina, che se n’era andata a nemmeno due anni, ed ero scoppiata in un pianto disperato. Ora che avevo una figlia potevo capire cosa aveva passato mia madre e che tragica perdita aveva subito. Se ci penso, mi rendo conto che non mi sono mai goduta le mie figlie quando erano piccole, perché mi sentivo troppo responsabile delle loro vite. Papà è morto precipitando da un edificio, in un cantiere in cui stava lavorando, e Natasha a causa della polmonite. Le persone che amiamo possono esserci portate via in un battito di ciglia. All’improvviso. Senza nessun avvertimento.
«Kirsty?» Selena mi sta fissando, con un sopracciglio inarcato. Evidentemente mi stava parlando. «Stai bene?»
Annuisco e mi lascio cadere sul divano, cercando di scacciare il nodo alla gola che sento. «Scusa, pensavo a papà. Sono passati vent’anni, ma mi manca ancora. Tutti i giorni.»
Lei si mette a sedere accanto a me e posa la mano sulla mia. «Lo so. Tuo padre era fantastico... meglio del mio.»
Sfilo la mano e mi tolgo i capelli dal viso. Ora mi sento a disagio. «Anche zio Owen era fantastico. Ce l’ha sempre messa tutta. Non dev’essere stato facile, con tua madre ridotta in quel modo. Perdere papà è stato duro anche per lui. Erano molto legati, lo sai.»
L’atmosfera tra noi è cambiata. È tesa, esplosiva. Una parola di troppo potrebbe far scoppiare un litigio tremendo, come quello di tanti anni fa. Devo essere cauta, ma comunque chiarire questa cosa una volta per tutte, se davvero vogliamo lasciarci tutto alle spalle, adesso che Selena è rientrata nella mia vita. «Ancora faccio fatica a credere che se ne sia andato così. È sparito, benché tu fossi tutto per lui.»
Era successo dopo il suo diciottesimo compleanno, dopo il nostro litigio e le sue accuse. Forse aveva scoperto tutto e, disgustato, aveva preferito andarsene. Oppure era una cosa che stava meditando già da tempo? Forse stava solo aspettando che la figlia fosse grande abbastanza per andarsene e dire addio a quel matrimonio che lo intossicava.
Selena mi guarda, esausta. Ha intenzione di ammettere di aver mentito, quella sera di tanti anni fa? La fisso negli occhi, voglio che dica qualcosa, che ammetta di aver detto cose che non avrebbe dovuto. Di avere esagerato. Ma non lo fa.
Alza il mento. «Lo sai, cosa penso? Penso che tu idealizzavi mio padre per via di ciò che era successo al tuo. Ma non era perfetto.»
«Lo so, che non lo era. Nessuno è perfetto. Ma lui ti amava, Selena. Questo devi ammetterlo.»
«È vero. Ma il suo amore mi soffocava.»
«È per questo che hai detto quella bugia?»
Qualcosa cambia nella sua espressione e mi pare di vedere sul suo viso tutte le emozioni contrastanti che sente. Questo è un momento cruciale nella nostra relazione. Se ammette di aver mentito, allora possiamo voltare pagina. Possiamo continuare ad avere un rapporto. Ma se non lo fa, be’, non sarà possibile recuperare un bel niente, perché il danno sarà irreversibile.
Lei sostiene il mio sguardo. «Sì», dice alla fine. «È questo il motivo per cui ho mentito. È per questo che mi sono inventata tutto. Ero giovane e stupida. E davo la colpa a papà se mamma era ridotta così. Perché era un debole. Mi dispiace, va bene? Non avrei mai dovuto dirti quelle cose. Ho rovinato tutto.» Parla veloce, rabbiosa.
Aveva mentito. Certo. In fondo al cuore l’ho sempre saputo. Il caro, dolce zio Owen – il fratello di mio padre – non sarebbe mai stato capace delle cose disgustose di cui lei lo aveva accusato.
«Oh, Selena», sospiro, triste per i diciassette anni che sono andati sprecati.
«Ero una ragazzina problematica, con un’immaginazione troppo fervida», mormora, a testa bassa.
Un’attenuante.
«Ma non avrei dovuto mentire. Ho mentito su così tante cose...»
Stavolta sono io che le prendo la mano e la stringo. Le sue dita mi paiono così sottili, fragili come fuscelli che potrebbero spezzarsi da un momento all’altro. «Lo so, ma, come hai detto anche tu, eri una ragazzina problematica. Mi dispiace per essermene andata così. Ma non ce l’ho fatta, ad affrontare quella situazione. Non riuscivo a credere che fossi arrivata a inventarti una cosa del genere. Ero sconvolta. Mi ha fatto mettere in dubbio tutto. La nostra famiglia. Noi due.»
Lei si sposta e il divano di pelle scricchiola. Non sono una da divano di pelle, di solito preferisco cose più comode. Ma mi serviva un divano che fosse funzionale e mi aiutasse a ricordare che questo è un posto di lavoro, non solo casa nostra.
«Mi dispiace», mormora, senza guardarmi. «Ero gelosa di te. Tu eri quella brava e intelligente e saresti andata all’università. Io invece non ero riuscita a prendere i voti che mi servivano. Tu avresti iniziato una nuova vita, mentre io sarei rimasta incastrata nella mia. Ero una stupida, una cretina. E volevo ferirti. Scusami.»
«Oh, Selena.»
Lei allora si alza di scatto e si sistema i jeans. «Meglio che torni da Ruby, adesso. Starà già dormendo.»
Guardo l’orologio sul camino. Non sono ancora le sette. «Accidenti, va a letto presto.» Io posso ritenermi fortunata quando, durante la settimana, riesco a far andare a dormire Evie alle otto.
Selena giocherella con la fede che porta al dito. Ha un grosso diamante incastonato sopra. Mi chiedo come mai non se la sia tolta. Continua a non guardarmi. «Si stanca molto... Stare qui per lei è tutta un’emozione.»
Anche io mi alzo. «Meglio che vada pure io a cercare le mie figlie. Credo che stiano ancora giocando e l’ultimo ospite dovrebbe arrivare stasera.»
Andiamo verso la porta. Poi lei si ferma e si gira, guardandomi negli occhi. «Sono contenta che ne abbiamo parlato. Adesso però, Kirsty, possiamo buttarci il passato alle spalle? Possiamo voltare pagina?»
Annuisco. «Non sai quanto ne sarei felice.»
Mi abbraccia, con un po’ d’imbarazzo. «Benissimo. Allora ci vediamo domattina.»
Sorrido. «Forse.»
Lei scoppia a ridere. La prima risata genuina che le sento fare da quando è arrivata. «Oddio! Te ne ricordi ancora!»
Rido anche io. «Certo.»
«Che stronzetta che eri.» Ha le lacrime agli occhi.
In quel momento entra Adrian. «Che cosa c’è di tanto divertente?» domanda, confuso.
«Tua moglie. Raccontagli, Kirsty!»
Sorrido. «Da bambina Selena aveva il terrore di morire nel sonno. Una sera che era rimasta a dormire da noi me l’aveva confidato e da quel momento ho iniziato a prenderla in giro. Ogni volta che mi diceva: ’Ci vediamo domani’, io le rispondevo: ’Forse!’ con una voce spaventosa. Abbiamo continuato a scherzarci per anni.»
Adrian sorride ma non pare capire granché. «Bene. Comunque sono venuto solo a chiederti se vuoi che faccia il bagno a Evie.»
Lo guardo sorpresa. Di solito devo andare a chiederglielo io, di cominciare a preparare le bambine per andare a letto, altrimenti finisce sempre che tocca a me. «Sì, se non ti dispiace. Si è di nuovo rotolata per terra coi conigli.»
Lui annuisce bonario e lascia la stanza.
«Hai proprio un bravo maritino. Nigel non mi aiutava mai con Rubes. Dovevo fare tutto io.»
Non mi sembra carino stare a specificare che in realtà devo chiedere io a Adrian di fare le cose. Prima, perché lavorava cinquanta ore a settimana, e ora perché, da quando ha avuto l’esaurimento nervoso, è sempre un po’ distratto. Probabilmente è stata mamma a mandarlo di qua a chiedermelo.
Guardo Selena che si allontana lungo il corridoio, diretta nella sua stanza. Ho una strana sensazione. Dovrei essere contenta che abbia ammesso di essersi inventata tutto e sollevata di poter finalmente buttarmi tutto alle spalle. Ma non lo sono affatto.