Mercoledì, 25 ottobre 2017
Vengo svegliata da un grido penetrante. È successo qualcosa alle bambine. Mi tiro subito su a sedere, ho il cuore in gola. Intorno a me è tutto tranquillo. C’è silenzio. Me lo sono forse sognato? Mi volto, il lato di Adrian è vuoto, il lenzuolo sgualcito e un po’ umido, la coperta gettata di lato come se si fosse alzato di corsa. Dov’è andato? La sveglia dice che sono le 5:37 e, attraverso la fessura delle tende, vedo che il cielo si sta colorando di un grigio tenue, e la nebbia delle prime ore del mattino ingoia la cima delle montagne.
Cerco la vestaglia, che ieri sera ho lasciato ai piedi del letto. Me la infilo in fretta e furia mentre esco dalla stanza. La porta della camera delle bambine è chiusa. Sto per andare ad aprirla quando sento di nuovo quel grido.
Questa volta non mi sbaglio. Sembra la voce di mia madre.
Scendo di corsa la prima rampa di scale, cercando di tenere a bada il panico. Gridare non è da lei. Penso agli ospiti che riposano nelle loro stanze: si saranno svegliati anche loro. Mi preoccupo del fatto che questa cosa li abbia disturbati, ma allo stesso tempo mi rendo conto che, date le circostanze, è un pensiero ridicolo.
Quando arrivo all’inizio della seconda rampa di scale, resto di sasso. Sbatto le palpebre, sperando che gli occhi mi stiano solo giocando un brutto scherzo. E invece no, la scena è sempre la stessa. È tutto buio, ma mi sembra di riconoscere mia madre, china su un corpo che ha le braccia e le gambe divaricate sul pavimento in stile vittoriano restaurato da poco. Scorgo un polpaccio pallido, un polso sottile. Sento mia madre che si lamenta.
Non può essere un bambino. Le gambe sono troppo lunghe.
Non si tratta delle mie figlie, grazie al cielo.
«Mamma?»
Al suono della mia voce, lei si volta di scatto: ha gli occhi sgranati, pieni di angoscia e qualcos’altro. Paura. Alza le mani, come per mettersi a pregare. Sono ricoperte di sangue.