11.
Corona dei vecchi sono i figli

Saremmo partiti. Ci saremmo salvati. Ce l’avremmo fatta.

Avevamo un pick-up nuovo di zecca, carico di benzina. Come zanne di dinosauro, i suoi paraurti avrebbero divelto qualunque ostacolo, le sue ruote mastodontiche avrebbero tracciato una strada che non c’era, e i suoi vetri blindati ci avrebbero protetto da ogni assalto.

Qualunque cosa ciò volesse dire, ci saremmo evoluti.

Saremmo diventati esseri umani. O forse, perfino, una vera famiglia.

Zebra, invece, disse che per lui era troppo tardi e decise di tornare per sempre nel bosco.

Si pettinò le foglie e i piccoli germogli sul punto di sbocciare, e ci abbracciò a uno a uno con le sue frasche.

A forza di saltare di ramo in ramo, di mangiarne le foglie, di leccarne la resina, in quei mesi Zebra era diventato un albero.

E un albero voleva restare.

«Non hai paura che i topi ti mangino?», chiese Farfalla accarezzandogli la corteccia.

Zebra sorrise.

«Se verranno a mangiarmi diventerò acqua di torrente».

«E se verranno a berti?»

«Diventerò pietra. O pioggia. O vento».

Prima di andarsene ripose nella rastrelliera la doppietta rubata a Leone.

Aveva fatto il suo, scaricandosi fino all’ultima oncia di piombo addosso ai tre Gorilla.

Quello con la erre moscia, in verità, aveva tentato a lungo di fargli risparmiare un proiettile (quello che poi gli avrebbe trapassato il cuore) ma là in ginocchio, in mezzo alla cucina, implorata misericordia, aveva fatto l’errore di ricordare a Zebra che era responsabile del suo herpes.

Anziché impietosirsi, Zebra aveva precisato di non avere herpes – «Solo funghi, muschi, licheni» – e aveva ucciso anche lui.

Gli altri due Gorilla, a quel punto, erano già freddi. Centrati in piena fronte, un colpo a testa, crollati in avanti a braccia larghe tra il tavolo e la porta sul retro, che Zebra aveva spalancato con un calcio perfettamente sincronizzato all’annuncio della nostra morte.

I Gorilla si erano voltati e Zebra aveva sparato con una mira perfetta, da vero cacciatore.

Il ragazzo-albero, nostro fratello, ci aveva salvato la vita.

Poi, prima che i piedi gli diventassero radici, ci aveva avvolto con le sue fronde e se n’era andato.

«Dimentichi qualcosa?», lo avevamo richiamato dalla veranda.

Lui era tornato indietro, aveva recuperato la fionda dal cassone del pick-up ed era scomparso per sempre tra i suoi simili.

A vederli dalla casa, bosco e notte sembravano un po’ la stessa cosa.

 

Ultime ore nel Cerchio.

Farfalla dorme al centro del letto. Ascolto il suo respiro e trattengo il mio. Viene Ghepardo a sdraiarsi sull’altra sponda.

Fuori, gli alberi hanno ripreso a scricchiolare. Un istante dopo si abbattono al suolo e fanno tremare la casa.

Nella camera accanto, sempre più curvo, sempre più cieco, Toro prega seduto sul letto. È pieno di lividi e di tagli, e gli brucia la ferita alla spalla.

La Cagna ha appena finito di lavare il sangue in cucina. Non ha mai badato troppo al sudiciume, ma ora ci tiene a lasciare la casa pulita.

«Ghepardo», bisbiglio nella penombra.

«Che c’è?»

«Sarà migliore il mondo, oltre la Linea?»

Ghepardo sospira e si gira sul dorso. Intreccia le dita e contempla il soffitto.

«Dormi, che è meglio».

L’odore della Farfalla lievita da sotto le coperte come pane caldo.

Torno alla carica: «Allora?»

«Non lo so», mi delude Ghepardo.

E dopo aggiunge: «So solo che dobbiamo andare».

Il nostro dialogo sembra esaurito. Chiudo gli occhi.

Ma Ghepardo dice ancora: «Lo sai che Farfalla è diventata donna?»

«Sempre che accetti di essere una femmina», dissi io.

Ghepardo emette un rantolo. Mi sollevo sul gomito e guardo dalla sua parte. Contrariamente a ciò che credevo, Ghepardo non giace supino, ma disteso sul fianco. Ha infilato il braccio destro intorno al collo di Farfalla e con l’altro armeggia sotto la coltre. La tira via lui stesso, per muoversi più comodamente.

Benché sia evidente, domando: «Ghepardo, che stai facendo?»

Ghepardo si appoggia l’indice sulle labbra e scoperchia i canini.

Se l’ha visto fare allo stallone non saprei. Di sicuro è lo stesso gesto con cui il Toro, per anni e anni, ha intimato a mio padre di chinare il capo. Lo chino anch’io e mi vedo nudo sotto la coperta. Me la stringo addosso e mi avvicino ai loro corpi allacciati.

Il sesso di Ghepardo è duro e pulsante. Quello di Farfalla imberbe, ma non quanto avrei sospettato. Soltanto allora mi accorgo che il ramo è sparito.

«Diventeremo uomini?

«O Scimmie?», aggiunge Ghepardo imitandone il verso.

Ih! Ih! Ih!

Il grido disturba Farfalla. Ma non protesta. Non si muove.

Mentre mi fissa, con i suoi grandi e umidi occhi, Ghepardo le serra la bocca con la mano e la penetra a fondo. Allora io comincio a masturbarmi (come la mia acerba virilità mi permette), ingobbito sulle ginocchia scarne, senza accorgermi nemmeno che piango e che le mie lacrime cadono a ungere la monta.

Sono uguale a mio padre.

Sbattendo le ciglia, Farfalla mi sorride, mi afferra la mano, se la porta al seno.

Senza perdere un colpo, Ghepardo guarda, giudica e acconsente alle carezze. Le sue spinte si fanno sempre più violente. Sotto di esse, le mie dita vagano alla deriva sul corpo in tempesta di Farfalla.

«Eccomi», annuncia Ghepardo.

Farfalla scalcia e dimena il bacino. Ghepardo ruggisce e le morde un orecchio. Il suo seme schiocca nella notte come un colpo di frusta, mentre il mio gocciola senza nerbo sulle lenzuola.

«Sei un impotente», dice Ghepardo.

Allora mi alzo, umile e scalzo, e mi trascino la coperta fino al divano.

Ho voglia di bere.

Una birra, ecco. Una birra con Alce.

Lo scuoto, e mi accorgo che è morto.

Da giorni e giorni, suppongo.

 

Ci mettiamo del tempo, a bruciare Alce.

Altro ne abbiamo perso a convincere Toro, a causa della resurrezione dei corpi.

«Se disperderemo le ceneri», diceva, «non potrà più risorgere».

Alla fine però il Toro ha ceduto: è sempre più debole, ha la febbre e le sue ferite si stanno infettando.

Mentre arde il corpo di colui che fu mio padre, penso al giorno in cui mi condusse per la prima volta a cacciare nel bosco, e le cose si staccarono tra loro pretendendo un nome, una forma, un racconto. Pretendendo di essere altro da me.

Un tempo noi e la natura siamo stati un bosco solo. Poi una moltitudine di forme viventi. Ora un luogo da cui dover fuggire.

Il sole è già alto e il corpo di Alce brucia ancora. Vogliamo essere certi che i topi non vengano a mangiargli neanche un dito. Alla fine raccogliamo le spoglie in una delle sue bottiglie. Finalmente siamo pronti a partire.

«Vai a chiamare la Scimmia», mi dice il Toro.

Poche ore prima, in soffitta, l’aveva pregata di non bere, di mantenersi sobria. Noi non arriviamo ai pedali, la Cagna non esce di casa da dieci anni e Toro, che ci ha provato, non è stato nemmeno capace di accendere il motore: toccherà a lei, per forza di cose, guidare il pick-up dei Gorilla.

Provo a chiamarla dal primo gradino. Salgo metà della scala e tento ancora.

La porticina della soffitta sembra chiusa, ma non lo è. Si apre cigolando.

«Scimmia, stiamo andando».

La luce del giorno filtra dall’abbaino e si sparge nella soffitta come un secchio di latte andato a male.

Il letto sfatto, le bottiglie sul pavimento, i mozziconi di sigaretta sparsi ovunque.

La soffitta è deserta.

Mi getto per le scale. Raggiungo gli altri in cucina. Sono tutti già fuori.

«La Scimmia è sparita!», grido spalancando la porta.

Appoggiati al parapetto della veranda, tra i piedi il misero bagaglio, si voltano a guardarmi.

È sparito anche il pick-up.