9.
Allora disse: «Chi ti ha fatto sapere che eri
nudo?»
Il tronco del castagno giaceva su un letto di campanule viola.
Alla sua base, la terra smossa per la sepoltura di Formica era ancora fresca.
Si era spaccato senza preavviso, durante la notte, e aveva mancato l’officina di un paio di metri. La casa, invece, l’aveva presa in pieno: il peso dei rami aveva sfondato il tetto e metà delle stanze erano state invase dai detriti. Per puro caso Farfalla dormiva nell’altra metà.
Toro lavorò di ascia tutto il giorno, mentre io riempivo di calcinacci le carriole.
Alla fine ci spostammo alla base del tronco ed esaminammo il taglio. Era così geometrico che, a prima vista, faceva pensare a una sega circolare. Osservando meglio, però, riconoscemmo le impronte dei denti. Trovare un paio di topi schiacciati sotto le radici ci tolse ogni dubbio.
«Non puoi più stare qui», disse Toro alla Farfalla.
Mentre io annuivo – «Sì, Farfalla, non puoi» – Toro fece a pezzi i topi e li andò a gettare nel folto del bosco. Mentre li ficcava nel sacco, i loro occhi pulsavano ancora come cisti purulente.
Farfalla entrò in casa a prendere la sua roba. Sembrava poco convinta.
Mi offrii di portarle lo zaino e rimediai un calcio sugli stinchi.
Toro le appoggiò una mano sulla spalla e la riprese dolcemente: «All’improvviso ti dimentichi che Agnello è tuo fratello?»
Farfalla gli sgusciò sotto le dita.
«E tu», disse, «all’improvviso ti ricordi di essere mio padre?»
Toro era peggiorato in tutto, tranne che nell’incassare. Si calò la visiera e ci ricondusse a casa.
Io non vedevo l’ora di mettermi a letto: perché ero stremato, ma soprattutto perché sarebbe stata la prima notte in cui l’avrei diviso con Farfalla. La divisione, però, non avvenne in parti uguali: lei si ritirò subito in un angolo, lasciando a me un vuoto che faticavo a riempire.
«Puoi avvicinarti», sussurrai nel buio. «Il letto è grande».
Farfalla non si mosse, né fece un fiato. Già dormiva? Nonostante la stanchezza, sentivo che io non ci sarei mai riuscito.
Poi all’improvviso Farfalla schioccò la lingua e domandò: «Hai fame?»
Ruotai sul fianco. «Certo che ho fame».
Restammo per alcuni secondi ad ascoltare i nostri succhi gastrici.
«Sai una cosa, Agnello? Forse non è una cattiva idea».
«Quale?»
«Mangiare i topi».
Mi sollevai sul gomito e guardai dalla sua parte. «Che stai dicendo?»
Il bagliore dei suoi occhi s’incastonava in mezzo al nero.
«È l’istinto», disse Farfalla. «Distruggi ciò che vuole distruggerti».
«L’istinto? Ma l’hai detto tu che non siamo più animali».
Sentii Alce che si trascinava a pisciare e smorzai la voce.
«E poi mangiarli non vuol dire distruggerli».
Alce uscì dal cesso e tornò sul divano. La Farfalla non parlava più.
«Mangiarli», ricominciai, «significa portarli dentro di noi. Assimilarli. Diventare dei mostri, come quei Gorilla».
Il silenzio era tornato assoluto. Tastai il letto. Era vuoto.
Allora accesi la candela, ma lo spiffero che entrò dalla finestra subito la spense.
«Farfalla!»
Scavalcai il davanzale e le andai dietro.
Lei si voltò appena: «Mangiarli vuol dire... mangiare. Sopravvivere, Agnello!»
La luna era piena e potei quindi vederla bene in viso. Era diafano, incavato. Le narici dilatate, fiutava nell’erba la carogna del topo crivellato dal Toro.
L’abbrancai per le spalle (scottavano) e la scaraventai al suolo.
Lei si voltò, rapidissima, e si liberò dandomi una spinta in pieno petto. Rotolai all’indietro. Prima che potessi reagire, Farfalla afferrò il suo sesso di legno e mi bastonò alla bocca dello stomaco. Leggermente di lato, anzi, dove le costole ancora faticavano a saldarsi.
La vista s’annebbiò. E dalla nebbia spuntò di nuovo la Farfalla.
Mi gettò a terra. Mi ficcò le mani al collo. Strinse.
Allora la paura risvegliò la rabbia, e la rabbia richiamò la forza (della disperazione). La colpii in pancia, una, due, tre volte, finché Farfalla non allentò la presa. L’ultimo pugno la fece volare all’indietro. Tossendo, le fui sopra. L’afferrai per i capelli e le schiacciai la faccia a terra. Il ginocchio a scardinarle il dorso, le torsi il braccio fino a farla urlare.
«Porco il bosco, Agnello, me lo spezzi».
«Ti spezzo anche l’altro, se non mi giuri che mai e poi mai mangerai quei topi».
La Farfalla vibrò sotto di me. Un conato di vomito le squassò la gola.
«Li ho mangiati ieri sera», confessò.
«Ieri sera? Dove?»
«Nella soffitta, insieme alla Scimmia».
Rigurgitò una melma grigia. Poi pianse per la prima volta in vita sua. Infine si sentì meglio e mano nella mano andammo a dormire.
Pochi minuti prima, uscendo dal cesso, Alce era passato davanti alla camera da letto e si era fermato ad ammirare il Toro. Dormiva sul fianco, dando le spalle alla Cagna. Dalle sue mutande fuoriusciva una possente erezione.
Aperta e richiusa la bocca, Alce aveva trascinato una sedia accanto al letto e si era messo comodo. Aveva accavallato le gambe scheletrite e, con la mano sotto il mento, aveva cominciato a pensare.
Ah, la natura... La natura...
Cominciavano e si concludevano così, da qualche tempo, le sue speculazioni.
Ma questa volta, contemplando la virilità dello stallone, l’invocazione aveva assunto un tono meno commiserevole: che la natura ci stesse ritornando amica?
Toro aveva aperto gli occhi e se l’era ritrovato davanti tutto assorto.
«Che stai facendo?», aveva farfugliato senza sollevare la testa dal cuscino.
Alce aveva ammiccato all’ingombro del Toro, che a sua volta si era guardato stupito tra le gambe.
«Siamo in gran forma, eh?», aveva commentato mio padre.
A vederli così – l’uno ancora sottomesso al sonno, l’altro incapace di sopraffare perfino la raucedine – sarebbe potuta sembrare un’affermazione irragionevole. Ma la spasmodica concentrazione di Alce su quella porzione del corpo di Toro così potentemente irrorata la rendeva plausibile (sebbene una plausibilità a tempo, come qualunque erezione).
«Dobbiamo sbrigarci», aveva detto Alce.
Lo stallone aveva schioccato la lingua, scostato il braccio della Cagna, che gli cingeva il fianco, e mandato giù due sorsi d’acqua dalla bottiglia sul comodino. Mio padre s’era levato in piedi e aveva cominciato a girare impaziente intorno al letto.
«Me l’hai promesso, ricordi?»
Toro si era lamentato del forte mal di testa. Si era seduto sulla sponda del materasso sorreggendosi la fronte.
«Ma di che parli, Alce?»
«Della vita, stallone: di tutta la linfa che ti scorre nell’uccello come un ruscello in pieno deserto».
Toro aveva bevuto un altro goccio. Poi si era alzato ed era andato ad affacciarsi alla finestra. Guardandomi lottare con Farfalla sotto la luna piena, aveva domandato tra sé e sé: «Ma che ore sono? Ho dormito come un sasso».
La sua erezione si era già nettamente affievolita.
«Avanti, avanti», smaniava mio padre. «Non sprechiamo un così bel momento!»
Aveva afferrato Toro per i fianchi e l’aveva gettato addosso alla Cagna, destandola.
Toro si era passato la mano sulla faccia, come a strapparsi di dosso una ragnatela. Strabuzzando gli occhi, aveva provato a rialzarsi. Alce l’aveva spinto un’altra volta sul materasso.
«Aspetta», aveva protestato il Toro.
«Aspetto cosa?»
Toro non lo sapeva. Era rimasto disteso sui gomiti, tra le gambe divaricate di mia madre, senza trovare una risposta. Allora Alce si era liberato della coperta e gli aveva messo il proprio membro sotto il naso. Benché rattrappito, si muoveva.
«Lo vedi?», aveva gridato mio padre. «Tu sai ridarmi la vita».
Poi si era inginocchiato ai piedi del letto e, nascosto il volto tra le mani, aveva cominciato a piagnucolare.
La Cagna aveva allungato un braccio e gli aveva sfiorato la nuca. Con l’altra mano accarezzava il petto villoso del Toro. Se i due uomini avessero cercato il suo sguardo, lei gli avrebbe offerto anche quello.
Ma Alce aveva continuato a strofinarsi gli occhi con le dita, e Toro li aveva abbassati a osservare ciò che accadeva tra le sue gambe.
Poi, dopo un lungo sospiro, era rotolato sull’altra sponda, si era sporto dalla soglia e aveva controllato che la porta della soffitta fosse chiusa. Quindi aveva accostato quella della camera e si era sfilato le mutande.
Ancora dedito al pianto, mio padre non si era accorto di niente finché il letto non aveva cominciato a cigolare.
Toro aveva inspirato ed espirato un paio di volte. Si era proteso sulla Cagna puntellandosi sui gomiti e sulle ginocchia. Aveva affondato la barba ispida nel collo di mia madre.
«Oh, sì!», aveva detto allora Alce.
Mio padre era saltato sul letto e si era sdraiato accanto ai due amanti.
«Lo vedi?», aveva ripetuto commosso. «Lo vedi?»
Per qualche secondo sembrò che le cose potessero marciare.
Toro inarcava il dorso. Mia madre lo cingeva con le gambe. In ginocchio, barcollando sui calcagni, Alce si contorceva sui loro corpi avvinghiati.
Tutti e tre ansimavano. Tutti e tre, di fatto, si muovevano in completa solitudine.
«Ci siamo», aveva detto Alce. «Non è vero che ci siamo?»
Toro aveva ritratto il bacino ed era rimasto qualche secondo sospeso. Poi aveva dato un violento colpo di tosse. Un attimo dopo si era sbilanciato ed era scivolato di lato. Nel girarsi, aveva cercato di tirarsi sopra la Cagna: per nascondere le proprie parti intime, più che per restarle ancora avvinghiato.
«Un minuto», aveva bofonchiato.
Era sudato dalla testa ai piedi, e il sudore era freddo.
Poi aveva chiesto altro tempo e altra acqua. Mentre beveva, mia madre gli aveva pettinato i capelli con le dita.
«Non trattarlo come un cagnolino!», aveva protestato Alce. «È uno stallone».
Il Toro si era sistemato il cuscino sotto la testa e aveva deglutito.
«Nessun problema», aveva detto. «Riprendiamo subito».
Ma ciò che sperava di riprendere era ormai lontano, pressoché irraggiungibile.
Mio padre, per aiutarlo, aveva suggerito di ricorrere alle candele.
«La cera», gli aveva ricordato. «Ti ha sempre eccitato rovesciarmela addosso».
Impegnato a individuare una via d’accesso alla Cagna, Toro non aveva risposto. Deglutiva a ogni assalto, mentre la Cagna si sforzava di inumidirgli le labbra con la lingua. Ma, sotto di loro, gli ingranaggi scricchiolavano asciutti.
Alce non riusciva a stare fermo. La sua raucedine era diventata afonia.
«Prova a picchiarmi. O a legarmi alla poltrona», aveva rantolato strisciando a culo nudo sopra le lenzuola.
Poi, vedendo come stavano andando le cose, la sua agitazione si era rappresa in un grumo di malinconia. Aveva ricominciato a piangere. Questa volta sembrava sincero.
Allora Toro aveva allontanato la Cagna e aveva sferrato un pugno sul cuscino.
«Basta con tutto questo frignare! Mi deconcentri!»
Alce era stato pronto ad asciugarsi le lacrime e a rannicchiarsi ai piedi del maschio, nel disperato tentativo di farsi calpestare.
«Sì, sì, hai ragione», aveva pigolato. «Sono una femminuccia. Punisci la tua umile schiava».
Era rimasto a lungo chino sulle sue caviglie. Ogni tanto le pupille guizzavano verso l’alto, ma senza mai superare i confini della propria sottomissione. Alla fine non aveva resistito e aveva osato guardare il sesso del Toro.
Pendeva flaccido tra le cosce (un tempo) muscolose.
«Non ce la faccio», aveva ammesso stremato lo stallone.
«No», aveva ripetuto. «Non ce la faccio».
Alce si era grattato il pube e aveva sospirato. La completa mancanza di peli conferiva alla sua oscenità un tocco puerile. Si era lasciato andare sul letto.
Tutti e tre, poi, avevano sentito il bisogno di coprirsi, come se, da un momento all’altro, si fossero resi conto della loro nudità.
Toro era tornato alla finestra e aveva guardato fuori. Noi eravamo già tornati a letto, ma sull’erba era rimasta la chiazza di vomito di Farfalla. Toro ci vedeva sempre peggio. Si domandò che cosa fosse, e un attimo dopo, mancando la casa per un pelo, il faggio era venuto giù.
Il mattino seguente liberammo l’aia dal tronco. Sulla corteccia del faggio si distinguevano ancora le tacche lasciate dalle mie frecce. Poi Toro segò tutti gli alberi che, cadendo, avrebbero potuto abbattersi sulla nostra abitazione. In altre parole, rase al suolo circa mezzo ettaro di bosco.
Denudata dell’ombra dei faggi, la nostra dimora cessò immediatamente di essere ciò che era sempre stata – una tana sicura – e ricomparve agli occhi dei suoi abitanti come un impudico e fragile pretesto.
Gli alberi, pensammo di ridurli in legna per l’inverno (ammesso che ci fossimo arrivati). Ma presto ci rendemmo conto che, ammucchiati in piccoli ceppi, i tronchi si sarebbero trasformati in una montagna tre volte più alta della casa. Allora innalzammo delle pire, controllammo la direzione del vento e accendemmo una catena di roghi.
Richiamati dal fumo, arrivarono Leone e Bisonte. Quest’ultimo chiese subito se c’era della birra. Mio padre era sdraiato di schiena sul divano, con la coperta tirata sulla testa. Se pure si accorse che il Toro stava attingendo alla cassa sotto il divano, non si voltò.
Leone, Bisonte e Toro si spostarono sotto la veranda.
Restarono a lungo senza parlare, scuotendo i crani rasati e battendosi manate sulle cosce. Benché qua e là volteggiassero ancora mulinelli di foglie e l’aia fosse coperta da centinaia di rami, il colpo d’occhio metteva i brividi.
«Hai dato proprio una bella ripulita», disse Leone guardandosi intorno.
Bisonte allungò una pacca sulla spalla del Toro.
«Ma sì», tagliò corto, «basta con questi alberi che ti spuntano anche sotto il culo!»
Girarono intorno alla casa, valutando l’effetto di quello spazio brullo.
«A me piace», ribadì Bisonte.
Prima di parlare, Toro aspettò che esaurissero le sciocchezze.
«Credete l’abbia fatto per il gusto del giardinaggio?»
Leone e Bisonte inarcarono le sopracciglia e mandarono giù l’ultimo sorso.
«Gli alberi ci stanno cadendo addosso», disse Toro.
Quando li informò che a segarli erano i topi, i due cacciatori scrollarono le spalle.
«Il bosco andrebbe comunque sfoltito», disse Bisonte.
Leone stappò un’altra birra. «Già», rise, «quelle bestiole ci risparmiano un mucchio di lavoro».
Toro scosse la testa.
«Non avete capito», disse. «Mirano a ucciderci».
«Che c’è di strano?», tornò serio Leone. «Da che bosco è bosco, tutti gli animali vogliono uccidersi tra loro!»
Passò la bottiglia a Bisonte. Fissando Toro, la sua serietà diventò minacciosa: «Spargiseme, noi dobbiamo parlare».
«Lo credo anch’io, ramo secco».
Leone digrignò le zanne.
«Gran Consiglio di caccia?»
«Gran Consiglio di caccia», confermò Toro.
Eravamo preoccupati per Zebra. Dopo l’episodio dei Gorilla l’avevamo visto sempre più di rado, e sempre più selvatico. Dormiva sugli alberi, per quanto ne sapevamo. E adesso che gli alberi si schiantavano al suolo, non sapevamo più niente di lui.
«Zebraaa!», gridava la Farfalla.
«Zebraaa!», le facevo eco io.
Andammo a bussare alla sua porta. Ma Bisonte, mezzo sbronzo, a stento ricordò di avere un figlio.
«Sì, la mia Zebruccia», biascicò. «Che fine ha fatto?»
Passavano i giorni, e di Zebra non si trovava traccia.
Certo, il Cerchio era grande. Ma anche il più stupido dei cacciatori, ormai, si sarebbe accorto che il bosco si stava rattrappendo, e che l’orizzonte rinasceva ogni giorno più vicino.
Il Cerchio era grande, insomma, ma si andava stringendo.
Tornammo verso casa, e lungo la strada c’imbattemmo nel Toro, chino a esaminare un gruppo di prataioli. Ne avevamo sperimentato il veleno, durante l’inverno, e da diverso tempo avevamo smesso di raccoglierli. Il Toro, tuttavia, si ostinava nella ricerca, e alla fine ne aveva individuato una famiglia che meno puzzava di acido fenico.
«Avete fame?», domandò riponendo i funghi nel tascapane.
Farfalla e io ci guardammo. Poi guardammo il Toro. Eravamo tre scheletri.
«I funghi andranno benissimo», dicemmo.
Sgombrata degli alberi, tutta l’area intorno alla casa si offriva ora al vento. L’odore triviale della carne ci investì all’uscita del bosco e ci fece barcollare. Toro corse avanti. Strofinò le suole delle scarpe, entrò in cucina, afferrò il manico della padella e ne rovesciò il contenuto nel secchio.
La Scimmia se l’aspettava e non batté ciglio. Attese che Toro andasse a sfilarsi gli stivali, recuperò i topi e, dopo averli inumiditi con un goccio di birra, li riconsegnò alla fiamma.
Fiammeggiava anche lo sguardo del Toro, quando fece ritorno in cucina.
«Dove li hai presi?»
«Sono dappertutto. Solo tu non li vedi».
«Li vedo eccome! E proprio perché li ho visti, qui dentro non devono entrare».
La Scimmia fece finta di niente, aggiunse un rametto di rosmarino e continuò a spadellare.
Toro, paonazzo in viso, si ricavò uno spazio tra i fornelli e l’acquaio.
«Mangeremo questi», annunciò. «Sono pochi, ma buonissimi».
Rovesciò i funghi sul tagliere, li affettò e li pulì con uno strofinaccio umido. Ogni tanto, nel rigirarsi, urtava la pancia della Scimmia. Non si scusò.
Prima che Toro disponesse i funghi sulla griglia, la Scimmia si chinò sul tagliere.
«Hanno un odore ributtante», disse. «E poi guarda: già tendono a ingiallire».
«Da quando in qua t’intendi di funghi?», replicò Toro.
Lei tornò ad annusarli. Toro ne approfittò e s’impadronì della padella, ma la Scimmia gli artigliò il polso e gli vietò di capovolgerla un’altra volta nel secchio.
«La carne dei topi rende aggressivi», alzò la voce il Toro. «O peggio ancora, folli».
I capelli della Scimmia si ribellarono al fermaglio e le scivolarono davanti agli occhi. La gravidanza alterava i lineamenti del suo viso.
«E tu cos’altro eri, quando ti ho conosciuto? Un pazzo furioso che grufolava incomprensibili versi e bestemmiava il bosco, perché nemmeno conosceva il nome di Dio».
Il Toro aspettò che la Scimmia mollasse la presa sul suo polso. Ma lei nemmeno l’allentò.
«Fallo almeno per Agnello e Farfalla», implorò Toro. «Avevi promesso di educarli, ricordi? Di occuparti di loro».
«Me ne occupo, infatti», rispose la Scimmia indicando col mento la padella. «Posso cucinare topi per tutti».
Ripresero a lottare e la carne finì di nuovo sul pavimento. La Scimmia cominciò a piangere.
«Vuoi uccidere di fame la tua famiglia? Fallo pure, ma lasciami mangiare».
«Sei anche tu la mia famiglia», disse Toro.
Le impedì di chinarsi a raccogliere la carne, e la Scimmia lo morse sulle dita.
«Lasciami stare!», gridò con occhi spiritati. «La mia sola famiglia è il figlio che ho nella pancia! E devo mangiare per nutrirlo!»
Tenendola con la destra, con la sinistra Toro spinse sulla fiamma la griglia con i funghi. La Scimmia vi sputò sopra.
«Lo vedi?», disse Toro. «Quella porcheria ti fa uscire di senno».
La Scimmia si arrese. Si passò una mano sui capelli. Voltate le spalle, si accostò al piano di marmo e stappò una bottiglia.
«Ancora birra?», la strigliò lo stallone. «Finiscila!»
La Scimmia lo prese alla lettera e se la scolò fino all’ultimo sorso. Beveva e lo guardava con aria di sfida. Toro si lasciò andare a gambe larghe sullo sgabello.
«Che sta succedendo?», scosse la testa.
La sua voce era diventata sottile, come se avesse dovuto infilarsi in una fessura.
Guardando attentamente il Toro, la Scimmia ruttò e si accarezzò il ventre.
«Non lo so. Sei cambiato», disse.
E il Toro rispose: «Anche tu».
In tutto il Cerchio non esisteva pianta più maestosa delle Sette Sorelle. Nata dalla fusione naturale di altrettanti alberi di faggio, sorgeva ai piedi della nostra rupe, leggermente in disparte rispetto al resto del bosco.
Il tronco aveva una circonferenza di oltre cinque metri. Le sue radici affioravano dalla terra come cime nella tempesta. La sua chioma sembrava una prua rivolta controvento. Era il nostro albero maestro.
Ed era lì, da che bosco è bosco, che si svolgeva il Gran Consiglio di caccia.
Quando il Toro giunse alle Sette Sorelle, i cacciatori erano già disposti a semicerchio intorno al fuoco. Videro la sua espressione e sparpagliarono il loro disappunto come semi di gramigna. Poi indicarono a me, a Farfalla e a Ghepardo (di Zebra ancora nessuna traccia) la distanza dalla quale avremmo potuto assistere. Chiusero il cerchio e aspettarono che la luna sbucasse dalle nuvole. Ma, dopo che fu uscita, nemmeno uno di quei volti torvi si rischiarò.
Toro gettò una fascina sul fuoco. Ogni tanto, a valle, se ne accendeva uno fatuo sulle sponde dello stagno.
«Allora?», sbottò Leone dopo qualche minuto. «Passiamo la notte a guardarci in faccia?»
I cacciatori sghignazzarono. Ma più che divertirli l’idea li innervosiva, poiché, se prima si accontentavano di tenerle basse, ora le loro facce avrebbero voluto nasconderle del tutto, tanto erano vecchie e imbruttite.
«Guardiamoci dentro, invece», li invitò il Toro. «C’è molto da vedere».
Leone incassò il mento ormai glabro e divaricò i lembi della propria camicia.
«Tu dici?»
I cacciatori risero. Il Gran Consiglio si prendeva gioco del suo capobranco.
Allora Toro disse: «Cacciatori! Cacciatori! Ma come siete ridotti?»
Erano gonfi come rospi e viscidi come serpenti.
Ma Toro aggiunse soltanto, per non umiliarli: «Sembrate... ricoperti anche voi di filo spinato».
«Cos’hai contro il filo spinato?», lo fermò Leone.
Millantò di non essere mai stato così bene. Per dimostrarlo si arrotolò le maniche della camicia e gonfiò i bicipiti. I cacciatori fischiavano divertiti, mentre Toro osservava a braccia conserte.
«Mangia la carne, stallone», andò subito al punto Bisonte, «e vedrai che ti sentirai molto meglio».
Quasi tutti i cacciatori avevano dei topi morti nel carniere. Si offrirono di arrostirli seduta stante. Insieme ai topi presero a circolare scorte di birra.
Cinque minuti, e il Gran Consiglio si stava già trasformando in un banchetto.
Toro non diceva niente. Li guardava e li lasciava fare. Alla fine si alzò, si spazzolò il fondo dei pantaloni e si posizionò al centro del circolo. Con lui in mezzo sembrava più stretto.
«Fratelli», cominciò. «Chi può trarre il puro dall’immondo?»
Leone fiutò la citazione biblica e gli fischiò dietro.
«Porco il bosco», gridò. «Risparmiaci il sermone!»
Gli lanciò tra i piedi un pezzo di carne e bestemmiò di nuovo: «Mangia, porco il bosco!»
A sentire i cacciatori, l’arrosto era particolarmente saporito e la partita di birra tra le più pregiate. Euforici, spararono alcuni colpi in aria.
«Non le sprecate!», li ammonì Toro. «Chi vi rifornirà di pallottole, quando saranno finite?»
Controvoglia, i cacciatori abbassarono i fucili. Frammisti ai bocconi di carne masticarono sconnessi mormorii. Poi li sputarono assieme agli ossi.
«Se le fabbricava la Formica», tagliò corto Leone, «sapremo farle anche noi».
Senza sollevare il naso dagli spiedi, i cacciatori approvarono. I pochi che avevano le mani libere applaudirono. I pochissimi che non avevano la bocca piena gridarono: «Toro, basta con questo funerale!»
«Sì», rincarò Bisonte, «da qualche tempo, a guardare la tua faccia, sembra sempre che sia morto qualcuno».
Si ricordò di Formica e storse il naso: «Be’, sì, insomma, un incidente può sempre capitare».
«Incidente?», trasecolò il Toro. «L’hanno spolpato da cima a fondo».
«In effetti», lo commiserò Bisonte. «Povera Formichina».
Tolse dal fuoco un paio di topi e li offrì al capobranco.
«Rendiamogli pan per focaccia», propose già meno afflitto.
Toro rifiutò lo spiedo e proseguì con più veemenza: «È con queste prede immonde che pensate di ricongiungervi alla natura? È con questo cibo drogato che pensate di nutrire i nostri figli?»
La pienezza della luna rivelò la vacuità dei cacciatori. Lo guardarono in silenzio, masticando e raschiandosi i denti con le unghie.
«Be’, in realtà i figli sono più tuoi», precisò Bisonte.
«Nostri no di certo», si sentì da un altro punto del cerchio.
Rilevato lo spiedo destinato a Toro, Leone ruggì a canini scoperti e indicò noi tre, là nell’ombra: «Sono la nuova generazione, porco il bosco! Che imparino a badare a loro stessi».
Spesso mi ero chiesto se in noi i cacciatori vedessero riaffermate le loro vite oppure la spietata conferma che quelle vite, da lì a poco, sarebbero cessate (a pensarci bene, con l’unico scopo di farci spazio).
Le parole di Leone cancellavano ogni dubbio: nel profondo del loro animo i cacciatori ci odiavano, per la semplice ragione che gli saremmo sopravvissuti.
«Chi proprio non deve sopravvivere è il bastardo», aggiunse gelido Leone.
Toro si girò di scatto, avvampò e indurì la mascella.
«Stai calmo», lo provocò Leone. «Non è colpa mia se il tuo uccello ha sbagliato nido».
Si chinò sul fuoco e ravvivò la brace.
«Del resto errare è umano, pare... E tu stai diventando così umano che ora vorresti sbagliare due volte».
Toro aveva una cicatrice al centro della fronte. Quando l’aggrottava, la cicatrice si arricciava come un punto interrogativo.
«Parla chiaro», disse.
Leone l’accontentò: «Della Scimmia ti dovevi già liberare tempo fa. Ora liberati di lei e del bambino».
Toro non si mosse. Batté le palpebre tre o quattro volte.
«Svegliati, porco il bosco!», sbottò Leone. «Non penserai davvero che il sangue di una Scimmia possa mescolarsi al nostro!»
Allora Toro si allontanò di qualche passo: aveva la necessità di pensare, o forse solo di sgombrare dall’aria l’intestino (i funghi mandati giù la sera prima ci avevano procurato delle turbolenze micidiali).
Tornato indietro, squadrò il Gran Consiglio e disse: «Voi, aridi deserti, chiedete a me di recidere il mio frutto?»
«Recidere, uccidere... Trova tu la maniera!», rispose Leone mentre i cacciatori si guardavano nel piatto.
Le fronde delle Sette Sorelle stormirono a lungo.
Poi Toro disse: «Va bene, mi tolgo di torno».
I cacciatori sollevarono faticosamente la testa. Un torpore senile gravava sulle loro palpebre.
«Non tu», sbuffò Leone. «La Scimmia e il nascituro!»
Toro gli scorreggiò in faccia e rispose che erano una cosa sola.
«Che vuoi dire?»
«Che me ne andrò con loro. E con i miei figli, giacché dite che a voi non appartengono».
L’esofago dei cacciatori si restrinse. Qualche boccone andò di traverso.
«Cosa? Vuoi mollarci?», sgranarono gli occhi.
Sdraiato sotto le Sette Sorelle, Bisonte cominciò a ridere. Aveva imparato a farlo bene, sguaiatamente. Alla fine, vedendo che nessuno gli andava dietro, si acquietò abbracciato alla bottiglia. Era completamente sbronzo.
«Ma sì», disse allora Leone. «Vattene. E portati via tutti».
I cacciatori ammutolirono. Anche l’ultimo collo di bottiglia si staccò dalle loro labbra e ritornò in posizione verticale.
Allora Sciacallo prese Leone sotto braccio e lo trascinò in disparte: «Ma è l’unico in grado di procreare. Come faremo senza il suo seme?»
Leone non gradì quella mano addosso. Liberò il gomito e scrollò le spalle.
«Io sono già nato. E anche voi», si rivolse ai cacciatori, «direi che siete più in là del concepimento».
Rise solo Bisonte. Sui ferri arrostivano altri topi, ma nessuno si chinò a toglierli dal fuoco. Cominciò a diffondersi odore di bruciato.
Sciacallo ritornò dal Toro.
«Ripensaci. Non puoi tradirci così».
«Non sono io a tradirvi, ma voi a tradire me.
«E la natura», aggiunse lo stallone indicando l’arrosto che sgocciolava sulla brace.
Leone batté tre volte in terra il calcio del fucile.
«Non è vero! Non è vero! Non è vero!», tuonò. «È stata la natura a tradire noi».
Ciascuno dei cacciatori, in cuor suo, si domandò perché fosse accaduto. Non abbiamo fatto niente di male, pensavano. Fissarono la carne. Anche così bruciata, sarebbe stata meno amara di quella commiserazione.
Toro si allontanò dal fuoco. Sciacallo non si arrese e gli andò dietro.
«E dove andrai?», gli domandò.
Lo stallone inspirò profondamente e s’infilò tra le labbra uno stecchino.
«Dove vuoi che vada?», lo precedette Bisonte. «Dagli altri!»
Lo stecchino del Toro si spezzò.
Sciacallo scosse la testa: «Non ce la farai mai».
Con un gesto largo, volutamente impreciso, Sciacallo indicò l’orizzonte al di là del Monte Grattaculo.
«La Linea!», scandì. «E tu vorresti arrivarci a piedi, con una Scimmia incinta e quattro ragazzini!»
«Tre!», lo corresse Leone. «Ghepardo non si muove».
Si era mosso, invece. Rapido e silenzioso come sempre, era sgusciato via dalla nostra ombra ed era ricomparso all’interno dell’assemblea.
«Cosa fai qui?», lo redarguì Leone nel trovarselo accanto. «Non puoi entrare nel cerchio».
«Sono stufo di cerchi», disse Ghepardo senza tremare.
Fece un passo verso il Toro. «Se esci dalla Linea, uscirò con te».
Leone restò a bocca aperta. «Che cosa?»
Ghepardo ripeté, a voce più alta: «Oltrepasserò la Linea con lui».
«Che vai cercando, tu, nella Linea?», s’infiammò Leone.
Ghepardo non lo sapeva. Ma anche il più stupido dei cacciatori si rese conto della forza di attrazione che esercitava quell’ignoranza.
«Voglio conoscere», disse. «Capire».
Allora Leone lo schiaffeggiò.
«Non puoi andartene», gridò. «Sei mio! Ti ho fatto io!»
Dal proprio angolo Bisonte ricominciò a ridere. Pesava un quintale, ma le radici delle Sette Sorelle lo tenevano in grembo come un bambino.
«Cos’avresti fatto, tu?!», si contorceva indicando l’uccello di Leone. «E come? Con... con quello?!»
Le sue risate rimbombavano nella valle. È mio, gli fece il verso.
Allora Leone non ci vide più. Sferrò un calcio sul mento di Bisonte e lo cosparse di birra, come se volesse dargli fuoco con la propria rabbia.
«Stupida bestia», gridò spaccandogli sulla schiena il suo fucile.
Il tempo di sputare ciò che restava dello stecchino e Toro gli fu addosso. Ma l’ira di Leone scivolava via da tutte le parti. Allora arrivò anche Sciacallo, e dopo Volpe, Istrice e Caimano. Lo trattenevano in cinque, e non ce la facevano.
«Ti rifarò ingoiare questo affronto!», minacciava Leone.
Toro gli cinse il collo e premette l’avambraccio sulla giugulare. Passava di lì, il suo furore, perché a poco a poco Leone si afflosciò.
«Va bene. Volete andarvene? Andatevene via tutti», sputò un’ultima volta.
Rovesciato sul dorso, con i denti spezzati e la faccia coperta di sangue, Bisonte ancora rideva.
Mentre Sciacallo raccoglieva il fucile (era spaccato in due all’altezza della culatta: mai vista una cosa del genere), Toro si chinò per controllare se l’ubriaco fosse intero.
Ne aveva viste di ferite e di ossa rotte, ma di punto in bianco, davanti a quello sfacelo, ebbe la sensazione di svenire.
Tutto, intorno a lui, cominciò a ondeggiare. A rabbuiarsi. A scricchiolare.
Non era lui che crollava, però. Erano le Sette Sorelle che venivano giù.
Toro afferrò i polsi di Bisonte e lo trascinò il più lontano possibile. Sotto di loro la terra cominciò a tremare, mentre le radici si scollavano dal suolo con terribili schiocchi.
Questa volta, evidentemente, i topi avevano agito dalle fondamenta. Li sentimmo brulicare sotto i nostri piedi, eccitati dalla riuscita del proprio lavoro.
I cacciatori sollevarono gli occhi. Nel saltare in piedi, precipitosi e urlanti, sbatterono l’uno contro l’altro, trasformando il terrore di ciascuno in isteria di gruppo.
Si dispersero dove potevano, ma dove potevano non sarebbe bastato se le Sette Sorelle, sotto le sembianze di faggi, non avessero avuto la tempra di una quercia. Strappati alle radici, prima di andare a picco, i tronchi sprofondarono di un paio di metri nel sottosuolo. Da lì, incastrati nella terra che per secoli li aveva nutriti, trovarono la forza di trattenersi l’uno con l’altro.
Resistettero in bilico finché l’ultimo dei cacciatori non fu in salvo.
Poi persero la presa e, prima ancora di disgiungersi dal bosco, si scollarono tra loro.
Infine rotolarono giù, lungo il pendio, trasformando lo stagno in un mare in tempesta.
Nuvole e nuvole passarono di nuovo sulla luna, prima che tutto s’acquetasse.
Il mento sollevato a difendere i respiri, risalimmo il nubifragio di rami e di foglie.
Al posto delle Sette Sorelle c’era un’enorme bara scoperchiata.
Vi guardammo dentro, e poi ancora più dentro, fino alle viscere della terra.
Dal fondo di quella voragine, una moltitudine di topi ci fissava.