Vedo la vita solo da un occhio, l’altro è di vetro Se da questo unico occhio vedo molte cose ne vedo molte di più

[dall’altro

Perché l’occhio sano mi serve a vedere, quello cieco a sognare.

paruir sevak (1924-1971),
poeta armeno

Molly Sweeney è un testo teatrale di Brian Friel. In Italia lo hanno messo in scena Umberto Orsini e Valentina Sperlì, diretti da Andrea De Rosa.

La protagonista, cieca dal primo anno di vita, viene ricondotta alla vista dalla caparbietà ambiziosa del marito e dall’ambizione caparbia del medico a cui il marito si rivolge. Nessuno le chiede mai, davvero, se voglia tornare a vedere. È scontato, chi non vorrebbe vedere? Eppure, invece. Molly conosce tutti i fiori dall’odore e dalla forma, li annusa e li tocca come le ha insegnato a fare suo padre da bambina. La viola, il tulipano, la rosa canina. Conosce le persone con le mani, al buio, e così la vita. Quando torna a vedere non riconosce niente, è ovvio. Vede un tulipano e per sapere che è un tulipano ha bisogno di chiudere gli occhi e di toccarlo, deve tornare cieca. Vede un coltello e per sapere cosa sia deve chiudere gli occhi e sentirne la forma, il freddo, la lama. La vista le toglie la sua identità. Perde ogni riferimento, vede e non sa cosa vede, perde il suo mondo fatto di forme e di odori, di suoni. Vale per tutti, in fondo: non sempre guarire migliora, non sempre essere guariti (da un’inerzia, da un’illusione, da una prudenza)è un dono. Molly non ha chiesto a nessuno di guarire, non voleva guarire. I suoi due uomini hanno fatto il suo bene: l’hanno fatto per lei, si dicono. Noi – gli spettatori – sappiamo che l’hanno fatto per sé. Molly impazzisce alla vista di un mondo non suo. Molly muore.