IX
Dora. La luce nell’ombra
«Tutti pensavano che mi sarei uccisa dopo il suo abbandono. Anche Picasso se lo aspettava. Il motivo principale per non farlo fu di privarlo della soddisfazione.»
La casa è buia, le persiane sono chiuse. Fredda, i pochi mobili sono addossati alle pareti come se ci fosse stata una festa da ballo, lì, secoli fa. Alle pareti solo ritratti di lei. Che piange, che ha verde la pelle, che guarda con occhi accecati da spilli, che ha mani lunghe di uccello e artigli scarlatti. Che sta composta con le mani sul grembo, incrociate, della testa manca una parte come se un chirurgo l’avesse asportata, disturbava, era piena di buio e di dolore, mezza testa di meno e le labbra tese, lo sguardo diritto e preciso che non sorride mai. Il chirurgo – Lui.
«Ho migliaia di ritratti. Me ne ha fatti migliaia, quelli che vede, che si conoscono, sono una piccola parte, minuscola. Tutti gli altri li ho io. Ci metteva pochissimo, a volte due minuti per un disegno. Non era me che disegnava. Semplicemente: ero entrata nella sua linea di produzione. Vedeva qualcosa oltre me, qualcosa di sé. Ho migliaia di ritratti fatti da lui. Nessuno è Dora Maar. Sono tutti Picasso.»
Parliamo di Lei, signora. Non di Lui.
«Questo è bello da parte sua. Gentile. Temo però che sia impossibile. A nessuno interessa sapere di me. Si aspettano che parliamo di Lui, perché lui è stato dentro di me e questo contamina per sempre, la gente pensa questo: mi frequentavano, dopo, gli uomini, perché volevano passare da dove lui era passato. Una conquista inaudita, una profanazione, una forma di cannibalismo dei corpi, capisce? Come se ci fosse una forma di contagio del genio: toccare la stessa carne, dormire nello stesso letto, mangiare alla stessa tavola. Respirare dentro questa casa la stessa aria. Essere lui attraverso di me, poveretti. Non sanno quel che lui era. Solo io lo so. Picasso era uno strumento di morte. Non era un uomo, era una malattia. Si nutriva del dolore che provocava negli altri per alimentare il suo. Individuava tra milioni le donne che avrebbero potuto essere crudeli con lui, più crudeli di lui, e questo chiedeva loro: uccidetemi, la vostra morte eventuale sarà un dettaglio nel percorso. Uccidete me: il mostro, il Minotauro. Sarete nella gloria, nella storia. Nessuna gli è sopravvissuta, come vede. E però nessuna gli ha dato la sofferenza che chiedeva: un poco, ogni tanto, qualcuna. Io, credo, più di tutte, non è affatto un merito né una consolazione: semplicemente è così. Ma nessuna è stata mai alla sua altezza, non così efferata e pura. Ogni tanto tornava da me per vedere se fossi impazzita, imbruttita, morta di solitudine e di miseria: se per caso il suo abbandono non mi avesse dato nuova forza per offenderlo e farlo rivivere. Però no, vede. Eccomi ancora qui, gli sono sopravvissuta. “Il mio perdono sarà il tuo castigo” gli dissi l’ultima volta. “Tu sei la mia sventura, io te la lascio.”»
Mi racconti di Lei: lei com’era prima.
«Facevo fotografie. Venivo dall’Argentina, per questo con Picasso parlavamo spagnolo: la lingua della sua infanzia, anche questo gli ho dato. Mio padre è stato l’unico architetto a non fare fortuna in America in quegli anni. Era ebreo iugoslavo, Markovitch il nostro nome. Mia madre cattolica, di Tours. Tornammo in Francia che avevo vent’anni. Conobbi Paul Éluard. Poi George Bataille, diventammo amanti. L’erotismo era la sua lingua. La perversione, diceva mia madre. Ero molto giovane, imparavo in fretta. Sylvie, la moglie di George, fu, molti anni dopo, la sposa di Lacan: il mio medico dopo la rovina, dopo Picasso. Laurence, la figlia di George, divenne da adolescente la ninfa di Balthus, il mio più caro amico. Di Bataille porto le stimmate, non di Picasso. Però alla gente questo non interessa, riguarda solo me. La gente vuole sapere di lui: l’orco, il poeta, il nano, lo spagnolo rovente, il gigante, il torero, il veggente, il mito. Io sono solo la donna che piange. Sono la donna verde dei quadri del genio. Sono l’idea stessa del dolore: il mio, il suo, il dolore del mondo. Mai, mai neppure in un solo schizzo Picasso mi ha dipinta con l’ombra di un sorriso. Eppure ridevamo, sa, insieme. Lui mi diceva, nell’amore: fermati adesso, dimmi i miei segreti tu che li sai e io lo canzonavo, gli raccontavo favole, suonavo il piano con le mani sul suo corpo e lui rideva, ecco, sì, questo è il mio segreto e tu lo sai. Ci conoscemmo al bar. La mia storia con Bataille era finita da poco, non è mai finita ma in quel momento lo era. Stavo con un cineasta, in quelle settimane, però quel giorno al bar ero sola. Giocavo con un coltello. Giocavo a piantarlo nel tavolo di legno fra le dita dell’altra mano. A volte sbagliavo mira, ma direi di no, miravo giusto e mi tagliavo il guanto. Bianco, il guanto. Il sangue lo sporcava subito e molto. Picasso sentiva l’odore del sangue da lontano: lo ha sempre fatto, con le bestie alla corrida, con le donne e con gli uomini, nei luoghi di sventura suprema. Era inebriato, ipnotizzato dal sangue. Si sedette accanto a me in silenzio, rimase lì fermo per molto tempo. Nel bar tutti ci guardavano, io no, però: io non ho mai guardato lui, continuavo a tagliarmi. Sentivo la sua presenza. Mi disse, a un certo punto: andiamo. Non era una domanda, era un ordine. Io allora alzai la testa e per la prima volta incrociai i suoi occhi. I suoi occhi non erano occhi: erano uno specchio dell’inferno. Gli dissi: dove? Lui mi rispose: in qualunque posto, signorina, purché non sia fuori di lei.»
È entrato così, quel giorno.
«Sì, è entrato quel giorno. Qualcosa in lui mi ha odiata fin dalla prima notte, incantandolo. Non guardarmi, mi diceva. Chiudi gli occhi, i tuoi occhi mi vedono e mi fanno paura: Picasso non può avere paura. Picasso fa paura: non ti faccio paura? Picasso uccide: lo sai tu che uccidere è più difficile che morire? Lo sai tu cosa vuol dire sparare in fronte? Sai quanto costa? Questo mi chiedeva nel letto. Uccidere è più difficile che morire.»
Vi sarete chiamati per nome, anche, dopo.
«Mai. Non l’ho mai chiamato per nome una sola volta. Non c’è niente di più esaltante per un uomo che essere chiamato col nome che gli ha dato la gloria. Era come un eroe, questo si sentiva. Un dio. Ma anche: non c’è niente come chiamarlo per cognome che lo faccia sentire niente altro che questo. La firma, il suo marchio, la sua fama. Mai un uomo davvero, però. Mai il suo nome da bambino, mai lui prima di Picasso. Lo avrei fatto, pensavo, se fossimo diventati vecchi insieme e avesse deposto le armi. Non c’è stato il tempo. Neppure il modo, in verità. Non è stato possibile. Non voleva, in realtà. Quando facevamo l’amore in terra accanto alla scala su cui saliva quando lavoravamo, insieme, a Guernica mi diceva: ecco, guarda, ecco quello che sono. Un idraulico: sturo gli ingorghi altrui ingorgandoli dentro il mio che non ha cura. Sono il miglior idraulico del mondo. Poi si riaggiustava la cravatta, si accendeva un’altra sigaretta e tornava a dipingere. Aveva un’altra donna, in quegli anni. Molte altre ma una da cui passava il fine settimana sempre. Marie-Thérèse, andava a casa sua il venerdì. Lei era bionda e morbida, fatta di burro e docile, muta. Gli ha dato una figlia, Maya. Io andavo sotto casa loro in taxi, il sabato mattina, e restavo lì a volte anche due giorni a guardare la finestra. Ma questo lui non l’ha mai saputo. Ci ha ritratte sullo stesso divano, un giorno, nella stessa posa dopo averci convocate e poi amate entrambe. I quadri sono lì, hanno la stessa data, si riconosce la stessa finestra, la stessa stanza. Lei bianca che ride. Io viola che piango. Lei tonda, io spigolosa come i frammenti di uno specchio che taglia. Sapevamo bene una dell’altra, certo. La sua crudeltà consisteva nel mostrarci accanto, sulle tele, insieme. Poi diceva: i pavoni si occupano della loro ruota, non della platea, se no non vivrebbero accanto a un pollaio. Cosa volete da me, che altro volete da me oltre a questa ruota: non vi basta? Era collerico. Elettrizzante e terrorizzante. Era desiderio e distruzione. Fragilità e potenza di morte. Amava le civette perché vedono nella notte. Aveva paura del buio.»
Di lei disse: sei stata la più utile.
«Già, disse così. “Non ho mai conosciuto nessuno utile quanto te. Sei tutto ciò che si può desiderare: un cane, un topo, un uccello, un’idea, un temporale. Sei l’ideale, sei un grande vantaggio da avere accanto quando uno si innamora.” È stata la sua dichiarazione postuma. Me lo disse quando già era arrivata Françoise, la donna con cui se ne andò. Però anche in questa frase, vede: l’innamorarsi prescinde dall’oggetto, è un moto proprio del soggetto. Io ero utile, ero arrivata al momento opportuno, proprio mentre lui si stava innamorando a prescindere da me. Ci siamo visti per anni, durante e dopo Françoise, prima e dopo i suoi altri due figli, dopo ancora, nella sua breve e nella mia lunga solitudine. Mi diceva: non sarà più come prima, sei solo un ricordo. Però tornava. Tornava sempre. Denigrava il mio lavoro. Avevo ripreso a dipingere. Lui entrava qui, prendeva in mano la tela: troppi segni per non dire niente, diceva. C’è sotto la tua firma, è tutto quel che hai, difendila. E anche, altre volte, al telefono: vedo che non mi cerchi per essere cercata, brava, è così che si fa. Comunque: vedo dai tuoi quadri che sei stanca.»
Lei cosa faceva, in quegli anni?
«Resistevo, mi curavo. Provavo a sopravvivere a Picasso. Quando arrivò la giovane Françoise esibendo la sua gravidanza, un giorno, temetti di essere stata davvero colpita in fronte. Io non ho avuto figli, non potevo averne. Picasso non ha fatto che figli nella vita: io ero la sua donna sterile, l’aridità, il deserto, io ero il luogo dove si getta il seme e non fiorisce. Gli è servito, questo, nell’arte. Si può dire: è stata una tappa. Era la mia vita però: anche questo era. Françoise non ha saputo niente di lui, non l’ha mai avuto: si limitava a essere gravida, spingeva in fuori la pancia di Picasso come fosse l’ultimo capolavoro del genio, il capolavoro sul suo corpo. Ebbi paura in quei mesi, in quell’anno. Ricordo molto poco. Un giorno mi trovarono nuda per le scale: mi raccolsero certe coppie in abito da sera che scendevano da una festa al piano di sopra, mi riportarono a casa. Un’altra volta mi successe qualcosa al cinema, ebbi una crisi, credo. Vennero a prendermi Paul Èluard con Nush, sua moglie. Nush era stata l’amante di Picasso, come tutte. Una donna incantevole, così fragile. Sembrava che un’onda sulla spiaggia avrebbe potuto portarla via. Sembrava incarnare il niente e il tutto che siamo. Era malata, era l’idea della malattia dell’umanità. Era magnetica. L’ho ritratta, una volta: ho sovrapposto alla sua immagine quella di una ragnatela. Era una donna ragno, questo: era una donna che tesse a testa bassa la sua tela e non si cura del mondo, piccola, minuscola e potente. Mi presero e mi portarono in clinica. In ospedale, sì. Ci sono rimasta molto. L’elettroshock è come morire, poi rinascere. È come tornare vivi dopo la morte: una sorpresa, un volo, un dolore e un sollievo. Poi Paul mi ha portata da Lacan: aveva poco più di quarant’anni allora. Era bello. Era sicuro. Disse che mi avrebbe guarita: il tuo sangue Teodora non mi interessa, mi disse. Mi chiamava per nome. Il mio nome è Teodora. Andai a vivere da lui. Portai con me la gatta che mi aveva regalato Picasso. I gatti non mi sono mai piaciuti e Picasso lo sapeva, ma i miei gusti non avevano importanza. Si chiamava Moumoune, la detestavo ma mi dispiacque quando morì. In fondo era un essere vivo e la vita ha un pregio, sempre.»
Vi siete visti ancora, dopo, con Lui?
«Ma certo. Mi cercava per colpirmi. Non poteva farne a meno. Un giorno, quando Françoise lo lasciò portandosi via i due bambini, Claude e Paloma, mi fece arrivare in rue Savoie, a casa, una cassa enorme di legno, le assi inchiodate. Ebbi bisogno di un amico per aprirla, ci volle del tempo. Fuori dalla cassa c’era scritto di suo pugno: mittente, Picasso. Si può immaginare l’attesa del mio amico, del portinaio, di chi l’aveva vista arrivare. La mia, anche. Ci mettemmo un’ora ad aprirla. C’era una sedia, dentro. Orribile, la sedia più brutta che abbia mai visto. Di ferro e corda, con due palle di legno, troppo grande, scomoda. Una sedia impossibile da collocare in alcun luogo. Credo che abbia pensato che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dire che un oggetto regalato da Picasso e con così tanta cura e lavoro, imballato immagino da lui medesimo, fosse orrendo. Avrebbero pensato: lui vede la bellezza dove noi non vediamo. Invece no: era una sedia orrenda ed era un messaggio segreto per me. Solo tu, tra tutti, sai che è orrenda: questo voleva dirmi. Tempo dopo fece in modo di incontrarmi a casa di amici. Venne perché sapeva che c’ero. “Hai un bell’aspetto” gli dissi. “Se tu potessi vedermi come mi vedo io ti si spezzerebbe il cuore” mi rispose. “Ne sono certa” dissi allora io. Mi chiamò tesoro e amore per tutta la serata. A un certo momento disse ad alta voce, perché tutti gli ospiti sentissero: “Vieni, ho da dirti qualcosa che è solo per te e non voglio che nessuno ci senta. Una cosa molto intima, nostra. Andiamo in quell’angolo laggiù”. Quando fummo arrivati lui si voltò e con una piroetta, quasi una danza, tornò indietro ridendo lasciandomi lì da sola. Restai in piedi in quell’angolo un tempo lunghissimo, tutti mi guardavano, si era fatto silenzio. Poi tornai indietro verso la mia poltrona, a testa alta, ripresi il mio posto. Lui allora tornò a rivolgersi a me ad alta voce: “Andiamo insieme a dormire da Balthus stanotte? Ne sarebbe felice?”. Esitai. Lui disse per favore, sarebbe un regalo. Dissi va bene, lasciami chiedere al mio accompagnatore se gli dispiace tornare da solo: gli dissi sì, insomma. E allora lui fece una scena madre delle sue: “Il tuo accompagnatore!” urlò due o tre volte, con tono di prendermi in giro ma anche offeso. Senza salutare nessuno aprì la porta e se ne andò. Un mese dopo aveva incontrato Jaqueline. La donna-domestica dei suoi ultimi anni. La sposò, addirittura. Lei lo recluse in un castello. D’altra parte ormai era vecchio, Picasso. Era facile allora tenerlo chiuso. Non l’ho visto mai più. È morto da molti anni, ormai. Io, come vede, non sto male. Ho ritrovato la mia religione di bambina. La fede è stata una grande amica, non sapevo di averla.»
C’è un suo ritratto degli anni Trenta, però, un ritratto di Picasso che s’intitola Dora pro nobis. Non aveva fede allora?
«No, assolutamente no. Ero comunista, ero molto più a sinistra di Picasso in quegli anni. Non so perché intitolò così quel ritratto. Dipingeva quel che di sé vedeva negli altri, gliel’ho detto. Avrà visto nella mia indole qualcosa di religioso. Mi diceva che ero grave, misteriosa, dura, altezzosa, commovente. Mi dipingeva come una sfinge: sei distante, sei luminosa, non so chi tu sia, sei così severa e addolorata. Questo mi diceva quando ridevamo nel letto. Sei la mia madonna disperata: disperata per me, per te, per l’umanità intera. Dora pro nobis, avrà inteso questo. Ma non posso continuare a pensarci, la prego. La mia relazione con il resto del mondo non può continuare a dipendere dal fatto di aver tenuto dentro di me Picasso, un giorno, e di aver visto la mia e la nostra morte dentro di lui. Non ho molto da offrirle, per il resto, mi scusi. Non sono attrezzata per ricevere ospiti. Bevo solo acqua da molti anni. Ne vuole?»
(Dora Maar è nata nel 1907 ed è morta nel 1997. Non ha lasciato eredi. Il suo immenso patrimonio è andato all’asta dopo una infruttuosa ricerca di discendenti in Iugoslavia. Una contadina parente di lontano grado, rintracciata da un’agenzia specializzata nel ramo, disse di non conoscere Picasso – «mai sentito nominare» – e rinunciò chiedendo di non essere ulteriormente importunata. Oltre centocinquanta tele erano stipate nella casa parigina di Dora Maar insieme a sculture, scatole di fiammiferi, assi del wc e tappi di bottiglia incisi e decorati da Picasso. Questa intervista è di dieci anni successiva alla morte della protagonista e naturalmente è immaginaria. Tutto ciò che vi è riportato è invece autentico: parole, circostanze e dialoghi.)