XIII

Louise

Louise Bourgeois è una delle donne più affascinanti del secolo che abbiamo appena attraversato. «La violenza non si dimentica. Bisogna ricrearla per sbarazzarsene.» Un essere umano di calibro superiore: poi anche una donna, certo. «A vent’anni frequentavo l’accademia di Belle Arti. All’ora di disegno dal vivo, un giorno, il nostro modello nudo ebbe un’erezione. Ricordo di essermi detta: è così triste essere vulnerabile. Davanti a tutti, poi. L’ho compatito. Ho pensato che temesse che avremmo riso di lui. Non sapevo, fino a quel momento, della vulnerabilità maschile. Non avevo mai provato pena per il fatto che un uomo fosse un uomo. Non mi era mai venuta l’idea: mai. D’altra parte si va a scuola per imparare: io quel giorno ho imparato questo.» Gli uomini: così fragili, schiavi di quella loro appendice.

La sua foto più celebre l’ha scattata Mapplethorpe nel 1982. Lei ha settantun anni, una tela di rughe in volto, un sorriso radioso e una sua scultura sottobraccio: un fallo enorme portato come se fosse un ombrellino di pizzo, con grazia assoluta. L’opera – il realistico membro maschile di monumentali dimensioni – si chiama Fillette, bambina. «È la mia bambola» ha spiegato. «Per tutta la vita ho avuto l’abitudine di prendermi cura degli uomini, avevo un marito e tre figli. Il loro organo virile era un oggetto familiare, amato. Niente affatto orribile. Una cosa gentile che non fa male, è chiaro.» La foto, rifiutata da un catalogo della sua mostra al Moma, è triplamente eversiva: perché è donna, perché è vecchia, perché ride del suo pisello sottobraccio.

«Tutto il mio lavoro trova origine nella mia infanzia. I miei genitori ebbero il loro primo figlio quando non erano ancora sposati. Sfortunatamente fu una femmina. Mio padre era un macho e mia madre dovette vergognarsi di aver dato alla luce una bambina. La colpa durò poco perché la piccola morì. Ne ebbero un altro, allora: un’altra femmina. Mia sorella Henriette. Un anno dopo nacque Louise, io. Capirete che la mia nascita suscitò enorme delusione. Mi fu tuttavia imposto il nome di mio padre, Louis. Sentivo di dover fare un grande sforzo per farmi perdonare il fatto di essere femmina. Mio fratello è nato poco dopo, comunque.» La famiglia di Louise Bourgeois viveva in Francia e riparava antichi arazzi. «Io avevo il compito di rifare i piedi, che per qualche ragione si consumavano prima. Degli uomini, dei cavalli. Poi dovevo anche tagliare i genitali dei Cupido che gli acquirenti americani, puritani, non volevano vedere in salotto. Mia madre, che era una donna ordinata, li tagliava e li metteva tutti insieme in un cesto: un cesto di piccoli peni. Io cucivo al posto loro dei fiori: crisantemi, di solito.» Il padre aveva molte amanti. «Mi portava al bordello, da bambina, e aspettavo fuori. Aveva amanti prostitute. Scartava quelle che non gli piacevano perché erano troppo questo, troppo poco l’altro. Io mi identificavo con le donne scartate. Pensavo: anche io sono troppo poco questo, troppo l’altro. Per tutta la vita mi sono sentita respinta: troppo o troppo poco. Poi mio padre arruolò un’insegnante d’inglese per noi figli, Sadie. Veniva in vacanza con noi, viveva con noi. Era la sua donna. Mia madre lo sapeva e taceva. Anche io lo sapevo. Per dieci anni ho visto lo sguardo muto di mia madre, ho odiato mio padre per quella sua violenza inaudita su di noi. La famiglia può essere disseminata di ghigliottine.»

A scuola Louise è bravissima. «Era il posto dove potevo fuggire.» Decide di studiare matematica, ha una passione per la geometria: «Ha regole che non cambiano, non come a casa». Poi si dedica allo studio dell’arte. Conosce un professore gentile e lo sposa, «era esattamente il contrario di mio padre, e io il contrario di sua madre». Va con lui a vivere negli Stati Uniti. Adotta, prima di partire, un bambino di quattro anni, Michel. Ne ha subito dopo altri due. Vive da madre di tre figli la sua giovinezza. Reclusa in casa, lontana dalla sua patria. Comincia a dipingere, a scolpire: gli amici e gli amori lontani come totem di legno, lunghi, distanti e filiformi, li installa sul tetto di una casa o in una stanza vuota. «Il mio diritto al mal du pays», la nostalgia. Le femmes-maison, corpi di donna imprigionati in una casa che chiedono aiuto: oggetti di desiderio, anche, sessi femminili esposti che chiedono di essere liberati dal loro ruolo di attrattiva del piacere maschile. Rappresenta i figli come sfere di cristallo, «rigide, perfettamente finite già alla nascita, complete e in fondo estranee dal momento in cui vengono al mondo, ma fragili. Se le colpisci si rompono». Negli anni Settanta è «scoraggiata e rassegnata, poi ho ricominciato a combattere». Comincia ad avere fortuna come artista. «Bisogna guardarsi per quello che si è anche in ciò che non si ama di sé. Quando ci si guarda comincia l’unico dialogo di senso.» Alla morte di sua madre tenta il suicidio gettandosi in un fiume. «Lei era la mia migliore amica, era mia madre. Lei era intelligente, paziente, opportuna, utile e ragionevole. Era indispensabile: come un ragno.» I ragni tessono la tela là dove si rompe, ricominciano sempre daccapo, non si stancano. Come con gli arazzi, i ragni tessono, ricompongono. Dora Maar aveva fotografato Nush Éluard come una donna ragno: le aveva sovrapposto, in camera oscura, una ragnatela. Bourgeois intitola il suo primo monumentale ragno, il primo di una produzione destinata a renderla famosa nel mondo: Mother. Da bambina, racconta, suo padre soleva fare per lei un gioco con un’arancia: vi incideva sopra una figura femminile, sulla scorza, poi la tirava via e dentro, proprio al posto del sesso della donna, compariva un lungo picciolo eretto, quello che sta dentro il cuore dell’arancia. «Io, a tavola davanti ai miei fratelli, piangevo il fatto di non avere la capacità di trasformarmi, come l’arancia, in un uomo dal sesso eretto.» Vent’anni dopo la morte di Louis scolpisce Distruzione del padre. Un’installazione ormai celebre che ricalca un suo incubo di bambina: lei e i suoi fratelli che squartano il padre e banchettano a tavola con alcune sue parti. «Giacché sono stata demolita da mio padre non vedo perché non avrei dovuto demolire gli altri» dice. «Rivendico il diritto di essere infelice. Rompo tutto quello che tocco. Sono violenta. Distruggo i miei amici, i miei amori, i miei figli. Rompo le cose perché ho paura e passo il tempo a cercare di ripararle. Sono sadica perché ho paura.» Soffre d’insonnia. Dipinge l’insonnia. Un’opera s’intitola L’arte è una garanzia di salute mentale. Poi commenta: «Tutto il mio lavoro è l’opera di ricostruzione di me stessa». Regala ai suoi amici degli specchi, quasi sempre tondi, a forma di sole, e con gli specchi realizza opere magnifiche: «Nella vita ci sono molte realtà come quelle che restituisce uno specchio. Bisogna accettare che la gente non vede quello che voi vedete, che voi non vedete quello che vedo io. L’ho imparato, non c’è conflitto. Ciascuno vede una cosa diversa, guarda nello specchio e vede se stesso come vuole che sia. Fa paura ma bisogna accettarlo». Negli amori, nelle relazioni fra persone è così. E tu, nello specchio che io ti ho regalato quel giorno, che cosa vedi di noi: di me, di te, di noi due se noi si può dire? «Realizzare una scultura è l’unico modo per incontrare davvero una persona. Per parlarle. Per introdurla nella tua casa vuota.»

La sua raccolta di saggi autobiografici è uscita in America quando aveva compiuto novant’anni. Il giovanilismo rivendicativo dell’ultima stagione politica è da mettere a fuoco tenendo presente la realtà: ci sono giovani del tutto insignificanti e vecchi geniali, come è evidente. Il titolo delle memorie, in originale, è Destruction of the Father / Reconstruction of the Father (Distruzione del padre / Ricostruzione del padre), già questo notevolmente anticommerciale. «Adorerei essere capita giacché grazie al mio ottimismo penso che se la gente mi capisse non potrebbe che amarmi. È questa la ragione per la quale tento con tutte le mie forze di essere compresa: essere amata.» C’è da capirla. Bisognerebbe riprodurre qui tutte le duecento pagine dei suoi scritti, sintetizzare non si può. «Ci innamoriamo sempre di coloro che temiamo, così provochiamo un cortocircuito alla paura e non la sentiamo più. Come succede fra un serpente e un uccello: l’uccello si sente affascinato, attratto, non è vero? Non soffre, non sente paura, è ipnotizzato. Il serpente finisce per ingoiarlo. È così.» Come il topo e il gatto di quella favola. «Saltiamo da un innamoramento passeggero a un altro, evitiamo la paura. Passano gli anni senza che riusciamo a sperimentare l’amore – non è frequente che si materializzi – e alla fine della vita riusciamo a esprimere solo una grande ira perché sentiamo di averla perduta, di aver perso inutilmente il tempo.» Le sue opere sono state sempre associate a un violento significato erotico. «È qualcosa che non capisco e che prescinde da me. Il sesso ha a che vedere con la morte. La paura di morire distrugge quella sensazione di essere al limite che si produce nel sesso. Quel momento, proprio quando il sesso e la morte si fanno una cosa sola, è quel che cerco di captare col mio lavoro. Niente di erotico. Uno stato subliminale, piuttosto.» Le donne. «Non sono mai stata femminista pur avendo sempre avuto un profondo interesse per quello che fanno le donne. Lo trovo più ricco, più sorprendente. Nonostante ciò sono sempre stata solitaria.» La terapia della parola, del gesto creativo. «Una volta terminata la scultura sento che ha eliminato l’ansia che provavo. Gli artisti progrediscono così: non è che migliorino, è solo che ogni volta sono capaci di resistere meglio ai loro propri assalti. L’unica vera arte che ho praticato tutta la vita è stata l’arte di combattere la depressione, la dipendenza emotiva.» Combattere la paura alla fine non è tutto «perché anche nell’assenza di paura il pericolo persiste». Persiste. Si può migliorare nel gestirlo, nell’affrontarlo. «Per scappare bisogna avere un posto dove andare. Quello che mi interessa piuttosto è restare: la conquista della paura. Nascondersi, confrontarsi, esorcizzare, vergognarsi, tremare e alla fine avere paura della paura stessa. Questo è il mio tema. Questo, credo, è il tema.»