Epilogo
Il mio giuramento al Senato degli Stati Uniti nel gennaio 2005 ha completato un processo che era iniziato il giorno in cui, due anni prima, avevo annunciato la mia candidatura, la rinuncia a una vita relativamente anonima per una decisamente pubblica.
Va detto che molte cose sono rimaste come prima. La nostra famiglia vive ancora a Chicago. Continuo a farmi tagliare i capelli dallo stesso barbiere di Hyde Park; io e Michelle riceviamo gli stessi amici a casa nostra come prima delle elezioni, e le nostre figlie scorrazzano sempre per gli stessi campi gioco.
Tuttavia non c'è dubbio che per me il mondo è cambiato profondamente, più di quanto io sia disposto ad ammettere. Le mie parole, le mie azioni, i miei programmi di viaggio e le mie dichiarazioni dei redditi: tutto finisce sui giornali del mattino o sui notiziari della notte. Le mie figlie devono sopportare le intromissioni di estranei benintenzionati ogni volta che le porto allo zoo. Anche fuori da Chicago è diventato più duro camminare inosservato attraverso un aeroporto.
Di norma mi riesce difficile prendere molto sul serio tutta questa attenzione.
Dopotutto, ci sono giorni in cui esco ancora di casa con una giacca che non si accorda con i pantaloni. I miei pensieri sono talmente meno ordinati, i miei giorni talmente meno organizzati rispetto alla mia immagine pubblica che talvolta mi ritrovo in situazioni comiche. Ricordo che il giorno prima del mio giuramento, io e il mio staff decidemmo di tenere una conferenza stampa nel nostro ufficio. All'epoca ero il novantanovesimo per anzianità, e tutti i giornalisti erano stipati in un minuscolo ufficio di passaggio al pianterreno del Dirksen Office Building, nell'atrio, di fronte alla boutique del Senato. Era il mio primo giorno nell'edificio; non avevo preso parte a una sola votazione, non avevo presentato una sola legge, addirittura non mi ero nemmeno ancora seduto al mio tavolo quando un giornalista molto zelante alzò la mano e chiese: «Senatore Obama, qual è il suo posto nella storia?».
Perfino qualcuno dei giornalisti scoppiò a ridere.
In parte quest'esagerazione può esser ascritta al mio discorso alla convention dei democratici del 2004 a Boston, l'occasione nella quale per la prima volta mi imposi all'attenzione nazionale. Di fatto, il processo in base al quale fui selezionato come oratore principale rimane per me un mistero. Avevo incontrato per la prima volta John Kerry dopo le primarie dell'Illinois, quando parlai alla sua raccolta di fondi e lo accompagnai a un'iniziativa della campagna elettorale che sottolineava l'importanza dei programmi di avviamento al lavoro. Qualche settimana dopo ci giunse voce che il gruppo di Kerry voleva che parlassi alla convention, nonostante non fosse chiaro in che ruolo. Un pomeriggio, mentre tornavo da Springfield a Chicago per una serata elettorale, Mary Beth Cahill, la responsabile della campagna di Kerry, mi chiamò per comunicarmi la notizia. Dopo aver riappeso, mi girai verso il mio autista, Mike Signator.
«Penso che sia piuttosto importante» dissi.
Mike annuì. «Può ben dirlo.» Ero stato soltanto a una delle precedenti convention democratiche, quella del 2000 a Los Angeles. Non avevo programmato di parteciparvi; ero da poco reduce dalla sconfitta alle primarie dei democratici per il seggio del primo collegio elettorale dell'Illinois, ed ero deciso a trascorrere la maggior parte dell'estate a riprendere in mano le redini della professione legale che avevo trascurato durante la campagna (una trascuratezza che mi aveva lasciato più o meno al verde), così come a recuperare il tempo perduto con moglie e figlie, che mi avevano visto così poco nei sei mesi precedenti.
All'ultimo momento, però, molti amici e sostenitori che stavano meditando di andarci insistettero perché mi unissi a loro. Mi dissero che dovevo prendere contatti a livello nazionale in vista del momento in cui mi fossi presentato di nuovo. In ogni caso sarebbe stato divertente. Nonostante allora non me l'avessero detto, sospetto ritenessero che una puntatina alla convention fosse per me una sorta di cura, in base alla teoria che la cosa migliore da fare dopo esser stati disarcionati da un cavallo è tornare subito in sella.
Alla fine cedetti e prenotai un volo per Los Angeles. Quando atterrai, presi la navetta per l'autonoleggio della Hertz, porsi la mia carta American Express alla signora dietro la cassa, e cominciai a cercare sulla mappa l'indirizzo di un albergo a buon mercato che avevo trovato vicino a Venice Beach. Dopo qualche minuto la signora della Hertz tornò con un'espressione imbarazzata sul viso.
«Mi dispiace signor Obama, ma la sua carta è stata rifiutata.» «Non può essere. Può provare ancora?» «Ho provato due volte, signor Obama. Forse dovrebbe chiamare l'American Express.» Dopo mezz'ora al telefono, un responsabile dell'American Express di buon cuore autorizzò il noleggio dell'auto; ma l'episodio servì da presagio delle cose a venire. Non essendo un delegato, non avrei potuto procurarmi un pass per la zona riservata; a sentire il presidente della sezione di partito dell'Illinois, era già inondato di richieste e il meglio che avrebbe potuto fare era darmi un pass grazie al quale sarei potuto entrare solo nell'edifìcio della convention. Finii col guardare la maggior parte dei discorsi su vari schermi televisivi sparsi nello Staples Center, seguendo occasionalmente amici o conoscenti in tribune dove era chiaro che io non c'entravo. Il martedì sera mi resi conto che la mia presenza non era utile né a me né al partito democratico, e il mercoledì mattina mi trovavo sul primo volo per tornare a Chicago.
Data la distanza tra il mio precedente ruolo come intruso a una convention e il nuovo ruolo di oratore principale a una convention, avevo qualche motivo per preoccuparmi che la mia apparizione a Boston potesse non andare troppo bene.
Tuttavia, forse perché mi ero ormai abituato alle cose bizzarre che accadevano nella mia campagna, non ero particolarmente nervoso. Qualche giorno dopo la chiamata della signora Cahill, tornai nella mia stanza d'albergo a Springfield, prendendo appunti per una prima bozza del discorso, mentre guardavo una partita di pallacanestro. Pensavo agli argomenti su cui avevo insistito durante la campagna, la disponibilità della gente a lavorare sodo se gliene viene data l'occasione, la necessità che il governo offra a ciascuno l'opportunità di farsi strada, la convinzione che gli americani avvertano un senso di obbligazione reciproca. Feci una lista dei punti che avrei dovuto toccare: assistenza sanitaria, istruzione, guerra in Iraq.
Pensai soprattutto alle voci di tutte le persone che avevo incontrato durante la campagna elettorale. Rammentai Tim Wheeler e sua moglie a Galesburg, cercando di immaginare come far loro ottenere il trapianto di fegato di cui aveva bisogno il figlio. Rammentai Seamus Ahern, un giovane di East Moline in partenza per l'Iraq e il suo desiderio di servire la sua patria, l'espressione di orgoglio e di ansia sul volto di suo padre. Rammentai una giovane donna afroamericana incontrata a East St. Louis che mi aveva parlato dei suoi sforzi per frequentare il college nonostante nessuno nella sua famiglia avesse mai raggiunto il diploma di scuola superiore.
Non era solo la lotta di questi uomini e donne che mi aveva spinto. Piuttosto, era stata la loro determinazione, la loro fiducia in se stessi, il loro costante ottimismo a dispetto delle difficoltà. Tutto ciò mi riportò alla mente una frase che il mio pastore, il reverendo Jeremiah A. Wright Jr., aveva usato una volta in un sermone.
L'audacia della speranza.
Era il meglio dello spirito americano, pensai: avere l'audacia di credere, nonostante tutte le prove contrarie, che si può ricostruire un senso della comunità in una nazione lacerata dal conflitto; l'impudenza di credere che nonostante tutte le avversità personali, la perdita del lavoro o una malattia in famiglia o un'infanzia circondata dalla povertà, abbiamo un certo controllo - e pertanto la responsabilità - sul nostro destino.
Fu quell'audacia, pensai, a fare di noi un unico popolo. È stato quell'indomito spirito di speranza che ha saldato la storia della mia famiglia alla più ampia storia americana, e la mia storia personale a quella degli elettori che cercavo di rappresentare.
Spensi la tv e cominciai a scrivere.
Qualche settimana più tardi arrivai a Boston, feci un sonnellino di tre ore e andai dal mio albergo al Fleet Center per la mia prima apparizione al programma televisivo Meet the Press. Verso la fine del filmato, Tim Russett proiettò sullo schermo un brano di un'intervista con il «Cleveland Plain- Dealer» di cui mi ero quasi completamente dimenticato, nella quale il giornalista mi aveva chiesto, da cittadino che stava per fare il suo ingresso in politica, che cosa pensassi della convention democratica a Chicago.
La convention è in vendita, esatto... Ci sono queste cene a diecimila dollari a persona ai Golden Circle Club. Penso che, quando un elettore medio vede tutto ciò, ritiene giustamente di essere stato escluso da tutto il meccanismo. Non può permettersi una colazione da diecimila dollari. Pensa che chi può farlo otterrà il tipo di opportunità che lui non può nemmeno sognarsi.
Dopo che la citazione scomparve dallo schermo, Russett si girò verso di me.
«Centocinquanta donatori hanno versato quaranta milioni di dollari per questa convention» disse. «È peggio che a Chicago, secondo i suoi criteri. La indigna questo? E che messaggio manda all'elettore medio?» Risposi che l'intreccio tra politica e denaro era un problema per entrambi i partiti, ma che i voti espressi da John Kerry, e da me, indicavano che ci eravamo espressi per quello che ritenevamo fosse meglio per il Paese. Dissi che una convention non avrebbe cambiato tutto ciò, nonostante suggerissi che più i democratici avessero incoraggiato la partecipazione delle persone che si sentivano escluse da quel meccanismo, più saremmo rimasti fedeli alle nostre origini di partito espressione del cittadino medio e più saremmo stati forti.
In privato, pensai che la mia citazione del 1996 era meglio.
Ci fu un'epoca in cui le convention politiche coglievano l'urgenza e la drammaticità della politica: quando le nomination erano determinate dai massimi responsabili del partito e dal conteggio dei presenti e dagli accordi sottobanco e dalle pressioni, quando passioni o errori di valutazione potevano portare a un secondo o terzo o quarto ballottaggio. Quest'epoca è ormai passata da molto tempo. Con l'avvento delle primarie obbligatorie, l'agognata fine del predominio dei capi del partito e delle trattative segrete in stanze fumose, l'attuale convention è priva di sorprese. Piuttosto, serve da spot pubblicitario lungo una settimana per il partito e il suo candidato, così come mezzo per gratificare i maggiori e più fedeli sowenzionatori con quattro giorni di bisbocce e discorsi di bottega.
Trascorsi la maggior parte dei primi tre giorni ad assolvere al mio ruolo in questa cerimonia spettacolare. Parlai in sale affollate dei più importanti sostenitori, mi incontrai a colazione con delegati provenienti dai cinquanta Stati. Feci una prova del mio discorso davanti a un monitor, mi fu mostrato come si sarebbe svolto, ricevetti istruzioni su dove mettermi, in che direzione agitare la mano, come fare l'uso migliore dei microfoni. Il mio addetto stampa, Robert Gibbs, e io trotterellammo su e giù per le scale del Fleet Center concedendo interviste, che talvolta erano solo a un paio di minuti di distanza, all'ABC, NBC, CBS, CNN, Fox News e NPR, ogni volta sottolineando i punti cruciali che la squadra Kerry- Edwards aveva fissato, ogni parola dei quali era stata senza dubbio testata in una serie di sondaggi e una quantità di gruppi di approfondimento.
Dato l'affannoso ritmo delle mie giornate, non avevo molto tempo per preoccuparmi di come sarebbe stato accolto il mio discorso. Solo martedì sera dopo che il mio staff e Michelle avevano discusso per mezz'ora su quale cravatta avrei dovuto mettere (infine decidemmo per quella che indossava Robert Gibbs), dopo che eravamo andati in auto al Fleet Center sentendo estranei gridare «Buona fortuna!» e «Fagli vedere i sorci verdi, Obama!», dopo aver fatto visita a una gentilissima e spiritosa Teresa Heinz Kerry nella sua stanza d'albergo - quando alla fine c'eravamo solo Michelle e io seduti dietro le quinte a guardare la trasmissione, cominciai a sentirmi appena un filino nervoso. Accennai a Michelle che la pancia mi borbottava un po'. Mi abbracciò stretto, mi guardò negli occhi e disse: «Basta che non ti incasini, amico!».
Scoppiammo a ridere. Proprio allora uno dei direttori di produzione entrò nella saletta d'attesa e mi disse che era ora di prendere posizione dietro il palcoscenico. In piedi dietro il sipario nero, ascoltando Dick Durbin che mi presentava, pensai a mia madre, a mio padre, e a mio nonno, e che cosa avrebbe significato per loro essere tra il pubblico; pensai a mia nonna alle Hawaii, che seguiva la convention alla televisione perché la sua schiena era troppo malconcia per poter viaggiare; pensai a tutti i volontari e i sostenitori in Illinois, che avevano lavorato tanto per me.
Signore, fà che racconti bene le loro storie, dissi tra me. Poi mi incamminai verso il palcoscenico.
Mentirei se dicessi che la reazione positiva al mio discorso alla convention di Boston - le lettere ricevute, le folle che manifestavano ai raduni quando tornammo nell'Illinois - non mi ha dato una gratificazione personale. Dopotutto, ero entrato in politica per esercitare qualche influenza sul dibattito pubblico, perché pensavo di avere qualcosa da dire sulla direzione che dobbiamo imboccare come Paese.
Tuttavia, il torrente di pubblicità che seguì al mio discorso rafforzò la mia sensazione di quanto fugace sia la celebrità, di quanto dipenda da migliaia di fattori occasionali, di avvenimenti che capitano in un modo piuttosto che in un altro. So di non essere così brillante come sei anni fa, quando rimasi bloccato all'aeroporto di Los Angeles. I miei punti di vista sull'assistenza sanitaria o l'istruzione o la politica estera non sono molto diversi da quando lavoravo oscuramente come coordinatore di comunità. Se sono più saggio, è soprattutto perché ho fatto qualche passo avanti lungo il cammino che mi sono scelto, il cammino della politica, e ho visto di sfuggita dove potrebbe condurmi, nel bene e nel male.
Ricordo una conversazione che ebbi quasi vent'anni fa con un amico, un uomo più anziano che era stato attivo nelle campagne per i diritti civili a Chicago durante gli anni Sessanta e insegnava urbanistica alla Northwestern University.
Avevo appena deciso, dopo tre anni di coordinamento, di studiare legge; poiché egli era uno dei pochi accademici che conoscessi, gli domandai se mi avrebbe fornito una lettera di presentazione.
Disse che sarebbe stato lieto di scriverla, ma prima voleva sapere che cosa avevo intenzione di fare con una laurea in legge. Accennai al fatto che ero interessato a esercitare nel campo dei diritti civili, e che a un certo punto avrei potuto tentare di candidarmi a una carica pubblica. Annuì, e chiese se avevo considerato che cosa avrebbe implicato imboccare quella strada, che cosa ero disposto a fare per comparire sulla «Law Review», o associarmi a uno studio legale, o essere eletto a quella prima carica per poi fare carriera. Di norma, sia la giurisprudenza sia la politica richiedono compromessi, disse; non solo su questioni marginali, ma su cose più sostanziali: i valori e gli ideali. Disse che non cercava di dissuadermi. Era un dato di fatto. Era per il suo rifiuto del compromesso che, nonostante in gioventù più di una volta gli fosse stato proposto di entrare in politica, aveva sempre rifiutato.
«Non è che il compromesso sia intrinsecamente sbagliato» mi disse. «È solo che non mi soddisfa. E invecchiando ho scoperto che bisogna fare quello che dà soddisfazione. Di fatto questo è uno dei vantaggi dell'età, credo: che infine sai quello che conta per te. È difficile saperlo a ventisei anni. E il problema è che nessun altro può rispondere a questa domanda in vece tua. Puoi solo scoprirlo da te.» Vent'anni dopo ripensando a quella conversazione apprezzo le parole del mio amico più di quanto abbia fatto allora. Perché sto arrivando a un'età in cui sono consapevole di ciò che mi dà soddisfazione, anche se forse sono più tollerante di quanto fosse il mio amico verso i compromessi sulle questioni marginali, e so che la soddisfazione non va cercata nelle luci della ribalta o negli applausi della folla. Mi sembra invece che derivi sempre più spesso dalle prove tangibili del fatto che sono riuscito ad aiutare la gente a vivere con un po'"di dignità. Penso a quello che Benjamin Franklin scrisse a sua madre, spiegando perché avesse dedicato tanto tempo al servizio del popolo: «Preferirei che si dicesse "Ha vissuto utilmente" piuttosto che "È morto ricco"».
Credo sia questo ciò che mi dà soddisfazione oggi: essere utile alla mia famiglia e alla gente che mi ha eletto, lasciando un'eredità che dia ai nostri bambini più speranza di quanta ne abbiamo avuta noi. Qualche volta, lavorando a Washington, sento che sto per raggiungere quell'obiettivo; altre volte sembra che questo si allontani da me, e che tutta l'attività in cui mi impegno - le sedute e i discorsi e le conferenze stampa e le prese di posizione ufficiali sia un esercizio di vanità, che non serve a nessuno.
Quando mi assale questo stato d'animo, mi piace fare una corsa lungo il Mail.
Di solito ci vado sul far della sera, in particolare d'estate e d'autunno, quando l'aria a Washington è tiepida e calma, e le foglie sugli alberi frusciano appena. Quando cala il buio, non c'è molta gente per le strade, qualche coppia che passeggia e i senzatetto sulle panchine che mettono in ordine i loro averi.
In genere mi fermo al monumento dedicato a Washington, ma qualche volta mi spingo oltre, al di là della strada verso il memoriale della Seconda guerra mondiale, poi lungo il Reflecting Pool verso il monumento ai veterani del Vietnam, poi salendo i gradini del Lincoln Memorial.
Di notte il grande sacrario è illuminato, ma spesso vuoto. In piedi tra le colonne di marmo, leggo il Discorso di Gettysburg e il secondo discorso d'insediamento. Guardo verso il Reflecting Pool, immaginando la folla zittita dal tono potente del dottor King; e poi, più oltre, l'obelisco illuminato a giorno e la lucente cupola del Campidoglio.
E in quel luogo penso all'America e a coloro che l'hanno costruita. I fondatori di questa nazione, che in qualche modo superarono grette ambizioni e calcoli meschini per immaginare un'unica grande nazione distesa da un capo all'altro di un continente. E a quelli come Lincoln e King, che alla fine persero la vita perché avesse l'opportunità di diventarla. E a tutti gli uomini e le donne, schiavi, soldati, sarti e macellai senza volto e senza nome, che hanno costruito la vita per sé e per i propri figli e nipoti, mattone su mattone, rotaia su rotaia, mano callosa su mano callosa, per allestire lo scenario dei nostri sogni collettivi.
È di questo processo che io voglio far parte.
Il mio cuore trabocca d'amore per questo Paese.