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Il mondo oltre i confini
L'Indonesia è una nazione di isole: in tutto più di diciassettemila, disseminate lungo l'equatore fra l'Oceano Indiano e il Pacifico, fra l'Australia e il Mar Cinese meridionale. La maggior parte degli indonesiani è di ceppo malese, e vive sulle isole maggiori di Giava, Sumatra, Kalimantan, Sulawesi e Bali. Nelle più orientali, come Ambon e la parte indonesiana della Nuova Guinea, la gente è per lo più di origine melanesiana. Il clima è tropicale, e le foreste pluviali un tempo brulicavano di specie esotiche come l'orangutan e la tigre di Sumatra.
Oggi queste foreste stanno rapidamente riducendosi, vittime del taglio indiscriminato, dell'attività mineraria e della coltivazione di riso, tè, caffè e palme da olio; privati del loro habitat naturale gli oranghi sono ora una specie in pericolo, e non più di qualche centinaio di tigri di Sumatra vive ancora allo stato selvatico.
La popolazione dell'Indonesia, oltre 240 milioni di abitanti, è la quarta al mondo, dopo quella di Cina, India e Stati Uniti. Entro le sue frontiere risiedono più di 700 gruppi etnici e vi si parlano oltre 742 lingue. Quasi il 90 per cento della popolazione pratica l'islamismo, rendendola la nazione musulmana più grande del mondo. È l'unico membro asiatico dell'oPEC, benché a causa delle infrastrutture obsolete, delle riserve esaurite e del forte consumo interno sia ora un'importatrice di greggio. La lingua nazionale è il Bahasa Indonesia, la capitale è Giacarta, la valuta è la rupia.
La maggior parte degli americani non è in grado di localizzarla su una carta geografica.
Per gli indonesiani questo fatto è sconcertante, perché negli ultimi sessantanni il destino della loro nazione è stato legato direttamente alla politica estera statunitense. Governato per gran parte della sua storia da una serie di sultanati e da regni che spesso si frantumavano, nel Seicento l'arcipelago divenne una colonia olandese - le Indie Orientali Olandesi -, status che sarebbe durato per oltre tre secoli. Nel corso degli eventi che portarono alla Seconda guerra mondiale, le vaste riserve di petrolio delle Indie Orientali Olandesi divennero un obiettivo primario dell'espansione giapponese: avendo fatto causa comune con le potenze dell'Asse, e di fronte a un embargo sul petrolio imposto dagli Stati Uniti, il Giappone aveva bisogno di carburante per le forze armate e per l'industria. Dopo l'attacco a Pearl Harbor, il Giappone si mosse rapidamente per conquistare la colonia olandese, occupazione che sarebbe continuata per tutta la durata della guerra.
Con la resa giapponese del 1945, un neonato movimento nazionalista indonesiano dichiarò l'indipendenza del Paese. Gli olandesi la pensavano diversamente, e tentarono di riprendersi il loro ex territorio. Ne seguirono quattro sanguinosi anni di guerra. Alla fine gli olandesi si inchinarono alla montante pressione internazionale (il governo statunitense, già preoccupato dal diffondersi del comunismo sotto la bandiera dell'anticolonialismo, minacciò i Paesi Bassi di tagliare i fondi del Piano Marshall) e riconobbero la sovranità dell'Indonesia.
Sukarno, il principale leader del movimento d'indipendenza, figura carismatica e roboante, divenne il primo presidente del Paese.
Per Washington, Sukarno si rivelò una grande delusione. Insieme con Nehru in India e a Nasser in Egitto, contribuì a fondare il movimento dei non- allineati: un tentativo da parte di nazioni appena liberate dal giogo coloniale di imboccare un cammino indipendente tra Occidente e blocco sovietico. Il partito comunista indonesiano, benché mai formalmente al potere, aumentò in dimensioni e influenza; Sukarno stesso alimentò la retorica antioccidentale, nazionalizzando industrie chiave, respingendo l'aiuto americano e rafforzando i legami con i sovietici e i cinesi. Con le forze armate statunitensi impegnate in Vietnam, e la teoria del domino ancora perno centrale della politica estera americana, la CIA cominciò a fornire appoggio occulto a varie sollevazioni all'interno dell'Indonesia, e coltivò stretti legami con gli ufficiali dell'esercito indonesiano, molti dei quali erano stati addestrati negli Stati Uniti. Nel 1965, sotto la guida del generale Suharto, i militari si mossero contro Sukarno e, assunti poteri straordinari, diedero inizio a una massiccia purga di comunisti e loro simpatizzanti. Secondo le stime, tra 500.000 e un milione di persone furono massacrate durante la purga, e altre 750.000 imprigionate o costrette all'esilio.
Fu nel 1967, due anni dopo l'inizio della purga e lo stesso anno in cui Suharto assunse la presidenza, che mia madre e io arrivammo a Giacarta a seguito del suo nuovo matrimonio con uno studente indonesiano incontrato all'Università delle Hawaii. All'epoca avevo sei anni, e mia madre ventiquattro. Più tardi mia madre avrebbe raccontato che se avesse saputo quanto era accaduto nei mesi precedenti non avrebbe mai fatto quel viaggio, ma ne era all'oscuro: ci volle del tempo prima che l'intera storia del colpo di Stato e della purga apparisse sulla stampa americana. Anche gli indonesiani non ne parlavano: il mio patrigno, cui era stato revocato il visto per motivi di studio mentre si trovava ancora alle Hawaii ed era stato arruolato nell'esercito indonesiano pochi mesi prima del nostro arrivo, rifiutò di parlare di politica con mia madre, ammonendola che certe cose era meglio dimenticarle.
E in effetti, in Indonesia era facile dimenticare il passato. A quei tempi Giacarta era ancora un posto sonnolento, con pochi edifici alti oltre i quattro o cinque piani, più risciò a pedali che automobili; il centro cittadino e i quartieri più ricchi - con la loro eleganza coloniale e i prati lussureggianti e ben tenuti - lasciavano presto luogo ad agglomerati di piccoli villaggi con strade non asfaltate e fogne a cielo aperto, mercati polverosi, baracche di fango, mattoni, compensato e lamiera, che si riversavano lungo le sponde digradanti sino a fiumi fangosi, dove le famiglie facevano il bagno e il bucato come pellegrini nel Gange.
In quei primi tempi la nostra famiglia non aveva molti mezzi; l'esercito indonesiano, infatti, non pagava granché i suoi tenenti. Vivevamo in una casa modesta alla periferia della città, senza aria condizionata, refrigerazione o acqua corrente in bagno. Non possedevamo un'automobile: il mio patrigno usava una motocicletta, mentre mia madre utilizzava ogni mattina il locale servizio di minibus per andare all'ambasciata statunitense, dove lavorava come insegnante d'inglese. Senza il denaro per l'iscrizione alla scuola internazionale frequentata dalla maggior parte dei bambini stranieri, andavo alle scuole locali e scorrazzavo per le strade con i figli di contadini, domestici, sarti e impiegati.
Data la mia età, avevo circa sette- otto anni, nulla di tutto ciò mi preoccupava molto. Ricordo quegli anni come un periodo gioioso, pieno di avventura e mistero: giorni passati a dar la caccia ai polli e a scappare dai bufali d'acqua, sere animate dal teatro delle ombre e storie di fantasmi, e venditori ambulanti che portavano alla nostra porta dolci deliziosi. Di fatto, sapevo che rispetto ai nostri vicini ce la cavavamo bene: a differenza di molti avevamo sempre abbastanza da mangiare.
E forse più ancora capivo, perfino a quella tenera età, che lo status della mia famiglia era determinato non solo dalla nostra agiatezza, ma dai nostri legami con l'Occidente. Mia madre poteva non vedere di buon occhio gli atteggiamenti che notava in altri americani a Giacarta, la loro condiscendenza verso gli indonesiani, la loro riluttanza a imparare alcunché sul Paese che li ospitava; ma considerato il cambio, era felice di essere pagata in dollari invece che in rupie come i suoi colleghi indonesiani all'ambasciata. Vivevamo sì come i locali, ma ogni tanto mia madre mi portava all'American Club, dove potevo tuffarmi in piscina, guardare i cartoni animati, e sorseggiare Coca- Cola a sazietà. A volte, quando i miei amici indonesiani venivano a casa mia, mostravo loro i libri di fotografie su Disneyland o l'Empire State Building che la nonna mi aveva mandato; a volte sfogliavamo il catalogo dei grandi magazzini Sears Roebuck, e ci meravigliavamo dei tesori illustrati. Tutto questo, sapevo, faceva parte del mio retaggio, e mi distingueva da loro perché mia madre e io eravamo cittadini degli Stati Uniti, beneficiari del loro potere, tranquilli e sicuri sotto la loro protezione.
Era difficile non rendersi conto della portata di quel potere: l'esercito statunitense svolgeva esercitazioni con quello indonesiano, e programmi di addestramento per i suoi ufficiali; il preidente Suharto si rivolgeva a un gruppo di economisti americani per tracciare piani di sviluppo per l'Indonesia basati su principi di libero mercato e su investimenti stranieri; i consulenti americani per lo sviluppo formavano una coda ininterrotta all'esterno dei ministeri, aiutando a coordinare il massiccio afflusso di assistenza straniera da parte dell'Agenzia americana per lo sviluppo internazionale e della Banca mondiale; e benché la corruzione permeasse il governo a ogni livello - perfino il minimo rapporto con un poliziotto o con un funzionario comportava una bustarella, e praticamente ogni bene di consumo o prodotto che entrava o usciva dal Paese, dal petrolio al grano alle automobili, passava attraverso compagnie controllate dal presidente, dalla sua famiglia o da membri della giunta al potere - una quota sufficiente della ricchezza proveniente dal petrolio e dagli aiuti stranieri era reinvestita in scuole, strade e altre infrastrutture, cosicché la popolazione locale vide migliorare enormemente il proprio tenore di vita. Tra il 1967 e il 1997 il reddito prò capite sarebbe salito da 50 a 4600 dollari all'anno. Dal punto di vista degli Stati Uniti, l'Indonesia era diventata un modello di stabilità, un affidabile fornitore di materie prime e importatore di merci occidentali, un solido alleato e un bastione contro il comunismo.
Sarei rimasto in Indonesia abbastanza a lungo da riuscire a vedere con i miei occhi parte di questa nuova prosperità. Congedato dall'esercito, il mio patrigno cominciò a lavorare per una compagnia petrolifera americana, traslocammo in una casa più grande, e prendemmo un'auto e un autista, un frigorifero e un televisore. Nel 1971, però, mia madre - preoccupata per la mia istruzione, e forse presagendo un crescente distacco dal marito - mi mandò a vivere con i nonni alle Hawaii. Un anno dopo mi avrebbe raggiunto con mia sorella. I legami di mia madre con l'Indonesia non si sarebbero mai allentati: per i successivi vent'anni avrebbe viaggiato avanti e indietro, lavorando per organismi internazionali per sei o dodici mesi alla volta, come specialista nel miglioramento della condizione femminile, tracciando programmi per aiutare le donne dei villaggi a impiantare un'attività in proprio o a vendere i propri prodotti sul mercato. Durante gli anni dell'adolescenza tornai in Indonesia tre o quattro volte per brevi visite, ma la mia vita e la mia attenzione poco per volta si rivolsero altrove.
Ciò che conosco della successiva storia indonesiana, quindi, l'ho appreso soprattutto attraverso libri, giornali e le storie riferitemi da mia madre. Per venticinque anni, l'economia del Paese continuò a crescere seppure in modo irregolare: Giacarta divenne una metropoli di quasi 9 milioni di anime, con grattacieli, quartieri fatiscenti, smog e traffico da incubo. Uomini e donne lasciarono le campagne per ingrossare i ranghi del lavoro salariato negli impianti manifatturieri costruiti con gli investimenti stranieri, producendo scarpe da ginnastica per la Nike e magliette per la Gap. Bali divenne una località turistica prediletta dagli amanti del surf e dalle rockstar, con hotel a cinque stelle, collegamenti internet e fast- food. All'inizio degli anni Novanta l'Indonesia era considerata una «tigre asiatica», un Paese destinato a un grande successo in un mondo in via di globalizzazione.
Perfino gli aspetti più oscuri della vita indonesiana - la sua politica e l'atteggiamento nei confronti dei diritti umani - mostravano segni di miglioramento. In fatto di pura e semplice brutalità, dopo il 1967 il regime di Suharto non raggiunse mai i livelli dell'Iraq sotto Saddam Hussein; secondo i suoi modi placidi e sommessi, il presidente indonesiano non avrebbe mai attirato l'attenzione come personaggi quali Pinochet o lo Scià di Persia, che amavano esibire il proprio potere. Sotto tutti gli aspetti, però, il governo di Suharto era fortemente repressivo: arresti e tortura dei dissidenti erano comuni, la libertà di stampa inesistente, le elezioni una pura formalità. Quando in zone come Aceh sorsero movimenti indipendentisti su base etnica, la rappresaglia fu immediata; l'esercito non prese di mira solo i guerriglieri, ma anche i civili: assassinii, stupri, villaggi incendiati. E durante tutti gli anni Settanta e Ottanta tutto ciò avvenne con la connivenza, se non la piena approvazione, delle amministrazioni statunitensi.
Con la fine della Guerra fredda, però, la posizione di Washington cominciò a cambiare: il dipartimento di Stato cominciò a esercitare pressioni perché l'Indonesia mettesse un freno alla violazione dei diritti umani. Nel 1992, dopo che reparti dell'esercito indonesiano massacrarono dimostranti pacifici a Dili, a Timor Est, il Congresso mise fine agli aiuti militari al governo di Giacarta.
Nel 1996 i riformisti indonesiani avevano già cominciato a scendere in strada parlando apertamente di corruzione nelle alte sfere governative, degli eccessi dell'esercito e della necessità di elezioni libere e corrette.
Poi, nel 1997, la situazione precipitò. Una corsa alle valute e ai titoli in tutta l'Asia inghiottì l'economia indonesiana già compromessa da decenni di corruzione; il valore della rupia scese dell'85 per cento in pochi mesi; le società indonesiane che avevano ricevuto prestiti in dollari videro crollare i bilanci; in cambio di un'operazione di salvataggio di 43 miliardi, il Fondo monetario internazionale dominato dall'Occidente insistette perché fosse adottata una serie di misure di austerità (tagliare i sussidi governativi, aumentare i tassi d'interesse) che avrebbero provocato quasi il raddoppio del prezzo di beni primari come il riso e il cherosene. Quando finalmente la crisi finì, l'economia dell'Indonesia aveva subito una contrazione di quasi il 14 per cento, sommosse e dimostrazioni divennero tanto gravi che infine Suharto fu costretto a dimettersi, e nel 1998 si tennero le prime elezioni libere del Paese, in cui circa quarantotto partiti erano in lizza per i seggi e andarono a votare quasi 93 milioni di persone.
Almeno all'apparenza l'Indonesia è sopravvissuta al doppio shock del tracollo finanziario e della democratizzazione: il mercato azionario è in forte espansione e una seconda elezione nazionale si è tenuta senza incidenti di rilievo portando a un pacifico trasferimento di potere. Sebbene la corruzione resti endemica e l'esercito rimanga una forza potente, vi è stato un proliferare di giornali e partiti politici indipendenti che incanalano lo scontento.
D'altro canto la democrazia non ha portato con sé un ritorno alla prosperità.
Il reddito prò capite è quasi del 22 per cento inferiore a quello del 1997; il divario tra ricchi e poveri, sempre abissale, sembra essere peggiorato; il senso di deprivazione dell'indonesiano medio è amplificato da internet e dalla televisione satellitare che trasmettono nei minimi dettagli immagini delle irraggiungibili ricchezze di Londra, New York, Hong Kong e Parigi; e il sentimento antiamericano, quasi inesistente negli anni di Suharto, è oggi diffuso, in parte a causa della sensazione che gli speculatori di New York e il FMI abbiano scatenato di proposito la crisi finanziaria asiatica. Secondo un sondaggio del 2003, la maggior parte degli indonesiani aveva un'opinione migliore di Osama bin Laden che di George W. Bush.
Tutto ciò evidenzia quello che è forse il più profondo cambiamento dell'Indonesia: la crescita nel Paese di un Islam militante e fondamentalista.
Gli indonesiani praticavano tradizionalmente una versione tollerante di questa religione, quasi sincretica, impregnata delle tradizioni buddiste, induiste e animiste risalenti a periodi più antichi. Sotto l'occhio vigile di un governo Suharto dichiaratamente secolare, l'alcol era permesso, i non musulmani praticavano la propria religione liberi da persecuzioni, e le donne - che andando al lavoro in autobus o in scooter sfoggiavano gonne o sarong - godevano di tutti i diritti degli uomini. Oggi i partiti islamici costituiscono uno dei più grossi schieramenti politici, e molti invocano l'imposizione della sharia, la legge islamica. Le campagne sono ora costellate da scuole, moschee e religiosi wahabiti finanziati da fondi provenienti dal Medio Oriente; molte indonesiane hanno adottato la consuetudine del chador così comune nei Paesi musulmani del Nordafrica e del Golfo Persico; i militanti islamici e la sedicente «buoncostume» hanno attaccato chiese, locali notturni, casinò e bordelli. Nel 2002 un'esplosione avvenuta in una discoteca di Bali provocò la morte di oltre duecento persone; analoghi attentati suicidi seguirono a Giacarta nel 2004 e a Bali nel 2005. Per questi episodi vennero processati alcuni membri della Jamaah Islamiah, un'organizzazione militante islamica legata ad al- Qaida: mentre tre degli accusati furono condannati alla pena capitale, Abu Bakar Bashir, leader spirituale del gruppo, venne rilasciato dopo una detenzione di ventisei mesi.
L'ultima volta che visitai Bali abitavo proprio su una spiaggia a poche miglia dal luogo di questi attentati. Quando penso a quell'isola e a tutta l'Indonesia sono sommerso dai ricordi: la sensazione del fango pigiato sotto i piedi nudi mentre vagabondo per le risaie, il sorgere del sole dietro le cime dei vulcani, il richiamo del muezzin la sera e il profumo del fumo di legna, il mercanteggiare ai banchi di frutta lungo la strada, il suono frenetico di un'orchestra gamelan, i volti dei musicisti illuminati dal fuoco. Mi piacerebbe portarvi Michelle e le bambine per condividere questo pezzo della mia vita, scalare le millenarie rovine indù di Prambanan o nuotare in un fiume tra le colline balinesi.
Ma i miei progetti per un viaggio del genere continuano a essere rinviati: sono cronicamente impegnato, e viaggiare con i bambini piccoli è sempre difficile; inoltre, sono forse preoccupato per quello che troverei: che la terra della mia fanciullezza possa non corrispondere più ai miei ricordi. Per quanto il mondo oggi sia più piccolo grazie ai voli diretti, ai telefoni cellulari, alla CNN e agli internet café, l'Indonesia mi sembra più distante di quanto non lo apparisse trent'anni fa.
Temo che stia diventando una terra di stranieri.
Nel campo degli affari internazionali è pericoloso generalizzare a partire dalle esperienze di un solo Paese: per storia, geografìa, cultura e conflitti, ogni nazione è unica. E tuttavia, per molti aspetti l'Indonesia costituisce un'utile metafora del mondo oltre i nostri confini: un mondo in cui globalizzazione e fanatismo, povertà e opulenza, antico e moderno entrano in collisione.
L'Indonesia fornisce anche un efficace campionario della politica estera statunitense degli ultimi cinquant'anni. Almeno a grandi linee, la riassume tutta: il nostro ruolo nella liberazione di ex colonie e nella creazione di istituzioni internazionali per cercare di mantenere l'ordine dopo la Seconda guerra mondiale; la tendenza a giudicare nazioni e conflitti attraverso il prisma della Guerra fredda; l'instancabile impegno nel promuovere un capitalismo di tipo americano e nell’ aprire la strada alle multinazionali; il tollerare e a volte incoraggiare tirannia, corruzione e degrado ambientale quando utili ai nostri interessi; l'ottimismo sul fatto che, una volta finita la Guerra fredda, i Big Mac e internet avrebbero messo fine a conflitti storici; la crescita del potere economico dell'Asia e del risentimento verso gli Stati Uniti in quanto unica superpotenza mondiale; l'accorgersi che, almeno a breve termine, la democratizzazione può portare a galla, invece che alleviare, odi etnici e discordie religiose; e che le meraviglie della globalizzazione possono anche favorire l'instabilità economica, la diffusione di pandemie e il terrorismo.
In altre parole, è un campionario eterogeneo, non solo per l'Indonesia, ma per tutto il globo. A volte, la politica estera americana è stata lungimirante, al servizio dei nostri interessi nazionali, dei nostri ideali, e al tempo stesso degli interessi di altre nazioni. Altre volte, le politiche americane sono state maldestre, basate su falsi presupposti che ignoravano le legittime aspirazioni di altri popoli, minavano la nostra credibilità e portavano a un mondo più pericoloso.
Questa ambivalenza non dovrebbe meravigliare, poiché la politica estera americana è sempre stata un guazzabuglio di tendenze in stridente contrasto. Nei primi tempi della Repubblica, prevalse spesso una politica di isolazionismo, di diffidenza nei confronti degli intrighi internazionali, coerente con una nazione appena uscita da una guerra di indipendenza. Nel suo famoso discorso di addio, Washington chiedeva: «Perché lasciare che la nostra pace e la nostra prosperità restino invischiate nelle trame delle ambizioni, delle rivalità, degli interessi, degli umori e dei capricci altrui, intrecciando le nostre sorti con quelle di un qualsiasi Paese europeo?». L'opinione di Washington era rafforzata da quella che definiva la «posizione distaccata e distante» dell'America, una separazione geografica che avrebbe permesso alla nuova nazione di «sfuggire ai danni materiali derivanti da molestie esterne».
Inoltre, nonostante le origini rivoluzionarie dell'America e la sua forma di governo repubblicana potessero spingerla a simpatizzare con chi altrove anelava alla libertà, i suoi primi politici misero in guardia contro tentativi idealistici di esportare il modo di vivere americano. Secondo John Quincy Adams, l'America non avrebbe dovuto andare «all'estero in cerca di mostri da distruggere» né «diventare la dittatrice del mondo». La Provvidenza aveva affidato all'America il compito di creare un nuovo mondo, non di riformare quello vecchio. Protetta dall'oceano e con il dono di un intero continente, poteva servire meglio la causa della libertà concentrandosi sul proprio sviluppo, trasformandosi in un raggio di speranza per altre nazioni e altri popoli.
Ma se il sospetto nei confronti delle interferenze straniere è impresso nel nostro DNA, lo è anche l'impulso a espanderci: in termini geografici, commerciali e ideologici. Già Thomas Jefferson mostrò l'inevitabilità di un'espansione oltre i confini dei tredici Stati originari, e la sua tabella di marcia per questa espansione venne fortemente accelerata dall'acquisto della Louisiana e dalla spedizione di Lewis e Clark. Lo stesso John Quincy Adams, che aveva messo in guardia contro l'avventurismo statunitense all'estero, divenne un instancabile paladino dell'espansione continentale, e fu il principale artefice della Dottrina Monroe: un ammonimento alle potenze europee perché si tenessero alla larga dall'emisfero occidentale. Mentre soldati e coloni americani si spostavano di continuo verso ovest e sudovest, successive amministrazioni definirono l'annessione di territorio in termini di «destino manifesto»: la convinzione che questa espansione fosse predeterminata, parte del disegno divino di estendere quanto Andrew Jackson definiva «l'area di libertà attraverso il continente».
Naturalmente «destino manifesto» significava anche conquista sanguinosa e violenta, contro tribù di nativi americani strappate a forza dalle loro terre e contro l'esercito messicano che difendeva il proprio territorio. Fu una conquista che, al pari della schiavitù, contraddiceva i princìpi fondanti dell'America e tendeva a essere giustificata con termini esplicitamente razzisti, una conquista che la mitologia americana ha sempre avuto difficoltà ad assimilare nella sua interezza, ma che gli altri Paesi riconobbero per ciò che era: un brutale esercizio di potere.
Con la fine della Guerra civile e il consolidamento di quella che ora è la parte continentale degli Stati Uniti, quel potere si dimostrò innegabile. Decisa a espandere i mercati per le merci, ad assicurarsi materie prime per l'industria e a tenere aperte rotte marittime per il commercio, la nazione rivolse la propria attenzione oltreoceano. Furono annesse le Hawaii, garantendo così una testa di ponte nel Pacifico, e la guerra ispano- americana consegnò al controllo statunitense Portorico, Guam e le Filippine. Quando alcuni membri del Senato alzarono alcune obiezioni all'occupazione militare di un arcipelago distante 7000 miglia - occupazione che avrebbe impegnato migliaia di soldati americani nella repressione di un movimento d'indipendenza filippino -un senatore sostenne che questa acquisizione avrebbe offerto agli Stati Uniti l'accesso al mercato cinese e significato «un vasto commercio, ricchezza e potere». L'America non avrebbe mai perseguito la colonizzazione sistematica praticata dalle nazioni europee, ma accantonò qualsiasi scrupolo nell'intromettersi negli affari di Paesi che considerava importanti dal punto di vista strategico. Theodore Roosevelt, per esempio, aggiunse un corollario alla dottrina Monroe, dichiarando che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in qualsiasi Paese latinoamericano o caraibico il cui governo giudicassero sgradito: «Gli Stati Uniti non hanno la possibilità di scegliere se recitare o meno una parte importante nel mondo» avrebbe affermato «devono farlo. Possono solo decidere se recitarla bene o male».
Poi, all'inizio del Novecento, le motivazioni che guidavano la politica estera americana diventarono a stento distinguibili da quelle delle altre grandi potenze, ispirate alla Realpolitik e a interessi commerciali. In gran parte della popolazione il sentimento isolazionista restava forte, in particolare quando si trattava di conflitti in Europa e quando non sembravano direttamente in gioco interessi vitali degli Stati Uniti. Ma la tecnologia e il commercio stavano restringendo il globo: divenne sempre più difficile decidere quali interessi fossero vitali e quali no. Durante la Prima guerra mondiale, Woodrow Wilson evitò il coinvolgimento americano, finché i ripetuti affondamenti di navi americane da parte di U- Boot tedeschi e l'imminente collasso del continente europeo resero insostenibile la neutralità. Quando la guerra finì, l'America ne emerse come la potenza dominante del mondo: ma una potenza, come Wilson comprese, la cui prosperità era legata alla pace e alla prosperità in terre lontane.
Nel tentativo di affrontare questa nuova realtà, Wilson cercò di reinterpretare il concetto di «destino manifesto» dell'America; affermò che rendere «il mondo sicuro per la democrazia» non significava soltanto vincere una guerra, perché era nell'interesse dell'America incoraggiare l'autodeterminazione di tutti i popoli e fornire al mondo un organismo che potesse contribuire a evitare futuri conflitti. Come parte del Trattato di Versailles, che stabiliva i termini della resa tedesca, Wilson propose la creazione di una Società delle Nazioni per mediare i conflitti tra Stati, nonché di una Corte di giustizia e di un corpus di leggi internazionali che avrebbero vincolato non solo i deboli ma anche i forti. «Questo è il momento fra tutti in cui la democrazia deve dimostrare la propria purezza e il proprio potere spirituale di prevalere» dichiarò.
È sicuramente destino manifesto degli Stati Uniti guidare il tentativo di far prevalere questo spirito.» All'inizio le proposte di Wilson furono accolte con entusiasmo negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Il Senato statunitense, tuttavia, ne fu meno impressionato: il senatore repubblicano Henry Cabot Lodge considerava la Società delle Nazioni - e il concetto stesso di legge internazionale - una violazione della sovranità americana, uno sciocco impedimento alla possibilità dell'America di imporre il proprio volere in tutto il mondo. Grazie all'aiuto degli isolazionisti tradizionali di entrambi i partiti (molti dei quali si erano opposti alla partecipazione del Paese alla Prima guerra mondiale), nonché all'ostinata riluttanza di Wilson al compromesso, il Senato rifiutò di ratificare l'adesione degli Stati Uniti al nuovo organismo internazionale.
Per i successivi vent'anni l'America si concentrò risolutamente su di sé: ridimensionando esercito e marina, rifiutandosi di far parte della Cotte di giustizia mondiale, tollerando pigramente che Italia, Giappone e Germania nazista costruissero le loro macchine belliche. Il Senato divenne un focolaio di isolazionismo, approvando una legge sulla neutralità che impediva agli Stati Uniti di prestare assistenza ai Paesi invasi dalle potenze dell'Asse, e ignorando ripetutamente gli appelli del presidente, mentre le armate hitleriane marciavano attraverso l'Europa. L'America non si sarebbe resa conto del proprio terribile errore fino al bombardamento di Pearl Harbor. «Nessuna nazione - o nessun individuo - può considerarsi al sicuro in un mondo governato dai princìpi del banditismo,» avrebbe detto Franklin Delano Roosevelt nel suo discorso alla nazione dopo l'attacco «non possiamo più misurare la nostra sicurezza in termini di miglia su una carta geografica.» Nel periodo che seguì la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avrebbero avuto la possibilità di mettere in pratica queste lezioni nella propria politica estera. Con l'Europa e il Giappone ridotti in macerie, l'Unione Sovietica completamente dissanguata dalle battaglie sul fronte orientale, ma che già manifestava l'intenzione di diffondere il più possibile il proprio modello di comunismo totalitario, l'America si trovava di fronte a una scelta: a destra c'era chi affermava che solo una politica estera unilaterale e un'immediata invasione dell'Unione Sovietica potevano bloccare sul nascere la minaccia comunista e, nonostante un isolazionismo simile a quello che aveva prevalso negli anni Trenta fosse ora del tutto screditato, a sinistra c'era chi minimizzava l'aggressività sovietica sostenendo che, date le perdite subite e il ruolo critico di questo Paese nella vittoria alleata, bisognava scendere a patti con Stalin.
L'America non scelse nessuna delle due alternative. Invece, dopo la guerra il gruppo formato dal presidente Truman, da Dean Acheson, George Marshall e George Kennan forgiò l'ossatura di un nuovo ordine postbellico che sposava l'idealismo di Wilson a un realismo pragmatico, con il riconoscimento della incapacità americana di controllare gli eventi mondiali. Questi uomini sostenevano che, essendo il mondo un posto pericoloso e la minaccia sovietica reale, l'America doveva conservare la propria superiorità militare, ed essere pronta a usare la forza per difendere i propri interessi in tutto il globo. Ma perfino il potere degli Stati Uniti era limitato; e poiché la battaglia contro il comunismo era anche una battaglia di idee, un banco di prova per verificare quale sistema potesse meglio servire le speranze e i sogni di miliardi di persone in tutto il mondo, l'azione militare da sola non poteva assicurare all'America prosperità o sicurezza durature.
L'America aveva quindi bisogno di solidi alleati che ne condividessero gli ideali di libertà, di democrazia e di governo della legge, e fossero interessati a far parte di un sistema economico basato sul mercato. Queste alleanze, sia militari sia economiche, cui si aderiva liberamente e in cui si restava per mutuo consenso, sarebbero state più durature - e avrebbero provocato meno risentimento - di qualsiasi compagine di Stati vassalli che l'imperialismo americano potesse assicurarsi. Analogamente era nell'interesse dell'America lavorare con altri Paesi per dar vita a istituzioni e norme internazionali: non sull'ingenuo presupposto che sarebbero stati sufficienti leggi e trattati internazionali per mettere fine ai conflitti tra nazioni o eliminare la necessità di un intervento militare americano, ma perché più le norme internazionali venivano rafforzate e l'America si dimostrava disposta a esercitare con moderazione il proprio potere, minore sarebbe stato il numero di conflitti che sarebbero sorti; e più legittime sarebbero apparse agli occhi del mondo le sue azioni quando fosse stata costretta a fare uso delle armi.
In meno di un decennio era sorta l'infrastruttura di un nuovo ordine mondiale.
C'era una politica statunitense di contenimento dell'espansione comunista, appoggiata non solo da truppe americane ma anche dagli accordi di sicurezza con la NATO e il Giappone; il Piano Marshall per ricostruire le economie devastate dalla guerra; i Patti di Bretton Woods per fornire stabilità ai mercati finanziari mondiali, e l'accordo generale sulle tariffe e il commercio (il GATT) per stabilire regole che governassero gli scambi mondiali; l'appoggio statunitense all'indipendenza delle ex colonie europee; il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale per favorire l'integrazione nell'economia mondiale di questi Paesi da poco indipendenti; e le Nazioni Unite per offrire un luogo in cui discutere i problemi della sicurezza collettiva e della cooperazione internazionale.
Sessant'anni dopo è possibile vedere i risultati di questo massiccio impegno postbellico: la positiva conclusione della Guerra fredda, lo scampato pericolo di una catastrofe nucleare, la fine dei conflitti tra le grandi potenze militari mondiali e un'era di crescita economica senza precedenti all'interno e all'estero.
È stata un'impresa notevole, forse il dono più prezioso, dopo la vittoria sul fascismo, che ci sia stato fatto dalla generazione che ha combattuto la Seconda guerra mondiale. Ma come qualsiasi sistema costruito dall'uomo, aveva le sue pecche e contraddizioni: poteva cadere vittima delle manipolazioni dei politici, dei peccati di hybris, degli effetti corruttori della paura. La gravità della minaccia sovietica e il trauma provocato dalla presa di potere dei comunisti in Cina e Corea del Nord spinsero i politici americani a guardare attraverso le lenti della Guerra fredda i movimenti nazionalisti, le lotte etniche, i tentativi di riforma o le politiche tendenzialmente di sinistra in qualunque zona del mondo, considerandoli pericoli potenziali perché avrebbero potuto pesare più dell'impegno professato dall'America nei confronti della libertà e della democrazia. Per decenni si sarebbero tollerati e perfino aiutati ladri come Mobutu e criminali come Noriega, purché si opponessero al comunismo; e di tanto in tanto operazioni segrete statunitensi avrebbero organizzato la caduta di leader democraticamente eletti in Paesi come l'Iran, con ripercussioni catastrofiche che ci perseguitano ancor oggi.
La politica americana di contenimento implicava anche un'enorme organizzazione militare che eguagliò e poi superò gli arsenali sovietici e cinesi. Col tempo il «triangolo di ferro», formato da Pentagono, fornitori delle forze armate e membri del Congresso i cui distretti ricevevano grosse commesse da parte della Difesa, acquisì grande potere nel determinare la politica estera americana, e nonostante la minaccia di guerra nucleare precludesse un confronto militare diretto con le superpotenze rivali, i politici statunitensi considerarono sempre più spesso i problemi nel resto del mondo con un'ottica militare piuttosto che diplomatica.
Peggio ancora, col tempo il sistema impostato dopo la guerra cominciò a soffrire per troppa politica, e valutazione dei problemi e costruzione del consenso interno insufficienti. Uno dei punti di forza dell'America nel primo periodo postbellico era un alto grado di consenso popolare sui temi di politica estera. Avrebbero potuto esserci feroci dissensi tra repubblicani e democratici, ma di solito la politica non andava oltre: ci si aspettava che a prendere le decisioni fossero i professionisti - della Casa Bianca, del Pentagono, del dipartimento di Stato o della CIA - basandosi sui fatti e su un giudizio ponderato, non su motivi ideologici o elettorali. Inoltre, questo consenso era esteso a gran parte dell'opinione pubblica: programmi come il Piano Marshall, che implicavano un massiccio investimento di fondi statunitensi, non avrebbero potuto continuare senza la sostanziale fiducia del popolo americano nel proprio governo, e senza la speculare certezza dei funzionari governativi che fosse possibile confidare al popolo americano i fatti in base ai quali si decideva come spendere i soldi delle tasse o di mandarne i figli in guerra.
Col perdurare della Guerra fredda, gli elementi chiave di questo consenso cominciarono a venir meno. I politici scoprirono che potevano guadagnare voti dimostrandosi più anticomunisti dei loro avversari. I democratici furono attaccati per aver «perso la Cina»; il maccartismo distrusse carriere e soffocò il dissenso; Kennedy avrebbe imputato ai repubblicani un «divario missilistico» inesistente cercando di sconfìggere Nixon, che a sua volta aveva fatto carriera accusando di comunismo i suoi avversari; i presidenti Eisenhower, Kennedy e Johnson si sarebbero lasciati obnubilare dal timore di essere etichettati come «morbidi verso il comunismo»; le tecniche di segretezza, spionaggio e disinformazione della Guerra fredda usate contro governi e popolazioni straniere divennero strumenti di politica interna, un mezzo per neutralizzare i critici, costruire sostegno per politiche discutibili o coprire errori grossolani. Quegli stessi ideali che si era promesso di esportare oltreoceano venivano traditi in patria.
Tutte queste situazioni arrivarono al punto critico con il Vietnam. Le conseguenze disastrose di quel conflitto - per la credibilità e il prestigio americani all'estero, per le forze armate (cui ci sarebbe voluta una generazione per riprendersi) e soprattutto per chi combatté - sono state ampiamente documentate. Ma forse la più grave perdita conseguente a quella guerra fu la fine del rapporto di fiducia tra il popolo americano e il governo, e tra gli americani stessi. Grazie a una stampa più aggressiva e ai telegiornali che riversavano nei salotti le immagini dei cadaveri chiusi nei sacchi, gli americani cominciarono a rendersi conto che gli eminenti personaggi di Washington non sempre sapevano ciò che facevano e non sempre dicevano la verità.
Sempre più spesso, a sinistra molti esprimevano la propria opposizione non solo alla guerra del Vietnam ma anche agli obiettivi della politica estera americana in genere: secondo loro il presidente Johnson, il generale Westmoreland, la CIA, il «complesso militare- industriale» e istituzioni internazionali come la Banca mondiale erano manifestazioni dell'arroganza, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, del capitalismo e dell'imperialismo americani. A destra rispondevano per le rime, attribuendo a chi criticava gli Stati Uniti la responsabilità, oltre che della perdita del Vietnam, anche del declino del prestigio americano nel mondo»: i manifestanti, gli hippies, Jane Fonda, gli intellettuali dell'Ivy League e i media liberal che denigravano il patriottismo, abbracciavano una visione relativistica del mondo e minavano la fermezza americana nell'affrontare il comunismo ateo.
Certamente queste erano posizioni caricaturali, incoraggiate dagli attivisti e dai consulenti politici. In realtà molti americani rimanevano più o meno nel mezzo, appoggiando ancora i tentativi dell'America di sconfiggere il comunismo, ma restando scettici sulle politiche statunitensi che potessero comportare un gran numero di caduti americani. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, si potevano trovare falchi democratici e colombe repubblicane; al Congresso c'erano uomini come Mark Hatfield, senatore repubblicano dell'Oregon, e Sam Nunn, senatore democratico della Georgia, che cercavano di perpetuare la tradizione di una politica estera bipartisan. Ma erano le figure caricaturali a plasmare le opinioni del pubblico in periodo elettorale, dato che i repubblicani sempre più spesso accusavano i democratici di debolezza sulla difesa, e quanti sospettavano azioni militari e segrete all'estero, sempre di più facevano del partito democratico la propria casa politica.
Fu in questo scenario - un'epoca di divisioni piuttosto che di consenso - che la maggior parte degli americani oggi adulti si formò le proprie idee sulla politica estera. Furono gli anni di Nixon e Kissinger, la cui politica estera fu tatticamente brillante ma oscurata da quella interna e da una campagna di bombardamenti sulla Cambogia fondamentalmente immorali; furono gli anni di Jimmy Carter, un democratico che - col suo porre l'accento sui diritti umani sembrava preparato, come un tempo, a conciliare le questioni morali con la necessità di una difesa energica; sinché gli shock petroliferi, l'umiliazione causata dalla crisi degli ostaggi in Iran e l'invasione sovietica dell'Afghanistan lo fecero apparire ingenuo e incapace.
Forse il più impressionante di tutti fu Ronald Reagan, la cui lucidità sul comunismo sembrava pari alla sua cecità su altre fonti di sofferenza nel mondo.
Sono diventato maggiorenne sotto la sua presidenza - durante la quale studiai Affari internazionali alla Columbia, e in seguito lavorai come coordinatore per un gruppo di chiese a Chicago - e come molti democratici di quel tempo lamentavo gli effetti della politica di Reagan sul Terzo mondo: l'appoggio della sua amministrazione al regime di apartheid in Sudafrica, il finanziamento degli squadroni della morte a El Salvador, l'invasione della minuscola e sfortunata Grenada. Più studiavo la politica degli armamenti nucleari, più trovavo mal concepite le «guerre stellari»; l'abisso tra l'altisonante retorica di Reagan e lo squallido affare Iran- Contras mi lasciò senza parole.
A volte però, in discussioni con alcuni amici di sinistra, mi trovavo nella strana posizione di difendere qualche aspetto della visione reaganiana del mondo. Per esempio, non capivo perché i progressisti dovessero essere preoccupati più della brutalità in Cile che dell'oppressione al di là della Cortina di ferro; non riuscivo a convincermi che le multinazionali statunitensi e gli accordi commerciali internazionali fossero da soli responsabili della povertà mondiale. Nessuno infatti costringeva i leader corrotti dei Paesi del Terzo mondo a rubare al loro popolo. Potevo discutere le dimensioni della macchina militare di Reagan ma, data l'invasione sovietica dell'Afghanistan, sembrava sensato restare militarmente un passo avanti ai sovietici. Orgoglio per il nostro Paese, rispetto per le nostre forze armate, equilibrata valutazione dei pericoli al di là delle nostre frontiere, convinzione che non esistesse una facile equivalenza tra Est e Ovest: in tutto ciò non avevo motivi per dissentire da Reagan. E quando crollò il Muro di Berlino dovetti riconoscergli qualche merito, anche se non gli diedi mai il mio voto.
Molte persone, invece - compresi numerosi democratici -glielo diedero, consentendo ai repubblicani di affermare che la sua presidenza aveva ripristinato il consenso nei confronti della politica estera americana.
Naturalmente quel consenso non fu mai verificato sul serio: la guerra di Reagan contro il comunismo non fu condotta con lo spiegamento di truppe americane, ma soprattutto per procura e a prezzo di disavanzi nella spesa pubblica. Sta di fatto che la fine della Guerra fredda fece apparire la formula di Reagan poco adatta a un nuovo ordine mondiale. Il ritorno di George H. W. Bush a una più tradizionale politica estera «realista» avrebbe avuto come risultato una gestione decisa della situazione seguita alla dissoluzione dell'Unione Sovietica e un'abile conduzione della Prima guerra del Golfo; ma dato che l'attenzione dell'opinione pubblica americana era concentrata sull'economia interna, la sua abilità nel costruire coalizioni internazionali o nel dare saggiamente una buona immagine della potenza americana non contribuirono affatto a salvare la sua presidenza.
All'epoca dell'insediamento di Bill Clinton, il comune buonsenso suggeriva che la politica estera americana post Guerra fredda avrebbe avuto a che fare più con il commercio che con i carri armati, tutelando i brevetti americani piuttosto che le vite americane. Clinton stesso comprese che la globalizzazione non implicava soltanto nuove sfide economiche, ma anche nuove sfide riguardo la sicurezza; oltre a favorire il libero scambio e rafforzare il sistema finanziario internazionale, la sua amministrazione avrebbe lavorato per porre fine a conflitti che da lungo tempo travagliavano i Balcani e l'Irlanda del Nord, e per promuovere la democratizzazione in Europa dell'Est, America Latina, Africa ed ex Unione Sovietica. Ma, almeno agli occhi del pubblico, negli anni Novanta la politica estera mancava di un tema dominante o di grandiosi imperativi; l'azione militare americana, in particolare, sembrava decisamente un'opzione, non una necessità: la conseguenza, forse, del desiderio di abbattere gli Stati canaglia, o un elemento di valutazioni umanitarie connesse agli obblighi morali che avevamo verso i somali, gli haitiani, i bosniaci e altre creature sfortunate.
Poi venne l'11 settembre, e gli americani ebbero la sensazione che il loro mondo andasse a gambe all'aria.
Nel gennaio 2006 salii a bordo di un cargo militare CI30, e decollai per la mia prima visita in Iraq. Due miei compagni di viaggio - il senatore Evan Bayh dell'Indiana, e il deputato Harold Ford Jr. del Tennessee - ci erano già stati in precedenza, e mi avvisarono che gli atterraggi a Baghdad potevano rivelarsi un po'"scomodi: per sfuggire a un potenziale fuoco nemico, i voli militari in entrata e in uscita dalla capitale irachena si impegnavano in una serie di manovre che a volte mettevano sotto sopra lo stomaco. Mentre l'aereo procedeva nella mattina velata, però, era difficile sentirsi preoccupati: legati ai sedili di tela, la maggior parte degli altri passeggeri si era addormentata, con la testa che sobbalzava contro la rete arancione che correva lungo il centro della fusoliera; un membro dell'equipaggio sembrava intento a giocare con un videogame, un altro sfogliava placidamente i piani di volo.
Erano trascorsi quattro anni e mezzo da quando avevo sentito per la prima volta le cronache che riferivano lo schianto di un aereo contro il World Trade Center; in quel momento mi trovavo a Chicago, e stavo recandomi in centro per una seduta legislativa statale. I resoconti radiofonici erano sommari, e pensai che doveva essersi trattato di un incidente, forse un aereo da turismo che era uscito di rotta. Quando arrivai alla riunione, il secondo aereo aveva già colpito, e ci fu detto di evacuare la sede del governo statale dell'Illinois. Lungo le strade, la gente si raccoglieva a fissare il cielo e la Sears Tower. In seguito, nel mio ufficio legale, un gruppo di noi sedette immobile mentre le immagini da incubo si susseguivano sullo schermo del televisore: un aeroplano scuro come un'ombra che spariva nel vetro e nell'acciaio, uomini e donne appesi ai davanzali e che poi perdevano la presa, gli urli e i singhiozzi da sotto, e infine le nuvole di polvere che roteando oscuravano il sole.
Vissi le successive settimane come quasi tutti gli americani: chiamando amici a New York e a Washington, inviando donazioni, ascoltando il discorso del presidente, piangendo i morti. E, come per la maggior parte degli altri, vissi l'effetto dell'11 settembre in modo molto personale: non era soltanto la vastità della distruzione a colpirmi, o i ricordi dei cinque anni trascorsi a New York ricordi di strade e panorami ora ridotti a macerie - era piuttosto il senso di intimità suscitato dall'immaginare i gesti normali che le vittime di quel giorno dovevano aver compiuto nelle ore precedenti la loro uccisione, le routine quotidiane che costituiscono la vita nel nostro mondo moderno: salire a bordo di un aereo, spingersi mentre si scende da un treno di pendolari, prendere al volo un caffè e un giornale del mattino a un'edicola, chiacchierare in ascensore. Per la maggior parte degli americani questo tran tran rappresentava una vittoria dell'ordine sul caos, l'espressione tangibile della convinzione che, finché facevamo ginnastica, indossavamo cinture di sicurezza, avevamo un lavoro tutelato ed evitavamo certi quartieri, la nostra sicurezza era garantita, le nostre famiglie protette.
Ora il caos era arrivato sulla soglia di casa, di conseguenza avremmo dovuto agire in modo diverso, interpretare il mondo in modo diverso; avremmo dovuto rispondere al richiamo di una nazione. A una settimana dagli attacchi vidi il Senato votare 98 a 0 e la Camera 420 a 1 per conferire al presidente l'autorità di «usare tutte le forze necessarie e appropriate contro quelle nazioni, organizzazioni o persone» che si erano rese responsabili degli attentati.
L'interesse per le forze armate e le richieste di far parte della CIA aumentarono vertiginosamente, mentre in tutta l'America i giovani decidevano di servire il proprio Paese. E non eravamo soli: a Parigi «Le Monde» scrisse il titolo di testa «Nous sommes tous Américains», al Cairo nelle moschee vennero innalzate preghiere di solidarietà. Per la prima volta dalla sua fondazione, nel 1949, la NATO invocò l'articolo 5 del suo Statuto, convenendo che un attacco armato contro uno dei suoi membri «sarà considerato un attacco contro tutti».
Con la giustizia alle spalle e il mondo al nostro fianco, in poco più di un mese scacciammo il governo talebano da Kabul. I membri di al- Qaida fuggirono, o vennero catturati o uccisi.
Era un buon inizio da parte dell'amministrazione, pensai: fermo, misurato e portato a termine con perdite minime (solo in seguito avremmo scoperto fino a che punto il fatto di non essere riusciti a esercitare sufficiente pressione militare sulle forze di al- Qaida a Torà Bora avesse permesso a Osama bin Laden di sfuggirci). E così, assieme al resto del mondo attesi con grandi aspettative quanto ritenevo sarebbe seguito: l'enunciazione di una politica estera statunitense per il ventunesimo secolo che non solo adeguasse alla minaccia delle reti terroristiche la nostra pianificazione militare, le operazioni di spionaggio e le difese in patria, ma costruisse un nuovo consenso internazionale attorno alle sfide delle minacce transnazionali.
Questo nuovo progetto non arrivò mai. Ci fu propinato invece un assortimento di politiche superate risalenti a epoche remote, rispolverate, raffazzonate e alle quali erano state appiccicate nuove etichette. L"«impero del male» di Reagan era diventato l"«asse del male»; la versione di Theodore Roosevelt della dottrina Monroe -il concetto che fosse lecito rimuovere preventivamente governi sgraditi agli Stati Uniti - era ora la dottrina Bush, semplicemente estesa oltre l'emisfero occidentale ad abbracciare l'intero globo. Era tornato di moda il «destino manifesto»; secondo Bush tutto ciò che serviva era soltanto la potenza di fuoco americana, la determinazione americana e una «coalizione dei volenterosi».
Peggio ancora, forse, l'amministrazione Bush resuscitò un modello di politica che non si vedeva più dalla fine della Guerra fredda. Così come la cacciata di Saddam Hussein divenne il paradigma per la dottrina della guerra preventiva di Bush, chi metteva in discussione le ragioni addotte dall'amministrazione per motivare l'invasione dell'Iraq era accusato di essere «morbido nei confronti del terrorismo» o «non- americano». Invece di un'onesta valutazione dei prò e dei contro di questa campagna militare, l'amministrazione iniziò un'offensiva mediatica: manipolando i rapporti dei servizi segreti per sostenere la propria causa, minimizzando grossolanamente sia i costi sia il numero di uomini necessari all'azione militare, evocando lo spettro dei funghi atomici.
Questa strategia mediatica funzionò. Nell'autunno del 2002 la maggioranza degli americani era convinta che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, e almeno il 66 per cento credeva (a torto) che il leader iracheno fosse implicato in prima persona negli attentati dell'11 settembre. L'appoggio a un'invasione dell'Iraq - e la popolarità di Bush - si aggirava attorno al 60 per cento. Con un occhio alle elezioni di medio termine, i repubblicani intensificarono le accuse e spinsero per un voto che autorizzasse l'uso della forza contro Saddam Hussein. L'11 ottobre 2002, 28 dei 50 democratici del Senato si unirono a tutti i repubblicani salvo uno nel consegnare a Bush il potere che voleva.
Questo voto mi deluse, anche se comprendevo le pressioni cui erano sottoposti i democratici: io stesso ne avevo subito di analoghe. Nell'autunno del 2002 avevo già deciso di candidarmi per il Senato degli Stati Uniti, e sapevo che la possibilità di una guerra contro l'Iraq sarebbe stata in primo piano in ogni campagna elettorale. Quando un gruppo di attivisti di Chicago mi chiese se avrei parlato a un grande raduno contro la guerra programmato per l'ottobre, molti amici mi misero in guardia dal prendere posizione così in pubblico su un problema tanto esplosivo. Non solo l'idea dell'invasione riscuoteva sempre più consenso, ma nel merito non consideravo il processo alla guerra già bell'e risolto: come la maggior parte degli analisti ritenevo che Saddam possedesse armi chimiche e batteriologiche, e ambisse ad armamenti nucleari, ero convinto che si fosse ripetutamente preso gioco delle risoluzioni dell'ONU e dei suoi ispettori sul disarmo, e che questo comportamento dovesse comportare qualche conseguenza; era un fatto indiscusso che Saddam massacrasse il suo stesso popolo, e non avevo alcun dubbio che il mondo e il popolo iracheno sarebbero stati meglio senza di lui.
In realtà avevo la sensazione che la minaccia rappresentata da Saddam non fosse imminente, che le motivazioni addotte dall'amministrazione a favore della guerra fossero deboli e condizionate dall'ideologia, e che la guerra in Afghanistan fosse tutt'altro che conclusa. Ed ero certo che, scegliendo di privilegiare un'azione militare unilaterale e precipitosa invece che affrontare il faticoso lavoro della diplomazia, imporre ispezioni e sanzioni intelligenti, l'America stesse perdendo l'occasione di costruire un'ampia base di appoggio alle sue politiche.
E così tenni il discorso. Alle duemila persone riunite nella Federal Plaza di Chicago spiegai che, a differenza di alcuni tra i presenti, non ero contrario a tutte le guerre, e raccontai che mio nonno si era arruolato il giorno dopo il bombardamento di Pearl Harbor e aveva combattuto nell'armata di Patton. Dissi anche: «Dopo aver assistito al massacro e alla distruzione, alla polvere e alle lacrime, sostengo l'impegno di questa amministrazione a dare la caccia ed estirpare chi assassina innocenti in nome dell'intolleranza», e «volentieri prenderei io stesso le armi per impedire che una tale tragedia avvenga di nuovo».
Non potevo però sostenere «una guerra stupida, una guerra avventata, una guerra basata non sulla ragione ma sulla passione, non sui princìpi ma sulla politica».
E aggiunsi: So che anche una guerra vittoriosa contro l'Iraq richiederà un'occupazione statunitense di durata imprevedibile, a prezzo imprevedibile, con conseguenze imprevedibili. So che un'invasione dell'Iraq senza una chiara motivazione e senza forte sostegno internazionale si limiterà ad alimentare le fiamme del Medio Oriente e incoraggiare gli impulsi peggiori piuttosto che i migliori nel mondo arabo, e a rafforzare il reclutamento nelle fila di al- Qaida.
Il discorso venne accolto con favore: gli attivisti cominciarono a far circolare il testo su internet, e io mi guadagnai la fama di uno che parla chiaro su problemi spinosi: reputazione che mi avrebbe portato a vincere nelle aspre primarie democratiche. All'epoca, però, non avevo modo di sapere se la mia valutazione della situazione irachena fosse corretta. Quando infine venne lanciata l'invasione e le forze statunitensi marciarono incontrastate per Baghdad, quando vidi rovesciare la statua di Saddam e il presidente Bush in piedi sul ponte della Abraham Lincoln con alle spalle una bandiera che recava la scritta «Missione compiuta», cominciai a sospettare che forse avevo avuto torto; e fui sollevato nel constatare il basso numero di perdite americane.
E ora, tre anni dopo - mentre il numero dei caduti americani ha superato le 2000 unità e quello dei feriti le 6000; dopo 250 miliardi di dollari spesi direttamente e altre centinaia di miliardi per estinguere negli anni a venire il debito conseguente e per assistere i veterani invalidi; dopo due elezioni nazionali, un referendum costituzionale e decine di migliaia di morti iracheni; dopo aver visto il sentimento antiamericano raggiungere livelli record in tutto il mondo, e l'Afghanistan cominciare a scivolare di nuovo nel caos - stavo volando a Baghdad come membro del Senato, nel tentativo di capire come rimediare a questo pasticcio.
L'atterraggio all'aeroporto internazionale di Baghdad si rivelò meno peggio di quanto mi aspettassi, benché fossi grato di non poter vedere fuori dal finestrino mentre il CI30 scendendo sobbalzava, si inclinava e perdeva quota per poi risalire. Il funzionario del dipartimento di Stato adibito al nostro accompagnamento era là ad accoglierci assieme a un assortimento di personale militare con i fucili in spalla. Dopo averci fornito le debite istruzioni riguardo la sicurezza, aver preso nota dei nostri gruppi sanguigni e averci munito di elmetti e giubbotti antiproiettile, ci fecero salire su due elicotteri Black Hawk e ci dirigemmo verso la Zona Verde volando basso, passando su miglia di campi spogli, per lo più fangosi, attraversati da strade anguste e punteggiati da boschetti di palme da dattero e tozzi ripari di cemento, molti in apparenza vuoti, alcuni rasi al suolo sino alle fondamenta. Finalmente arrivammo in vista di Baghdad: una metropoli color sabbia, a pianta circolare, col fiume Tigri che ne attraversava il centro formando una striscia ampia e melmosa; perfino dall'alto la città appariva crivellata di colpi e malridotta; il traffico sulle strade era intermittente, benché quasi ogni tetto fosse affollato di antenne satellitari che, assieme al servizio di telefonia cellulare, erano state reclamizzate dai funzionari americani come uno dei successi della ricostruzione.
Sarei rimasto soltanto un giorno e mezzo in Iraq, prevalentemente nella Zona Verde, un'area di dieci miglia d'ampiezza nel centro della città, che una volta era stata il cuore del governo di Saddam Hussein mentre ora era un complesso sotto controllo statunitense, circondato lungo il perimetro da barriere antiesplosione e filo spinato. Le squadre addette alla ricostruzione ci informarono delle difficoltà di garantire la fornitura di energia elettrica e la produzione petrolifera per i sabotaggi degli insorti; i funzionari dei servizi segreti descrissero la crescente minaccia costituita dalle milizie delle sette e la loro infiltrazione nelle forze di sicurezza irachene. In seguito incontrammo membri della commissione elettorale irachena che parlarono con entusiasmo dell'alta affluenza alle urne durante le recenti elezioni, e per un'ora ascoltammo l'ambasciatore statunitense Khalilzad, un uomo acuto ed elegante, con occhi stanchi del mondo, spiegare il delicato lavoro diplomatico che lo impegnava in un andirivieni continuo per portare sciiti, sunniti e curdi a qualche forma praticabile di governo unitario.
Più tardi ci si presentò l'occasione di pranzare con alcuni delle truppe nell'enorme sala mensa accanto alla piscina di quello che un tempo era stato il palazzo presidenziale di Saddam. Era un misto di forze regolari, riservisti e unità della Guardia nazionale, provenienti da metropoli e da cittadine, neri, bianchi e ispanici, molti alla seconda o terza missione. Mostravano un sentimento di orgoglio nel raccontarci quanto le loro unità avevano portato a termine: costruito scuole, protetto impianti elettrici, portato in pattuglia soldati iracheni appena addestrati, mantenuto aperte le linee di rifornimento a chi si trovava in zone remote del Paese. Più e più volte mi venne rivolta la stessa domanda: perché la stampa americana riferiva soltanto di bombardamenti e uccisioni? Si stavano compiendo progressi, insistettero; dovevo far sapere a chi era rimasto a casa che il loro lavoro non era inutile.
Parlando con questi uomini e queste donne era facile capirne la frustrazione, perché tutti gli americani che incontrai in Iraq, sia militari sia civili, mi colpirono per la loro dedizione, la loro capacità e il loro franco riconoscere non solo gli errori commessi ma anche le difficoltà che ancora li attendevano.
In effetti, l'intera impresa in Iraq rivelava l'ingegnosità, la ricchezza e le conoscenze tecniche americane: all'interno della Zona Verde o di qualsiasi grande base operativa in Iraq e in Kuwait era inevitabile restare stupiti per la capacità del nostro governo di erigere dal nulla intere città in territorio ostile, comunità autosufficienti con reti energetiche e fognarie autonome, collegamenti via computer e via radio, campi da pallacanestro e chioschi di gelati. E più ancora veniva in mente quella qualità tipica che è l'ottimismo americano, evidente ovunque: l'assenza di cinismo nonostante il pericolo, il sacrificio e gli ostacoli all'apparenza senza fine; la convinzione che alla fin fine le nostre azioni avrebbero avuto come risultato una vita migliore per gente che conoscevamo appena.
E tuttavia, nel corso della mia visita tre conversazioni mi avrebbero ricordato come apparissero ancora donchisciotteschi i nostri sforzi in Iraq: come, nonostante tutto il sangue americano versato, il denaro speso e le migliori intenzioni, la casa che stavamo costruendo rischiasse di poggiare sulle sabbie mobili. La prima conversazione ebbe luogo verso sera, quando la nostra delegazione tenne una conferenza stampa per un gruppo di corrispondenti stranieri di stanza a Baghdad. Dopo la serie di domande e risposte, chiesi ai giornalisti se si sarebbero fermati per una chiacchierata informale a microfoni spenti: spiegai che mi interessava avere un'idea della vita al di fuori della Zona Verde. Furono felici di usarmi questa cortesia, ma spiegarono che potevano fermarsi solo per quarantacinque minuti: si stava facendo tardi e, come la maggior parte dei residenti a Baghdad, in genere evitavano di spostarsi dopo il tramonto.
Nell'insieme erano giovani, per lo più fra i venti e i trent'anni, tutti vestiti in modo abbastanza informale da poter passare per studenti universitari; i volti però mostravano lo stress a cui erano sottoposti: a quell'epoca in Iraq erano già stati uccisi sessanta giornalisti. All'inizio della nostra conversazione si scusarono: erano un po'"distratti perché avevano appena sentito dire che la loro collega Jill Carroli, una giornalista del «Christian Science Monitor», era stata rapita e l'autista trovato ucciso sul ciglio della strada; ora stavano tutti mobilitando i loro contatti nel tentativo di scoprire dove si trovasse. Spiegarono che in quel periodo la violenza non era insolita a Baghdad, benché fossero soprattutto gli iracheni a sopportarne il peso; i combattimenti fra sciiti e sunniti erano diventati più frequenti, meno strategici, meno comprensibili, più spaventosi, e nessuno di loro pensava che le elezioni avrebbero portato a miglioramenti significativi dal punto di vista della sicurezza. Chiesi se pensavano che il ritiro delle truppe statunitensi potesse allentare le tensioni, aspettandomi una risposta affermativa; invece scossero la testa.
«Secondo me il Paese cadrebbe preda della guerra civile in poche settimane» mi rispose uno dei giornalisti. «Cento, forse duecentomila morti. Siamo l'unica cosa che tiene insieme questo posto.» Quella sera la nostra delegazione accompagnò l'ambasciatore Khalilzad a cena a casa del presidente iracheno ad interim Jalal Talabani. Mentre il nostro convoglio si faceva strada in un labirinto di barricate per uscire dalla Zona Verde, le misure di sicurezza erano molto strette; all'esterno, la strada che percorremmo era fiancheggiata da soldati statunitensi a intervalli di un isolato, e ci fu raccomandato di tenere gli elmetti e i giubbotti per tutta la durata del viaggio.
Dopo dieci minuti arrivammo a una grande villa, dove fummo accolti dal presidente e da parecchi membri del governo provvisorio iracheno; erano tutti uomini ben piantati, in genere sulla cinquantina o sulla sessantina, con ampi sorrisi ma occhi che non tradivano alcuna emozione. Riconobbi solo uno dei ministri: Ahmed Chalabi, lo sciita che aveva studiato in Occidente, e che, in quanto leader del gruppo in esilio Iraqi National Congress, si diceva avesse fornito ai servizi segreti americani e a coloro che decidevano la politica di Bush alcune delle informazioni sulla cui base era stata presa la decisione di invadere il Paese, informazioni per cui il suo gruppo aveva ricevuto milioni di dollari e che si erano poi rivelate fasulle. Da allora Chalabi non era più nelle grazie dei suoi protettori statunitensi: secondo alcuni rapporti aveva addirittura fornito informazioni riservate statunitensi agli iraniani, e sulla sua testa pendeva ancora un mandato d'arresto emesso dalla Giordania dopo che era stato condannato in contumacia per trentuno accuse di appropriazione indebita, furto, uso improprio di fondi bancari e speculazione valutaria.
Sembrava però che fosse atterrato in piedi: vestito in modo inappuntabile, accompagnato dalla figlia adulta, era adesso facente funzione di ministro del Petrolio nel governo provvisorio.
Durante la cena non parlai molto con Chalabi; ero invece seduto accanto all'ex ministro ad interim delle Finanze: aveva un aspetto solenne, parlava con cognizione di causa dell'economia irachena, del bisogno di migliorare la trasparenza e affermare la legalità per attirare investimenti stranieri. Verso la fine della serata, accennai alla mia impressione favorevole con un membro del personale dell'ambasciata.
«È brillante, non c'è dubbio» mi disse. «Naturalmente è anche uno dei leader del partito SCIRI, il Consiglio supremo per la Rivoluzione islamica in Iraq: controllano il ministero dell'Interno, che a sua volta controlla la polizia, e la polizia, bè... ci sono stati problemi con infiltrazioni da parte delle milizie. Accuse di rapimento di capi sunniti i cui corpi vengono ritrovati la mattina dopo. Quel genere di cose...» La sua voce si affievolì e alzò le spalle.
«Lavoriamo con quel che abbiamo.» Quella notte ebbi difficoltà a dormire, così guardai la partita dei Redskins trasmessa in diretta via satellite nell'edificio una volta riservato a Saddam e ai suoi ospiti; parecchie volte tolsi l'audio alla tv e sentii fuochi di mortaio rompere il silenzio. La mattina successiva prendemmo un Black Hawk per recarci alla base dei marines a Fallujah, nell'arida zona occidentale dell'Iraq nota come Provincia di Anbar, controllata dai sunniti. Qui si erano svolti alcuni dei combattimenti più feroci contro gli insorti, e al campo l'atmosfera era notevolmente più cupa che nella Zona Verde: proprio il giorno prima cinque marines di pattuglia erano stati uccisi da bombe collocate lungo la strada o da fuoco di armi leggere. Inoltre, i soldati sembravano più inesperti: la maggior parte di loro era sulla ventina, molti ancora con i brufoli e il corpo acerbo degli adolescenti.
Il generale responsabile del campo aveva organizzato un incontro, e ascoltammo gli ufficiali superiori illustrare il dilemma che le forze statunitensi dovevano affrontare: grazie alle migliorate risorse, arrestavano ogni giorno un numero sempre maggiore di capi degli insorti; come per le bande di strada a Chicago, però, per ogni insorto arrestato sembrava ce ne fossero due pronti a prenderne il posto. Pareva che la ribellione fosse fomentata non solo dalla politica, ma anche dall'economia: il governo centrale aveva trascurato Anbar, e la disoccupazione maschile si aggirava attorno al 70 per cento.
«Per due o tre dollari si può pagare un ragazzino perché piazzi una bomba» spiegò uno degli ufficiali; «da queste parti sono un sacco di soldi.» Alla fine della riunione, una leggera nebbia, aveva fatto ritardare il nostro volo verso Kirkuk. Mentre aspettavamo, Mark Lippert, l'uomo del mio staff che si occupava di politica estera, si mise a gironzolare chiacchierando con uno degli ufficiali superiori, mentre io mi tuffavo in una conversazione con un maggiore responsabile per la strategia contro i ribelli in quella zona. Era un uomo affabile, piccolo e con gli occhiali, facile da immaginare nelle vesti di insegnante di matematica delle superiori. In effetti, venne fuori che prima di arruolarsi nei marines aveva trascorso parecchi anni nelle Filippine come membro dei Corpi di pace. Mi spiegò che molte delle lezioni imparate laggiù dovevano essere applicate al lavoro militare in Iraq. Non disponeva nemmeno lontanamente di un numero di persone in grado di parlare arabo sufficiente per costruire un rapporto di fiducia con la popolazione locale; era necessario affinare la sensibilità culturale all'interno delle forze statunitensi; sviluppare rapporti a lungo termine con i capi locali; e affiancare alle forze di sicurezza squadre di ricostruzione in modo che gli iracheni potessero accorgersi che gli sforzi statunitensi portavano benefici concreti. Tutto ciò avrebbe richiesto tempo, spiegò, ma si potevano già notare dei miglioramenti man mano che i militari seguivano questa prassi in tutto il Paese.
Il nostro ufficiale di scorta ci avvisò che l'elicottero era pronto al decollo.
Augurai buona fortuna al maggiore e mi diressi verso il furgone; Mark si mise di fianco a me, e gli chiesi che cosa avesse appreso dalla sua conversazione con l'ufficiale superiore.
«Gli ho chiesto cosa ritenesse necessario per gestire al meglio la situazione.» «Che cos'ha risposto?» «Andarcene.» La storia dell'impegno americano in Iraq sarà analizzata e discussa per molti anni a venire: anzi, è una storia che si sta ancora scrivendo. Al momento, la situazione laggiù si è deteriorata al punto che sembra sia cominciata una guerra civile di basso profilo; e mentre ritengo che tutti gli americani - a prescindere dalle opinioni sulla decisione originaria - abbiano interesse a vedere un esito decente della situazione, in tutta onestà non posso dire di essere ottimista sulle prospettive a breve termine dell'Iraq.
So comunque che, giunti a questo stadio, sarà la politica - i calcoli degli uomini duri e tutt'altro che sentimentali con i quali ho pranzato - e non l'uso della forza da parte degli americani, a determinare quanto accadrà in Iraq.
Ritengo anche che a questo punto i nostri obiettivi strategici dovrebbero essere ben definiti: ottenere una qualche apparenza di stabilità; assicurarsi che chi andrà al potere in Iraq non sia ostile agli Stati Uniti; e impedire al Paese di diventare una base per attività terroristiche. Nel perseguimento di questi obiettivi credo sia nell'interesse degli americani come degli iracheni cominciare un ritiro graduale dei soldati statunitensi, benché sia difficile dire con quale rapidità si potrà portare a termine un ritiro totale, dovendosi basare su una serie di congetture: sulla capacità del governo iracheno di garantire al proprio popolo un minimo di sicurezza e di servizi, su quanto la nostra presenza alimenti la ribellione, e sulla probabilità che in assenza di truppe statunitensi l'Iraq precipiti in una guerra civile vera e propria. Quando ufficiali dei marines induriti dai combattimenti suggeriscono di ritirarsi e corrispondenti esteri scettici suggeriscono di restare, le risposte facili non esistono.
Ciononostante, non è troppo presto per trarre qualche conclusione dal nostro comportamento in Iraq, poiché le nostre difficoltà laggiù non sono soltanto il risultato di una cattiva gestione, ma riflettono una carenza di pianificazione.
Il fatto è che, quasi cinque anni dopo '11 settembre e quindici dopo il crollo dell'Unione Sovietica, agli Stati Uniti manca ancora una politica di sicurezza nazionale coerente: invece di princìpi guida, sembriamo disporre solo di una serie di decisioni estemporanee dai risultati dubbi. Perché invadere l'Iraq e non la Corea del Nord o la Birmania? Perché intervenire in Bosnia e non nel Darfur? I nostri obiettivi sono cambiare il regime in Iran, smantellarne il potenziale nucleare, prevenire la proliferazione di armi atomiche, o tutte e tre le cose? Ci impegniamo a usare la forza ovunque un regime dispotico terrorizzi il suo popolo? E in tal caso, quanto a lungo ci fermiamo per assicurarci che si radichi la democrazia? Come trattiamo Paesi come la Cina, che si liberalizzano dal punto di vista economico ma non politico? Ricorriamo alle Nazioni Unite per tutti i problemi, o soltanto quando sono disposte a ratificare decisioni che abbiamo già preso?
Forse alla Casa Bianca qualcuno ha risposte chiare a queste domande, ma i nostri alleati - e se per questo anche i nostri nemici - certamente non sanno di che risposte si tratti; ancor più importante, non lo sa neppure il popolo americano. Senza una strategia ben articolata, sostenuta dall'opinione pubblica e compresa dal resto del mondo, l'America mancherà della legittimazione - e in ultima analisi del potere - di cui ha bisogno per rendere il pianeta più sicuro di quanto lo sia oggi. Abbiamo bisogno di ridefinire la nostra politica estera nel suo complesso, in modo che uguagli l'audacia e la portata delle politiche di Truman dopo la Seconda guerra mondiale; che affronti sia le sfide sia le opportunità di un nuovo millennio, che ci guidi nell'uso della forza ed esprima i nostri ideali e impegni più alti.
Non ho la presunzione di avere in tasca una tale grandiosa strategia, ma sono convinto di quello in cui credo, e avanzo qualche suggerimento su cui il popolo americano dovrebbe riuscire a concordare, spunti per creare un nuovo consenso.
Tanto per cominciare, bisognerebbe capire che un ritorno all'isolazionismo - o una politica estera che non riconosca la necessità occasionale di schierare truppe statunitensi - non funzionerebbe. L'impulso a estraniarsi dal mondo resta una forte tendenza inconfessata in entrambi i partiti, in particolare quando sono in gioco vite americane. Per esempio, dopo che nel 1993 i corpi di soldati statunitensi furono trascinati per le strade di Mogadiscio, i repubblicani accusarono il presidente Clinton di mettere a repentaglio le forze statunitensi in missioni mal progettate; e fu in parte a causa dell'esperienza in Somalia se nelle elezioni del 2000 il candidato George W. Bush promise di non sacrificare mai più risorse militari americane nella «costruzione di nazioni».
È comprensibile che il comportamento dell'amministrazione Bush in Iraq abbia causato reazioni molto più pesanti: secondo un sondaggio del Pew Research Center, quasi cinque anni dopo gli attentati dell'11 settembre il 46 per cento degli americani ha concluso che gli Stati Uniti dovrebbero «occuparsi dei fatti propri in campo internazionale, e lasciare che gli altri Paesi si arrangino da soli come meglio possono».
La reazione è stata particolarmente dura tra i liberal, che vedono nell'Iraq una ripetizione degli errori compiuti dall'America in Vietnam. La frustrazione per l'Iraq e le tattiche discutibili usate dall'amministrazione per sostenere la propria causa in favore della guerra hanno addirittura indotto molte persone di sinistra a minimizzare la minaccia costituita dai terroristi e dalla proliferazione nucleare. Secondo un sondaggio del gennaio 2005, chi si definiva conservatore era più propenso del 29 per cento rispetto ai liberal a individuare nella distruzione di al- Qaida uno dei principali obiettivi in politica estera, e del 26 per cento più propenso a impedire che gruppi o nazioni ostili si dotassero di armamenti nucleari; sull'altro fronte, tra i liberali tre principali obiettivi in politica estera erano ritirare le truppe dall'Iraq, arginare la diffusione dell'AIDS e lavorare a più stretto contatto con i nostri alleati.
Gli obiettivi sostenuti dai liberal sono meritori, ma diffìcilmente possono costituire la base di una politica coerente per la sicurezza nazionale. È utile quindi ricordare che Osama bin Laden non è Ho Chi Minh, e le minacce che si presentano oggi agli Stati Uniti sono reali, molteplici e potenzialmente devastanti. Le nostre recenti politiche hanno peggiorato la situazione, ma anche se ci ritirassimo domani dall'Iraq resteremmo comunque un bersaglio, data la posizione dominante degli Stati Uniti nell'attuale ordine internazionale.
Naturalmente i conservatori hanno un'opinione altrettanto erronea se pensano che sia possibile eliminare semplicemente «i malvagi», e poi lasciare che il mondo se la cavi da solo. A causa della globalizzazione, la nostra economia, la nostra salute e la nostra sicurezza sono in balìa di eventi che si verificano dall'altro lato del mondo, e non esiste nazione sulla Terra che abbia una maggiore capacità di plasmare questo tipo di sistema globale, o di costruire consenso attorno a una nuova serie di regole internazionali mirate ad allargare le zone di libertà, sicurezza personale e benessere economico. Ci piaccia o meno, se vogliamo rendere più sicura l'America dovremo contribuire a rendere più sicuro il mondo.
In secondo luogo è necessario riconoscere che il contesto in cui ci troviamo oggi è fondamentalmente diverso da quello esistente cinquanta, venticinque o perfino dieci anni fa. Quando Truman, Acheson, Kennan e Marshall si sedettero attorno a un tavolo per delineare la struttura dell'ordine postbellico, il loro schema di riferimento era la competizione fra le grandi nazioni che avevano dominato l'Ottocento e l'inizio del Novecento. In quel mondo le maggiori minacce per l'America provenivano da Stati espansionisti come la Germania nazista o la Russia sovietica, che potevano schierare grandi eserciti e potenti arsenali per invadere territori chiave, limitare il nostro accesso a risorse critiche e dettare i termini del commercio mondiale.
Quel mondo non esiste più. L'integrazione di Germania e Giappone in un sistema mondiale di democrazie liberali ed economie di libero mercato ha efficacemente eliminato la minaccia di conflitti tra le grandi potenze all'interno del mondo libero. L'avvento delle armi nucleari e la «sicura distruzione reciproca» hanno reso abbastanza remoto il rischio di guerra tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica perfino prima della caduta del Muro di Berlino. Oggi le nazioni più potenti del mondo (compresa, in misura sempre maggiore, la Cina) - e, altrettanto importante, una larghissima maggioranza delle persone che in queste nazioni vivono - sono per lo più vincolate a un corpus comune di norme internazionali che regolano il mercato, la politica economica e la soluzione legale e diplomatica delle dispute, anche se i più ampi concetti di libertà e democrazia non sono compiutamente osservati entro i loro confini.
La minaccia crescente, quindi, proviene soprattutto dalle zone del mondo ai margini dell'economia globale in cui il «codice di comportamento» internazionale non ha fatto presa: dove imperano Stati deboli o vacillanti, regimi arbitrari, corruzione e violenza endemiche; terre in cui la stragrande maggioranza della popolazione è povera, ignorante e tagliata fuori dalla rete di informazione globale; luoghi in cui i governanti temono che la globalizzazione indebolirà la loro presa sul potere, minerà le culture tradizionali o scalzerà le istituzioni indigene.
In passato c'era la sensazione che l'America potesse forse permettersi di ignorare tranquillamente nazioni e individui di queste regioni isolate: potevano essere ostili alla nostra visione del mondo, nazionalizzare un'attività statunitense, provocare un innalzamento nei prezzi dei beni di largo consumo, finire nell'orbita sovietica o della Cina comunista, o perfino attaccare ambasciate o personale militare statunitense oltremare; ma non potevano colpirci in casa nostra. L'11 settembre ha dimostrato che non è più così. La stessa interdipendenza che sempre più tiene assieme il mondo ha reso potenti coloro che quel mondo vogliono distruggere. Le reti terroristiche possono diffondere le loro dottrine in un batter d'occhio, possono andare alla caccia degli anelli più deboli del sistema economico mondiale, sapendo che un attentato a Londra o Tokyo si rifletterà su New York o Hong Kong; armi e tecnologie che una volta erano patrimonio esclusivo di Stati- nazione possono ora essere acquistate al mercato nero, oppure se ne possono scaricare i progetti da internet; la libera circolazione di persone e merci attraverso le frontiere, linfa vitale dell'economia globale, può essere sfruttata per scopi omicidi.
Se gli Stati- nazione non hanno più il monopolio della violenza su larga scala; se in effetti è sempre meno probabile che lancino attacchi diretti contro di noi, poiché hanno un indirizzo fisso a cui possiamo recapitare una risposta; se invece le minacce che crescono più velocemente sono transnazionali - reti terroristiche impegnate a respingere o distruggere le forze della globalizzazione, potenziali pandemie come l'influenza aviaria, o catastrofici cambiamenti nel clima del pianeta -, come dovrebbe adeguarsi la nostra strategia nazionale per la sicurezza?
Per cominciare, le nostre spese per la difesa e la composizione del nostro esercito dovrebbero riflettere la nuova realtà. Dall'inizio della Guerra fredda, la nostra abilità nello scongiurare le aggressioni tra nazioni ha significato in larga misura la sicurezza per ogni Paese che si sia impegnato a rispettare le norme internazionali. Grazie all'unica flotta che pattuglia l'intero globo, sono le nostre navi a tenere libere le rotte marittime; ed è il nostro ombrello nucleare che ha impedito a Europa e Giappone di partecipare alla corsa agli armamenti durante la Guerra fredda, e che -almeno sino a poco tempo fa - ha portato molti Paesi alla conclusione che non valga la pena dotarsi di atomiche.
Finché la Russia e la Cina continuano a essere dotate di potenti forze armate e non si sono del tutto liberate dell'istinto a spadroneggiare - e finché una manciata di Stati canaglia è pronta ad attaccare altri Stati sovrani, come Saddam attaccò il Kuwait nel 1991 - ci saranno momenti in cui nostro malgrado dovremo di nuovo assumerci il ruolo di sceriffo del mondo. Non cambieremo atteggiamento, e nemmeno dovremmo.
D'altra parte, è ora di riconoscere che gli stanziamenti per la difesa e una composizione delle forze armate pensate soprattutto nella prospettiva di una Terza guerra mondiale hanno ben poco senso dal punto di vista strategico. Nel 2005 il bilancio militare e per la difesa statunitense ha toccato i 522 miliardi di dollari: più della somma di quelli delle trenta nazioni con i maggiori investimenti in questo settore. Il PIL degli Stati Uniti è superiore a quello dei due più grandi Paesi e delle due economie a maggior crescita messi assieme: Cina e India. Dobbiamo mantenere una situazione delle forze strategiche che ci permetta di contrastare minacce provenienti da Stati canaglia come la Corea del Nord e l'Iran, e di affrontare le sfide rappresentate da potenziali rivali come la Cina. In effetti, dato l'impoverimento delle nostre forze dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan, nell'immediato futuro avremo probabilmente bisogno di stanziamenti un po'"più alti soltanto per ripristinare la nostra capacità operativa e per sostituire gli armamenti.
Dal punto di vista militare, però, la nostra sfida più complessa non sarà mantenere la supremazia sulla Cina (proprio come la nostra maggior sfida con questo Paese potrebbe essere economica piuttosto che militare); più probabilmente questa impresa significherà mettere saldamente piede nelle zone senza governo oppure ostili nelle quali prosperano i terroristi. Ciò richiede un equilibrio più sensato tra le spese destinate ai congegni sofisticati e quelle destinate al personale in uniforme, e dovrebbe voler dire aumentare numericamente le forze armate per consentire ragionevoli piani di avvicendamento, mantenere le truppe adeguatamente equipaggiate e addestrarle nelle capacità linguistiche, nei compiti di ricostruzione, di raccolta d'informazioni e di mantenimento della pace di cui hanno bisogno per riuscire in missioni sempre più complesse e difficili.
Un cambiamento nella composizione delle nostre forze armate non sarà però sufficiente. Nell'affrontare le minacce tra forze ineguali che ci si prospetteranno in futuro - da parte di reti terroristiche e dalla manciata di Stati che le appoggiano - la struttura delle nostre forze armate in ultima analisi sarà meno importante del modo in cui si deciderà di servirsene. Gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra fredda non soltanto perché avevano più potenza di fuoco dell'Unione Sovietica, ma perché i valori americani dominavano a livello dell'opinione pubblica internazionale, anche presso coloro che vivevano sotto regimi comunisti. Oggi più di allora, la lotta contro il terrorismo islamico non sarà semplicemente una campagna militare, ma una battaglia per conquistare l'opinione pubblica nel mondo islamico, tra i nostri alleati e in patria. Osama bin Laden sa di non poter sconfiggere e nemmeno indebolire gli Stati Uniti in una guerra convenzionale; ciò che lui e i suoi alleati possono fare è causare abbastanza dolore da provocare una reazione simile a quella vista in Iraq: una raffazzonata e malaccorta incursione militare statunitense in un Paese musulmano, che a sua volta provoca rivolte basate sul sentimento religioso e sull'orgoglio nazionalista, che a loro volta richiedono una lunga e difficile occupazione statunitense, che a sua volta porta a un'escalation nella perdita di vite umane fra le truppe statunitensi e la popolazione civile locale. Tutto ciò rincara il sentimento antiamericano tra i musulmani, aumenta il serbatoio di potenziali reclute terroriste, e spinge l'opinione pubblica americana a mettere in discussione non solo la guerra ma anche e soprattutto le politiche che ci mettono a confronto col mondo islamico.
È il piano per vincere una guerra da una caverna e, finora almeno, stiamo recitando secondo copione. Per cambiare copione sarà necessario far sì che l'uso della potenza militare americana aiuti invece che ostacolare i nostri obiettivi di più ampio respiro, neutralizzi il potenziale distruttivo delle reti terroristiche e vinca questa battaglia delle idee globalizzata.
Che cosa significa in termini pratici? Occorre partire dalla premessa che gli Stati Uniti, come tutti gli Stati sovrani, hanno il diritto unilaterale di difendersi da un attacco; in questo senso, la nostra campagna per spazzar via i campi base di al- Qaida e il regime talebano che le ospitava era del tutto giustificata; e fu considerata legittima perfino nella maggior parte dei Paesi islamici. In queste campagne militari forse sarebbe preferibile avere il sostegno dei nostri alleati, ma la nostra sicurezza immediata non può essere condizionata dal desiderio di consenso internazionale: se dobbiamo procedere da soli, allora il popolo americano è pronto a pagare qualsiasi prezzo e a portare qualsiasi fardello per proteggere il proprio Paese.
Sostengo anche che abbiamo il diritto di intraprendere un'azione militare unilaterale per eliminare una minaccia imminente alla nostra sicurezza: purché per minaccia imminente si intenda una nazione, un gruppo o un individuo che stia attivamente preparandosi a colpire bersagli statunitensi (o di alleati con i quali gli Stati Uniti hanno accordi di reciproca difesa), e abbia o avrà i mezzi per farlo nell'immediato futuro. Al- Qaida risponde a questi requisiti, e possiamo e dobbiamo colpirla preventivamente ogni volta che se ne presenti l'occasione. L'Iraq di Saddam Hussein non rispondeva a questi requisiti, motivo per cui la nostra invasione è stata un colossale errore strategico. Se agiremo unilateralmente, sarà meglio avere le prove contro coloro che vogliamo colpire.
Lasciando da parte le questioni dell'autodifesa, però, sono convinto che sarà quasi sempre nel nostro interesse strategico agire collettivamente piuttosto che unilateralmente quando facciamo uso della forza in giro per il mondo. Con ciò non intendo dire che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite - organismo che per la sua struttura e le sue regole troppo spesso appare congelato in una curvatura temporale da Guerra fredda - dovrebbe poter porre un veto sulle nostre azioni, e non intendo neppure dire che conquistiamo il sostegno del Regno Unito e di Togo e poi facciamo quel che ci pare; agire collettivamente significa comportarsi come George H. W. Bush e la sua squadra durante la Prima guerra del Golfo: impegnarsi in un duro lavoro diplomatico per ottenere dalla maggior parte del mondo sostegno alle nostre azioni, assicurandoci che queste servano a rafforzare ulteriormente le norme internazionali.
Perché agire in questo modo? Perché nessuno più di noi trae beneficio dall'osservanza del «codice di comportamento» internazionale, e non possiamo convertire altri a questo codice se ci comportiamo come se valesse per tutti tranne che per noi. Quando l'unica superpotenza mondiale limita spontaneamente il proprio potere e osserva modelli di condotta approvati dalla comunità internazionale, invia il messaggio che vale la pena di seguire queste regole, e priva terroristi e dittatori della possibilità di sostenere che esse siano puri strumenti dell'imperialismo americano.
Ottenere questa compartecipazione globale permette inoltre agli Stati Uniti di sopportare un peso minore quando è necessaria l'azione militare, e aumenta le probabilità di successo. Dato che la maggior parte dei nostri alleati ha budget della difesa relativamente modesti, in molti casi condividere il fardello militare può dimostrarsi un po'"illusorio, ma nei Balcani e in Afghanistan i nostri partner della NATO si sono davvero assunti la loro quota di rischi e di costi. Oltretutto, per il genere di conflitti che più probabilmente dovremo affrontare in futuro, le operazioni militari nelle prime fasi saranno spesso meno complesse e costose del lavoro successivo: addestrare le forze di polizia locali, ripristinare reti idriche ed elettriche, instaurare un sistema giudiziario efficiente, promuovere mezzi di comunicazione indipendenti, costruire un'infrastruttura di sanità pubblica e pianificare elezioni. Gli alleati possono contribuire a sostenere i costi e fornire competenze per questi settori critici, proprio come è avvenuto nei Balcani e in Afghanistan, ma è molto più probabile che lo facciano se le nostre azioni hanno preventivamente ottenuto l'appoggio internazionale. In gergo militare: la legittimazione è un «moltiplicatore di forza».
Fattore altrettanto importante, il faticoso cammino per creare coalizioni costringe ad ascoltare altri punti di vista, e quindi a valutare bene prima di agire. Nei casi in cui non siamo costretti a difenderci contro una minaccia diretta e imminente, abbiamo spesso il vantaggio del tempo: la potenza militare diviene solo uno strumento fra i tanti (seppure di straordinaria importanza) per influenzare gli eventi e promuovere i nostri interessi nel mondo: conservare l'accesso alle fonti chiave di energia, mantenere stabili i mercati finanziari, veder rispettate le frontiere internazionali e impedire i genocidi. Nel perseguire questi interessi, dovremmo impegnarci in analisi accorte su costi e benefici dell'uso della forza in rapporto ad altri strumenti di pressione disponibili.
Il petrolio a buon mercato vale il prezzo - in sangue e denaro -di una guerra?
Il nostro intervento militare in una particolare disputa etnica condurrà a un permanente accordo politico, oppure a un impegno a tempo indeterminato delle forze statunitensi? La nostra controversia con un Paese può essere risolta con la diplomazia, o tramite una serie coordinata di sanzioni? Se speriamo di vincere la più ampia battaglia delle idee, allora bisogna valutare anche l'opinione pubblica mondiale. E se a volte potrebbe essere frustrante sentir enunciare posizioni antiamericane da alleati europei che godono dei vantaggi della nostra protezione o ascoltare all'assemblea generale dell'ONU discorsi mirati a giustificare l'inazione, offuscare o distrarre, è possibile che da tutta la retorica possano emergere punti di vista in grado di illuminare la situazione e aiutarci ad adottare migliori decisioni strategiche.
Infine, coinvolgendo i nostri alleati, li facciamo partecipi del lavoro difficile, metodico, vitale e per forza di cose basato sulla collaborazione teso a limitare la capacità dei terroristi di arrecare danni. Questo lavoro include bloccare le fonti di finanziamento ai terroristi e condividere le informazioni riservate per dare la caccia ai sospettati e infiltrarne le cellule. Il nostro continuo fallimento nel coordinare efficacemente la raccolta di informazioni perfino tra i vari servizi di sicurezza statunitensi, oltre alla costante carenza di preparazione degli uomini che ne fanno parte, non hanno scusanti.
Soprattutto, dobbiamo unire le forze per impedire che i terroristi mettano le mani su armi di distruzione di massa.
Uno dei migliori esempi di questa collaborazione negli anni Novanta ebbe come pionieri il senatore repubblicano dell'Indiana Dick Lugar e l'ex senatore democratico della Georgia Sam Nunn, due uomini che compresero la necessità di stringere coalizioni prima che le crisi colpiscano, e applicarono quest'idea al problema cruciale della proliferazione nucleare. Il presupposto di quanto fu poi conosciuto come Programma Nunn- Lugar era semplice: dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la maggiore minaccia per gli Stati Uniti - a parte un lancio accidentale - non era un primo attacco ordinato da Gorbaciov o Eltsin, ma la migrazione di materiale o know- how nucleare nelle mani di terroristi e Stati canaglia, conseguenza possibile del collasso economico della Russia, della corruzione tra i militari, dell'impoverimento degli scienziati e del totale disfacimento dei sistemi di sicurezza e controllo russi. Durante il Nunn- Lugar l'America essenzialmente fornì le risorse per ripristinare questi sistemi, e benché il programma provocasse un po'"di costernazione fra chi era abituato al modo di pensare della Guerra fredda, si è dimostrato uno dei più importanti investimenti che avremmo potuto fare per difenderci dalla catastrofe.
Nell'agosto del 2005 viaggiai con il senatore Lugar per constatare parte dei risultati di questo operato. Era il mio primo viaggio in Russia e in Ucraina, e non avrei potuto avere guida migliore di Dick, un settantatreenne notevolmente arzillo con modi gentili e imperturbabili, e un sorriso imperscrutabile che gli fu molto utile durante le riunioni spesso interminabili che tenemmo con i funzionari stranieri. Assieme visitammo gli impianti nucleari di Saratov, dove i generali russi ci mostrarono con orgoglio i nuovi sistemi di recinzione e sicurezza che erano stati completati di recente; in seguito ci venne servito un pranzo a base di borsch, vodka, stufato con patate e del pesce in gelatina dall'aspetto alquanto sconcertante. A Perm, un sito in cui venivano smantellati i missili tattici SS24 e SS25, camminammo dentro gli involucri ormai vuoti di missili alti quasi due metri e mezzo, e fissammo in silenzio quelli ancora attivi, massicci e lucidi, ora immagazzinati al sicuro, ma una volta puntati sulle città europee.
E in un tranquillo sobborgo residenziale di Kiev ci condussero a visitare una versione ucraina del Centro per il controllo delle malattie di Atlanta, un modesto edificio di tre piani che assomigliava a un laboratorio di scienze delle superiori. A un certo punto del giro, dopo aver visto finestre aperte per la mancanza di aria condizionata, e reti metalliche avvitate alla bell'e meglio agli stipiti delle porte per tener fuori i topi, fummo guidati verso un piccolo freezer chiuso soltanto da un sigillo di spago; una donna di mezza età, con un camice da laboratorio e una mascherina chirurgica, ne estrasse qualche provetta facendola oscillare a trenta centimetri dalla mia faccia e dicendo qualcosa in ucraino.
«Quello è antrace» spiegò l'interprete indicando la fialetta nella destra della donna. «Quell'altra» aggiunse indicando quella nella sinistra «è peste.» Guardai alle mie spalle, e notai Lugar in piedi verso il fondo della stanza.
«Non vuoi dare un'occhiata più da vicino, Dick?» chiesi facendo anch'io qualche passo indietro.
«Sono già stato qui. Già fatto» rispose con un sorriso.
Durante i nostri viaggi ci furono momenti che ci ricordarono i vecchi tempi della Guerra fredda. Per esempio, all'aeroporto di Perm un funzionario sulla ventina ci trattenne per tre ore perché non gli lasciavamo perquisire il nostro aereo, costringendo i nostri staff a tempestare di telefonate l'ambasciata americana e il ministero degli Affari esteri russo a Mosca. Tuttavia, gran parte di quanto vedemmo e udimmo - l'emporio di Calvin Klein e lo show- room della Maserati sulla Piazza Rossa; il corteo di SUV che si fermarono davanti a un ristorante, guidati da uomini muscolosi con abiti di cattivo taglio, che forse una volta si precipitavano ad aprire la porta ai funzionari del Cremlino, ma che ora facevano parte del servizio di sicurezza di qualche oligarca miliardario della Russia; le folle di adolescenti imbronciati in maglietta e jeans a vita bassa che si dividevano le sigarette al ritmo dei loro iPod, mentre gironzolavano per i graziosi boulevard di Kiev -sottolineava il processo apparentemente irreversibile di integrazione economica, se non politica, tra Est e Ovest.
Sentii che in parte era questo il motivo per cui Lugar e io venivamo accolti con tanto calore nelle varie installazioni militari: la nostra presenza non solo prometteva denaro per sistemi di sicurezza, recinzioni, monitor e attrezzature simili, ma mostrava agli uomini e alle donne che lavoravano in quegli impianti che contavano ancora davvero. Per aver perfezionato attrezzature belliche avevano fatto carriera e avevano ricevuto onorificenze; ora si trovavano a presidiare i resti del passato, e le loro istituzioni avevano scarsa rilevanza per nazioni i cui abitanti avevano per lo più concentrato l'attenzione sul modo di rimediare soldi alla svelta.
Certamente è così che mi sentii a Donetsk, una città industriale nella zona sudorientale dell'Ucraina, dove ci fermammo per visitare un impianto destinato alla distruzione di armi convenzionali. Era annidato in mezzo alla campagna, e vi si accedeva tramite una serie di strade strette, a volte ingombre di capre.
Il direttore dell'impianto, un uomo affabile e allegro che mi ricordava un funzionario di distretto di Chicago, ci condusse attraverso una serie di strutture buie simili a magazzini, in vari stadi di sfacelo, nei quali file di operai smantellavano velocemente un assortimento di mine terrestri e artiglieria per carri, e gli involucri dei proiettili erano impilati alla meglio in mucchi che mi arrivavano alla spalla. Avevano bisogno dell'aiuto statunitense, spiegò il direttore, perché l'Ucraina non aveva il denaro necessario per trattare tutte le armi rimaste dalla Guerra fredda e dall'Afghanistan: al ritmo a cui stavano procedendo, per mettere in sicurezza e rendere inoffensive queste armi ci sarebbero voluti sessant'anni; nel frattempo sarebbero rimaste sparse per tutto il Paese, spesso in baracche prive di lucchetti, esposte alle intemperie, e non solo munizioni, ma esplosivi ad alto potenziale e lanciarazzi: armi di distruzione che rischiavano di finire in mano a signori della guerra in Somalia, combattenti tamil nello Sri Lanka, insorti in Iraq.
Mentre parlava, il nostro gruppo entrò in un altro edifìcio, in cui donne con mascherine chirurgiche stavano in piedi vicino a un tavolo e toglievano da varie munizioni l'RDX - un esplosivo usato dai militari - trasferendolo in borsoni. In un'altra stanza mi imbattei in un paio di uomini in canottiera che fumavano accanto a un vecchio scaldabagno sibilante, buttando la cenere in un canale di scolo pieno di acqua color arancione. Uno del gruppo mi chiamò per mostrarmi un manifesto ingiallito appiccicato a una parete; ci spiegarono che era un residuato della guerra afgana: istruzioni sul modo di nascondere esplosivo in giocattoli da lasciare nei villaggi, affinché bambini ignari se li portassero a casa.
Una prova tangibile della pazzia umana, pensai.
Una testimonianza di come gli imperi implodono.
C'è un ultimo aspetto della politica estera statunitense che va analizzato: quello che riguarda la promozione della pace per evitare la guerra. L'anno in cui nacqui, nel suo discorso d'insediamento il presidente Kennedy dichiarò: «Alle persone che nelle capanne e nei villaggi di mezzo mondo lottano per spezzare le catene della miseria promettiamo i nostri maggiori sforzi per aiutarli ad aiutarsi, per tutto il tempo necessario. Non perché potrebbero farlo i comunisti, non perché ne cerchiamo il voto, ma perché è giusto. Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può salvare i pochi che sono ricchi». Quarantacinque anni dopo, quella miseria esiste ancora. Se vogliamo mantenere la promessa di Kennedy - e servire i nostri interessi di sicurezza sul lungo periodo - allora non dovremo limitarci a un uso più prudente della forza militare: dovremo coordinare le nostre strategie politiche per contribuire a ridurre in tutto il mondo le zone di insicurezza, povertà e violenza, e assicurare al maggior numero di persone la possibilità di accedere in quell'ordine globale che tanto ha avvantaggiato noi.
Naturalmente c'è chi metterebbe in discussione il mio presupposto: che qualsiasi sistema globale costruito a immagine dell'America possa alleviare la miseria nei Paesi più poveri. Per questi critici l'idea americana di come dovrebbe caratterizzarsi il sistema internazionale - libero scambio, mercati aperti, libera circolazione delle informazioni, governo della legge, elezioni democratiche e via dicendo - è semplicemente una manifestazione dell'imperialismo americano, mirante a sfruttare la manodopera a buon mercato e le risorse naturali di altri Paesi, e infettare con ideali decadenti culture non occidentali. Invece di conformarsi alle regole americane, sostengono, gli altri Paesi dovrebbero resistere ai tentativi dell'America di espandere la propria egemonia; dovrebbero seguire il proprio cammino verso lo sviluppo lasciandosi guidare da populisti sinistrorsi, come il venezuelano Hugo Chàvez, o ispirandosi a princìpi più tradizionali di organizzazione sociale, come la legge islamica.
Non liquido sbrigativamente queste critiche: in fondo, l'attuale sistema internazionale è stato davvero determinato dall'America e dai suoi partner occidentali. Negli ultimi cinquant'anni è al nostro modello - le nostre norme di contabilità, la nostra lingua, il nostro dollaro, le nostre leggi sul copyright, la nostra tecnologia e la nostra cultura popolare - che il mondo ha dovuto adattarsi. Se nel complesso il sistema internazionale ha recato grande prosperità nei Paesi più sviluppati del mondo, ha anche lasciato indietro molte persone: fatto che quanti decidono le politiche occidentali hanno spesso ignorato e talvolta peggiorato.
In ultima analisi, però, ritengo che i critici si sbaglino nel pensare che i poveri del mondo trarrebbero vantaggio dal respingere questi ideali di libero mercato e democrazia liberale. Quando gli attivisti per i diritti civili provenienti da vari Paesi vengono nel mio ufficio a raccontare di essere stati incarcerati o torturati per le loro idee, non stanno comportandosi come agenti del potere americano; quando mio cugino si lamenta perché in Kenya gli è impossibile trovare lavoro a meno di passare una bustarella a qualche funzionario del partito al governo, non ha subito un lavaggio del cervello da parte di ideologie occidentali; come dubitare che la maggior parte dei nordcoreani, se potesse scegliere, preferirebbe vivere nella Corea del Sud, oppure che a molti cubani non dispiacerebbe fare un salto a Miami?
A nessuno, in nessuna cultura, piace essere sottoposto a violenze; a nessuno piace vivere nel terrore perché le sue idee sono diverse; a nessuno piace essere povero o affamato; e a nessuno piace vivere in un sistema economico in cui sistematicamente i frutti del suo lavoro non vengono ricompensati. Il sistema di libero mercato e democrazia liberale che ora caratterizza la maggior parte del mondo sviluppato può avere i suoi difetti, e può darsi che troppo spesso rifletta gli interessi dei potenti a spese dei deboli, ma questo sistema è costantemente passibile di cambiamenti e miglioramenti, ed è proprio per questa disponibilità a cambiare che le democrazie liberali basate sul mercato offrono ai popoli di tutto il mondo le maggiori possibilità di una vita migliore.
La nostra scommessa, quindi, è assicurarci che le politiche americane spingano il sistema internazionale in direzione di maggiore equità, giustizia e prosperità; che le regole da noi promosse servano sia i nostri interessi che quelli di un mondo che fatica a vivere. Per questo bisogna tenere presenti alcuni princìpi fondamentali. Innanzitutto bisognerebbe diffidare di quanti credono che possiamo da soli liberare altra gente dalla tirannia. Sono d'accordo con George W. Bush nel riconoscere il desiderio universale di libertà, come fece nel discorso d'insediamento per il suo secondo mandato. Nella storia, però, esistono pochi esempi in cui la libertà che uomini e donne bramano sia stata ottenuta tramite un intervento dall'esterno. In quasi tutti i movimenti di protesta sociale che nel secolo scorso hanno trionfato - dalla campagna di Gandhi contro il governo britannico, a Solidarnosc in Polonia, alla lotta contro l'apartheid in Sudafrica - la democrazia fu il risultato di un risveglio locale.
Possiamo ispirare altri popoli invitandoli ad affermare la propria libertà; possiamo utilizzare i forum e gli accordi internazionali per fissare regole utili che anche altri seguano; possiamo fornire finanziamenti alle neonate democrazie per aiutarle a istituzionalizzare corretti sistemi elettorali, preparare giornalisti indipendenti e diffondere la pratica della partecipazione civica; possiamo far sentire la nostra voce a favore di leader locali i cui diritti vengono violati; possiamo esercitare pressioni economiche e diplomatiche su chi viola ripetutamente i diritti del suo stesso popolo.
Ma quando tentiamo di imporre la democrazia con la canna del fucile, foraggiamo partiti le cui politiche economiche sono considerate amichevoli nei confronti di Washington, o ci lasciamo influenzare da esuli come Chalabi alle cui ambizioni non corrisponde alcun palese appoggio locale, stiamo soltanto candidandoci al fallimento, stiamo aiutando regimi oppressivi a dipingere gli attivisti democratici come strumenti di potenze straniere, e ritardando la possibilità che si instauri una genuina democrazia nazionale.
Un corollario a tutto ciò è che libertà non equivale soltanto a elezioni. Nel 1941 Franklin D. Roosevelt dichiarò che era impaziente di vedere un mondo fondato su quattro libertà essenziali: libertà di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. La nostra stessa esperienza ci insegna che queste due ultime libertà - dal bisogno e dalla paura - sono prerequisiti per tutte le altre. Per metà della popolazione mondiale, all'incirca 3 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno, nella migliore delle ipotesi un'elezione può essere un mezzo non un fine, un punto di partenza non una liberazione; queste persone non cercano tanto un"«*320*tocrazia», quanto gli elementi fondamentali che per molti di noi definiscono una vita decente: cibo, casa, elettricità, cure sanitarie di base, istruzioni per i figli e la possibilità di farsi strada nella vita senza dover sopportare corruzione, violenza o potere arbitrario. Se vogliamo conquistare il cuore e la mente della popolazione a Caracas, Giacarta, Nairobi o Teheran, non sarà sufficiente distribuire urne elettorali: dovremo assicurarci che le regole internazionali da noi promosse accrescano invece di ostacolare il senso di sicurezza materiale e personale della gente.
A tal fine, può essere necessario che ci si guardi allo specchio. Per esempio, gli Stati Uniti e altri Paesi sviluppati continuano a pretendere che i Paesi in via di sviluppo eliminino le barriere commerciali che li proteggono dalla concorrenza, benché noi proteggiamo con tenacia il nostro elettorato da importazioni che potrebbero aiutarli a uscire dalla povertà. Nell'ansia di tutelare i brevetti delle industrie farmaceutiche americane, abbiamo precluso a nazioni come il Brasile la possibilità di produrre medicinali generici contro l'AIDS che potrebbero salvare milioni di vite. Sotto la guida di Washington il Fondo monetario internazionale, creato dopo la Seconda guerra mondiale perché servisse come ultima fonte di credito, ha ripetutamente costretto Paesi che si trovavano nel mezzo di una crisi finanziaria, come l'Indonesia, ad affrontare dolorosi riaggiustamenti (alzare drasticamente i tassi d'interesse, tagliare la spesa sociale governativa, eliminare i sussidi a industrie chiave) provocando enormi difficoltà alle popolazioni locali: amare medicine che gli americani avrebbero difficoltà a somministrare a se stessi.
Un'altra ramificazione del sistema finanziario internazionale, la Banca mondiale, si è guadagnata la reputazione di finanziare grandi progetti costosi che avvantaggiano consulenti ben retribuiti ed élite locali ben introdotte, ma fa ben poco per i cittadini comuni, nonostante siano questi ultimi a ritrovarsi nei guai alla scadenza dei prestiti. In effetti, Paesi che si sono sviluppati con successo nell'attuale sistema internazionale hanno a volte ignorato le rigide ricette economiche di Washington, proteggendo le industrie nascenti e intraprendendo politiche industriali aggressive. Il FMI e la Banca mondiale devono riconoscere che non esiste un'unica e standardizzata formula per lo sviluppo uguale e valida per tutti.
Non c'è nulla di sbagliato, naturalmente, in una politica di «amore severo» quando si tratta di fornire ai Paesi poveri assistenza per lo sviluppo. Troppi di essi sono ostacolati da leggi bancarie e sulla proprietà arcaiche, perfino feudali; in passato troppi programmi di aiuti esteri si sono limitati a ingrassare le élite locali mentre il denaro veniva dirottato su conti svizzeri.
In effetti, troppo a lungo le politiche internazionali di aiuto hanno ignorato il ruolo critico giocato nello sviluppo di qualsiasi nazione dal governo della legge e da princìpi di trasparenza. In un'epoca in cui le transazioni finanziarie internazionali sono imperniate su contratti affidabili e vincolanti, ci si sarebbe potuto aspettare che il boom degli affari globalizzati avrebbe dato luogo a riforme legali di ampia portata; in realtà, Paesi come l'India, la Nigeria e la Cina hanno sviluppato due sistemi legislativi: uno per stranieri ed élite, e uno per la gente normale che tenta di fare progressi.
Quanto a Paesi come la Somalia, la Sierra Leone o il Congo, ebbene, qui esiste solo una parvenza di legge. Ci sono momenti in cui, considerando la drammatica situazione dell'Africa - i milioni di persone afflitte dall'AIDS, le continue siccità e carestie, le dittature, la corruzione endemica, la brutalità di guerriglieri dodicenni che sanno soltanto brandire machete o AK47, - mi sento precipitare nel cinismo e nella disperazione. Finché non mi ricordo che una zanzariera a prevenzione della malaria costa tre dollari; che in Uganda un programma di test volontari per l'HIV ha abbassato considerevolmente il tasso di nuove infezioni a un costo di tre o quattro dollari a persona; che sarebbe bastato un minimo di interessamento - una dimostrazione internazionale di forza, o la creazione di zone a protezione dei civili - per fermare il massacro in Ruanda; e che Paesi un tempo difficili, come il Mozambico, hanno compiuto passi significativi verso un miglioramento.
Franklin D. Roosevelt aveva certamente ragione quando affermava: «Come nazione possiamo essere orgogliosi del fatto di essere teneri di cuore, ma non possiamo permetterci di essere deboli di testa». Non possiamo pensare di aiutare l'Africa se poi questa non si dimostra disposta ad aiutare se stessa. Nascosti fra le notizie sconfortanti che giungono dall'Africa, spesso però traspaiono segnali positivi: la democrazia sta diffondendosi, e in molte zone l'economia sta crescendo. Bisogna costruire su questi barlumi di speranza, e aiutare quei leader e quei cittadini che in tutto il continente sono impegnati a costruire il futuro migliore che, come noi, desiderano così disperatamente.
Inoltre, ci inganniamo se pensiamo che, con le parole di un commentatore, «dobbiamo imparare a vedere con distacco gli altri morire» senza subire conseguenze. Il disordine crea disordine, l'insensibilità verso gli altri tende a diffondersi anche tra noi. E se le istanze morali non sono sufficienti a farci intervenire quando un continente implode, esistono certamente ragioni strumentali per cui gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero preoccuparsi di Stati impotenti che non controllano il proprio territorio, non riescono a combattere le epidemie e sono paralizzati da guerre civili e atrocità. Fu in un tale stato di anarchia che i talebani si impadronirono dell'Afghanistan. Fu in Sudan, sede oggi di un lento genocidio, che per parecchi anni Osama bin Laden organizzò i suoi campi. È nella miseria di qualche anonima baraccopoli che spunterà il prossimo virus micidiale.
Naturalmente, sia in Africa sia altrove non possiamo pensare di poter affrontare da soli problemi così tremendi; per questo motivo bisognerebbe investire più tempo e più denaro nel tentativo di rafforzare il potere delle istituzioni internazionali, in modo che possano svolgere parte di questo lavoro al nostro posto. Abbiamo invece fatto il contrario. Per anni negli Stati Uniti i conservatori hanno tratto vantaggi politici dai problemi in seno alle Nazioni Unite: l'ipocrisia di risoluzioni che sceglievano di condannare solo Israele, l'elezione kafkiana di nazioni come lo Zimbabwe e la Libia alla Commissione ONU sui diritti umani, e più recentemente le ruberie che hanno afflitto il programma «oil for food».
Questi critici hanno ragione: per ogni agenzia ONU che funziona bene, come l'UNICEF, ce ne sono altre che pare non facciano nulla più che tenere conferenze, sfornare rapporti e distribuire sinecure a funzionari pubblici internazionali di terzo livello. Ma questi fallimenti non sono un buon argomento per ridimensionare la nostra partecipazione alle organizzazioni internazionali, e non sono una scusa per l'unilateralità degli Stati Uniti. Più le forze di pace dell'ONU sono efficienti nel trattare guerre civili e conflitti settari, meno dovremo svolgere operazioni di polizia globale in zone che vorremmo vedere stabilizzate; più le informazioni fornite dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica sono credibili, più è probabile che riusciamo a mobilitare alleati contro gli sforzi di Stati canaglia per avere armi nucleari; maggiore è la capacità dell'Organizzazione mondiale della sanità, minore è la probabilità di dover affrontare una pandemia di influenza nel nostro Paese. Nessuna nazione più di noi ha interesse a rafforzare le istituzioni internazionali, ed è questo il motivo per cui, in primo luogo, abbiamo insistito affinché venissero create, e per cui dobbiamo prendere l'iniziativa di migliorarle.
Infine, per chi si irrita alla prospettiva di lavorare con i nostri alleati per risolvere le pressanti sfide della globalizzazione che abbiamo davanti, vorrei suggerire almeno un ambito in cui possiamo agire unilateralmente e migliorare la nostra reputazione nel mondo: perfezionando la nostra democrazia e guidando con l'esempio. Quando l'America continua a spendere decine di miliardi di dollari per sistemi d'armamento di dubbio valore, ma è riluttante a spendere denaro per mettere in sicurezza impianti chimici altamente a rischio nei principali centri urbani, diventa più difficile convincere le altre nazioni a fare altrettanto con le loro centrali nucleari. Quando tiene in prigione a tempo indeterminato persone sospette, senza processo, o le estrada nel cuore della notte in Paesi dove sa che verranno torturate, indebolisce la sua possibilità di esercitare pressioni sui regimi dispotici a favore dei diritti umani e del governo della legge. Quando l'America, il Paese più ricco della Terra e consumatore del 25 per cento dei carburanti fossili mondiali, non si rassegna ad aumentare almeno in piccola parte gli standard di rendimento energetico, così da diminuire la dipendenza dai campi petroliferi sauditi e rallentare il riscaldamento globale, dovrebbe aspettarsi di incontrare molte difficoltà nel convincere la Cina a non trattare con fornitori di petrolio come l'Iran o il Sudan; e non dovrebbe contare su molta cooperazione nello spingerli ad affrontare i nostri problemi ambientali.
Questa riluttanza a compiere scelte difficili e vivere all'altezza degli ideali americani non solo mina la credibilità degli Stati Uniti agli occhi del mondo, ma mina anche la credibilità del governo statunitense agli occhi del suo popolo.
Da ultimo, il modo in cui sapremo gestire quelle risorse preziosissime - il popolo americano e il sistema di autogoverno ereditato dai nostri padri fondatori - determinerà il nostro successo in politica estera. Il mondo, là fuori, è pericoloso e complesso. Ridisegnarlo sarà lungo e difficile, e richiederà qualche sacrificio, che si renderà necessario perché il popolo americano comprenda appieno le scelte che gli si prospettano. È nato dalla fiducia che nutriamo nella nostra democrazia; Franklin D. Roosevelt lo capì, quando dopo l'attacco a Pearl Harbor ribadì la piena fiducia del governo nella «sconfinata determinazione» del popolo americano; lo capì Truman, motivo per cui lavorò con Dean Acheson per creare il comitato per il Piano Marshall, costituito da dirigenti, accademici, sindacalisti, sacerdoti e altri che potevano propagandarlo per tutto il Paese. Sembra che questa sia una lezione che la dirigenza politica americana deve imparare da capo.
A volte mi domando se uomini e donne siano davvero capaci di imparare dalla storia: se progrediamo da uno stadio al successivo in un percorso verso l'alto, oppure ci limitiamo a cavalcare i cicli di espansione e recessione, guerra e pace, ascesa e declino. Nella stessa occasione della mia visita a Baghdad, trascorsi una settimana viaggiando per Israele e la Cisgiordania, incontrando funzionari di entrambe le parti, tracciando una mappa mentale di quella zona tanto contesa. Parlai con israeliani che avevano perso genitori nell'Olocausto e fratelli in attentati suicidi; sentii palestinesi raccontare dell'oltraggio dei posti di controllo e ricordare la terra che avevano perduto. Volai in elicottero attraverso la linea che separa i due popoli, e mi scoprii incapace di distinguere le cittadine ebraiche da quelle arabe, tutte simili a fragili avamposti sullo sfondo del verde e delle colline rocciose. Dalla passeggiata sopra Gerusalemme guardai giù alla Città Vecchia, alla Cupola della Roccia, il Muro del Pianto e la chiesa del Santo Sepolcro. Considerai i duemila anni di guerra e notizie di guerra che questo piccolo appezzamento di terra ha finito col rappresentare, e considerai quanto forse potesse essere vano credere che il nostro tempo riesca in qualche modo a vedere la fine di questo conflitto. O che l'America, nonostante tutto il suo potere, possa avere l'ultima parola sul corso del mondo.
Non mi soffermo su questi pensieri, però: sono i pensieri di un vecchio. Per quanto arduo possa sembrare il compito, ritengo che abbiamo l'obbligo di impegnarci nel tentativo di portare la pace in Medio Oriente, non solo a beneficio degli abitanti di quella regione, ma anche per la tranquillità e la sicurezza dei nostri figli.
E forse il destino del mondo non è scritto soltanto sui campi di battaglia.
Forse dipende altrettanto dal lavoro svolto in quei luoghi tranquilli che hanno solo bisogno di una mano. Ricordo quando seguivo i notiziari sullo tsunami che colpì l'Asia orientale nel 2004: le città della costa occidentale dell'Indonesia rase al suolo, le migliaia di persone risucchiate dal mare. E poi, nelle settimane successive osservai con orgoglio gli americani inviare più di un miliardo di dollari in aiuti privati e le navi da guerra statunitensi sbarcare migliaia di soldati per assistere nei soccorsi e nella ricostruzione. Secondo i resoconti dei giornali, il 65 per cento degli indonesiani intervistati affermò che grazie a questa assistenza avevano ora un'immagine più favorevole degli Stati Uniti. Non sono tanto ingenuo da credere che un unico episodio sulla scia di una catastrofe possa cancellare decenni di sfiducia.
Ma è un inizio.