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Politica

 

Uno dei miei compiti preferiti da senatore è partecipare agli incontri municipali. Ne ho tenuti trentanove nel mio primo anno al Senato, tutti in Illinois, in piccole cittadine rurali come Anna, in ricchi sobborghi come Naperville, in chiese nere del South Side e in alcuni college come quello di Rock Island. Il mio staff contatta il liceo locale, la biblioteca o il college   per accertarsi che desiderino ospitare l'evento. Circa una settimana prima, lo pubblicizziamo attraverso il quotidiano locale, i bollettini delle chiese e la stazione radio. Il giorno dell'incontro arrivo mezz'ora prima per parlare con le autorità municipali e discutere di questioni locali, come una strada che necessita riparazioni o il progetto per un nuovo centro per gli anziani. Dopo le fotografie di rito, entro nella sala dove aspetta il pubblico. Stringo le mani dei presenti mentre mi dirigo verso il palco, che di solito è spoglio fatta eccezione per un podio, un microfono, una bottiglia d'acqua e una bandiera americana posta sul suo piedistallo. E poi, per la successiva ora circa, rispondo alle persone che mi hanno mandato a Washington.

Il pubblico varia a questi incontri: a volte c'è una cinquantina di persone, a volte duemila. Tuttavia, indipendentemente dal numero di persone che partecipano, sono sempre lieto di vederle. Costituiscono uno spaccato delle contee che visitiamo: repubblicani e democratici, giovani e vecchi, grassi e magri, camionisti, professori universitari, veterani, insegnanti, agenti assicurativi, ragionieri, segretarie, medici e assistenti sociali. Sono generalmente cortesi e attenti, anche quando non sono d'accordo con me (o tra di loro. Mi fanno domande sulla prescrizione di medicinali, sul deficit, sui diritti umani nel Myanmar, sull'etanolo, sull'influenza aviaria, sui finanziamenti alle scuole e sul programma spaziale. Spesso mi sorprendono: accade che nel mezzo della campagna rurale una giovane donna dai capelli biondi si lanci in un appello appassionato per l'intervento in Darfur, o che un anziano signore di colore di un quartiere povero mi faccia domande sulla conservazione del suolo.

E mentre guardo il pubblico mi sento in qualche modo incoraggiato. Nella loro condotta vedo il duro lavoro. Nel modo i cui si occupano dei loro figli vedo la speranza. Il mio tempo con loro è come un tuffo in una corrente fredda. Dopo mi sento pulito, felice del lavoro che ho scelto.

Alla fine dell'incontro di solito le persone salgono sul palco per stringermi la mano e fare fotografie, o mandano avanti i loro figli a chiedere un autografo. Mi mettono in mano degli oggetti - articoli, biglietti da visita, appunti scritti a mano, medaglie di servizio, piccoli oggetti religiosi, ciondoli portafortuna. E a volte qualcuno, avvicinandosi, mi confida di avere grandi speranze per me, ma di essere preoccupato che Washington mi cambi e che io finisca come tutte le persone al potere.

Per favore, rimanga la persona che è, mi dicono.

Per favore, non ci deluda.

È una tradizione americana quella di attribuire il problema della nostra politica alla qualità dei politici. A volte il concetto è espresso in termini molto diretti: il presidente è un idiota o il deputato tal dei tali è un incapace. A volte l'accusa è più generalizzata, come «sono tutti tenuti in pugno da interessi individuali». Molti elettori concludono che a Washington tutti «giocano alla politica», intendendo che i voti o le posizioni sono presi con leggerezza, sono basati sui contributi alle campagne, sui sondaggi o sulla lealtà al partito, piuttosto che sul tentativo di fare ciò che è giusto. Spesso, le critiche più feroci sono riservate ai politici delle proprie file, al democratico che «non perora nessuna causa» o al «repubblicano solo di nome».

Tutto questo porta alla conclusione che se vogliamo cambiare qualcosa a Washington, abbiamo bisogno di liberarci dei mascalzoni.

Invece, anno dopo anno, i mascalzoni restano dove si trovano, con una media di rielezione dei membri della Camera che si aggira intorno al 96 per cento.

Gli studiosi di scienze politiche possono fornirci un buon numero di ragioni per spiegare questo fenomeno. Nel mondo di oggi è difficile penetrare la coscienza di un elertorato occupato e distratto. Come risultato, vincere in politica per lo più si riconduce a una semplice questione di visibilità personale, motivo per cui molti membri in carica spendono una smisurata quantità di tempo tra una elezione e l'altra ad assicurarsi che i loro nomi vengano ripetuti costantemente, a un'inaugurazione, alla parata del 4 luglio o all'interno del circuito dei talk show della domenica mattina. La raccolta dei fondi è un beneficio di cui godono i membri in carica, poiché i gruppi di interesse - sia della sinistra sia della destra - tendono a seguire le statistiche quando si tratta di contributi politici. Ci sono poi i brogli per proteggere i membri della Camera dalle sfide pericolose: di questi tempi, quasi tutte le candidature ai collegi elettorali sono decise dai partiti in modo da garantire ai loro candidati una elezione senza sorprese. In realtà, non è un'esagerazione affermare che la maggior parte degli elettori non sceglie più i propri rappresentanti; al contrario, sono i rappresentanti a scegliere gli elettori.

 

Entra poi in gioco un altro fattore, di rado menzionato ma che aiuta a spiegare perché i sondaggi mostrino costantemente elettori che odiano il Congresso, ma che amano il loro deputato. Per quanto sembri difficile da credere, molti politici sono persone decisamente piacevoli.

È senz'altro vero per i miei colleghi al Senato. Presi uno per uno, sono persone deliziose: mi troverei in difficoltà a citare narratori migliori di Ted Kennedy o Trent Lott, menti più acute di Kent Conrad o Richard Shelby, o persone più cordiali di Debbie Stabenow o Mei Martinez. Di norma si sono dimostrate persone intelligenti, sollecite e lavoratrici, disposte a dedicare lunghe ore e molta attenzione alle questioni che interessano i loro Stati. Sì, c'erano quelli che rendevano fede agli stereotipi, quelli che facevano discorsi interminabili o che tiranneggiavano il loro staff; e più tempo passavo nell'aula del Senato, più di frequente potevo identificare in ogni senatore i difetti di cui tutti soffriamo in varia misura - chi un cattivo carattere, chi una profonda testardaggine o un'inesauribile vanità. Per lo più, però, la percentuale di tali difetti in Senato non sembrava più alta di quanto non sarebbe in un campione preso a caso della popolazione comune. Anche quando parlavo con i colleghi con cui ero più in disaccordo, di solito ero colpito dalla loro sincerità di fondo - il desiderio di sistemare le cose e di lasciare il Paese migliore e più forte; il desiderio di rappresentare i propri elettori e i loro valori tanto fedelmente quanto le circostanze avrebbero permesso.

Quindi, che cosa è successo per far sì che questi uomini e queste donne si siano tramutati nei personaggi arcigni, inflessibili, ipocriti e occasionalmente meschini che popolano i notiziari della sera? Che cosa ha impedito a persone ragionevoli e coscienziose di occuparsi degli affari della nazione? Più lavoravo a Washington, più vedevo gli amici studiare il mio volto alla ricerca di un segno di cambiamento, cercavano indizi di pomposità, litigiosità o circospezione. Anch'io iniziai a esaminarmi allo stesso modo; cominciai a vedere certe caratteristiche che avevo in comune con i miei colleghi, e mi chiedevo come mai non mi trasformassi anch'io in un politico da film di serie B.

Cominciai la mia indagine interrogandomi sulla natura dell'ambizione, perché in questo, per lo meno, i senatori sono diversi. Poche persone diventano senatori degli Stati Uniti per caso; come minimo è richiesta una certa megalomania, la convinzione di essere in qualche modo gli unici qualificati a parlare in nome dei cittadini del proprio Stato; la convinzione di essere forti abbastanza per sopportare quei riti, a volte edificanti, occasionalmente sconvolgenti, ma sempre leggermente ridicoli, che chiamiamo campagne elettorali.

Ma l'ambizione da sola non basta. Qualunque sia il groviglio di motivazioni, sacre e profane, che ci spinge a diventare senatori, quelli che ci riescono devono manifestare una risolutezza quasi fanatica, spesso trascurando la salute, i rapporti personali, l'equilibrio mentale e la dignità. Quando si è chiusa la mia campagna alle primarie, ricordo di aver guardato il calendario e di aver realizzato che in un anno e mezzo mi ero preso solo sette giorni di vacanza. Il resto del tempo avevo lavorato di regola tra le dodici e le sedici ore al giorno. Non era qualcosa di cui andassi particolarmente fiero. Come Michelle mi ha più volte ricordato semplicemente non era normale.

E comunque, né l'ambizione né la risolutezza giustificano il comportamento dei politici. C'è un'altra emozione, forse più pervasiva e certamente più distruttiva, un'emozione che, dopo le vertigini della candidatura, velocemente ci attanaglia nella sua morsa e non ci lascia più fino al giorno delle elezioni.

Questa emozione è la paura. Non solo la paura di perdere - per quanto sia già abbastanza - ma la paura di una totale, completa umiliazione.

Fremo ancora, per esempio, al pensiero della mia unica sconfitta politica, una batosta per mano del democratico Bobby Rush in carica al Congresso nel 2000. È stata una corsa in cui tutto quello che poteva andare male è andato male, in cui i miei errori sono stati accentuati dalla tragedia e dalla farsa. Due settimane dopo aver annunciato la mia candidatura, con le poche migliaia di dollari raccolti, ho commissionato il mio primo sondaggio e ho scoperto che il nome del deputato Rush era conosciuto al 90 per cento dell'elettorato, mentre il mio all" 11 per cento. La media del suo consenso si aggirava intorno al 70 per cento - la mia all'8 per cento. In questo modo ho imparato una delle regole cardinali della politica moderna: fare sondaggi prima di annunciare la propria candidatura.

Le cose sono andate peggiorando da quel momento in poi. In ottobre, mentre andavo a un incontro per assicurarmi l'appoggio di uno dei pochi funzionari di partito che non si erano ancora impegnati con il mio avversario, ho sentito alla radio che un paio di spacciatori avevano ucciso il figlio del deputato Rush fuori da casa sua. Ero scioccato e rattristato per Rush, e di fatto ho sospeso la mia campagna per un mese.

 

Poi, durante le vacanze natalizie, dopo che ero partito per le Hawaii per una breve visita di cinque giorni a mia nonna e per stare un po'"con Michelle e la piccola Malia che allora aveva diciotto mesi, il corpo legislativo di Stato è stato convocato in una sessione speciale per votare una legge sul controllo delle armi. Con Malia malata e impossibilitata a volare, ho rinunciato al voto, e il progetto di legge è stato bocciato. Due giorni dopo, scendevo dall'aereo all'aeroporto O'Hara con in braccio una bambina in lacrime e Michelle che non mi parlava, e sono stato accolto da una notizia in prima pagina sul «Chicago Tribune» che diceva che il progetto di legge era caduto per pochi voti, e che Obama, il senatore statale e candidato al Congresso, «aveva deciso di rimanere in vacanza» alle Hawaii. Il manager della mia campagna mi ha chiamato, accennando al potenziale spot che i miei rivali avrebbero presto potuto diffondere - palme, un uomo su una sdraio con un cappello di paglia che sorseggia un cocktail, una lenta melodia di chitarra di sottofondo, la voce fuori campo che dice: «Mentre Chicago subisce la più alta percentuale di omicidi nella sua storia, Barack Obama...».

L'ho fermato lì, avevo afferrato l'idea.

E così, a meno di metà della campagna, sapevo perfettamente che avrei perso.

Ogni mattina da quel momento in poi mi sono svegliato con un vago senso di paura, sapendo che avrei dovuto passare il giorno a sorridere e stringere mani, e a fingere che tutto stesse andando secondo i piani. Nelle poche settimane che precedettero le primarie, la mia campagna si è ripresa un po': sono andato bene nei dibattiti che erano però seguiti da uno scarso pubblico, ho ricevuto alcune recensioni positive per le mìe proposte sulla sanità e l'educazione e ho ottenuto persino l'avallo del «Tribune». Ma era un po'"troppo tardi. Sono arrivato alla mia festa per la vittoria quando il risultato era già stato annunciato e avevo perso di 31 punti.

Non voglio dire che i politici siano gli unici a soffrire per simili delusioni.

Però, diversamente dalla maggior parte delle persone, che hanno il lusso di potersi leccare le ferite in privato, la sconfitta di un politico è esposta al pubblico. Bisogna tenere un allegro discorso di ringraziamento per tutti coloro che ti hanno sostenuto di fronte a una sala mezza vuota, assumere una bella espressione quando si confortano staff e sostenitori, telefonare per ringraziare quelli che ti hanno aiutato e richiedere con imbarazzo un ulteriore aiuto per saldare il debito. È essenziale svolgere questi compiti al meglio e non importa quante volte ripeti a te stesso che le cose stanno diversamente - non importa con che convinzione attribuisci la sconfìtta al tempismo sbagliato, alla cattiva sorte o alla mancanza di denaro - è impossibile non sentirsi in qualche modo ripudiato dall'intera comunità, privo delle doti necessarie, come se ovunque tu vada la parola «perdente» passi per la mente delle persone. Sono il tipo di sentimenti che non si provano più dagli anni del liceo, quando la ragazza che avevi puntato ti ha respinto con una battutaccia di fronte alle sue amiche, o quando hai mancato un paio di tiri liberi in una partita decisiva in bilico quei sentimenti che per essere evitati necessitano di una saggia organizzazione della vita.

Immaginate allora l'impatto che queste stesse emozioni hanno su un politico all'apice della carriera che di rado ha fallito in qualcosa nella sua vita (non sto parlando di me) - che era il quarter- back del liceo o lo studente incaricato di pronunciare il discorso di fine anno, il cui padre era senatore o ammiraglio e che fin da bambino sembrava destinato a grandi cose. Ricordo di aver parlato una volta con un dirigente aziendale che era stato un grande sostenitore del vicepresidente Al Gore durante la corsa alla presidenza del 2000. Eravamo nel suo ufficio di lusso, con vista su Manhattan, e ha iniziato a descrivermi un incontro che si era svolto circa sei mesi dopo le elezioni, quando Gore cercava finanziatori per l'acquisto di una rete televisiva via cavo.

«Era strano» mi diceva il dirigente. «Eccolo, un ex vicepresidente, un uomo che solo pochi mesi prima era stato sul punto di essere l'uomo più potente del pianeta. Durante la campagna, rispondevo alle sue chiamate a qualsiasi ora del giorno, riprogrammavo i miei impegni ogni volta che voleva incontrarmi. Ma all'improvviso, dopo le elezioni, non potevo evitare di pensare ai nostri incontri come a una scocciatura. Odio ammetterlo, perché mi piace davvero quell'uomo. Ma in qualche modo non era Al Gore, l'ex vicepresidente. Era solo una delle cento persone al giorno che vengono da me in cerca di soldi. Questo mi ha fatto comprendere su quale grande e ripido precipizio vi troviate.» E al di là del precipizio, la caduta a picco. Nei cinque anni passati, Al Gore ha dimostrato la soddisfazione e l'influenza che la politica può dare a un uomo e sospetto che quel dirigente stia di nuovo rispondendo con piacere alle chiamate dell'ex vicepresidente. Tuttavia, nei momenti che hanno seguito la   sconfitta del 2000, immagino che Gore abbia avvertito il cambiamento nei suoi amici. Seduto lì, tentando di prendere il meglio da una brutta situazione, può aver pensato quanto fossero ridicole le circostanze in cui si trovava; il modo in cui dopo un'intera vita di lavoro poteva aver perso tutto per colpa di un ballottaggio, mentre il suo amico dirigente, seduto di fronte a lui con un sorriso condiscendente, poteva sopportare di arrivare secondo negli affari, magari vedere cadere le azioni della sua compagnia, anno dopo anno, o fare un investimento mal calcolato, ed essere comunque considerato un uomo di successo, orgoglioso di quanto realizzato, di generoso compenso e dell'esercizio del potere. Non era giusto, non cambiava la situazione dell'ex vicepresidente. Come molti uomini e donne che intraprendevano la strada della vita pubblica Gore sapeva in che cosa si stava cacciando nel momento in cui ha deciso di correre per la presidenza. In politica ci può essere un secondo atto, ma non ci può mai essere un secondo posto.

La maggior parte dei peccati di cui si macchiano i politici deriva da questo più grande peccato - il bisogno di vincere, ma anche il bisogno di non perdere. Di certo la caccia al denaro riguarda questo. C'era un tempo, prima della legge sul finanziamento delle campagne e delle inchieste dei giornalisti, in cui il denaro influenzava la politica tramite una corruzione sfacciata; in cui un politico poteva trattare i finanziamenti per la campagna come il suo conto in banca personale e accettare viaggi di piacere pagati con i soldi dei contribuenti; in cui il denaro elargito dai gruppi di pressione era un luogo comune e il corpo politico andava al miglior offerente. Se le notizie recenti sono esatte, queste esuberanti forme di corruzione non sono finite del tutto; apparentemente a Washington c'è ancora chi vede la politica come un mezzo per arricchirsi e che, mentre di norma non è abbastanza stupido da accettare borse con banconote di piccolo taglio, è perfettamente preparato a prendersi cura dei contribuenti e a coccolarli finché il tempo non è maturo per tuffarsi nella pratica lucrativa delle lobby.

Ma il denaro influenza la politica anche in altre maniere. Pochi lobbisti offrono un compenso esplicito per eleggere i funzionari. Non ne hanno bisogno.

La loro influenza deriva semplicemente dal fatto che quei funzionari sono più accessibili a loro che all'elettore comune, sono meglio informati dell'elettore comune e possiedono maggiore capacità di resistenza quando si tratta di promuovere un'oscura misura sul codice fiscale, che vale miliardi per i propri clienti e assolutamente nulla per i comuni cittadini.

Perché a molti politici il denaro non serve per arricchirsi. In Senato, per lo meno, molti membri sono già ricchi. Serve a mantenere lo status e il potere; serve ad allontanare gli sfidanti e a sconfiggere la paura. Il denaro non può garantire la vittoria - non può comprare la passione, il carisma o l'abilità di raccontare una storia. Ma senza denaro e inserzioni televisive che consumano tutti i soldi, si è quasi sicuri di perdere.

Le somme di denaro coinvolte lasciano senza fiato, in particolare in quei grandi Stati in cui esistono molteplici canali mediatici. Durante il mio mandato non ho mai avuto bisogno di spendere più di 100.000 dollari per una campagna; così, mi son fatto la reputazione di essere un po'"retrogrado quando si tratta di raccogliere fondi, allorché, collaborando alla prima legge sul finanziamento illecito ai partiti che sia mai passata in venticinque anni, ho rifiutato pranzi dai lobbisti, respinto assegni provenienti dal gioco d'azzardo e dagli interessi del tabacco. Quando ho deciso di correre per il Senato americano, il mio esperto di media, David Axelrod, mi ha fatto sedere per spiegarmi come andavano le cose.

Il piano della nostra campagna richiedeva un budget consistente, un sostegno massiccio della gente comune e il supporto dei media. Come mi ha riferito David, una settimana di pubblicità televisiva nel mercato dei media di Chicago sarebbe costata circa mezzo milione di dollari. Coprire il resto dello Stato per una settimana sarebbe costato intorno ai 250.000 dollari. Sommando quattro settimane in televisione, i costi generali e lo staff per una campagna statale, il budget finale per le primarie sarebbe ammontato a circa 5 milioni di dollari.

Supponendo di vincere le primarie, per le elezioni politiche avrei allora avuto bisogno di trovare finanziamenti per altri 10 o 15 milioni di dollari.

Quella sera sono tornato a casa e ho scritto in colonne ordinate tutti i nomi degli amici e conoscenti che avrebbero potuto darmi un contributo. Vicino ai loro nomi ho scritto la cifra massima che mi sarei sentito di chiedere loro.

Il totale ammontava a 500.000 dollari.

Se non si dispone di una grossa ricchezza personale, c'è un altro modo per raccogliere il denaro necessario. Bisogna chieder alle persone ricche. Durante i primi tre mesi della mia campagna, mi sono chiuso in una stanza con il mio addetto alla raccolta fondi e ho telefonato senza preavviso a tutti i miei   precedenti finanziatori democratici. Non è stato divertente. A volte mi mettevano giù il telefono. Più spesso lasciavo un messaggio alle segretarie e non venivo richiamato, allora ci riprovavo due o tre volte finché rinunciavo, o la persona che stavo chiamando alla fine rispondeva e mi concedeva la cortesia di un rifiuto di persona. Ho iniziato a trovare scuse per rinviare il momento delle telefonate - frequenti pause per andare in bagno, lunghe corse a prendere il caffè, suggerimenti al mio staff per migliorare il discorso sull'educazione per la terza o la quarta volta. Mi capitava, durante queste sessioni, di pensare a mio nonno, che si era trovato a vendere assicurazioni sulla vita, ma non era molto bravo in quel lavoro. Mi sono ricordato della sua angoscia ogni volta che cercava di prendere un appuntamento con persone che avrebbero preferito andare dal dentista piuttosto che parlare con un agente assicurativo, così come gli sguardi di disapprovazione che riceveva da mia nonna, che per gran parte del loro matrimonio aveva guadagnato più di lui.

Ora capivo come doveva essersi sentito.

Alla fine dei tre mesi, la nostra campagna aveva raccolto solo 250.000 dollari una bazzecola rispetto a quelli necessari. A peggiorare le cose, il mio avversario incarnava quello che molti politici consideravano il loro peggiore incubo: un candidato autofinanziato con risorse illimitate. Si chiamava Blair Hull e, pochi anni prima, aveva venduto la sua impresa commerciale e finanziaria alla famosa banca d'affari Goldman Sachs per 531 milioni di dollari. Senza dubbio aveva un genuino, seppure indefinito, desiderio di fare del bene e, a detta di tutti, era un uomo brillante. Tuttavia nei comizi elettorali si dimostrava penosamente timido, con i modi eccentrici e introversi di chi ha passato gran parte della vita da solo davanti a un computer. Sospettavo che, come molte persone, immaginasse che essere un politico - diversamente da un medico, un pilota di linea o un idraulico - non richiedesse competenze particolari e che un uomo d'affari come lui potesse fare per lo meno altrettanto bene, e probabilmente meglio, di tutti gli altri politici che comparivano in televisione. Infatti, il signor Hull vedeva la sua abilità con i numeri come una qualità inestimabile: a un certo punto della campagna, illustrò a un giornalista una formula matematica che aveva sviluppato per vincere le elezioni, un algoritmo che iniziava con Probabilità = l/(l+esperienza ( - 1 x ( - 3.9659056 +

(Peso delle elezioni politiche x 1.92380219)... finiva svariati e indecifrabili fattori dopo.

Tutto questo mi rese facile liquidare il signor Hull, almeno fino a una mattina di aprile o maggio, quando sono uscito dal vialetto del mio condominio per andare in ufficio e sono stato accolto da file e file di grandi cartelli rossi, bianchi e blu lungo tutto il caseggiato. BLAIR HULL AL SENATO AMERICANO, dicevano i cartelli, e per le successive cinque miglia li ho visti in ogni strada e lungo ogni via principale, in ogni direzione e a ogni angolo, alle finestre dei barbieri e affissi sugli edifici abbandonati, di fronte alle fermate degli autobus e dietro ai banconi delle drogherie -cartelli di Hull ovunque, che punteggiavano il paesaggio come margherite in primavera.

C'è un detto tra i politici dell'Illinois: «I cartelli non votano», che significa che non si può giudicare una corsa elettorale dal numero dei cartelli che un candidato ha. Ma nessuno in Illinois aveva mai visto durante un'intera campagna una quantità di cartelli e tabelloni simile a quella che Hull aveva affisso in un unico giorno, o la tremenda efficienza con cui i suoi fedelissimi potevano, in una sola sera, tirare via i cartelli di tutti gli altri e rimpiazzarli con i suoi. Alcuni leader di quartiere della comunità nera improvvisamente avevano deciso che Hull era il paladino del centro urbano degradato, mentre alcuni leader delle zone rurali esaltavano l'appoggio di Hull alle aziende agricole a gestione familiare. Poi sono iniziati gli spot televisivi, ovunque per sei mesi fino al giorno delle elezioni, in ogni stazione dello Stato e per tutto il giorno - Blair Hull con gli anziani, Blair Hull con i bambini, Blair Hull pronto a riprendersi Washington dagli affaristi senza scrupoli. Nel gennaio 2004, Hull era passato al primo posto nei sondaggi e i miei sostenitori hanno iniziato a sommergermi di telefonate, insistendo che dovevo fare qualcosa, dicendomi che dovevo subito andare in televisione o tutto sarebbe stato perduto.

Che cosa potevo fare? Spiegavo loro che, diversamente da Hull, in pratica ero al verde. Prendendo in considerazione l’ ipotesi migliore, la nostra campagna avrebbe avuto denaro sufficiente per quattro settimane di spot televisivi e dunque con ogni probabilità non avrebbe avuto senso bruciare l'intero budget per le elezioni in agosto. Dovevamo solo avere tutti un po'"di pazienza, dicevo ai sostenitori. Rimanere fiduciosi. Poi riagganciavo il telefono, guardavo fuori dalla finestra e mi chiedevo se forse, dopo tutto, non fosse giunto il momento   di farsi prendere dal panico.

Per molti aspetti sono stato più fortunato di altri candidati in circostanze simili. Per qualche ragione, a un certo punto la mia campagna ha iniziato a godere di una misteriosa ed elusiva euforia; è diventato di moda tra i ricchi promuovere la mia causa, e piccoli donatori in tutto lo Stato hanno iniziato a mandare assegni via internet a una velocità che non ci saremmo mai aspettati. Il mio status di outsider mi ha protetto da alcune delle più pericolose insidie della raccolta fondi: la maggioranza dei comitati di azione politica mi evitava, di conseguenza non avevo debiti con loro; i pochi comitati che mi hanno finanziato, come la League Conservation Voters (un'associazione non- profit), di solito rappresentavano cause in cui credevo e per cui avevo combattuto a lungo.

Hull ha finito comunque per spendere sei volte di più quello che ho speso io. Ma a suo merito (e forse anche a suo rimpianto) non ha mai mandato in onda uno spot negativo contro di me. I numeri dei miei sondaggi erano vicinissimi ai suoi e nelle settimane finali della campagna, quando i miei spot hanno iniziato ad andare in onda e i miei numeri a salire, la sua campagna è implosa, nel momento in cui è stato reso noto che su di lui pendevano delle accuse per qualche brutta lite con una ex moglie.

Così, almeno per me, la mancanza di ricchezza o di sostegno delle aziende non è stato un ostacolo alla vittoria. Tuttavia, non posso dire che la caccia ai finanziamenti non mi preoccupi in qualche modo. Di certo ha eliminato ogni senso di vergogna che una volta provavo nel chiedere a sconosciuti grandi somme di denaro. Alla fine della campagna, la tiritera e il breve discorso che una volta accompagnavano le mie telefonate di richiesta sono stati eliminati. Passavo direttamente al sodo e cercavo di non accettare un no come risposta.

Ma ero preoccupato che ci fosse anche un altro cambiamento in corso. Mi trovavo a passare sempre più tempo con persone facoltose - soci di studi legali e banche d'investimento, manager di fondi con copertura e forti investitori. Di regola erano persone brillanti e interessanti, bene informate sulla politica pubblica, liberal nelle loro idee politiche, che non si aspettavano niente in cambio dei loro assegni se non che ascoltassi le loro opinioni. Rispecchiavano però quasi uniformemente le prospettive della loro classe: quell’1 per cento dei contribuenti che si può permettere di staccare un assegno da 2000 dollari a un candidato politico. Credevano nel libero mercato e in una meritocrazia nell'educazione; trovavano difficile immaginare l'esistenza di mali sociali che un alto punteggio al test di ammissione al college non potesse curare. Non avevano pazienza con il protezionismo, trovavano seccanti i sindacati e non erano particolarmente comprensivi verso chi si ritrovava la vita sottosopra per colpa della globalizzazione. I più erano fermamente a favore della libertà di decisione sull'aborto e contro le armi, ed erano vagamente sospettosi verso un profondo sentimento religioso.

E per quanto le mie opinioni corrispondessero per molti aspetti alle loro dopo tutto avevo frequentato le stesse scuole e letto gli stessi libri, e mi ero preoccupato per i miei bambini allo stesso modo -, mi sono trovato costretto a evitare alcuni argomenti durante le nostre conversazioni, mascherando le possibili differenze, anticipando le loro aspettative. Sulle questioni centrali ero schietto; non avevo problemi a dire ai sostenitori ricchi che mi sarei impegnato a revocare il taglio alle tasse voluto da George Bush. Ogni volta che mi era possibile cercavo di condividere con loro le prospettive delle altre porzioni dell'elettorato: il ruolo legittimo della fede in politica, per esempio, o il profondo significato culturale delle armi nelle zone rurali dello Stato.

Tuttavia, so che come conseguenza della raccolta fondi sono diventato più simile ai ricchi finanziatori che ho conosciuto, nel senso che ho trascorso più tempo al di sopra della mischia, fuori dal mondo della fame reale, del disappunto, della paura, dell'irrazionalità e dei frequenti sacrifìci del restante 99 per cento della popolazione - ossia, le persone che volevo aiutare entrando in politica. E in un modo o nell'altro, sospetto che questo sia vero per ogni senatore: quanto più a lungo si è senatori, tanto più ristretto è il campo d'azione delle proprie interazioni. Puoi tentare di opporti, con incontri cittadini e giri di ascolto e visite nel vecchio quartiere. Ma il programma ti porta sempre più lontano dalla maggior parte delle persone che rappresenti.

Ci sono altre forze in gioco nella vita di un senatore. Per quanto il denaro sia importante nella campagna elettorale, non è solo la raccolta fondi che porta in alto un candidato. Se si vuole vincere in politica - se non si vuole perdere -, allora le persone possono essere altrettanto importanti dei soldi, in particolare nelle primarie con bassa affluenza che, nel mondo delle congiure strategiche e degli elettorati divisi, sono spesso la corsa elettorale più   significativa che un candidato possa affrontare. Poche persone oggi hanno il tempo o la voglia di offrirsi volontarie in una campagna elettorale, in particolare perché gli impegni giornalieri di una campagna generalmente implicano leccare buste e bussare alle porte, non scrivere bozze di discorsi e pensare in grande. E così, se sei un candidato che necessita di assistenti politici o di liste di elettori, vai dove le persone sono già organizzate. Per i democratici questo significa rivolgersi ai sindacati, gruppi ambientalisti e gruppi pro- aborto. Per i repubblicani, la destra religiosa, la camera di commercio locale, la National Rifle Association (organizzazione non- profit a favore delle armi da fuoco) e i comitati contro le tasse.

Non mi sono mai trovato completamente a mio agio con il termine «interessi speciali», che mette insieme ExxonMobil e muratori, lobby farmaceutiche e genitori di bambini disabili. Molti studiosi di scienze politiche probabilmente non sarebbero d'accordo, ma per me c'è una differenza tra una lobby aziendale, il cui potere si basa solo sul denaro, e un gruppo di individui con la stessa mentalità - siano essi lavoratori tessili, patiti di armi, veterani o imprenditori di un'azienda agricola a gestione familiare - che si uniscono per promuovere i loro interessi; tra chi si serve del suo potere economico per accrescere la propria influenza politica molto al di là di quanto i numeri possano giustificare e coloro che semplicemente cercano di racimolare i voti per eleggere i propri rappresentanti. I primi sovvertono l'idea di democrazia. Gli altri ne sono l'essenza.

Tuttavia, l'impatto dei gruppi di interesse sui candidati non è sempre piacevole. Per mantenere un'attiva membership, far continuare ad arrivare i finanziamenti ed essere ascoltati al di sopra del frastuono, i gruppi che hanno un impatto in politica non sono plasmati per promuovere gli interessi pubblici.

Non cercano il candidato più ponderato, qualificato e di ampie vedute da sostenere. Al contrario, sono concentrati su un ristretto insieme di interessi le loro pensioni, gli incentivi all'agricoltura, la loro causa. In altre parole, tirano l'acqua al loro mulino. E vogliono che tu, il funzionario eletto, li aiuti a farlo.

Durante la mia campagna per le primarie, per esempio, devo aver riempito almeno cinquanta questionari. Nessuno era accurato. Di solito contenevano una lista da dieci a dodici domande, strutturate secondo questo modello: «Se venisse eletto, si impegnerebbe solennemente ad abrogare la legge Scrooge, che ha buttato vedove e orfani sul marciapiede?».

Il poco tempo a disposizione mi ha spinto a compilare solo quei questionari mandati da organizzazioni che potevano davvero sostenermi (date le mie posizioni politiche, le associazioni pro- armi e antiabortiste non rientravano in quella categoria), così di solito potevo rispondere «sì» a quasi tutte le domande senza grosso imbarazzo. Ma ogni tanto mi imbattevo in una domanda che mi faceva riflettere. Potevo essere d'accordo con un sindacato sulla necessità di applicare standard sindacali e ambientali alle leggi sul commercio, e credere contemporaneamente che il NAFTA (Accordo nordamericano di libero scambio) dovesse essere revocato? Potevo essere d'accordo che la sanità pubblica dovesse essere una delle principali priorità della nazione, se per raggiungere questo obiettivo la strada migliore passava per un emendamento costituzionale? Mi sono trovato a tergiversare su simili questioni, analizzando le difficili scelte politiche implicate. Il mio staff scuoteva la testa. Una risposta sbagliata, mi spiegavano, e l'appoggio, i lavoratori e le mailing list sarebbero andati tutti all'altro candidato. Tutte giuste, pensavo io, e ti sei appena incastrato nella lotta faziosa cui ti eri impegnato a porre fine.

Dì una cosa durante la campagna e fanne un'altra quando sarai in carica: ecco un tipico politico a due facce.

Ho perso qualche appoggio non dando la risposta giusta. Un paio di volte un gruppo mi ha sorpreso e mi ha dato il suo sostegno nonostante la risposta sbagliata.

E poi talvolta non importava come riempivi il questionario. Oltre a Hull, il mio più formidabile avversario alle primarie democratiche per il Senato americano è stato lo State Comptroller dell'Illinois, Dan Hynes, uomo raffinato e capace funzionario pubblico il cui padre, Tom Hynes, era, guarda caso, un ex presidente del Senato statale, assessore della contea di Cook, membro della Commissione di circoscrizione, membro della commissione democratica nazionale e una delle figure politiche meglio introdotte dello Stato. Già prima di entrare in corsa, Dan si era assicurato il sostegno di 85 su 102 presidenti di contea democratici, della maggioranza dei miei colleghi del corpo legislativo statale e di Mike Madigan, che era stato Speaker della Camera e presidente del partito democratico dell'Illinois. Scorrere la lista dei sostenitori sul sito web di Dan   era come guardare i titoli di coda alla fine di un film - te ne vai prima che siano finiti.

Nonostante tutto questo, ho continuato a sperare di mantenere qualche mio sostenitore, in particolare quelli del lavoro organizzato. Per sette anni ero stato loro alleato nel corpo legislativo statale, sponsorizzando molti dei loro progetti di legge. Sapevo che tradizionalmente l'ALF- CIO, la federazione nazionale dei sindacati, appoggiava chi vantava un buon numero documentato di voti per conto proprio. Ma nel corso della campagna, sono iniziate ad accadere cose strane. I camionisti hanno tenuto la loro sessione di supporto a Chicago il giorno in cui mi trovavo a Springfield per un voto; si sono rifiutati di riprogrammarla e Hynes si è aggiudicato il loro appoggio senza che nemmeno avessero parlato con me. Dovendo visitare la sala di ricevimento sindacale durante la fiera statale dell'Illinois, ci era stato detto che non erano permessi simboli elettorali; quando io e il mio staff siamo arrivati, abbiamo scoperto che la sala era tappezzata di poster di Hynes. La sera della sessione di appoggio dell'ALF- CIO, ho notato che parte dei miei amici del sindacato distoglievano lo sguardo mentre entravo nella sala. Un uomo più anziano, che era stato a capo di uno dei sindacati locali più grandi dell'Illinois, mi ha raggiunto e mi ha battuto una mano sulla spalla.

«Non c'è niente di personale, Barack» mi ha detto con un sorriso compassionevole. «Sai, io e Tom Hynes ci conosciamo da cinquant'anni. Siamo cresciuti nello stesso quartiere. Appartenevamo alla stessa parrocchia. Diavolo, ho visto Danny crescere.» Gli ho risposto che capivo.

«Potresti candidarti per il posto di Danny una volta che sarà in Senato. Che ne pensi? Saresti un ottimo Comptroller.» Sono andato dal mio staff per comunicare che non avrei avuto l'appoggio dell'ALF- CIO.

Di nuovo le cose si sono sistemate. I leader di buona parte dei maggiori sindacati del terziario sono usciti dagli schemi e hanno deciso di appoggiarmi contro Hynes, supporto che si è dimostrato decisivo nel dare alla mia campagna una qualche parvenza di rilievo. Era una mossa rischiosa da parte loro; se avessi perso, questi sindacati avrebbero potuto pagare un prezzo in iscrizioni, supporto e credibilità nei confronti dei loro membri.

Così sono in debito con loro. Quando i loro leader chiamano, faccio del mio meglio per richiamarli subito. Non credo che si tratti di corruzione; non mi preoccupa sentirmi in obbligo verso gli infermieri a domicilio che si prendono cura dei malati tutti i giorni per poco più del minimo sindacale, o verso gli insegnanti che lavorano in alcune delle scuole più difficili del Paese, molti dei quali all'inizio dell'anno comprano matite e libri per gli studenti. Sono entrato in politica per combattere per queste persone e sono felice che ci sia un sindacato a ricordarmi le loro lotte.

Tuttavia capisco anche che si presenteranno situazioni in cui questi obblighi collideranno con altri obblighi - l'obbligo nei confronti dei bambini dei quartieri poveri che non sanno leggere, per esempio, o l'obbligo verso i bambini non ancora nati e già carichi di debiti. Ci sono già state sollecitazioni - ho proposto di sperimentare un sistema salariale meritocratico per gli insegnanti, per esempio, e ho richiesto di aumentare gli standard di efficienza dei consumi delle auto nonostante l'opposizione dei miei amici al sindacato dei lavoratori dell'industria automobilistica. Mi piace ripetermi che continuerò a valutare le questioni a seconda dei meriti - proprio come spero che, prima delle elezioni, la mia controparte repubblicana valuterà meglio prima di promettere «nessuna nuova tassa» o l'opposizione alla ricerca sulle cellule staminali alla luce di cosa è meglio per il Paese nel suo complesso, noncurante di quello che chiedono i suoi sostenitori. Spero di poter sempre andare dagli amici del sindacato e spiegare perché ha senso la mia posizione, in che modo è coerente sia con i miei valori sia con i loro interessi a lungo termine.

Ma sospetto che i leader dei sindacati non la vedranno sempre così. Qualche volta ci accuseranno di avere tradito i loro interessi, e diranno ai loro membri che li ho venduti. Potrei ricevere e- mail e telefonate di protesta. Potrebbero non sostenermi la prossima volta.

E forse, se questo accade un numero sufficiente di volte, e ti trovi con il fiato corto perché un collegio elettorale cruciale è arrabbiato con te, o ti ritrovi a difenderti da uno sfidante alle primarie che ti chiama traditore, cominci a perdere il coraggio di confrontarti. Ti chiedi che cosa ti dice esattamente la coscienza: evitare di farti prendere dagli «interessi speciali» o evitare di deludere gli amici? La risposta non è ovvia. Così inizi a votare proprio come risponderesti a un questionario. Non ponderi le tue posizioni molto   profondamente. Sbarri la casella del sì e passi alla riga successiva.

I politici sono tenuti prigionieri dai ricchi finanziatori o cedono alla pressione dei gruppi di interesse - questo è uno degli argomenti principali delle notizie politiche, l'argomento che si fa strada in ogni analisi su cosa c'è di sbagliato nella nostra democrazia. Ma per il politico che è preoccupato di mantenere il suo seggio, c'è una terza forza che lo spinge e lo tira, che plasma la natura del dibattito politico e definisce l'ambito del lecito e dell'illecito, del conveniente e dello sconveniente. Quaranta o cinquantanni fa, questa forza era costituita dall'entourage del partito: i boss delle grandi città, i faccendieri politici, gli intermediari del potere a Washington che potevano favorire o distruggere una carriera con una telefonata. Oggi questa forza è rappresentata dai media.

Una precisazione: per un arco di tempo di tre anni, dal momento in cui ho annunciato la mia candidatura al Senato alla fine del mio primo anno da senatore, ho beneficiato di una straordinariamente positiva - e a volte immeritata - attenzione da parte della stampa. Di sicuro questo aveva qualche cosa a che vedere con il mio status di sfavorito alle primarie per il Senato, così come con la novità di candidato di colore e di origini esotiche. Forse aveva a che fare anche con il mio stile comunicativo, che può essere divagante, tentennante e oltremodo prolisso (sia il mio staff sia Michelle spesso me lo ricordano), ma che forse incontra la simpatia di chi scrive.

Inoltre, anche quando sono stato oggetto di recensioni negative, i giornalisti politici con cui ho avuto a che fare di solito sono stati onesti. Hanno registrato le nostre conversazioni, cercato di indicare il contesto delle mie affermazioni e mi hanno chiamato a rispondere quando venivo criticato.

Quindi, personalmente almeno, non ho motivi per lagnarmi. Questo non significa, però, che io riesca a ignorare la stampa. Proprio perché a volte le sue attenzioni mi hanno reso la vita difficile, sono consapevole di quanto rapidamente questo processo possa mutare direzione.

Nei trentanove incontri cittadini che ho tenuto nel mio primo anno in carica, la partecipazione media a ogni incontro era tra le 400 e le 500 persone, per un totale dalle 15.000 alle 20.000 persone. Se avessi dovuto sostenere questo ritmo per il resto del mio mandato, fino al giorno delle elezioni sarei arrivato a ottenere un contatto diretto e personale con circa novantacinque- centomila dei miei elettori.

Per contro, una notizia di tre minuti sulla rete locale meno caia del mercato dei media di Chicago può raggiungere 200.000 persone in un colpo solo. In altre parole, io - come ogni politico a livello federale - sono quasi del tutto dipendente dai media per raggiungere i miei elettori. C'è un filtro attraverso cui sono interpretati i miei voti, analizzate le mie affermazioni, esaminate le mie convinzioni. Per il grande pubblico, almeno, io sono chi i media dicono che io sia. Dico quello che loro dicono che io dica. Divento quello che loro dicono io sia diventato.

L'influenza dei media sulla nostra politica avviene in forme diverse. Quello che attira l'attenzione oggi è la crescita di una stampa estremamente faziosa: i programmi radiofonici, la Fox News, gli editoriali di quotidiani, il circuito dei talk- show delle reti via cavo e, più di recente, i blogger, tutti a scambiarsi insulti, accuse, pettegolezzi e insinuazioni ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Come altri hanno notato, questo genere di giornalismo d'opinione non è realmente nuovo; in qualche modo, segna un ritorno alla tradizione dominante del giornalismo americano, un approccio alla notizia coltivato da editori come William Randolph Hearst e il colonnello McCormick, prima che, dopo la Seconda guerra mondiale, emergesse una nozione più asettica di giornalismo oggettivo.

Tuttavia, è difficile negare che tutto il rumore e la rabbia, magnificati dalla televisione e da internet, involgariscano la cultura politica. Infiammano i caratteri, aiutano a nutrire la sfiducia. E che a noi politici piaccia ammetterlo o no, il costante sarcasmo può consumare gli spiriti. Strano a dirsi, non ci si preoccupa poi tanto delle invettive più volgari; se gli ascoltatori di Rush Limbaugh si divertono a sentirlo chiamarmi «Osama Obama», il mio atteggiamento è: lasciamoli divertire. Sono i professionisti più sofisticati che possono colpirti, in parte perché hanno più credibilità presso il grande pubblico, in parte per l'abilità con cui manipolano le tue parole e ti fanno sembrare un fesso.

Nell'aprile del 2005, per esempio, sono apparso in un programma per inaugurare la nuova Lincoln Presidential Library a Springfield. Ho tenuto un discorso di cinque minuti in cui dicevo che l'umanità di Abramo Lincoln, i suoi difetti, erano le qualità che lo hanno reso tanto affascinante. «Nell'uscita [di Lincoln]

  dalla povertà» dicevo a un certo punto delle mie considerazioni «il suo studio da autodidatta e la sua suprema padronanza del linguaggio e della legge, nella capacità di superare la sconfitta personale e rimanere fermo di fronte a ripetuti insuccessi - in tutto questo vediamo un elemento fondamentale del carattere americano, una convinzione che possiamo costantemente lavorare su noi stessi per conformarci ai nostri più grandi sogni.» Pochi mesi dopo, la rivista «Time» mi ha chiesto se potevo essere interessato a scrivere un contributo per un numero speciale su Lincoln. Non avevo il tempo di scrivere qualcosa di nuovo quindi ho chiesto ai redattori se il mio discorso era accettabile. Hanno risposto di sì, ma mi hanno domandato se potevo personalizzarlo un po'"di più - dire qualcosa dell'impatto che Lincoln ha avuto sulla mia vita. Tra un incontro e l'altro, ho buttato giù qualche rettifica. Uno di questi riguardava il passaggio che ho citato sopra, che ora recitava: «L'uscita di Lincoln dalla povertà, nella sua suprema padronanza del linguaggio e della legge, la capacità di superare la sconfitta personale e rimanere fermo di fronte a ripetuti insuccessi - tutto questo mi ha ricordato che non esistono solo le mie battaglie».

Il saggio era appena uscito quando Peggy Noonan, ex autrice dei discorsi di Reagan e redattrice del «Wall Street Journal», è intervenuta. Sotto il titolo «Arroganza di governo» ha scritto: «Questa settimana c'è il senatore Barack Obama, un tempo uomo prudente, che agita le ali sul «Time» e spiega di essere molto simile ad Abramo Lincoln, solo molto meglio». Continuava dicendo: «Non c'è niente di male nel curriculum di Barack Obama, ma è lontano dalla gente comune e dai suoi problemi. E quindi è lontano anche dalla grandezza. Se continua a parlare così di se stesso, lo sarà per sempre».

Certo è difficile stabilire se la signora Noonan pensasse seriamente che mi stessi paragonando a Lincoln o se si è solo divertita a massacrarmi in modo così elegante. In confronto a certe critiche opportunistiche della stampa, quella che ho subito io è stata davvero bonaria - e non del tutto immeritata.

Comunque mi ha ricordato quello che i miei colleghi veterani sapevano già: ogni affermazione che avessi fatto sarebbe stata analizzata, sezionata da ogni tipo di esperto, interpretata secondo modalità su cui non avevo alcun controllo e rastrellata alla ricerca di un potenziale errore, di una dichiarazione inesatta, di un'omissione o una contraddizione che potesse essere archiviata dal partito avversario per comparire in una televisione ostile o da qualche parte per la strada. In un ambiente in cui una singola incauta osservazione può generare una pubblicità peggiore di quanto non possano fare anni di incauta politica, non mi avrebbe dovuto sorprendere che in Campidoglio le battute venissero passate al vaglio, l'ironia divenisse sospetta, la spontaneità disapprovata, la passione considerata assolutamente pericolosa. Ho iniziato a chiedermi quanto ci volesse a un politico per abituarsi a tutto questo; quanto tempo prima che il comitato di scribacchini, redattori e censori si impossessasse di ogni suo pensiero; quanto prima che persino i momenti di sincerità venissero stabiliti a tavolino, così da restare senza fiato o indignarsi solo al momento giusto.

Quanto tempo ancora prima di iniziare ad apparire come politico?

C'era un'altra lezione da imparare: non appena l'articolo della signora Noonan è uscito, ha iniziato a diffondersi su internet comparendo su ogni sito web della destra come prova di che arrogante e superficiale stupido fossi (quei siti in genere riportano soltanto la citazione scelta dalla signora Noonan e non il saggio completo). In tal senso, l'episodio suggerisce un aspetto sottile e corrosivo dei media moderni - come una particolare narazione, ripetuta alla noia e urlata attraverso il cyberspazio a velocità della luce, alla fine diventi un solido frammento di realtà; come le caricature politiche e le perle del buon senso convenzionale penetrano nel nostro cervello senza che nemmeno ci prendiamo la briga di esaminarle.

Per esempio, in questo periodo è difficile trovare un qualsiasi riferimento ai democratici che non insinui che siamo «deboli» e che non peroriamo nessuna causa. I repubblicani, d'altro canto, sono «forti» (anche se un po'"meschini) e Bush è «risoluto», indipendentemente da quante volte cambi idea. Un voto o un discorso di Hillary Clinton che va contro corrente è immediatamente etichettato come calcolatore; la stessa mossa fatta da John McCain sottolinea le sue credenziali di politico indipendente. «A regola», secondo un osservatore caustico, il mio nome in ogni articolo dovrebbe essere preceduto da «astro nascente» - per quanto il pezzo della Noonan abbia posto le basi per una storia diversa, sebbene ugualmente familiare: il racconto edificante di un giovane uomo che arriva a Washington, perde la testa sotto i riflettori dei media e alla fine diventa calcolatore o fazioso (a meno che sotto i riflettori dei media riesca in qualche modo a spostarsi nel campo della politica indipendente).

 

Certo, la macchina delle pubbliche relazioni messa in moto dai politici e dai loro partiti finisce per nutrire questo genere di storie e per lo meno negli ultimi cicli elettorali i repubblicani sono stati molto più bravi dei democratici (un cliché che sfortunatamente per noi democratici è proprio vero).

Lo spin (la distorsione, manipolazione o presentazione parziale dei fatti nel modo che più conviene) funziona proprio perché i media stessi sono a esso favorevoli. Ogni giornalista di Washington lavora sotto pressioni imposte da redattori e produttori, che a loro volta rispondono agli editori o agli esecutivi del network, che a loro volta studiano attentamente gli indici d'ascolto della settimana precedente o le cifre della tiratura dell'anno precedente e cercano di sopravvivere alla crescente preferenza per i videogiochi e per i reality show. Per restare nei tempi stabiliti, per mantenere una quota di mercato e difendersi dall'informazione via cavo, i giornalisti iniziano a muoversi in branchi, sfornando gli stessi comunicati, gli stessi pezzi e le stesse cifre. Nel frattempo, per i distratti consumatori di queste notizie, una storia trita non è del tutto sgradita. Chiede poco tempo al nostro pensiero ed è veloce e facile da digerire. Accettare lo spin è più facile per tutti.

Anche questo elemento di convenienza aiuta a spiegare perché, persino tra i giornalisti più scrupolosi, oggettività spesso significhi pubblicare il resoconto di un dibattito senza nessuna indicazione su chi possa davvero avere ragione. Ecco un esempio: «Oggi la Casa Bianca riporta che, nonostante l'ultima serie di tagli alle tasse, si stima che il deficit sarà dimezzato per il 2010».

Questa indicazione è seguita da una citazione di un analista liberal che attacca le cifre della Casa Bianca e di un analista conservatore che le difende. Uno dei due analisti è più credibile dell'altro? C'è da qualche parte un analista indipendente in grado di guidarci tra le cifre? Chi lo sa? Raramente il giornalista ha tempo per dettagli di questo tipo; la notizia non riguarda davvero i meriti del taglio alle tasse o i pericoli del deficit, ma piuttosto la disputa tra i due partiti. Dopo pochi paragrafi, il lettore può concludere che repubblicani e democratici stanno solo battibeccando di nuovo; e va alla pagina sportiva, dove la notizia principale è meno prevedibile e la tabella dei punteggi indica chiaramente il vincitore.

In realtà, parte di ciò che rende così affascinante per i giornalisti contrapporre tra loro i comunicati stampa è che permette di premere su un tasto a loro molto caro: il conflitto personale. È difficile negare che il livello di civiltà in politica sia declinato negli ultimi dieci anni e che i partiti differiscano nettamente sulle principali questioni politiche. Ma almeno parte del declino d'una comunicazione civile viene dal fatto che, dal punto di vista della stampa, la compostezza è noiosa: «Capisco il punto di vista dell'altro», o «La questione è davvero complicata» è noioso. Spesso i giornalisti fanno di tutto per mettere zizzania, facendo domande in modo da provocare risposte incendiarie. Un giornalista televisivo che conoscevo a Chicago era molto famoso per farti dire quello che voleva sentire e le sue interviste sembravano una gag di Stanlio e Ollio.

«Si sente tradito dalla decisione di ieri del governatore?» mi chiedeva.

«No. Ho parlato con il governatore e sono sicuro che possiamo risolvere le nostre divergenze prima della fine della sessione.» «Certo... ma si sente tradito dal governatore?» «Non userei questa parola. Il suo punto di vista...» «Ma non si tratta in realtà di un tradimento da parte del governatore?» Lo spin, l'amplificazione del conflitto, la ricerca indiscriminata di uno scandalo e di errori, tutto questo porta all'erosione di ogni standard convenuto per giudicare la verità. C'è una storia meravigliosa, forse apocrifa, che si racconta sul compianto Daniel Patrick Moynihan, il brillante, suscettibile e iconoclasta senatore di New York. Sembra che Moynihan fosse nel mezzo di una calda discussione con uno dei suoi colleghi quando l'altro senatore, sentendo di essere sul punto di avere la peggio nella discussione, se ne era uscito: «Bene, puoi non essere d'accordo con me, Pat, ma ho il diritto di avere le mie opinioni». Al che Moynihan aveva freddamente replicato: «Hai il diritto di avere le tue opinioni, ma non hai il diritto di avere le tue verità».

L'affermazione di Moynihan non regge più. Non abbiamo una figura autorevole, nessun Walter Cronkite o Edward R. Murrow a cui dare tutti ascolto per cavarci d'impiccio. Invece i media sono divisi in mille frammenti, ognuno con la sua versione della realtà, ognuno che rivendica la lealtà di una nazione frammentata. A seconda delle opinioni, il cambiamento globale del clima è o non è in pericoloso aumento; il deficit del budget sta crescendo o sta diminuendo.

E il fenomeno non riguarda solo i reportage su questioni complicate. All'inizio del 2005, «Newsweek» ha pubblicato la notizia secondo cui le guardie americane e   coloro che conducevano gli interrogatori nella prigione di Guantanamo erano stati accusati di aver deriso e maltrattato i prigionieri buttando, tra le altre cose, un Corano nel gabinetto. La Casa Bianca ha insistito sull'infondatezza della notizia. Senza una concreta documentazione e sulla scia delle proteste in Pakistan per via dell'articolo, «Newsweek» è stato costretto a immolarsi pubblicando una smentita. Diversi mesi più tardi, il Pentagono ha diffuso un resoconto che rivelava come alcuni membri del personale di Guantanamo fossero in effetti implicati in diversi casi di comportamenti scorretti - incluso casi in cui il personale femminile americano fingeva di macchiare con il sangue mestruale i detenuti durante gli interrogatori e almeno un caso di una guardia che aveva imbrattato di urina un prigioniero e il suo Corano. Quel pomeriggio la Fox News annunciava: «Il Pentagono non ha trovato prove di un Corano gettato nel gabinetto».

Capisco che i soli fatti non possano sempre risolvere le nostre dispute politiche. Le opinioni sull'aborto non sono determinate dalla scienza dello sviluppo del feto e il nostro giudizio su se e quando far rientrare le truppe dall'Iraq deve necessariamente essere basato sulla probabilità. Ma a volte ci sono risposte più o meno accurate; a volte ci sono fatti che non possono essere «manipolati», proprio come per sapere se piove basta uscire all'aperto.

L'assenza di una pur minima concordanza sui fatti pone ogni opinione allo stesso livello e quindi elimina le basi per un compromesso ponderato. Non premia coloro che hanno ragione, ma coloro che - come l'ufficio stampa della Casa Bianca possono sostenere le loro ragioni in modo più rumoroso, più frequente, più ostinato e con lo sfondo migliore.

Il politico di oggi lo capisce. Può non mentire, ma capisce che non ci sono premi per chi dice la verità, in particolare quando la verità appare complicata.

La verità può causare costernazione; la verità verrà attaccata; i media non avranno la pazienza di mettere insieme tutti i fatti e così il pubblico potrebbe non conoscere mai la differenza tra verità e falsità. Quello che diventa importante allora è il posizionamento - una dichiarazione che eviterà la controversia o genererà la pubblicità necessaria, l'atteggiamento che si adatterà sia all'immagine che gli addetti stampa hanno costruito per lui sia a uno dei contenitori narrativi che i media hanno creato per la politica in generale. Il politico può continuare, per una questione di integrità personale, a insistere nel dire la verità come la vede. Ma lo fa sapendo che il fatto che creda nelle sue posizioni è meno importante del fatto che sembri crederci; che il parlare franco conta meno del sembrare franco in televisione.

Da quanto ho osservato, ci sono innumerevoli politici che si sono imbattuti in questi ostacoli e che hanno mantenuto intatta la loro integrità, uomini e donne che raccolgono contributi elettorali senza essere corrotti, che raccolgono sostenitori senza essere tenuti prigionieri da interessi particolari e trattano con i media senza perdere coscienza di sé. Ma c'è un ostacolo finale che, una volta che ci si è stabiliti a Washington, non si può evitare del tutto, un ostacolo che di certo infangherà la tua reputazione presso una considerevole fetta del tuo elettorato: la natura profondamente insoddisfacente del processo legislativo.

Non conosco un singolo parlamentare che non si tormenti regolarmente sul voto che deve dare. Ci sono volte in cui si sente che un progetto di legge è così palesemente giusto da meritare un breve dibattito interno (mi viene in mente l'emendamento di John McCain che proibiva la tortura da parte del governo americano). Altre volte, arriva in aula un progetto di legge così evidentemente unilaterale o malamente abbozzato che ci si chiede come chi lo sostiene possa trattenersi dal ridere durante il dibattito.

Ma per lo più, legiferare è un processo oscuro, il prodotto di centinaia di compromessi grandi e piccoli, la combinazione di aspirazioni politiche legittime, di esibizione politica, del vecchio trucco di spendere soldi in un'area per ottenere il consenso degli elettori. Spesso, quando nei miei primi mesi al Senato leggevo i progetti di legge che arrivavano in aula, mi confrontavo con il fatto che la questione di principio era meno chiara di quanto avessi originariamente pensato; che un voto favorevole, come un voto sfavorevole, mi avrebbero lasciato un certo rimorso. Dovrei votare un progetto di legge sull'energia che incrementi la produzione di carburante alternativo e migliori lo status quo, ma che è del tutto inadeguato al fine di diminuire la dipendenza dell'America dal petrolio straniero? Dovrei votare contro un cambiamento nel Clean Air Act che indebolirà le regolamentazioni in alcune aree ma le rafforzerà in altre, creando un più prevedibile sistema di osservazione aziendale? E se il progetto di legge aumenta l'inquinamento ma finanzia la ricerca di una tecnologia pulita della combustione del carbone che potrebbe   portare lavoro a una parte impoverita dell'Illinois? Mi trovo a meditare ripetutamente sulla posta in gioco, sui prò e i contro, meglio che posso nel limitato tempo a disposizione. Il mio staff mi informa che le lettere e le telefonate sono divise in modo uniforme e che i gruppi di interesse di entrambe le parti stanno tenendo i punti. Mentre si avvicina l'ora del voto, mi viene spesso in mente una cosa che John F. Kennedy ha scritto cinquanta anni fa nel suo libro Ritratti del coraggio: Pochi, forse nessuno, affrontano la medesima spaventosa responsabilità di decisione che affronta un senatore chiamato a rispondere a un decisivo appello nominale. Quell'uomo può aver bisogno di più tempo per raggiungere la sua decisione, può credere che vi sia ancora qualcosa da dirsi da entrambi i lati dello schieramento, può credere che un leggero emendamento risolverebbe tutte le decisioni, però, a dispetto di ciò, quando si chiami il suo nome non può nascondersi, non può equivocare, non può ritardare e intuisce che il suo elettorato, come il corvo nella poesia di Poe, è appollaiato là al suo banco nel Senato, e gracchia «Mai più» mentre egli depone nell'urna il voto che pone in forse il suo avvenire politico.

Detto così può suonare un po'"melodrammatico. Tuttavia, nessun legisì atore, statale o federale, è immune da simili difficili momenti - che sono sempre peggiori per il partito che non è al potere. In quanto membro della maggioranza, prima di arrivare in aula ricevi alcuni input per ogni progetto di legge che per te è importante. Puoi chiedere al presidente della commissione di includere una terminologia che aiuti gli elettori o di eliminare una terminologia che li offende. Puoi addirittura chiedere al leader di maggioranza o al sostenitore principale di tenere in sospeso il progetto di legge finché non viene raggiunto un compromesso maggiormente di tuo gradimento.

Se sei nel partito di minoranza, non hai simili pretese. Devi votare sì o no per qualsiasi progetto di legge venga proposto, con la consapevolezza che probabilmente non sarà un compromesso che tu o i tuoi sostenitori considererete ragionevole o giusto. In un periodo di scambio indiscriminato di voti e di conti salatissimi, puoi essere certo che indipendentemente da quanti cattivi provvedimenti siano contenuti nel progetto di legge, ci sarà qualcosa finanziamenti per gli equipaggiamenti delle truppe, per esempio, o qualche modesto aumento nei benefit dei veterani -che renderà doloroso opporvisi.

Durante il suo primo mandato, almeno, la Casa Bianca di Bush era maestra in questo gioco legislativo ai limiti delle regole. C'è una storia istruttiva sui negoziati intorno alla prima serie di tagli alle tasse di Bush, quando Karl Rove aveva invitato un senatore democratico alla Casa Bianca per discutere il potenziale appoggio del senatore al pacchetto di proposte del presidente. Nelle elezioni precedenti Bush aveva stravinto nello Stato di quel senatore - in parte con un programma di tagli alle tasse -, che di norma sosteneva aliquote marginali più basse. Tuttavia, il senatore era preoccupato di quanto i tagli alle tasse proposti pendessero dalla parte dei ricchi e aveva suggerito pochi cambiamenti che avrebbero moderato l'impatto del pacchetto.

«Fate questi cambiamenti» aveva detto il senatore a Rove «e non solo voterò il progetto di legge, ma garantisco che avrete settanta voti in Senato».

«Non vogliamo settanta voti» pare avesse replicato Rove «ne vogliamo cinquantuno».

Rove può aver pensato o no che il progetto di legge della Casa Bianca fosse buona politica, ma riconosceva un vincente quando ne vedeva uno. O il senatore votava sì e aiutava a far passare il programma del presidente, o votava no e diventava un bersaglio perfetto per le successive elezioni.

Alla fine il senatore - come molti Stati democratici - aveva votato sì, voto che indubbiamente rifletteva il sentimento prevalente sui tagli alle tasse nel suo Stato natale. Tuttavia, storie simili illustrano alcune difficoltà che ogni partito di minoranza affronta nell'essere «bipartisan». Tutti amano l'idea di essere bipartisan. I media, in particolare, sono innamorati del termine, poiché contrasta nettamente con il «battibeccare fazioso» che è il tema dominante dei servizi dal Campidoglio. Tuttavia essere davvero bipartisan richiede un processo onesto - dare e ricevere è una qualità del compromesso misurata in base a quanto gioverà a favore degli obiettivi concordati, che si tratti di scuole migliori o di deficit più bassi. Questo a sua volta implica che la maggioranza sarà obbligata - da una stampa esigente in definitiva, da un elettorato informato - a negoziare in buona fede. Se non si mantengono queste condizioni - se nessuno fuori da Washington presta veramente attenzione alla sostanza del progetto di legge, se i veri costi dei tagli alle tasse sono sepolti in falsi resoconti e decurtati di un trilione di dollari o quasi - il tiro di maggioranza può iniziare ogni negoziazione chiedendo 100 per cento di quello che vuole,   procedere concedendo il 10 per cento e alla fine accusare ogni membro del partito di minoranza che non vuole adeguarsi a questo «compromesso» di essere un «ostruzionista». Per il partito di minoranza, in simili circostanze, «bipartisan» viene a significare che la minoranza è cronicamente schiacciata, per quanto i singoli senatori possano andare d'accordo con la maggioranza e quindi guadagnarsi la reputazione di «moderati» o «centristi».

Non deve sorprendere che ci siano attivisti che insistono sul fatto che di questi tempi i senatori democratici si oppongono a ogni iniziativa repubblicana - persino a quelle iniziative che hanno un qualche merito - per una questione di principio. È giusto dire che nessuno di loro si è mai candidato ad alte cariche come democratico in uno Stato a predominanza repubblicana, né è stato bersaglio di pubblicità televisive negative da svariati milioni di dollari. Quello che ogni senatore sa è che mentre è facile far sembrare un voto su una legge complicata perverso e depravato in uno spot televisivo di trenta secondi, è molto difficile spiegare la giustezza di quello stesso voto in meno di venti minuti. Ma ogni senatore sa anche che nel corso di un singolo mandato avrà votato migliaia di volte. Sono un mucchio di potenziali spiegazioni da dare, quando arrivano le elezioni.

Forse la mia fortuna più grande durante la campagna per il Senato è stata che nessun candidato ha mandato in onda spot negativi su di me. Questo ha a che fare con le insolite circostanze della mia corsa al Senato e non con la mancanza di materiale su cui lavorare. Dopo tutto, quando mi sono candidato ero nel corpo legislativo dello Stato da sette anni, di cui sei nella minoranza, e avevo assegnato migliaia di voti a volte difficili. Secondo una pratica standard di questi tempi, il National Republican Senatorial Committee (commissione politica istituita dai membri repubblicani del Senato per aiutare i compagni di partito nelle corse elettorali) aveva preparato un grosso fascicolo su di me addirittura prima della mia nomina, e il mio team di ricerca aveva passato ore a mettere insieme la mia documentazione per anticipare gli spot negativi che i repubblicani avrebbero potuto estrarre come assi nella manica.

Non hanno trovato molto, ma hanno trovato abbastanza per raggiungere lo scopo circa una dozzina di voti che, se descritti al di fuori del contesto, potevano sembrare decisamente spaventosi. Quando il mio esperto di media, David Axelrod, li ha messi alla prova in un sondaggio, il mio indice di gradimento è immediatamente sceso di dieci punti. C'era il progetto sulla legge penale che implicava una maggior severità sulla droga spacciata nelle scuole, ma era stato abbozzato così approssimativamente che avevo concluso fosse tanto inefficace quanto incostituzionale -«Obama ha votato per indebolire le pene contro le gang che spacciano nelle scuole»: così il sondaggio lo ha descritto. C'era un progetto di legge sostenuto dagli attivisti contro l'aborto che in apparenza sembrava abbastanza ragionevole - imponeva misure salvavita per i bambini prematuri (il progetto di legge non menzionava che tali misure erano già regolamentate) - ma estendeva anche il significato di «persona» ai feti in fase pre- vitale, di fatto invalidando la sentenza Roe contro Wade; nel sondaggio, fu detto che avevo «votato per negare le cure salvavita ai bambini nati vivi».

Scorrendo la lista, ho trovato una dichiarazione che sosteneva che mentre ero nel corpo legislativo statale avevo votato contro un progetto di legge per «proteggere i nostri bambini dai molestatori sessuali».

«Aspetta un attimo» ho detto, strappando il foglio di mano a David. «Ho accidentalmente schiacciato il bottone sbagliato quella volta. Avevo intenzione di votare sì e l'ho subito corretto nelle trascrizioni ufficiali.» David ha sorriso. «Non so perché ma non penso che quella parte della trascrizione ufficiale verrà trasformata in uno spot repubblicano.» Ha ripreso delicatamente il sondaggio dalle mie mani. «Comunque sia, consolati» ha aggiunto dandomi una pacca sulla spalla. «Sono sicuro che questo ti aiuterà con il voto dei molestatori sessuali.» A volte mi chiedo come sarebbero andate le cose se quegli spot fossero davvero andati in onda. Non tanto se avessi vinto o perso - alla fine delle primarie avevo un distacco di venti punti dal mio avversario repubblicano - ma piuttosto come mi avrebbero visto gli elettori, come, entrando in Senato, avrei avuto un margine molto inferiore di sostegno. Perché è così che la maggior parte dei miei colleghi, repubblicani o democratici, entrano in Senato, con i loro errori divulgati, le parole distorte e le ragioni messe in discussione. Sono battezzati in questo fuoco che li ossessiona ogni volta che assegnano un voto, ogni volta che rilasciano un comunicato stampa o fanno una dichiarazione; hanno paura di perdere non solo la corsa politica, ma il favore di coloro che li hanno mandati a Washington - tutte quelle persone che una volta o l'altra hanno detto: «Abbiamo grandi speranze per lei. Non ci deluda».

 

Certo, la nostra democrazia offre soluzioni tecniche che possono alleggerire parte della pressione sui politici, cambiamenti strutturali per rafforzare il legame tra gli elettori e i loro rappresentanti. La divisione in distretti non di parte, la registrazione il giorno stesso e le elezioni nei weekend aumenterebbero la competitività delle corse elettorali e potrebbero sollecitare la partecipazione dell'elettorato - e più l'elettorato presta attenzione, più l'integrità è premiata. I finanziamenti pubblici alle campagne elettorali, la televisione e spazi radiofonici gratuiti potrebbero drasticamente ridurre il costante bisogno di elemosinare denaro e l'influenza degli interessi particolari. I cambiamenti nelle norme della Camera e del Senato potrebbero dare più potere ai legislatori della minoranza, aumentare la trasparenza nei procedimenti e incoraggiare una presentazione più inquisitoria delle notizie.

Ma nessuno di questi cambiamenti può avvenire spontaneamente. Ognuno richiederebbe un cambiamento nell'atteggiamento di chi sta al potere. Ognuno richiederebbe ai singoli politici di sfidare l'ordine esistente; di allentare la stretta sulla titolarità della carica; di battersi con gli amici così come con i nemici in nome di quegli ideali astratti verso cui il pubblico sembra avere poco interesse. Ogni cambiamento richiederebbe a uomini e donne di essere disposti a rischiare quello che hanno già.

Alla fine, poi, si continua a ritornare su quella qualità che John F. Kennedy aveva cercato di definire all'inizio della sua carriera quando era convalescente da un'operazione, memore del suo eroismo in guerra, ma forse rifletteva sulle sfide più ambigue che aveva di fronte - la qualità del coraggio. In qualche modo, più a lungo stai in politica, più facilmente diventerai coraggioso, perché è liberatorio realizzare che, qualunque cosa tu faccia, qualcuno ce l'avrà con te, che gli attacchi politici arriveranno indipendentemente dalla prudenza con cui voti, che la cautela può essere presa per codardia e il coraggio stesso per calcolo. Trovo confortante il fatto che più sto in politica, meno attraente diventa la popolarità, che la lotta per il potere, il rango e la fama sembra tradire una povertà di ambizioni, e che prima di tutto sono responsabile di fronte allo sguardo severo della mia coscienza.

E dei miei elettori. Dopo un incontro municipale a Godfrey, un distinto signore è venuto da me e mi ha espresso la sua indignazione per il fatto che, nonostante mi fossi opposto alla guerra in Iraq, non avessi ancora richiesto un ritiro pieno delle truppe. Abbiamo avuto una breve e piacevole discussione in cui gli ho spiegato la mia preoccupazione che un ritiro troppo precipitoso potesse portare alla guerra civile nel Paese e a un allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente. Alla fine della conversazione mi ha stretto la mano.

«Continuo a pensare che lei abbia torto» ha detto «ma almeno sembra che ci abbia pensato su. Diavolo, probabilmente mi deluderebbe se fosse d'accordo con me tutte le volte.» «Grazie» ho risposto. Mentre se ne andava, mi sono ricordato di una cosa che aveva detto una volta il giudice Louis Brandeis: in democrazia la carica più importante è la carica di cittadino.