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Famiglia
All'inizio del secondo anno da senatore, la mia vita aveva assunto un ritmo accettabile. Partivo da Chicago il lunedì sera o il martedì mattina sul presto, a seconda dell'orario delle votazioni in Senato. Fatta eccezione per il tempo speso quotidianamente in palestra e qualche raro pranzo o cena con un amico, i tre giorni successivi erano occupati da una serie prevedibile di impegni: partecipare a commissioni per la stesura definitiva delle leggi, a votazioni, a pranzi con i colleghi dello Stato e a interventi parlamentari, pronunciare discorsi, farsi fotografare con stagisti, intervenire a raccolte serali di fondi, rispondere alle telefonate, scrivere lettere, riesaminare leggi, stendere articoli per i giornali, scaricare i podcast, ricevere indicazioni sulle strategie, incontrare gli elettori per un caffè, e presenziare a una serie infinita di incontri. Il giovedì pomeriggio ci veniva annunciato quando sarebbe avvenuta l'ultima votazione, e all'ora fissata mi mettevo in coda assieme ai miei colleghi per dare il mio voto, prima di affrettarmi giù per i gradini del Campidoglio nella speranza di prendere un volo che mi portasse a casa prima che le bambine andassero a letto.
Nonostante il programma frenetico, trovavo il lavoro affascinante, anche se a volte frustrante. Contrariamente a quanto pensa la gente, ogni anno vengono sottoposte al voto del Senato soltanto due dozzine circa di proposte di legge significative, e quasi nessuna è presentata da un membro del partito di minoranza. Di conseguenza, la maggior parte delle mie iniziative più importanti languiva in commissione: la formazione di nuovi distretti scolastici, un piano per aiutare l'industria automobilistica statunitense a pagare le spese sanitarie per i dipendenti in pensione in cambio di migliori livelli di efficienza energetica, un'estensione del programma dei Pell Grants per aiutare gli studenti a basso reddito ad affrontare i crescenti costi dell'istruzione universitaria.
D'altro canto, grazie al valido lavoro del mio staff riuscii a far passare un discreto numero di emendamenti. Contribuimmo a far stanziare fondi per i veterani senza casa; riuscimmo a far concedere sgravi fiscali ai distributori di benzina per l'installazione di pompe per carburante E85; ottenemmo finanziamenti per aiutare l'Organizzazione mondiale della sanità a monitorare e a far fronte a una potenziale pandemia di influenza aviaria; strappammo al Senato un emendamento che eliminava i contratti senza gare d'appalto per la ricostruzione post- Katrina, in modo che una maggior quantità di denaro finisse effettivamente nelle mani delle vittime della tragedia. Nessuno di questi emendamenti avrebbe trasformato il Paese, ma fui soddisfatto di sapere che ognuno di essi dava un modesto aiuto a qualcuno, o spostava la legge in una direzione che poteva dimostrarsi più economica, più responsabile, o più giusta.
Un giorno di febbraio ero particolarmente di buonumore, al termine di una seduta su una legge mirata a ridurre la proliferazione di armamenti e il mercato nero delle armi, proposta da me e da Dick Lugar. Poiché Dick non solo era il principale esperto del Senato sui problemi della proliferazione, ma anche il presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato, le prospettive per la proposta di legge sembravano promettenti. Desideroso di condividere le buone notizie, chiamai Michelle dal mio ufficio di Washington, e cominciai a spiegarle l'importanza della proposta: come i lanciarazzi potessero minacciare l'aviazione commerciale se fossero caduti nelle mani sbagliate, come le scorte di armi leggere rimaste dalla Guerra fredda continuassero ad alimentare conflitti in tutto il mondo. Michelle mi interruppe.
«Abbiamo le formiche.» «Come?» «Ho trovato formiche in cucina e nel bagno al piano di sopra.» «Davvero?...» «Devi comprare del veleno per formiche mentre torni a casa, domani. Le prenderei io, ma dopo la scuola devo portare le bambine all'appuntamento col medico. Puoi farlo tu?» «Va bene. Veleno per formiche.» «Veleno per formiche. Non dimenticarti, caro. Senti, devo andare a una riunione. Ti amo.» Riappesi il ricevitore, chiedendomi se Ted Kennedy o John Mc- Cain comprassero veleno per formiche tornando a casa dal lavoro.
La maggior parte delle persone che incontrano mia moglie ne sono ammirati. Hanno ragione: è intelligente, divertente, e assolutamente affascinante. È anche molto bella, benché non in una maniera che mette soggezione agli uomini e risulta sgradevole alle donne. È la bellezza serena della madre e della professionista impegnata, piuttosto che l'immagine ritoccata che si vede sulle copertine delle riviste patinate. Spesso, dopo averla sentita parlare a qualche cerimonia o aver lavorato con lei a un progetto, la gente mi si avvicina e dice frasi del tipo: «Sai che ho un'ottima opinione di te Barack, ma tua moglie... caspita!».
Annuisco, sapendo che se mai dovessi presentarmi contro di lei per una carica pubblica mi batterebbe senza troppe difficoltà.
Per mia fortuna, Michelle non si darebbe mai alla politica. «Non ho abbastanza pazienza» risponde a chi glielo chiede. Come sempre sta dicendo la verità.
Incontrai Michelle nell'estate del 1988, mentre lavoravamo entrambi presso Sidley & Austin, un grosso studio legale con sede a Chicago. Benché sia di tre anni più giovane di me, Michelle esercitava già la professione di avvocato, avendo frequentato la Facoltà di legge ad Harvard subito dopo il college. Io avevo appena finito il mio primo anno di specializzazione ed ero stato assunto come impiegato.
Era un periodo di transizione difficile della mia vita. Mi ero iscritto alla Facoltà di legge dopo tre anni di lavoro come coordinatore sociale a livello locale e, nonostante gli studi mi piacessero, nutrivo ancora dubbi sulla mia decisione: nell'intimo, temevo che rappresentasse l'abbandono dei miei ideali giovanili, una concessione alla dura realtà del denaro e del potere, al mondo come è piuttosto che come dovrebbe essere.
L'idea di lavorare per uno studio legale, così vicino e tuttavia così lontano dai quartieri poveri dove i miei amici stavano ancora faticando, peggiorava soltanto questi timori. Tuttavia, dato che i prestiti agli studenti erano sempre più costosi, non potevo permettermi di rifiutare i tre mesi di stipendio che Sidley mi offriva. E così, dopo aver preso in subaffitto l'appartamento più economico che riuscii a trovare, e dopo aver acquistato i primi tre completi mai apparsi nel mio armadio e un paio di scarpe nuove, che si rivelò di mezza misura troppo piccolo e mi avrebbe azzoppato per le nove settimane successive, mi presentai presso lo studio una mattina piovigginosa agli inizi di giugno, e venni indirizzato all'ufficio della giovane avvocatessa che era stata incaricata di fungere da mio responsabile.
Non ricordo i dettagli di quella prima conversazione con Michelle. Rammento che era alta - con i tacchi, quasi quanto me - e attraente, con un modo di fare amichevole e professionale, che si addiceva al suo completo e alla camicetta eleganti. Mi spiegò come veniva assegnato il lavoro nello studio, le materie in cui i vari gruppi di avvocati erano specializzati, e come contabilizzare le ore di lavoro. Dopo avermi mostrato il mio ufficio e avermi fatto fare un giro della biblioteca, mi affidò a uno degli associati, dicendo che ci saremmo rivisti a pranzo.
In seguito Michelle mi avrebbe raccontato che era rimasta piacevolmente sorpresa quando ero entrato nel suo ufficio. La fototessera che avevo mandato per l'organigramma dello studio mi faceva il naso un po'"grosso (perfino più del solito, avrebbe detto), ed era rimasta scettica quando le segretarie che mi avevano visto durante il colloquio le avevano riferito che ero carino: «Pensavo che fossero soltanto colpite da un nero che indossava un completo e aveva un lavoro». Tuttavia se Michelle era rimasta colpita, certamente non lo diede a vedere quando andammo a pranzo. Appresi che era cresciuta nel South Side, in una villetta appena a nord dei quartieri in cui ero stato coordinatore; suo padre lavorava a una pompa di benzina e sua madre era stata casalinga sinché i figli erano cresciuti, e all'epoca lavorava in una banca come segretaria. Michelle aveva frequentato la scuola elementare pubblica Bryn Mawr, era poi entrata alla Whitney Young Magnet School, e aveva seguito a Princeton il fratello che era stato una stella della squadra di pallacanestro. Da Sidley faceva parte del gruppo che si occupava dei diritti d'autore ed era specializzata nelle leggi sullo spettacolo. Forse, prima o poi, raccontò, avrebbe preso in considerazione un trasferimento a Los Angeles o a New York per fare carriera.
Michelle quel giorno era piena di progetti, impaziente di affermarsi, senza tempo, come mi disse, per le distrazioni, soprattutto per gli uomini. Sapeva però anche ridere di gusto, e notai che sembrava non aver troppa fretta di tornare in ufficio. E c'era qualcos'altro: uno scintillio che danzava nei suoi occhi scuri e tondi ogni volta che la guardavo, un leggerissimo accenno di incertezza, come se nel profondo sapesse quanto la realtà fosse fragile, e che se si fosse lasciata andare anche solo per un momento tutti i suoi progetti avrebbero potuto crollare rapidamente. Quella traccia di vulnerabilità in qualche modo mi colpì. Volevo conoscere quella parte di lei.
Nelle successive settimane ci vedemmo praticamente un giorno sì e uno no: in biblioteca, alla caffetteria, a una delle svariate uscite che gli studi legali organizzano per gli impiegati a tempo determinato, per convincerli che la loro vita professionale non sarà costituita esclusivamente da infinite ore trascorse sui documenti. Michelle mi portò a una festa o due passando sopra, con molto tatto, al mio guardaroba limitato, e cercò perfino di organizzarmi qualche appuntamento con un paio di sue amiche. Rifiutò invece di uscire per un appuntamento vero e proprio: non era corretto, spiegò, dato che era il mio responsabile.
«È una scusa ridicola» le risposi. «Dai, in fondo che cosa mi insegni? Mi mostri come funziona la fotocopiatrice, mi dici quali ristoranti provare. Non credo che un appuntamento sarebbe una grave infrazione alla linea dello studio.» Scosse la testa. «Mi spiace.» «Okay, mi arrendo. Vediamo. Sei il mio responsabile: dimmi con chi devo parlare.» Alla fine l'ebbi vinta. Dopo un picnic organizzato dallo studio, mi riaccompagnò in macchina al mio appartamento e mi offrii di comprarle un gelato di fronte a casa. Sedemmo sul cordolo del marciapiede mangiando i nostri coni nel calore appiccicoso del pomeriggio. Io le raccontai di quando, da ragazzo, avevo lavorato in una gelateria, e di quanto fosse difficile avere un'aria cool con grembiule e berrettino marroni. Michelle a sua volta mi raccontò che da bambina per circa due o tre anni aveva rifiutato di mangiare qualsiasi cosa tranne burro di arachidi e gelatine. Dissi che mi sarebbe piaciuto conoscere la sua famiglia e lei rispose che sarebbe piaciuto anche a lei.
Le chiesi se potevo baciarla. Sapeva di cioccolato.
Passammo il resto dell'estate insieme. Le raccontai del mio lavoro di coordinatore, della mia vita in Indonesia, e come era fare body- surf. Mi raccontò dei suoi amici d'infanzia e di un viaggio a Parigi che aveva fatto durante le superiori, e delle sue canzoni preferite di Stevie Wonder.
Tuttavia fu soltanto quando conobbi la sua famiglia che cominciai davvero a capirla. Scoprii che andare a casa dei Robinson era come fare una capatina sul set della serie televisiva Ci pensa Beaver. c'era Frasier, il padre gentile e bonario che non perdeva mai un giorno di lavoro o una partita del figlio; c'era Marian, la madre, graziosa e sensata, che preparava torte di compleanno, teneva in ordine la casa e si era offerta volontaria a scuola per assicurarsi che i figli si comportassero bene e gli insegnanti facessero quanto ci si aspettava da loro; c'era Craig, il fratello, stella della pallacanestro, alto, amichevole, cortese e spiritoso, che lavorava in una banca d'investimenti ma sognava di diventare un giorno allenatore; e c'erano zii, zie e cugini dappertutto, che passavano per sedersi attorno al tavolo di cucina e mangiare fino a scoppiare, raccontare storie bizzarre, ascoltare la vecchia collezione di jazz del nonno e ridere fino a notte fonda.
Mancava soltanto il cane: Marian non voleva correre il rischio che le distruggesse la casa.
Ciò che più colpiva in questo quadro di felicità domestica era il fatto che i Robinson avevano dovuto superare difficoltà che di rado si vedono in televisione in prima serata. C'erano i soliti problemi razziali, naturalmente: le opportunità limitate offerte ai genitori di Michelle, cresciuti a Chicago durante gli anni Cinquanta e Sessanta; la difficoltà, in quanto neri, a trovare casa, e il diffondersi del panico che aveva allontanato le famiglie bianche dal loro quartiere; gli sforzi necessari ai genitori neri per compensare redditi più bassi, strade più violente, campi giochi trascurati e scuole indifferenti.
In casa Robinson c'era però un'altra tragedia più privata: all'età di trent'anni, nel fiore della vita, al padre di Michelle era stata diagnosticata la sclerosi multipla. Per i venticinque anni successivi, man mano che la malattia si aggravava, aveva continuato ad adempiere alle sue responsabilità verso la famiglia senza traccia di autocompatimento, concedendosi un'ora in più ogni mattina per andare al lavoro, lottando con ogni gesto, dal guidare l'auto all'abbottonarsi la camicia, sorridendo e scherzando mentre si muoveva a fatica - dapprima solo zoppicando e in seguito con l'aiuto di due bastoni, la testa dai capelli sempre più radi luccicante di sudore - attraverso il campo per veder giocare il figlio o attraverso il salotto per dare un bacio alla figlia.
Dopo il nostro matrimonio, Michelle mi avrebbe aiutato a capire il prezzo che, nonostante le apparenze, la famiglia aveva dovuto pagare per la malattia del padre: quanto fosse pesante il fardello che la madre era stata costretta a portare, com'era stata cautamente limitata la loro vita insieme, quando anche l'uscita più insignificante doveva essere pianificata con cura per evitare problemi o goffaggini, come sotto i sorrisi e le risate la vita apparisse terribilmente precaria.
Inizialmente invece vedevo soltanto la gioia di casa Robinson. Per uno come me, che aveva a malapena conosciuto il padre, che aveva trascorso gran parte della vita spostandosi da un posto all'altro, la sua parentela dispersa qua e là, il focolare che Frasier e Marian Robinson avevano costruito per sé e i figli suscitava un desiderio di stabilità e un senso di appartenenza che non mi ero reso conto di possedere. Invece Michelle vedeva forse in me una vita di avventura, di rischio, di viaggi in Paesi esotici, un orizzonte più ampio di quello che in precedenza si era concessa.
Sei mesi dopo il nostro incontro, il padre di Michelle morì all'improvviso per le complicazioni subentrate in seguito a un intervento ai reni. Tornai in aereo a Chicago e rimasi in piedi presso la sua tomba, accanto a Michelle che teneva la testa appoggiata alla mia spalla. Mentre la bara veniva calata, promisi a Frasier Robinson che mi sarei preso cura della sua bambina. Mi resi conto che in modo inespresso e ancora vago lei e io stavamo già diventando una famiglia.
Di questi tempi si parla molto del declino della famiglia americana. Chi ha una visione conservatrice della società sostiene che la famiglia tradizionale è minacciata dai film di Hollywood e dalle parate del Gay Pride. I liberal mettono sotto accusa i fattori economici - dalle paghe stagnanti alla scarsità di scuole materne -che hanno sottoposto le famiglie a crescente pressione. La cultura popolare alimenta l'allarme con storie di donne costrette a restare single per sempre, uomini che non vogliono assumersi impegni duraturi, e adolescenti impegnati in infinite avventure sessuali. Niente sembra stabile come lo era in passato; si ha l'impressione che i nostri ruoli e le nostre relazioni siano estremamente precari.
Tenuto conto di questa disperazione dilagante, potrebbe essere d'aiuto fare un passo indietro e tenere presente che l'istituto del matrimonio non è destinato a sparire così rapidamente. Sebbene sia vero che a partire dagli anni Cinquanta il numero dei matrimoni è diminuito costantemente, questo calo in parte è dovuto al fatto che un numero sempre maggiore di americani rimanda questo passo per raggiungere un buon grado di istruzione o per dedicarsi alla carriera. All'età di quarantacinque anni, l'89 per cento delle donne e l'83 per cento degli uomini avranno stretto questo legame almeno una volta. Il 67 per cento delle famiglie americane continua a essere guidato da coppie sposate, e la grande maggioranza della popolazione considera ancora il matrimonio come il miglior fondamento per l'intimità, per la stabilità economica e per allevare i figli.
Tuttavia è innegabile che negli ultimi cinquant'anni la natura della famiglia sia cambiata. Benché il numero di divorzi sia diminuito del 21 per cento dal picco raggiunto alla fine degli anni Settanta e all'inizio degli anni Ottanta, metà dei primi matrimoni finisce ancora col divorzio. Rispetto ai nostri nonni, siamo più permissivi nei confronti del sesso prematrimoniale, e con più probabilità conviviamo o viviamo soli e cresciamo i nostri figli in famiglie non tradizionali: il 60 per cento di tutti i divorzi coinvolge bambini, il 33 per cento di tutti i bambini nasce fuori dal matrimonio, e il 34 per cento di loro non vive col padre biologico.
Queste tendenze sono particolarmente marcate nella comunità afroamericana, per la quale si può affermare che la famiglia nucleare è a un passo dal crollo. Dal 1950 la percentuale di matrimoni delle donne nere è precipitato dal 62 al 36 per cento; tra il 1960 e il 1995 il numero di bambini afroamericani che vive con genitori sposati è più che dimezzato; il 54 per cento dei bambini afroamericani vive con un solo genitore rispetto a circa il 23 per cento dei bambini bianchi.
Per gli adulti, almeno, l'effetto di questi cambiamenti varia molto. Le ricerche suggeriscono che, in media, le coppie sposate conducono una vita più sana, più ricca e più felice, ma nessuno sostiene che uomini e donne imprigionati in matrimoni infelici o violenti possano trarne vantaggio. Quindi ha certamente senso la decisione di rimandare il matrimonio, presa da sempre più americani.
Qualunque sia l'effetto sugli adulti, però, queste tendenze non hanno avuto ricadute molto positive sui bambini. Nonostante molte madri single - compresa quella che mi ha cresciuto - si impegnino eroicamente nell'interesse dei propri figli, tuttavia è cinque volte più probabile che i bambini cresciuti con una madre single siano più poveri rispetto a quelli cresciuti in una famiglia con due genitori; è anche più probabile che i bambini con un solo genitore abbandonino precocemente la scuola e, ancora adolescenti, diventino genitori, anche senza tenere conto del reddito; è provato inoltre che in media i bambini che vivono con entrambi i genitori biologici riescono meglio di chi vive in famiglie allargate o con genitori conviventi more uxorio.
Alla luce di questi fatti, politiche che rafforzino il matrimonio per quanti lo scelgono e che scoraggino nascite indesiderate al di fuori del matrimonio sono obiettivi sensati da perseguire. Per esempio, la maggior parte delle persone concorda che né i programmi federali di previdenza né la normativa fiscale dovrebbero penalizzare le coppie sposate. Questi aspetti della riforma della previdenza sociale varata sotto Clinton e gli elementi del piano fiscale di Bush, relativi alla riduzione della pressione fiscale sulle coppie sposate che presentano dichiarazioni dei redditi congiunte, godono di un forte sostegno sia tra i democratici che tra i repubblicani.
Lo stesso vale per la prevenzione delle gravidanze durante l'adolescenza: tutti concordano che mettono a rischio sia la madre sia il bambino. Dal 1990 il tasso di gravidanze fra le adolescenti è sceso del 28 per cento: davvero un'ottima notizia. Tuttavia sono ancora le adolescenti a costituire quasi un quarto delle donne che hanno figli fuori dal matrimonio, ed è probabile che col passare degli anni questa percentuale continuerà a crescere. I programmi a livello locale che hanno dimostrato di ottenere risultati nell'evitare le gravidanze indesiderate sia incoraggiando l'astinenza, sia promuovendo un uso corretto della contraccezione - meritano un ampio sostegno.
Infine, indagini preliminari dimostrano che i corsi di educazione al matrimonio possono davvero contribuire ad aiutare le coppie sposate a restare assieme e a incoraggiare quelle non sposate che convivono a stringere un legame più duraturo. Consentire l'accesso a questi servizi anche alle coppie più povere, magari in parallelo a servizi già disponibili, come la formazione professionale, il collocamento, l'assistenza sanitaria eccetera, è un punto sul quale tutti dovrebbero essere d'accordo.
Per molti di quanti hanno una visione conservatrice della società, però, queste proposte di puro buonsenso non forniscono sufficienti garanzie: vogliono tornare a un'epoca ormai passata in cui la sessualità fuori dal matrimonio era oggetto di punizione e vergogna, il conseguimento del divorzio era molto più difficile, e il matrimonio non offriva una semplice realizzazione personale, ma anche ruoli sociali ben definiti per uomini e donne. Secondo loro, qualsiasi politica di governo che sembri premiare o anche solo manifestare neutralità verso quanto considerano un comportamento immorale - sia fornendo strumenti di controllo delle nascite ai giovani, possibilità di abortire alle donne, sostegno previdenziale alle madri non sposate, o riconoscimento legale delle unioni omosessuali - svaluta implicitamente il legame coniugale. Sostengono che queste politiche rendono di un passo più vicino un apocalittico «mondo nuovo», in cui non esistono più differenze fra i sessi, la sessualità è puramente uno svago, il matrimonio è «usa e getta», la maternità è un inconveniente e la stessa civiltà poggia sulle sabbie mobili.
Capisco l'impulso a ripristinare un senso dell'ordine in una cultura in continuo divenire, e certamente apprezzo il desiderio dei genitori di proteggere i propri figli da princìpi che considerano immorali: è un sentimento che spesso condivido quando ascolto le parole delle canzoni alla radio.
Tutto sommato, però, nutro poca simpatia per coloro che vorrebbero costringere il governo al ruolo di censore della moralità sessuale. Come la maggior parte degli americani, ritengo che le decisioni su sesso, matrimonio, divorzio e gravidanza siano strettamente personali, che costituiscano il nocciolo del nostro sistema di libertà individuali. Solo quando queste decisioni personali fanno presagire notevoli danni per altri - come accade con gli abusi all'infanzia, l'incesto, la bigamia, la violenza domestica o il mancato pagamento degli alimenti ai figli - la società ha il diritto e il dovere di intervenire. (Chi è convinto che il feto sia una persona, includerebbe in questa categoria anche l'aborto.) Fatte salve queste eccezioni, non mi interessa vedere il presidente, il Congresso o la burocrazia governativa regolare quanto succede nelle camere da letto americane.
Oltretutto, non credo che rafforzeremo la famiglia legiferando o costringendo le persone a relazioni che riteniamo le migliori per loro, o punendo quelle che non si conformano ai nostri standard di correttezza sessuale. Voglio incoraggiare i giovani a mostrare maggior rispetto verso il sesso e l'intimità, e lodo genitori, congregazioni e programmi delle comunità locali che trasmettono questo messaggio; ma non sono disposto a condannare un'adolescente a una vita di stenti perché non ha avuto accesso al controllo delle nascite. Voglio che le coppie capiscano il valore dell'impegno e dei sacrifici che il matrimonio comporta, ma non sono disposto a usare la forza della legge per tenere assieme le coppie, senza considerare le loro contingenze personali.
Forse trovo che le vie del cuore siano troppo varie, e la mia stessa vita troppo imperfetta per ritenermi qualificato a fungere da arbitro morale di chicchesia. So che durante i nostri quattordici anni di matrimonio Michelle e io non abbiamo mai avuto discussioni a proposito del comportamento di altre persone nella loro vita privata.
Invece ci siamo trovati a discutere più d'una volta su come conciliare lavoro e famiglia in modo accettabile per Michelle e positivo per le nostre figlie. In questo non siamo gli unici: negli anni Sessanta e all'inizio dei Settanta questa era la norma nell'ambiente in cui crebbe Michelle: in più del 70 per cento delle famiglie, infatti, la mamma restava a casa e l'unica fonte di reddito della famiglia era costituita dallo stipendio del padre.
Oggi queste cifre si sono invertite: nel 70 per cento dei casi la famiglia è mantenuta dalle entrate di entrambi i genitori o di un genitore single. Il risultato è stato quanto Karen Kornbluh, mia direttrice delle politiche ed esperta di conciliazione lavoro- famiglia, chiama «la famiglia acrobata», nella quale i genitori fanno salti mortali per pagare i conti, badare ai bambini, tenere assieme la famiglia nonché il loro rapporto. Tutte queste acrobazie comportano un prezzo per la vita domestica, come Karen mi spiegò, quando ancora era direttrice del Work and Family Program della New America Foundation, e testimoniò davanti alla sottocommissione del Senato su figli e famiglia: Rispetto al 1969, oggi gli americani hanno ventidue ore alla settimana in meno da trascorrere con i propri figli. Ogni giorno milioni di bambini vengono lasciati in scuole materne non autorizzate o a casa con la tv come babysitter.
Le madri lavoratrici perdono circa un'ora di sonno al giorno nel tentativo di fat quadrare tutto quanto. Dati recenti mostrano che genitori con figli in età scolare manifestano forti sintomi di stress - stress che ha un impatto sulla loro produttività lavorativa - quando hanno impieghi non flessibili e precaria assistenza dopo l'orario scolastico.
Vi ricorda qualcosa?
Molti di quanti hanno una visione conservatrice della società insinuano che l'aumento delle donne che lavorano fuori casa sia una diretta conseguenza dell'ideologia femminista, e che quindi la situazione possa essere ribaltata non appena le donne tornino in sé e riprendano il loro tradizionale ruolo di casalinghe. È vero che le idee sull'uguaglianza femminile hanno avuto un peso decisivo nella trasformazione del luogo di lavoro. Secondo moltissimi americani, l'opportunità offerta alle donne di intraprendere una carriera, raggiungere l'indipendenza economica e mettere a frutto i propri talenti su un piano di parità con gli uomini è stata una delle grandi conquiste dei tempi moderni.
Tuttavia per la donna media americana la decisione di lavorare non è semplicemente legata a un cambiamento di mentalità: è dovuta alla necessità di sbarcare il lunario.
Consideriamo i fatti. Negli ultimi trent'anni il guadagno medio dell'uomo americano è cresciuto di meno dell'1 per cento, tenuto conto dell'inflazione.
Nel frattempo, il costo della vita - dalla casa alle cure sanitarie, all'istruzione - ha continuato a crescere. Ciò che ha evitato a un gran numero di famiglie americane di venire declassato dal ceto medio è stata proprio la busta paga della mamma. Nel loro libro Ceti medi in trappola, Elizabeth Warren e Amelia Tyagi sottolineano che lo stipendio supplementare che le madri portano a casa non è destinato ad articoli di lusso. Al contrario, per la maggior parte serve a pagare quanto le famiglie ritengono un investimento sul futuro dei propri figli: istruzione prescolastica, rette scolastiche, e soprattutto abitazioni in quartieri tranquilli, dotati di buone scuole pubbliche. In effetti, tra questi costi fissi e le spese aggiuntive (in particolare scuole materne e una seconda automobile), la famiglia media con due redditi fissi ha meno disponibilità per le spese voluttuarie - e meno sicurezza finanziaria rispetto alla famiglia media monoreddito di trent'anni fa.
È possibile, dunque, per la famiglia media tornare a contare su un unico reddito? Non quando ogni altra famiglia dell'isolato porti a casa due stipendi facendo così salire i prezzi di immobili, scuole e rette scolastiche. Warren e Tyagi dimostrano che un'odierna famiglia media monoreddito che cerchi di mantenere lo stile di vita del ceto medio avrebbe il 60 per cento in meno di disponibilità per spese voluttuarie rispetto alla sua omologa degli anni Settanta. In altre parole, per la maggior parte delle famiglie la rinuncia della madre a un impiego vorrebbe dire vivere in un quartiere meno sicuro e iscrivere i figli a una scuola meno qualificata.
La maggior parte degli americani non è disposta a compiere una scelta del genere. Invece, date le circostanze, fa del suo meglio, pur sapendo che il tipo di famiglia in cui sono cresciuti -quello in cui Frasier e Marian Robinson hanno allevato i loro figli - è diventato molto, molto più difficile da mantenere.
Sia uomini che donne hanno dovuto adattarsi a queste nuove realtà. Ed è difficile non essere d'accordo con Michelle quando sostiene che il fardello della famiglia moderna grava maggiormente sulle spalle delle donne.
Durante i primi anni del nostro matrimonio io e Michelle abbiamo attraversato gli assestamenti comuni a tutte le coppie: imparare a decifrare i rispettivi stati d'animo, accettare le stranezze e le abitudini di un estraneo sempre accanto. A Michelle piaceva svegliarsi presto e dopo le dieci di sera riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti; io ero un animale notturno e potevo essere un po'"scontroso (sgarbato, diceva lei) al mio risveglio. Poiché stavo ancora lavorando al mio primo libro, e forse perché avevo passato gran parte della mia vita da figlio unico, trascorrevo spesso la serata rintanato nel mio studio in fondo al nostro appartamento lungo e stretto. Ciò che io consideravo normale spesso faceva sentire sola Michelle. Io dimenticavo invariabilmente di rimettere il burro in frigorifero dopo la colazione e di richiudere il sacchetto del pane; Michelle collezionava a tutto spiano multe per divieto di sosta.
Per lo più, però, quei primi anni furono pieni di piaceri ordinari: andare al cinema, a un concerto, cenare con amici. Entrambi lavoravamo sodo: io facevo l'avvocato presso un piccolo studio specializzato sui diritti civili, e avevo cominciato a insegnare alla Facoltà di legge dell'Università di Chicago, mentre Michelle aveva deciso di lasciare la professione legale, prima per lavorare nel Department of Planning di Chicago, e poi per dirigere la sede locale dell'associazione Public Allies facente parte di un programma nazionale di servizio civile. Il tempo che trascorrevamo insieme divenne sempre più risicato quando scesi in lizza per le elezioni statali, ma nonostante le mie lunghe assenze e la sua scarsa simpatia per la politica Michelle appoggiò la mia decisione: «So che è una cosa a cui tieni» era solita dirmi. Nelle sere in cui mi trovavo a Springfield chiacchieravamo e ridevamo al telefono, condividendo l'allegria e le frustrazioni delle giornate trascorse separati, e mi addormentavo felice, consapevole del nostro amore.
Poi nacque Malia, proprio il 4 luglio, così tranquilla e bella, con grandi occhi ipnotici che sembrarono leggere il mondo non appena li aprì. Il suo arrivo capitò in un momento ideale per entrambi: poiché non c'erano sedute parlamentari e durante l'estate non dovevo insegnare, mi fu possibile passare a casa ogni serata; nel frattempo Michelle aveva deciso di accettare un lavoro part- time all'Università di Chicago, in modo da poter trascorrere più tempo con la piccola, e il nuovo lavoro non sarebbe iniziato fino a ottobre. Per tre magici mesi ci agitammo e ci preoccupammo per la nostra bambina, controllando la culla per assicurarci che stesse respirando, strappandole sorrisi, cantandole canzoncine e scattando così tante fotografìe che cominciammo a domandarci se le avremmo procurato danni alla vista. All'improvviso i nostri bioritmi differenti tornarono utili: mentre Michelle si concedeva qualche ora di ben meritato sonno, io stavo alzato fino all'una o alle due di notte cambiando pannolini, scaldando latte materno, sentendo il respiro leggero di mia figlia contro il petto mentre la cullavo per farla dormire, cercando di indovinare i suoi sogni infantili.
Quando però arrivò l'autunno - quando i miei corsi ricominciarono, ripresero le sedute parlamentari e Michelle iniziò il suo lavoro - si manifestarono alcune tensioni nel nostro rapporto. Io ero spesso lontano per tre giorni di fila, e perfino quando rimanevo a Chicago poteva capitare che dovessi presenziare a riunioni serali, o avessi documenti da valutare o comparse da stendere. Michelle scoprì che un lavoro part- time poteva stranamente dilatarsi. Trovammo una meravigliosa babysitter che si occupasse di Malia mentre eravamo al lavoro, ma ritrovandoci all'improvviso con un dipendente a tempo pieno sul libro- paga, il denaro cominciò a scarseggiare.
Stanchi e stressati, avevamo poco tempo per chiacchierare, per non parlar del resto. Quando lanciai la mia sfortunata candidatura al Congresso, Michelle non fìnse nemmeno di essere felice della decisione: la mia incapacità di rassettare la cucina all'improvviso la inteneriva assai meno; chinandomi per salutarla con un bacio al mattino, tutto ciò che ricevevo era un bacetto frettoloso sulla guancia. Quando nacque Sasha - bella quanto la sorella e quasi altrettanto tranquilla - sembrò che mia moglie riuscisse a stento a trattenere l'ira nei miei confronti.
«Pensi soltanto a te stesso» diceva. «Non credevo che avrei dovuto tirar su una famiglia da sola.» Questa accusa mi feriva. Ritenevo che fosse ingiusta: dopotutto, non andavo a far baldoria con gli amici ogni notte. Non le chiedevo molto, non mi aspettavo che mi rammendasse i calzini o di trovare la cena in caldo quando tornavo a casa. Appena potevo mi precipitavo dalle bambine, e tutto ciò che chiedevo in cambio era un po'"di tenerezza. Invece mi trovavo sottoposto a infiniti negoziati su ogni dettaglio della gestione domestica, lunghe liste di cose che dovevo fare o che avevo dimenticato di fare, e un atteggiamento in genere stizzito. Ricordai a Michelle che, paragonati ad altre famiglie, eravamo incredibilmente fortunati; le ricordai anche che, nonostante tutti i miei difetti, amavo lei e le bambine più di qualsiasi altra cosa. Pensavo che il mio amore avrebbe dovuto bastare, e secondo me non aveva nulla di cui lamentarsi.
Fu solo dopo averci riflettuto, dopo aver superato le prove di quegli anni, quando le bambine iniziarono ad andare a scuola, che cominciai a capire tutto quello che Michelle aveva sopportato, le difficoltà così tipiche della madre lavoratrice dei nostri tempi. Perché, per quanto mi piacesse considerarmi emancipato, per quanto mi dicessi che io e mia moglie eravamo sullo stesso piano, e che i suoi sogni e le sue ambizioni erano importanti quanto i miei, il fatto era che quando si trattava delle bambine ci si aspettava che fosse lei, e non io, ad adeguarsi. Certo, io collaboravo, ma sempre ai miei patti e secondo i miei orari. Nel frattempo, era lei a dover tenere in sospeso la carriera, era lei a dover controllare che le bambine mangiassero e facessero il bagno ogni sera. Se Malia o Sasha si ammalavano o la babysitter non si faceva vedere, era lei che il più delle volte doveva attaccarsi al telefono per annullare una riunione di lavoro.
Non era soltanto il continuo arrabattarsi tra il lavoro e le bambine che rendeva tanto difficoltosa la situazione di Michelle, era anche il fatto che dal suo punto di vista non stava svolgendo bene nessuno dei due compiti.
Naturalmente non era vero: i suoi datori di lavoro la adoravano, e tutti rimarcavano che brava madre fosse. Finii però col capire che nella sua mente si agitavano due immagini di sé in conflitto tra loro: il desiderio di essere la donna che era stata sua madre - solida, affidabile e sempre presente per i figli attorno ai quali creava un'atmosfera protettiva - e il desiderio di eccellere nella sua professione, di lasciare un segno nel mondo e realizzare tutti i progetti a cui aspirava il giorno del nostro primo incontro.
In definitiva, attribuisco alla forza di Michelle - alla sua volontà di tenere sotto controllo queste tensioni e sopportare sacrifìci per amore mio e delle bambine - il fatto di essere riusciti a superare i momenti difficili. Avevamo certo a nostra disposizione anche risorse che molte famiglie americane non possiedono. Tanto per cominciare, la nostra posizione professionale ci consentiva di riorganizzare i nostri programmi per affrontare un'emergenza (o semplicemente per prenderci un giorno libero) senza il rischio di perdere il lavoro. Il 57 per cento dei lavoratori americani non può permettersi questo lusso; anzi, la maggior parte di loro non può prendersi un giorno libero per badare a un bambino senza perdere la relativa paga o senza essere costretto a utilizzare giorni di ferie. Per i genitori che cercano di adeguare gli orari alle proprie necessità, spesso flessibilità significa accettare un lavoro parttime o a termine, senza possibilità di carriera e poche o nessuna prestazione previdenziale.
Noi inoltre avevamo un reddito sufficiente a coprire tutti i servizi di sostegno alle pressioni cui sono sottoposti due genitori che lavorano: assistenza affidabile per le bambine, baby- sitting supplementare ogni volta che ce n'era bisogno, cene da asporto quando non avevamo il tempo o la forza per cucinare, una persona che veniva a pulire la casa una volta alla settimana, scuole materne private e campi estivi una volta che le bambine furono abbastanza grandi. Per la maggior parte delle famiglie americane questo supporto è finanziariamente fuori portata. Il costo degli asili- nido e delle scuole materne è particolarmente proibitivo: in pratica gli Stati Uniti sono l'unica nazione occidentale a non fornire a tutti i propri lavoratori servizi altamente qualificati di assistenza all'infanzia sovvenzionati dal governo.
Infine, potevamo contare su mia suocera che abita a soli quindici minuti da noi, nella stessa casa in cui è cresciuta mia moglie. Marian ha quasi settant'anni, ma ne dimostra dieci di meno, e l'anno scorso, quando Michelle ha ripreso a lavorare a tempo pieno, ha deciso di ridurre le ore di lavoro in banca così da poter andare a prendere le bambine a scuola. Per molte famiglie americane, un aiuto del genere è semplicemente impossibile; anzi, per molte di esse la situazione è opposta: qualche membro della famiglia deve fornire assistenza a un genitore anziano, oltre a far fronte alle altre incombenze familiari.
Naturalmente non è possibile per il governo federale garantire a ogni famiglia una suocera meravigliosa, sana e quasi in pensione, che vive nei pressi. Se però si tiene davvero ai valori della famiglia, è possibile mettere in atto strategie che rendano un po'"più facile giostrarsi tra figli e lavoro. Si potrebbe cominciare rendendo accessibile a ogni famiglia il servizio di assistenza all'infanzia altamente qualificato di cui ha bisogno, e che negli Stati Uniti, a differenza della maggior parte dei Paesi europei, è decisamente raffazzonato.
Potenziare le autorizzazioni e la preparazione per coloro che durante il giorno si prendono cura dei figli dei lavoratori, estendere le detrazioni fiscali federali e statali per i figli, e concedere sussidi indicizzati alle famiglie che ne hanno bisogno potrebbe fornire sia ai genitori del ceto medio che a quelli a basso reddito un po'"di tranquillità durante la giornata lavorativa e andare a vantaggio dei datori di lavoro grazie a un minor assenteismo.
È anche tempo di rivedere il nostro sistema scolastico non solo nell'interesse dei genitori che lavorano, ma anche per contribuire a preparare i nostri figli a un mondo più competitivo. Innumerevoli studi confermano i vantaggi educativi di un valido programma di scuole materne, motivo per cui vengono ricercate persino dalle famiglie in cui un genitore non lavora. Lo stesso dicasi per orari scolastici più lunghi o scuole estive e servizi di doposcuola. Consentire a tutti i bambini l'accesso a strutture del genere costerebbe parecchio, ma inserito in una più ampia riforma scolastica si tratterebbe di un costo che come società si dovrebbe essere disposti a sostenere.
Più di tutto, bisogna collaborare con i datori di lavoro per diffondere la flessibilità degli orari. L'amministrazione Clinton ha compiuto un passo in questa direzione con il Family and Medical Leave Act, ma poiché questa legge prevede solo congedi non retribuiti e si applica soltanto ad aziende con oltre cinquanta dipendenti, la maggior parte dei lavoratori americani non può avvalersene. E, nonostante in pratica tutte le altre nazioni ricche garantiscano qualche forma di congedo parentale retribuito, la resistenza del mondo degli affari all'obbligatorietà di tale misura è stata feroce, in parte a causa delle preoccupazioni circa l'incidenza che avrebbe sulle piccole imprese.
Con un po'"di creatività, si dovrebbe essere in grado di uscire da quest'impasse. La California ha da poco introdotto il congedo retribuito tramite il proprio fondo di assicurazione previdenziale, assicurandosi così che i costi non gravino soltanto sui datori di lavoro.
Si potrebbe anche concedere flessibilità ai genitori per andare incontro alle loro necessità giorno per giorno. Molte grandi imprese offrono già regolari programmi di orario flessibile, e registrano un morale più alto, e di conseguenza un minore avvicendamento, dei dipendenti. La Gran Bretagna ha escogitato un nuovo approccio al problema: come parte di una «campagna per armonizzare vita e lavoro» molto popolare, i genitori con bambini sotto i sei anni hanno diritto di presentare richiesta scritta per un cambiamento dell'orario ai propri datori di lavoro; questi non sono obbligati a concederlo, ma sono tenuti a incontrarsi col dipendente per discuterne. Finora, un quarto di tutti i genitori britannici che ne avevano i requisiti ha negoziato con successo su orari più comodi, senza che si verificasse un calo di produttività.
Combinando politica innovativa, assistenza tecnica e maggiore sensibilità da parte dell'opinione pubblica, il governo può aiutare le imprese ad agevolare i propri dipendenti a un costo nominale.
Naturalmente nessuna di queste politiche deve scoraggiare le famiglie dal decidere che un genitore rinunci al lavoro, nonostante i sacrifici economici.
Per alcune famiglie ciò potrebbe significare rinunciare ad alcune comodità materiali, mentre per altre potrebbe significare istruire i figli in casa o traslocare in una comunità dove il costo della vita è più basso. In alcune famiglie potrebbe essere il padre a restare a casa, benché il più delle volte sarà ancora la madre a essere la principale responsabile delle cure parentali.
Ad ogni modo, queste decisioni andrebbero rispettate. Se c'è una cosa su cui i tradizionalisti hanno avuto ragione è che la nostra cultura moderna a volte non riesce a valutare appieno gli straordinari contributi psicologici e finanziari i sacrifìci e il semplice duro lavoro - della madre casalinga. Dove hanno avuto torto è stato nell'insistere che questo ruolo femminile sia innato e il migliore o addirittura l'unico modello esemplare di maternità. Voglio che le mie figlie possano decidere quel che sarà meglio per loro e le loro famiglie; la loro possibilità di scelta dipenderà non solo dai loro sforzi e convinzioni, ma anche, come mi ha insegnato Michelle, da quanto gli uomini - e la società americana - rispetteranno e accetteranno le loro decisioni.
«Ciao papà.» «Ciao tesoro.» È venerdì pomeriggio, e sono tornato a casa presto per badare alle bambine mentre Michelle è dal parrucchiere. Stringo Malia in un abbraccio, e noto in cucina una bambina bionda che mi sbircia attraverso un paio di giganteschi occhiali.
«Chi è lei?» chiedo rimettendo a terra Malia.
«E Sam. È venuta a giocare con me.» «Ciao Sam.» Le porgo la mano e lei la guarda per un momento prima di stringerla esitante. Malia rotea gli occhi.
«Senti, papà... non si dà la mano ai bambini.» «No?» «No» risponde. «Nemmeno i ragazzi danno la mano. Forse non te ne sei accorto, ma siamo nel Duemila.» Malia guarda Sam che reprime un sorrisetto.
«E allora che cosa si fa nel Duemila?»
«Si dice solo ciao. A volte si fa un cenno con la mano. Tutto qua.» «Capito. Spero di non averti messo in imbarazzo.» Malia sorride. «Tutto a posto, papà. Non lo sapevi perché sei abituato a stringere la mano ai grandi.» «È vero. Dov'è tua sorella?» «Di sopra.» Salgo al piano di sopra e trovo Sasha in piedi, in mutandine e top rosa. Mi fa abbassare per abbracciarmi, e poi mi dice che non riesce a trovare dei calzoncini. Controllo nell'armadio e ne trovo un paio blu proprio sopra la cassettiera.
«Questi che cosa sono?» Sasha aggrotta la fronte, ma con un po'"di riluttanza mi prende di mano i calzoncini e se li infila. Dopo qualche minuto mi si arrampica in grembo.
«Questi calzoncini sono scomodi, papà.» Torniamo all'armadio, apriamo di nuovo il cassetto e troviamo un altro paio di pantaloncini corti, anche questi blu. «E questi?» chiedo.
Sasha aggrotta di nuovo la fronte. Lì in piedi sembra una versione alta novanta centimetri di sua madre. Malia e Sam entrano a osservare la scena.
«A Sasha non piace nessuno di questi calzoncini» spiega Malia.
Mi giro verso Sasha e le chiedo perché. Mi guarda circospetta, soppesandomi.
«Rosa e blu non stanno bene insieme» dice alla fine.
Malia e Sam ridacchiano. Io cerco di apparire severo come potrebbe esserlo Michelle in questa situazione, e dico a Sasha di metterseli; mi ubbidisce, ma mi accorgo che lo fa per compiacermi.
Quando si tratta delle mie figlie, nessuno si fa incantare dalle mie arie da duro.
Come molti altri uomini di oggi, sono cresciuto senza un padre in casa. I miei genitori divorziarono quando avevo solo due anni, e per la maggior parte della mia vita lo conobbi soltanto grazie alle lettere che mandava e ai racconti di mia madre e dei nonni. C'erano presenze maschili nella mia vita - un patrigno col quale vivemmo per quattro anni, e mio nonno che assieme alla nonna aiutò a crescermi negli anni successivi - e si trattava di uomini buoni che mi trattavano con affetto. I miei rapporti con loro, però, erano per forza parziali, incompleti: nel caso del mio patrigno a causa della durata limitata della nostra convivenza e del suo naturale riserbo; d'altra parte, per quanto fossi affezionato a mio nonno, era troppo anziano e troppo preoccupato per riuscire a indirizzarmi.
Furono le donne quindi a dare stabilità alla mia vita: la nonna, il cui ostinato senso pratico tenne a galla la famiglia, e mia madre, il cui amore e la cui lucidità di mente tennero in equilibrio il mio mondo e quello di mia sorella. Grazie a loro non mi mancò mai nulla di importante; da loro avrei assorbito i valori che mi guidano ancora oggi.
Tuttavia, crescendo finii col rendermi conto di quanto fosse stato duro per mia madre e mia nonna crescerci senza una forte presenza maschile in casa. Avvertivo anche i segni che l'assenza di un padre può lasciare su un bambino. Decisi che il disinteresse di mio padre nei confronti dei figli, il distacco del mio patrigno e l'inadeguatezza di mio nonno sarebbero stati per me degli esempi da evitare, e che i miei figli avrebbero avuto un padre su cui poter contare.
Per gli aspetti fondamentali ci sono riuscito. Il mio matrimonio è saldo e la mia famiglia è tutelata: assisto alle riunioni tra genitori e insegnanti e ai saggi di danza, e le mie figlie si beano della mia adorazione. Ciononostante, di tutti gli ambiti della mia vita quello su cui nutro i maggiori dubbi sono le mie qualità di marito e di padre.
Mi rendo conto di non essere il solo. In una certa misura, sto semplicemente provando gli stessi sentimenti conflittuali sperimentati da altri padri che si trovano ad affrontare un'economia in costante mutamento e norme sociali in evoluzione. Sebbene sia sempre meno raggiungibile, la figura del padre anni Cinquanta - che manteneva la famiglia con un impiego fisso dalle nove alle cinque, sedendosi ogni sera davanti alla cena preparata dalla moglie, allenando squadrette di serie minore e facendo le piccole riparazioni in casa - aleggia nell'immaginario collettivo in modo non tanto diverso da quella della madre casalinga. Per molti uomini d'oggi, l'incapacità di provvedere completamente da soli al sostentamento della famiglia è motivo di frustrazione e perfino di vergogna. Non è necessario credere nel determinismo economico per ritenere che alta disoccupazione e bassi salari contribuiscano alla mancanza di impegno parentale e al basso numero di matrimoni tra i maschi afroamericani.
Oggigiorno, le condizioni di lavoro sono molto cambiate, sia per gli uomini che per le donne. Che si tratti di un professionista strapagato o di un operaio alla catena di montaggio, ci si aspetta che un padre dedichi al lavoro un numero di ore maggiore di quanto accadesse in passato. E ciò avviene proprio in un periodo in cui un padre dovrebbe - e in molti casi vorrebbe - essere più presente nella vita dei figli rispetto a quanto forse lo era stato suo padre nella sua.
Sebbene non sia l'unico a percepire la spaccatura tra l'ideale di genitore a cui si aspira e il compromesso che si vive nella realtà, continuo comunque ad avere la sensazione di non dare sempre alla mia famiglia tutto ciò che potrei.
La scorsa giornata del papà fui invitato a parlare ai membri della Salem Baptist Church nel South Side di Chicago. Non mi era stato assegnato un argomento preciso, ma scelsi come tema «Che cosa è necessario per essere un uomo adulto».
Suggerii che era arrivato il momento per gli uomini in generale, e i neri in particolare, di mettere da parte le scuse per la scarsa disponibilità verso le loro famiglie. Rammentai agli uomini del pubblico che essere un padre non significa limitarsi a generare un bambino; che perfino quanti tra noi sono fisicamente presenti sono spesso assenti emotivamente; che proprio perché molti di noi hanno sperimentato l'assenza paterna, dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per spezzare questo circolo vizioso; e che se vogliamo far nascere alte aspettative nei nostri figli, dobbiamo imporci noi stessi aspettative più alte.
Ripensando a quanto dissi, mi chiedo a volte fino a che punto io viva all'altezza delle mie esortazioni. Dopotutto, a differenza di molti degli uomini a cui parlai quel giorno, non devo fare un doppio lavoro, o scegliere il turno di notte per portare il cibo in tavola. Io avrei potuto trovare un'occupazione che mi permettesse di tornare a casa ogni sera, che rendesse più denaro, il cui orario prolungato fosse almeno giustificato da qualche vantaggio concreto per la mia famiglia, per esempio la possibilità di ridurre l'orario lavorativo di mia moglie o un cospicuo fondo fiduciario per le bambine.
Invece ho scelto una vita con una tabella di marcia assurda; una vita che mi impone di stare lontano da mia moglie e dalle mie figlie per lunghi periodi di tempo, e che sottopone Michelle a ogni genere di stress. Posso anche dirmi che in senso lato sono in politica per Malia e Sasha, che il mio lavoro farà del mondo un posto migliore per loro. Tuttavia queste razionalizzazioni sembrano deboli e penosamente astratte quando per una votazione perdo uno dei successi scolastici delle bambine, oppure quando devo chiamare Michelle per dirle che la sessione si protrae e dobbiamo rimandare la nostra vacanza. In effetti, il mio recente successo in politica mitiga ben poco il mio senso di colpa. Come mi disse Michelle una volta, solo in parte per scherzo, vedere la foto del papà sul giornale può essere fantastico la prima volta che succede, quando però capita di continuo, probabilmente è un po'"imbarazzante.
E così faccio del mio meglio per rispondere all'accusa che mi frulla nella mente: che sono egoista, e faccio quel che faccio per alimentare il mio ego o per riempire un vuoto nel mio cuore. Quando non sono fuori città, cerco di tornare a casa all'ora di cena per sentire da Malia e Sasha com'è andata la giornata, per leggere insieme una storia e rimboccar loro le coperte. Faccio di tutto per non programmare apparizioni pubbliche la domenica, e d'estate sfrutto questa giornata per portare le bambine allo zoo o in piscina; in inverno andiamo invece a visitare un museo o l'acquario. Sgrido con garbo le mie figlie quando si comportano male, e cerco di limitarne il consumo di televisione e di cibo spazzatura. In tutto ciò sono incoraggiato da Michelle, anche se ci sono momenti in cui ho la sensazione di stare invadendo il suo spazio, di aver perso, a causa delle mie assenze, qualche diritto a interferire con il mondo che ha costruito.
Quanto alle bambine, sembra che crescano benissimo nonostante le mie frequenti sparizioni. Ciò testimonia soprattutto le abilità genitoriali di Michelle: sembra che abbia un tocco perfetto quando si tratta di Malia e Sasha, una capacità di porre rigidi limiti senza diventare repressiva. Si è anche assicurata che la mia elezione al Senato non alterasse troppo il tran tran delle bambine, anche se quella che oggi in America passa per «normale infanzia borghese» è molto diversa da com'era in passato: almeno quanto è cambiato il modo di essere genitori. Sono passati i tempi in cui i bambini venivano semplicemente fatti uscire o mandati al parco, con la raccomandazione di tornare prima di cena. Oggi, tra le notizie di rapimenti e uno sguardo quasi sospettoso verso ogni atteggiamento spontaneo o anche solo un po'"indolente, gli impegni dei bambini sembra rivaleggino con quelli dei genitori: ci sono incontri di gioco, corsi di danza, di ginnastica, lezioni di tennis, di pianoforte, partite di calcio, feste di compleanno ogni settimana o almeno così pare. Una volta ho detto a Malia che per tutta la mia infanzia avevo partecipato esattamente a due feste di compleanno, ognuna con cinque o sei bambini, cappellini a cono e una torta; mi guardò nello stesso modo in cui guardavo mio nonno quando raccontava storie della Depressione: con un misto di meraviglia e incredulità.
Tocca a Michelle coordinare tutte le attività delle bambine, e lo fa con l'efficienza di un generale. Quando posso mi offro di aiutare, cosa che apprezza, anche se sta ben attenta a limitare le mie responsabilità. La vigilia del compleanno di Sasha, lo scorso giugno, fui incaricato di procurare venti palloncini, pizza al formaggio per venti bambini e ghiaccio. Sembrava fattibile, così quando Michelle mi disse che stava andando a cercare sacchetti da riempire di regalini per distribuirli alla fine della festa, suggerii che potevo provvedere anche a quello. Rise.
«Non puoi occuparti dei regalini» disse. «Ti spiego come funziona: bisogna andare nel negozio specializzato e scegliere i sacchetti; poi bisogna scegliere che cosa metterci, e in quelli dei maschietti devono esserci cose diverse da quelli delle femminucce. Entreresti nel negozio e gireresti per le corsie per un'ora, dopodiché ti scoppierebbe la testa.» Sentendomi meno fiducioso, andai su internet. Vicino alla palestra dove si sarebbe tenuta la festa trovai un posto che vendeva palloncini, e una pizzeria che promise la consegna per le 15,45. Quando il giorno successivo arrivarono gli ospiti, i palloncini erano al loro posto e i cartoni di succo di frutta erano in ghiaccio. Sedetti con gli altri genitori, acchiappando e tenendo d'occhio circa venti bambini di cinque anni che correvano, saltavano e rimbalzavano sulle attrezzature come una banda di allegri elfi. Provai un filo di paura quando alle 15,50 la pizza non c'era ancora, ma il fattorino arrivò dieci minuti prima dell'ora in cui i bambini dovevano mangiare. Il fratello di Michelle, Craig, sapendo sotto quale pressione mi trovassi, si congratulò col classico gesto degli sportivi, dandomi il «cinque»; Micelle sollevò lo sguardo dai piatti di carta in cui stava disponendo la pizza, e sorrise.
Come gran finale, dopo che tutta la pizza fu mangiata e i succhi di frutta bevuti, dopo che tutti ebbero cantato Happy Birthday e mangiato un po'"di torta, l'istruttore di ginnastica raccolse tutti i bambini attorno a un vecchio paracadute multicolore e disse a Sasha di sedercisi nel mezzo. Al tre, Sasha fu lanciata in aria, e poi quando ricadde fu lanciata una seconda volta e poi una terza, e ogni volta che si sollevava sopra la tela gonfia rideva e rideva con un'espressione di pura gioia.
Mi domando se Sasha ricorderà questo momento quando sarà grande. Forse no. Mi sembra di riuscire a recuperare soltanto minuscoli frammenti di ricordi dei miei cinque anni, ma sospetto che la felicità provata su quel paracadute si fisserà per sempre in lei, che momenti del genere si accumulano e si imprimono nel carattere di un bambino, diventando parte della sua anima. A volte, quando ascolto Michelle parlare di suo padre sento in lei l'eco di una gioia simile, l'amore e il rispetto che Frasier Robinson si guadagnò non grazie alla fama o ad azioni spettacolari, ma grazie a gesti piccoli, quotidiani, comuni; un amore guadagnato per il fatto di esserci, e mi chiedo se le mie figlie potranno parlare di me nello stesso modo.
Sta di fatto che l'arco di tempo in cui questi ricordi si formano è di breve durata. Pare che Malia stia già passando a una fase diversa: è più interessata ai ragazzi e ai rapporti interpersonali, più attenta a quello che indossa. È sempre stata più grande dei suoi anni, con una saggezza fuori dal comune. Una volta, quando aveva solo sei anni e stavamo facendo una passeggiata insieme lungo la riva del lago, all'improvviso mi chiese se la nostra famiglia fosse ricca. Le risposi che non eravamo davvero ricchi, ma avevamo molto più della maggior parte delle persone e le domandai perché volesse saperlo.
«Bè, ci ho pensato, e ho deciso che non voglio essere tanto tanto ricca; penso di volere una vita semplice.» Le sue parole erano così inaspettate che mi misi a ridere. Mi guardò sorridendo, ma i suoi occhi mi fecero capire che diceva sul serio.
Penso spesso a quella conversazione, chiedendomi che cosa pensi Malia della mia vita non tanto semplice; certo nota che altri padri assistono alle partite di calcio della sua squadra più spesso di me. Se questo le dispiace, non lo dà a vedere, perché tende a essere protettiva nei confronti dei sentimenti altrui, cercando di vedere il meglio in ogni situazione. Tuttavia mi conforta alquanto pensare che la mia bambina di otto anni mi ami abbastanza da passar sopra alle mie manchevolezze.
Di recente, sono riuscito ad andare a una delle sue partite, perché la sessione parlamentare di quella settimana era finita in anticipo. Era un bel pomeriggio d'estate, e quando arrivai i vari campi erano gremiti di famiglie: neri, bianchi, ispanici e asiatici provenienti da tutta la città, donne sedute sulle sdraio, uomini che tiravano quattro calci a un pallone con i figli, nonni che aiutavano i nipotini a reggersi in piedi. Scorsi Michelle e sedetti sull'erba accanto a lei, mentre Sasha mi si accomodava in braccio. Malia era già in campo, parte di uno sciame di giocatori che circondavano il pallone. Benché il calcio non sia il suo sport preferito gioca con un entusiasmo e una foga tali che le facciamo un gran tifo. Durante l'intervallo Malia si avvicinò al punto in cui eravamo seduti.
«Come va, campionessa?» le chiesi.
«Alla grande!» Bevve un sorso d'acqua. «Papà, posso farti una domanda?» «Spara.» «Possiamo prendere un cane?» «Che cosa ne dice la mamma?» «Ha detto di chiedere a te. Credo di averla stressata un po'.» Guardai Michelle, che sorrise e fece spallucce.
«Se ne parlassimo dopo la partita?» proposi.
«D'accordo.» Malia bevve un altro sorso d'acqua e mi baciò sulla guancia. «Sono contenta che tu sia a casa» disse.
Prima che potessi rispondere si era voltata e stava tornando verso il campo. E per un attimo, nella luce del tardo pomeriggio, pensai di vedere nella mia figlia maggiore la donna che sarebbe divenuta, come se a ogni passo stesse diventando più alta, le sue forme stessero riempiendosi, le sue lunghe gambe la portassero verso una vita tutta sua.
Strinsi a me Sasha un po'"più forte. Forse intuendo quello che provavo, Michelle mi prese la mano, e ricordai una frase che aveva detto a un giornalista durante la campagna elettorale, quando le aveva chiesto com'era essere la moglie di un politico.
«È difficile» aveva risposto. Poi, secondo il giornalista, aveva aggiunto con un sorriso furbetto: «Ecco perché Barack è un uomo così riconoscente».
Come sempre, mia moglie aveva ragione.