Parte quarta

 

 

 Capitolo 1.

 Al posto di controllo non venne fermata nessuna delle automobili in entrata; la sorveglianza sul flusso in uscita era molto più meticolosa.

Tal stringeva così forte il volante che le nocche risaltavano bianche sulle sue mani sottili. Non avevo chiesto dove fossimo diretti, non volevo sapere più niente. Dietro c'erano due ragazzi che continuavano a muoversi sul sedile con aria nervosa e vegana.

 «Hai con te il passaporto?» chiese Tal e mi lanciò uno sguardo irritato.

Indossava un abito castigato che le copriva le spalle e le arrivava appena sopra il ginocchio. Era dello stesso colore dei burqa afgani.

Passammo il posto di controllo e poi un intero isolato di case di lusso in costruzione.

 «Cosa succede se uno scopre di non avere con sé il passaporto quando ormai è a Ramallah? Non lo lasciano più entrare in Israele?»

 

«Questa non è una scampagnata domenicale» rispose Tal.

 «A me qui sembra proprio domenica».

 Tacemmo per tutto il resto del tragitto.

 Tal lasciò la macchina in centro città, proprio accanto alla tomba di un combattente di Fatah. La tomba era ornata di fiori e sembrava una di quelle che si trovano sul ciglio delle strade tedesche. Sopra la tomba c'era un grande tabellone pubblicitario, a cui era fissata una foto stampata su metallo. Un uomo mingherlino con un pullover di lana a maglia grossa e un mitra. La canna dell'arma era puntata contro la sua stessa tomba. Era come se volesse fucilarsi in eterno. Sul margine della strada erano parcheggiati dei costosi fuoristrada con il logo di diverse organizzazioni umanitarie internazionali.

 I miei compagni se ne stavano indecisi accanto alla macchina, mi venne il sospetto che esitassero a parlare tra loro in ebraico. Di sicuro nel bel mezzo di Ramallah sarebbe stato davvero fuori luogo, ma nessuno voleva passare all'inglese. Nessuno di loro sapeva l'arabo, perciò tacevano imbarazzati. Se avessi detto qualcosa in inglese, l'avrei convertito nella nostra lingua comune, ma non feci loro questo favore.

 Tal si mise in cammino. I suoi passi erano lunghi ed energici, facevamo fatica a starle dietro. Era un venerdì mattina piovoso e il centro città era deserto. La maggior parte degli uomini era nella moschea e le donne a casa. Contai le targhette dei campanelli delle ong internazionali, delle scuole gestite dall'oNU e dei parcheggi sovvenzionati dall'uE. Un vero e proprio défilé del neocolonialismo.

 Tal era di nuovo nel suo elemento, non c'era più traccia di nervosismo in lei.

 «Qui» Tal indicò una casa.

 Dissi Pronto al citofono, la pesante porta di ferro si aprì e una donna graziosa ci venne incontro. Aveva il volto incipriato e gli occhi truccati con il rimmel nero.

 La stretta di mano di Salam era energica e lei aveva l'abitudine di fissare negli occhi gli interlocutori. Ci fece accomodare in salotto e sparì in cucina.

 Sul pavimento c'erano dei soffici tappeti e le tende erano chiuse. La stanza era ampia e, per quanto riuscivo a vedere in quella luce fioca, alle pareti erano appese riproduzioni di impressionisti francesi e quadri a olio di grande formato che, a giudicare dalla qualità, erano stati dipinti da uno degli abitanti della casa. Una Marianna con la bandiera palestinese, vestita in modo casto ma con i seni grandi, un bambino con la testa sporca di sangue che urlava e un vecchio curvo in una cella marrone scuro che guardava pieno di nostalgia una finestrella - la prospettiva sbagliata gli consentiva di vedere la Cupola della Roccia. Lo spazio libero sulle pareti era occupato da alte librerie.

 Sul tavolo davanti a noi cerano due piatti di frutta: uno con pesche, nettarine e manghi, l'altro con dei pezzetti di anguria; tra i due piatti c'erano delle ciotoline d'argento con frutta secca e noci. Salam tornò con spremute fresche, caffè turco e pasticcini.

 Io elogiai i dolcetti, Salam elogiò il mio arabo e mi chiese del mio dialetto libanese.

 Tal disegnava assente dei cerchi sulla tovaglia. Io raccontai di aver imparato l'arabo dal mio fidanzato, che era nato a Beirut. Non sapevo neppure io perché stessi mentendo, ma parlare di Sami era piacevole.

Salam passò all'inglese, e con ciò si concluse quella conversazione spicciola.

 Prima di arrivare al vero argomento, ciascuno raccontò la propria storia, probabilmente come misura pedagogica. Tal era seduta sul bordo del divano e stava facendo a pezzetti un tovagliolo di carta. Ogni muscolo del suo corpo era contratto. Quando toccò a lei, si limitò a dire: «Tal» e poi: «Eravamo già in contatto».

 Salam rivolse un rapido cenno con il capo e raccontò: «Vengo da una famiglia traumatizzata, mio padre, membro del Partito comunista palestinese, ha passato dieci anni nelle carceri israeliane. Io ho sempre sognato di diventare medico. Quando ho finito le superiori, ho avuto una borsa di studio per Praga. Dovevo studiare genetica».

 Salam fece una lunga pausa. Mentre si versava il caffè, mi guardò in modo strano: «Stai bene?» «Sì» risposi.

 Il vestito di Tal era blu chiaro, non blu scuro, non blu oltremare, non azzurro, non grigiazzurro. Blu chiaro. Non mi guardò neppure una volta. Mi misi a cercare delle benzodiazepine nella borsa, ma non ne trovai.

 «Quando arrivai a Praga, non sapevo nulla. In tutta la mia vita non avevo mai visto l'interno di un laboratorio. Sapete, in Palestina erano vietati. Israele aveva paura che gli scolari anziché studiare biologia imparassero a fare le bombe». Alla parola bombe, Tal trasalì, forse pensando ai suoi zii.

 «Era come se un beduino vedesse per la prima volta una città. Dovetti imparare tutto, persino il modo giusto di prendere in mano gli apparecchi. Quando finalmente avevo appreso ogni cosa ed ero in grado di tener dietro agli altri studenti, crollò l'urss. Mentre gli altri festeggiavano, io feci le valigie. La mia borsa di studio veniva dal Partito comunista, che, proprio come l'urss, non esisteva più. Non potevo permettermi le tasse universitarie, non avevo né genitori ricchi, né un marito ricco. In Palestina mi iscrissi a Scienze diplomatiche».

 «Come mai proprio Scienze diplomatiche?» chiese Yoni, uno dei due ragazzi che avevano viaggiato con noi.

 «Perché no? Continuavano a non esserci laboratori, non avrei potuto proseguire i miei studi e all'epoca Scienze diplomatiche mi pareva una buona idea».

 «Ora non più?»

 

«No, fin quando la diplomazia non porterà a una normalizzazione» disse Tal e guardò negli occhi Salam. Salam annuì e sorrise. Si intendevano.

 Io non sentivo più nulla per lei. Né odio, né amore, neppure affetto.

 

 

 

 

 Capitolo 2.

 Piccoli gruppi di uomini e ragazzi mi venivano incontro, giacche e cravatte, baffi scuri. La maggior parte dei negozi erano ancora chiusi, il cielo era grigio e io avevo la pelle d'oca per il freddo. Guardavo per terra e tentavo di evitare le lunghe pozzanghere. Cercavo un caffè in cui poter entrare senza problemi, pur essendo una donna. Ormai era buio e sapevo che ciò che avevo appena fatto era comunque una pazzia.

 «Io sono Ismael».

 Si presentò in inglese, gli risposi in arabo. Ismael mi porse rispettoso la mano. La sua stretta era sorprendentemente moscia, per un uomo della sua stazza. Sembrava molto giovane.

 Dopo aver messo in chiaro di non avere più nulla a che fare con Tal, mi ero scusata e avevo detto che dovevo andare in bagno. Poi avevo scavalcato la finestra del bagno ed ero corsa in strada. A quel punto ero seduta da sola nel centro di Ramallah. Intorno a me c'erano una decina di uomini in giacca e cravatta. Ismael fu però l'unico a rivolgermi la parola.

 «Da dove vieni?»

 

«Germania?»

 

«Davvero?»

 

«Sì»,

 

Si sedette accanto a me.

 «Dove hai imparato l'arabo? Da un uomo?» domandò.

«Sì».

«Sei sposata?»

 

Annuii.

 Ismael sospirò: «Anch'io. É difficile. Non hai affatto l'aria da tedesca».

 «Che aria hanno i tedeschi?»

 

«Non ne ho idea».

 «E i russi che aria hanno?» gli chiesi.

 Alzò le spalle, rispose: «Hanno l'aria di gente che ama le betulle».

«Gli americani?»

 

«Guardati intorno. La Palestina ne è piena».

 «E i palestinesi?»

 

«Hanno l'aria di gente abituata ad aspettare a lungo».

 Non potei evitare di ridere, Ismael sorrise soddisfatto, si appoggiò allo schienale e si accese una sigaretta.

 «Tu stai gelando» disse.

 «No».

 «Guarda che si vede. Prendi la mia giacca» disse lui.

 «No».

 Ismael si tolse la giacca e la posò sul tavolo. Io scossi il capo, la giacca rimase sul tavolo. A quel punto gelavamo tutti e due. «Che ci fai qui?»

 

Sorrisi e mi strinsi nelle spalle.

 «Aspetti qualcuno?»

 

Feci di no con la testa.

 «Lavori qui? Sei di un'organizzazione internazionale? Oppure sei sposata con un ricco arabo?»

 

Ismael si passò piano le mani tra i capelli, gli si corrugò la fronte.

Aveva lo stesso modo di muoversi di Elisa e una voce simile. «Tu cosa fai?»

 

«Per lo più sono in mezzo a qualche casino». Rise forte della sua stessa battuta. «Sono un fotografo».

Sorrisi, tutto tornava.

 «No, è inutile che tu rida. Non sono un artista. Fotografo matrimoni».

 «É divertente?»

 

«Solo una tedesca potrebbe fare una domanda del genere. Si guadagna, questa è la cosa più importante. Insomma, quasi. Il ceto medio in Palestina si dà delle arie da High Society americana. Per me va bene, io ci guadagno. Domani ho un matrimonio qui, in un hotel di Ramallah e dopodomani ne ho uno a Jenin».

 «Sono nata in Azerbaigian» obiettai.

 «E molto lontano».

 «Non così lontano».

 «Però è un Paese musulmano. Sei musulmana?» mi domandò.

 «No».

 «Cristiana?»

 

Scossi la testa. Ismael rise e disse: «Grandioso. Quindi sei della mia stessa religione?»

 

«Qual è la tua religione?»

 

«Rastafari. Ti prendo qualcosa da bere?»

 

«No, grazie».

 Ismael tornò con due tazze di caffè turco. Me ne mise davanti una e mi guardò negli occhi.

 «Mi faresti un favore?» chiese.

 «Dimmi».

 «Mettiti la giacca, stai tremando. E poi sinceramente, cosa ci fai qui?»

 

«Scappo» mi sfuggì.

 «Da tuo marito? L'hai tradito?»

 

Non risposi. Ismael si ripassò le mani tra i capelli.

 «Tuo marito è arabo, vero?»

 

Annuii.

 «Oh, cavolo. Andrà a finire male, te lo dico io».

Scossi la testa e di colpo mi accorsi che mi stava scendendo una lacrima. Non riuscivo a capacitarmene, stavo davvero mentendo e piangendo. Avevo un passaporto tedesco, un lavoro ben pagato e una casa a Tel Aviv. Ero libera. Ciononostante ero seduta da sola in un bar di Ramallah, stavo piangendo e mentendo a un perfetto estraneo. Solo perché somigliava a Elisa e io volevo aggrapparmi a lui. Sentii male a un polmone, come se un chiodo mi stesse perforando gli alveoli. Uno dopo l'altro. Mi si offuscò la vista, tremavo in tutto il corpo. Lottai per non svenire.

 

«C'è qualcuno da cui potresti andare?» Le parole di Ismael risuonarono cupe dentro di me. Mi mise la sua giacca sulle spalle. Cercavo di calmarmi facendo dei respiri profondi, massaggiandomi le tempie. Cercavo di guardarlo, di sorridere, ma il dolore si fece più intenso, colpendomi al ventre, ai polmoni, al cuore, finché tutto il corpo non fu un unico dolore sordo.

 Inspiravo ed espiravo lentamente, il dolore era scomparso. Solo in quel momento aprii gli occhi e mi raddrizzai. Appurai con sollievo che non ero all'ospedale. Ero su un divano in una piccola stanza buia, in posizione laterale di sicurezza. Ismael era seduto all'altro capo del divano e provvedeva a tenermi le gambe sollevate. Quando si accorse che ero tornata in me, mi tolse subito le mani di dosso.

 «Dove sono?»

 

«Nel retro del bar» sussurrò Ismael. «Ti senti meglio?»

 

«Grazie».

 Ismael fece un cenno con la testa.

 Mi alzai,

 

«Dove pensi di andare?» mi chiese.

 «A pagare il conto».

 «Hai ancora voglia di scherzare».

 «Sto bene» dissi, e barcollai.

 Ismael mi fissò. Il suo sguardo era serio.

«Insomma, dove pensi di andare?»

 

Sollevai le spalle e le lasciai ricadere. «Non lo so».

 «Per il momento puoi stare da me. Poi si vedrà».

 «Grazie».

 «Porto qui la macchina e poi vengo a prenderti. Hai qualcosa con te?»

 

Scossi la testa. Ismael uscì dalla stanza e mi gridò dalle scale: «Sei stata coraggiosa a sposare un arabo».

 Quando mi svegliai, mezzanotte era passata da un pezzo. Accesi la luce.

Sul mio comodino c'era un sacchetto con il logo colorato di una farmacia, dentro ci trovai spazzolino da denti, dentifricio, spazzola e tonico per il viso. Ismael aveva pensato a tutto. Mi alzai e andai alla finestra, aprii un po' la tenda, appena appena, come un guardone. Si vedeva un parcheggio. Nove file di auto in sosta e la casetta del guardiano in cui tremolava la luce di un televisore.

 Ismael insisteva perché dormissi nel suo letto matrimoniale.

 «Non ammetto repliche» disse, richiudendosi la porta della stanza alle spalle. Appoggiò una coperta sul freddo smalto della vasca da bagno e ci si accoccolò, con un cuscino sulle ginocchia. Nella notte lo guardai spesso, si girava nel sonno, cercava di adattarsi con il corpo alla forma della vasca da bagno. Verso mattina era sdraiato sulle piastrelle, tra il lavandino e il water, e russava piano.

 Più tardi ordinò la colazione in camera, si mise la macchina fotografica in spalla e mi lasciò sola con il cibo. Dormii fino a mezzogiorno, mi alzai, feci una lunga doccia e uscii.

 Il centro città era puro caos dai colori sgargianti. Masse di uomini si infilavano tra automobili strombazzanti, officine aperte, caffè, madri velate con bambini che urlavano, beduini, pizzeria osama e forni in cui venivano cotti dei pani piatti su lastre di ferro rotonde. Appena arrivata in strada, dalle reazioni dei passanti mi accorsi che per gli standard arabi ero mezza nuda.

 Da un momento all'altro mi mancarono le forze. Feci appena in tempo a fuggire in un cortile interno che puzzava di acqua stagnante, in cui mi accovacciai accanto a due traboccanti secchi della spazzatura. Quando pensai di non farcela più e di dover gridare, il dolore diminuì e fui in grado di rialzarmi e proseguire.

 «Ci sono soltanto due possibilità» dissi a Ismael quando misi piede nella stanza d'albergo. Ismael era alla finestra in canottiera a costine e boxer, aveva appena fatto la doccia e profumava di un misto di dopobarba amaro e gel doccia ai fiori. Era alto e muscoloso. Una sigaretta gli pendeva all'angolo sinistro della bocca. Prese i pantaloni che stavano sul letto e se li infilò in tutta fretta.

 «Insomma. Ci sono solo due possibilità» riattaccai. «O continuo a indossare questo vestito e mi lapidano come prostituta, oppure mi metto qualcosa di più lungo. Ma allora sembro una colona israeliana e mi lapidano».

 Ismael spense la cicca nel posacenere e rise. «Spero tu scelga la prima opzione».

 Sospirai: «Sapevo che l'avresti detto».

 «Non è come pensi tu, è che così sarebbe più facile salvarti la vita».

 Posai sul letto la borsa della spesa.

 «E questo cos'è?» chiese Ismael.

 «Un picnic».

 «Sul letto?»

 

Annuii.

 «Non abbiamo piatti».

 «Ne ho comprato qualcuno e anche le posate».

Ismael tolse i cuscini dal letto e io mi sedetti a gambe incrociate dalla parte della testata. Mi osservò mentre svuotavo la borsa: pane fresco, olive, hummus, falafel, formaggio e pastrami preso in un negozio di specialità europee, frutta, biancomangiare.

 Ci accomodammo uno di fronte all'altra e mangiammo in silenzio.

Sullavambraccio di Ismael c'era una lunga cicatrice. Sembrava un'ustione.

 «Come te la sei fatta?»

 

Alzò le spalle: «Una pallottola».

 «Israeliana?»

 

«Non ho chiesto chi l'avesse fabbricata». Sorrise, abbassò le spalle.

«Forse tedesca, chi lo sa. Qui si chiamano aiuti allo sviluppo».

 Aveva molte altre cicatrici sulle braccia e anche sul mento. Non ebbi più il coraggio di chiedere come se le fosse fatte. Ismael accese una canna e me la porse. La notte la trascorse di nuovo in bagno.

 Rimasi per un pezzo a rigirarmi nel letto prima di addormentarmi. Poi sognai Elisa. Indossava il pigiama dell'ospedale, la bocca era contratta in una smorfia di dolore. Stava soffrendo. Volevo toccarlo, ma non me lo permise, disse che dovevo lasciar lo morire.

 

 

  

 

 Capitolo 3.

 Sobbalzavamo per le buche, ce n'erano tante. «Avremmo fatto meglio a prendere un asino» disse Ismael e mise una vecchia cassetta, Bob Dylan.

Ismael tamburellava il ritmo sul volante. Dopo solo una canzone venimmo fermati a un posto di blocco. Due ragazzi con il giubbotto antiproiettile ci puntarono contro la canna dei loro fucili. I poliziotti palestinesi erano ancora più giovani dei soldati israeliani, sedici anni al massimo. Ci chiesero di porgere i documenti dal finestrino e poi ci fecero scendere. Nel frattempo continuavano a tenerci sotto tiro. Ismael chiese a uno dei due se gli piacesse la danza del ventre. Dopo un po' i ragazzi ci restituirono i passaporti con fare sgarbato e ci lasciarono proseguire. Da quel momento in poi ascoltammo solo Fairouz.

 Ci fermammo in un paesino e andammo in un ristorante che aveva le sedie di plastica verde e serviva shawarma. Ancora una volta ero l'unica donna nel locale.

 Il muro della casa di fronte era pieno di graffiti. Uno aveva scritto in verde: allah akbar e un altro. sorella, temi allah, non toglierti l'hijab. Accanto, in una grafia incerta: fuck israel, più sotto fuck pa, fuck Hamas. Un altro aveva aggiunto a pennarello: fuck me, if you want.

 

 Nota:

Abbreviazione dell'acronimo pna, Palestinian National Authority, organismo politico di governo dei Territori palestinesi dal 1994. Il 3 gennaio 2013 è stato formalmente assorbito dal proclamato Stato di Palestina. Fine nota.

 

 

 Ismael seguì il mio sguardo e indicò la casa di fronte a noi: «Li vedi quei contenitori in cima alle case?» Annuii.

«Sono cisterne dell'acqua, vengono riempite da Israele due volte alla settimana, non di più. Se consumi l'acqua troppo in fretta sono fatti tuoi, nessuno viene ad aiutarti». Ismael mi fissò. «Ti suona familiare o cosa?»

 

«Neppure noi avevamo l'acqua».

 «Cosa?»

 

«A Baku avevamo l'acqua al massimo un'ora al giorno e nemmeno regolarmente. In quell'ora riempivamo qualunque cosa, serbatoi, vasche da bagno, bottiglie».

 «ok, hai vinto tu».

 Sul nostro tavolo era incisa una svastica. Ne seguii le linee con un dito.

 «Stavo con Hamas, e allora?» disse Ismael all'improvviso.

 Alzò la testa. I nostri sguardi si incontrarono. Mandai giù l'acqua che avevo nel bicchiere e Ismael me ne versò dell'altra.

 «Nemmeno loro mi hanno aiutato. Lo sai com'è iniziato tutto questo?» Ismael non attese che gli rispondessi. «Giocavo a calcio. Due volte alla settimana, all'inizio correvamo appresso alla palla, poco dopo appresso a Dio. Dopo gli allenamenti introdussero la lezione di religione. A un certo punto mi ritrovai con la barba, agli arabi succede in fretta, forse più di quanto tu sia abituata con gli uomini europei. Anche se tu vieni dall'Azerbaigian. Succede lo stesso anche là. Portavo un lungo mantello bianco e un cappuccio». Si girò verso di me e rise. «Ti sto prendendo in giro. Ero musulmano. Ho sempre guardato da un'altra parte quando in televisione c'era una donna. E mia madre. Ho litigato molto con lei. Oggi mi dispiace, ma allora la disprezzavo perché non si copriva la testa»,

 

«Io sono ebrea».

Ismael rimase in silenzio per un po', scosse la testa, si passò le mani fra i capelli, si tolse di tasca un malconcio pacchetto di Marlboro, si accese una sigaretta, la fumò tutta, la buttò sul pavimento e la schiacciò forte con lo stivale.

 «Almeno non è una cosa contagiosa. Proseguiamo».

 Ismael pagò malgrado le mie proteste.

 Mentre attraversavamo la regione, passando per villaggi arabi, colonie israeliane e montagne, io guardavo fuori dal finestrino. Ascoltavamo musica: Mashrou' Leila. Mi ubriacai di musica e della bellezza del paesaggio e pensai che i primi sionisti arrivati in Palestina ai tempi del Mandato britannico dovevano essersi ubriacati della bellezza del paesaggio.

 

 

Nota: Istituzione che permise al Regno Unito di governare la Palestina tra il 1920 e il 1948, dopo la sconfitta dell'impero ottomano nella Grande guerra. Fine nota.

  Ismael si accese una sigaretta. Israele o Palestina, per me faceva lo stesso. Ne avevo abbastanza. «Sei israeliana?» chiese.

«Nemmeno so l'ebraico».

«Io sì. Ho lavorato in cantiere a Tel Aviv. Prima del Muro. Come mai non sei emigrata in Israele?» mi domandò.

«Avrei voluto, ma i miei genitori erano contrari».

Si girò di scatto verso di me: «Non prendermi per il culo». «Quando hai lasciato Hamas?» gli chiesi.

 «Dopo appena sei mesi. Ci sono state lunghe discussioni, una volta sono persino venuti a portarmi dei regali a casa. Come i Re Magi, se per caso hai dimestichezza con la Bibbia. Volevano convincere i miei genitori, che però erano comunisti. Niente da fare. Un amico che è rimasto in Hamas mi ha lanciato una fatwa via Facebook. In quel momento ho capito di aver fatto la scelta giusta».

 Ismael si accese un'altra sigaretta.

 «Anche i miei genitori erano comunisti» dissi.

 «Sai che quando ero bambino per punizione mi facevano sempre recitare a memoria il Manifesto del Partito comunista?» aggiunse ridendo Ismael.

 «Merda».

 «L'hai detto. Ma ora mio padre è diventato religioso. Prega cinque volte al giorno e si guarda intorno in cerca di una seconda moglie. Mia madre è rimasta comunista. Alle ultime elezioni si è persino candidata. La città era piena di cartelloni con il suo nome e la sua foto. Un grande onore. Mio padre ha detto a tutti che non l'avrebbe votata. E così ha fatto».

 «É stata eletta?»

 

«Chi vuoi che ti voti, se neppure tuo marito è disposto a farlo?» Restammo in silenzio per un po'.

«Sai, una volta sono stato in Germania. Bel posto, però è vietato fumare dappertutto. Mi mancava la Palestina, la prima cosa che ho fatto appena tornato qui è stata accendermi una sigaretta. Ancora sull'autobus».

Ismael stava guidando con una mano sola, nell'altra aveva una sigaretta.

«Ma c'è una questione che continuo a non capire: che ci fa tuo padre con un'ebrea?» domandò.

«Si è innamorato per davvero».

 Ismael mi fece un sorrisetto un po' troppo lungo.

 «Tu a cosa credi?» chiese.

 «A niente».

 «Dio?»

 

«No».

 «Cultura?»

 

«Neppure».

 «Nazione?»

 

«Sai, nella mia infanzia in casa c'era una valigia sempre pronta, per qualunque evenienza. Nel nostro caso si trattava della vecchia cartella di mio nonno, dentro c'erano mutande pulite, foto di famiglia, cucchiai d'argento e denti d'oro, il capitale che erano riusciti ad accumulare sotto il regime comunista. Gli armeni erano stati cacciati dalla città già da tempo e non pochi erano stati uccisi.

Mia nonna, una sopravvissuta all'Olocausto...»

 

«Oh, lascia stare...»

 

 

 

 

 

 Capitolo 4.

 Un cartello indicava che mancavano solo cinque chilometri a Jenin, sebbene stessimo guidando in città già da un po'.

 «Questo è il luogo dove c'è stata più violenza durante la Seconda intifada. Nel 2002 l'esercito israeliano ha invaso il campo profughi» disse Ismael.

 «Dopo un attentato di Hamas».

 «Sì, dopo un attentato di Hamas, anzi, dopo diversi attentati di Hamas.

Stammi a sentire, non sto cercando di abbellire o di giustificare nulla, voglio solo raccontarti cosa è successo».

 «Scusami».

 «Vuoi che vada avanti oppure no?»

 

«Sì, certo»,

 

«Per giorni e giorni si combatté per le strade, finché arrivarono con le ruspe. Raserò tutto al suolo, persino case in cui c'erano ancora delle persone. Alla fine era impossibile distinguere tra corpi umani e cadaveri di animali. Quando si decisero ad andarsene, tutto era immobile, anche l'aria. Soprattutto l'aria, aveva smesso di circolare e c'era ovunque odore di sangue coagulato. Tutto ciò che percepivo era quel puzzo di putrefazione e, sebbene io avessi solo una ferita profonda, mi sentivo morto. Ero sicuro che sarei morto di lì a poco.

Avevo anch'io quell'odore».

 Il campo profughi era un paese con le stradine strette. Non mi ero accorta che fossimo passati dalla città al campo. Parcheggiammo di fronte a una casa con l'intonaco bianco.

«Non possiamo baciarci né abbracciarci» disse Ismael, benché fino a quel momento fra noi non ci fosse stata alcuna effusione, non ci fossimo toccati, non ci fosse stato neppure un contatto casuale tra i nostri vestiti. La portiera del guidatore si aprì e si richiuse. Dopo aver fatto un respiro profondo, scesi anch'io dalla macchina.

 «A proposito, quella che si sposa è mia cugina».

 «Come mai non me l'avevi detto?»

 

«Perché ti saresti fatta degli scrupoli a venire con me. E soprattutto ho tre sorelle e due fratelli, per non parlare delle venti cugine e della dozzina di cugini, zie e nipoti».

 Non eravamo ancora arrivati alla casa e già erano uscite dieci donne.

Ciascuna di loro abbracciò e baciò Ismael. Mi venne presentata sua madre, una donna piccola e gracile. Ismael sparì in giardino, a me fecero un sacco di domande. Alcune donne avevano il capo coperto, altre no. Dissi di essere una militante di un'organizzazione pacifista internazionale, un tipo di donna ben noto in Palestina, nessuna mi chiese che rapporti avessi con Ismael.

 Una delle sue sorelle mi condusse su per una ripida scala a chiocciola, mi dovetti reggere al corrimano. Haifa era la sorella più giovane. Aveva gli occhi marrone scuro, curiosi e un po' strabici, e le labbra carnose.

Gli splendidi capelli neri le ricadevano sulle spalle fino al sedere.

Haifa mi fece accomodare sul suo letto e iniziò a farmi bella. Mi lisciò i capelli, mi depilò con un filo, mi truccò e profumò, mi prestò un vestito blu scuro.

 «Ora sì che sei bella» disse Haifa, mentre contemplavamo la sua opera allo specchio. «Ma quando torniamo dagli altri è meglio se non dici di essere qui come pacifista».

 «Perché no?» chiesi stupita.

 Fissò imbarazzata il pavimento: «Ecco, insomma. Cominciamo ad averne abbastanza della pace. Vogliamo diritti e uno Stato. Il processo di pace è fallito e noi non vogliamo la normalizzazione».

 «Ormai però l'ho già detto a tutti».

 «Fa lo stesso, ma evita di ripeterlo. E poi...» si bloccò, abbassò lo sguardo.

 «Sì?»

 

«Negli ultimi tempi Ismael ha già avuto abbastanza dispiaceri» disse in tono fermo, guardandomi negli occhi.

 Non le feci domande, perché non erano affari miei e perché ero sicura che me ne avrebbe parlato comunque. Invece con mio grande stupore un attimo dopo mi fissò con rabbia ed esclamò: «Io non vi capisco! Venite qui come volontari e pensate di potervi comportare come vi pare, solo perché siete tanto gentili. Spaventosamente gentili. Di noi non ve ne frega un cazzo, noi serviamo solo a soffrire e a procurarvi i ventilatori».

 La fissai. Haifa fece un cenno con la testa e proseguì: «Va bene. Ti ha portato in casa nostra, sei nostra ospite. Scusami. É solo che la normalizzazione non è la strada giusta, dobbiamo rafforzare la resistenza contro l'occupazione e smetterla di fare il loro gioco. Voi tedeschi, ecco, siete ingenui». C'era qualcosa di stonato nelle sue osservazioni. Sentivo che non era sincera, ma non riuscivo a capire dove stesse la dissonanza.

 Haifa mi prese per mano e mi condusse in salotto, dalle altre donne. Gli uomini erano in giardino a festeggiare.

 La sposa, truccata come una bambola, aveva parecchie donne che le mulinavano intorno. Chi non ballava, batteva il tempo con le mani. La musica era forte e i profumi penetranti. Si erano tutte scoperte il capo e tolte il soprabito. Per caso mi vidi in uno specchio. Vestito blu. La musica era assordante e fuori c'era ancora luce.

Uscii in strada. La via era stretta e puzzava di acqua stagnante.

Da qualche parte si sentì un pollo schiamazzare. Camminai per i vicoli, ai muri delle case erano appesi manifesti con le foto di detenuti nelle carceri israeliane e di attentatori suicidi, con l'indicazione precisa della data di morte. E tra gli altri, c'erano anche manifesti pubblicitari. Su parecchi muri vidi delle svastiche. Pensai al Mar Caspio, al battello con cui si andava in gita e a Rostropovic. Volevo tornare a casa. Da mia madre, volevo che mi proteggesse. Volevo tornare da Elisa, aggrapparmi alla sua camicia e respirare il suo odore, riuscire a ricordare il suo viso. Avevo la pelle d'oca, non mi passava, e mi sentivo male. Cercai di calmarmi, mi appoggiai a una parete per recuperare le forze. Il mio naso iniziò a sanguinare. Un ragazzino mi passò accanto in bicicletta. Suonò il campanello e mi gridò qualcosa, aveva la voce distorta, non lo capivo. Dopo un po' lasciò perdere e proseguì. Mi accorsi di essere vicino a una macelleria. In vetrina c'erano i cadaveri di animali interi appesi a testa in giù su grossi ganci cromati. Lì accanto c'era il caffè Bagdad, con Saddam Hussein ritratto di tre quarti in vetrina. Gli corsi incontro, gli porsi la mano. Sentii il freddo del vetro contro la mano.

 «Saddam, vecchio mio» dissi. «Ti ricordi ancora il nome del bambino con i capelli rossi, quello del parco?»

 

Nessuna risposta. Saddam era morto. Elisa era morto. Tutto era morto.

Nei giorni del massacro. Mio padre copriva le nostre finestre con le coperte, i soldati colpivano come falene, mirando sempre alla luce. In tutta la città c'era un silenzio innaturale, il cielo era pieno di nuvole scure, era come se inghiottissero qualsiasi rumore. Mio padre indossava il suo cappotto nero, aveva in spalla una borsa da viaggio.

Mia madre l'aveva riempita in fretta con le mie cose, calzettoni di lana spessa, vestiti, maglioni. Piangeva a bassa voce, fra sé e sé. Dopo avermi abbottonato il cappotto, mi guardò a lungo in viso, poi prese la stella di David che portavo al collo da quando avevo tre anni. Protestai, ma lei disse che non era il momento. Vai. Mio padre mi trascinò via con sé. Per strada c'era poca gente. Davanti a certe case si vedevano mobili distrutti, materassi sventrati e indumenti scompagnati, molte finestre erano rotte, le schegge erano sparse sul lastricato e si confondevano con frammenti di foto di famiglia di sconosciuti. Sbrigati, disse mio padre. Sopra le nostre teste si sentivano delle grida, tante voci che urlavano, tra cui una femminile, molto insistente. Il tonfo di un corpo che cade. Il blu del suo vestito. La pozza di sangue. Mio padre cercò di tapparmi gli occhi. Io mi divincolai. Corsi verso di lei. Il suo sangue tinse le mie scarpe di rosso carminio. Mio padre non voleva lasciarmi sola. La nonna gli gridava. Vai. Torna da tua moglie. Poi cercò di blandirmi. Mi avvolse in una coperta e mi mise sul suo letto. Cominciai a sanguinare dal naso. Bussarono alla porta. La nonna non aprì.

 «Zia Anna. Zia Anna. Apri» gridava qualcuno fuori dalla porta. «Zia Anna. Sono io, Abbas, il tuo vecchio allievo della

 

III B».

 La nonna non si mosse.

 «Apri, sono del Fronte popolare».

 La nonna mormorò una bestemmia in yiddish e ne aggiunse una in russo.

Poi aprì la porta. Un uomo entrò in corridoio. Il berretto di pelliccia calcato in testa, le mani arrossate per il freddo. Un mitra in spalla.

 «Zia Anna, tu nascondi degli armeni. Ti hanno denunciato».

 «Sei scemo?» gli chiese, mettendosi le mani sui fianchi.

 Andai anch'io in corridoio, avevo il vestito sporco di sangue, continuavo a perdere sangue dal naso. L'uomo mi fissò spaventato. L'uomo domandò a mia nonna: «Cosa le è successo?»

 

«Era fuori, ecco cosa le è successo. Cosa state combinando?» gridò lei.

Lui spostò lo sguardo da me alla nonna, non disse una parola e non si decideva ad andarsene. Si tolse il berretto, sul suo labbro superiore si formarono delle goccioline di sudore.

 «Devo perquisire la casa» mormorò.

 «Prego» rispose la nonna, e con la mano destra lo invitò a entrare. Lui fece un cenno con la testa e lasciò l'appartamento. La nonna richiuse a chiave la porta. Poi crollò a terra. «Tutto si ripete» mormorò. «Tutto si ripete. Tutto si ripete».

 Proseguii. Le strade erano strette. Arrivai a una barricata. Di fronte c'era un fuoco da campo con cinque uomini, parlavano in azero e si scaldavano le mani. Un carro armato venne verso di noi e schiacciò un'automobile parcheggiata. Il carro armato proseguì superando l'automobile e fu colpito da una molotov lanciata da una finestra. Cadde come una stella filante, lasciandosi dietro una coda. All'epoca quell'immagine mi aveva affascinato. Mi misi a cercare l'automobile di Ismael. Ma non riuscivo a trovarla, girai in tondo fino a non poter più respirare, poi tentai di venirne fuori. Artemis e Shushanik, ecco i nomi dei figli dell'amica della nonna. Lei si chiamava Gajane. Il carro armato si fermò di colpo, girò il muso e puntò il cannone verso la finestra da cui era partito l'attacco. Un'esplosione. La finestra della cucina tremò. Nella casa accanto si aprì uno squarcio. Dietro apparvero un tavolo da cucina e una tappezzeria a fiori. Mi tolsi una ciocca di capelli dalla faccia, il sangue mi era rimasto attaccato alla guancia.

 Sami rispose subito, sentii in sottofondo una risata femminile e lui che invitava quella risata a fare silenzio.

 «Vienimi a prendere, per favore» dissi.

 «Dove sei?» Mi guardai intorno, non sapevo più dov'ero. Ero corsa fuori dal campo profughi e mi ritrovavo più o meno in campagna. Intorno a me crescevano gli ulivi e si assomigliavano tutti. All'orizzonte scintillavano i tetti rossi di una colonia.

 «Non fare cazzate. Dimmi subito dove sei».

 Cercai di sembrare normale: «Non lo so».

 «Sei a Tel Aviv?»

 

«Palestina. Sono in mezzo a un campo. Il sole sta calando». «Prendo il primo volo. Domattina presto sono là».

 «Sami, sto sanguinando».

 Elisa mi porge un fazzoletto. Me lo metto sul naso e piego la testa all'indietro. «Devi tenere su la testa. Altrimenti non smetti più di perdere sangue».

 «Più su» dice Elisa. «Ecco, proprio così».

 Lo prendo a braccetto e per un po' camminiamo affiancati. Il sole è quasi tramontato, ma c'è ancora luce.

 

Olga Grjasnowa - Tutti i russi amano le betulle
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