Parte seconda

 

 Capitolo 1.

 Lo capii appena vidi il medico venirmi incontro. Era stanco e pallido, mi prese per un braccio, mi chiese di andare in un'altra stanza e mi fece sedere su una panca. Io capivo solo a tratti: intervento d'urgenza, complicazioni, entrata in circolo di frammenti midollari, complicazioni, embolia adiposa, non di rado, complicazioni, crollo della pressione arteriosa, alterazioni del ritmo cardiaco, arresto cardiaco.

 Si tolse gli occhiali e si terse la fronte.

 «É stato impossibile rianimarlo. Vuole vederlo?»

 

Elisa era steso sul letto. Il corpo era freddo, ma non ancora rigido, gli occhi già chiusi. Lo avevano vestito con una camicia da notte dell'ospedale, la aprii. La ferita dell'operazione al femore era stata ricucita approssimativamente, con punti rozzi. Anche

 

il torace era stato ricucito in quel modo. Mi sedetti sul bordo del letto. Entrò un'infermiera, aprì appena la porta e si scusò. Attesi che se ne andasse e richiusi a chiave alle sue spalle. Non poteva essere morto. A pochi metri da me. Avrebbe dovuto aspettarmi. Saremmo potuti morire insieme. Non avrei avuto nulla in contrario. Gli cantai delle canzoni per bambini, come se volessi cullarlo nel sonno. Cantavo malissimo, speravo che il suo volto si sarebbe mosso, un breve sussulto in un angolo della bocca, un tremore delle narici, un movimento degli occhi o della mano, ma sapevo bene che era morto. Gli passai l'unghia dell'indice sulla pelle, con forza, con delicatezza, ma lui era inerte, freddo. Un raggio di luce divideva la stanza in due. Stavo accanto a lui sul letto, il suo corpo si faceva sempre più rigido. Nel cielo non c'era ancora traccia dell'aurora, era tutto bianco. Elisa aveva sempre detto che quella luce era eccitante. Bussarono alla porta, si fece giorno, e il bussare divenne martellante. Gli ebrei dicono che nel momento della morte l'anima abbandona il corpo, ma rimane nei paraggi fino alla sepoltura, perciò il corpo non va lasciato solo. Ma Elisa non era ebreo e io non ero credente. Qualcuno gridò il mio nome. A un certo punto mi ritrovai di fronte l'infermiera e due medici sconosciuti, non li avevo neppure sentiti aprire la porta. Uno aveva le spalle ampie e un viso segnato dalle intemperie, mi ricordava il nuotatore russo Alexander Popov. Ero davanti al televisore con mia madre quando Alexander Popov vinse la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Barcellona. Il medico mi spinse sulla sedia.

 Uscii dall'edificio dell'ospedale, attraversai la stradina e mi misi ad aspettare l'autobus. Gli uccelli cinguettavano e il bus arrivò puntuale.

Il conducente mi salutò, raggiunsi una fila di sedili vuoti e schiacciai la faccia contro il vetro graffiato. Il paesaggio era sempre lo stesso, lunghe file di auto parcheggiate, case basse, giardini ben tenuti, di tanto in tanto un albero.

 Scesi alla prima stazione della metropolitana. Entrai, gettai le cartacce che avevo in borsa in un cestino dei rifiuti pieno fino all'orlo e brulicante di mosconi. Vomitai. Mi pulii la bocca. Dei punk stavano pisciando sui binari e ridevano. Arrivò la metropolitana, i punk presero i loro zaini ed entrarono uno dopo l'altro. Nel vagone l'aria era soffocante. Le stazioni si susseguivano e così pure i passeggeri, per lo più si appoggiavano di schiena addosso a me. Mi ritrovai di fronte alla porta di casa e poi in corridoio. Appesi le chiavi al gancio vicino alla porta e mi sfilai le scarpe. In bagno c'era un caldo opprimente. L'acqua era così calda che quasi mi scottai, il filtro dello scarico del lavandino era pieno di capelli biondi. I suoi capelli. Sul tavolo in cucina c'erano delle buste ancora chiuse indirizzate a Elisa, sotto il cuscino c'era la sua maglietta. Odorava di sudore e di latte, anche se Elisa di rado puzzava di sudore, e mai di latte. Con il tempo sarebbe rimasto solo l'odore di latte acido. Mi raggomitolai e intorno a me tutto iniziò a girare. Mi venne la nausea, barcollai fino in bagno e vomitai vicino alla tazza. La circolazione, le ginocchia e i palmi delle mani mi fecero capire che il mio organismo non ce la faceva più. Tremavo in tutto il corpo, mi rimisi a letto e dormire mi parve la cosa più urgente da fare.

 

 

 

 

 Capitolo 2.

 Mia madre prese in mano la situazione, si occupò di Horst e Elke, del telefono, delle formalità e di tutto il resto. Accese una candela vicino a una foto di Elias e coprì gli specchi. Io me ne stavo a letto a guardare il soffitto, senza neppure vestirmi. Qualche volta entrava mia madre, si sedeva accanto a me e svuotava il secchio che c'era ai piedi del letto. Dato che non riuscivo a mangiare niente, rigettavo soltanto bile.

 Il Talmud impone di commemorare i morti. Se l'avessi avuto a portata di mano, l'avrei buttato nel fuoco. Ma era in qualche cassa insieme alla videocassetta di Schindler's list. Volevo ricordarmi tutto, il suo volto, il suo corpo. Non volevo assolutamente dimenticare come mi stringeva fra le braccia, come mi sfiorava la pelle con le labbra, come sorrideva e come ci addormentavamo fianco a fianco e come di sera ci telefonavamo quando non eravamo insieme. Dimenticare divenne la mia più grande paura. Me ne stavo a letto con le tende tirate, sul comodino c'era la candela accesa di fronte alla sua foto. Quando chiudevo gli occhi, vedevo il suo viso, e quando li tenevo chiusi troppo a lungo vedevo il volto di un cadavere in sottoveste azzurra. Gli occhi erano infossati nelle orbite, dal suo grembo stillava sangue. Prima che le immagini iniziassero a sovrapporsi, aprivo gli occhi e bevevo un sorso d'acqua, poi potevo riprendere a vedere Elias. Ricordavo che il mio corpo si adattava perfettamente al suo, pensavo alla sua voce, alle sue mani e a quando l'avevo trovato in un appartamento angusto e pieno di fumo.

 I padroni di casa croati si dimenavano lenti al suono dell'hip hop slavo. Io avevo in mano una sigaretta e un bicchiere di vodka e vagavo da una stanza all'altra in cerca di gente conosciuta. Un maturando mi trascinò in cucina, volle che gli toccassi i bicipiti, mangiare era un atto di fede nella rosticceria balcanica della zia dei padroni di casa.

Il salotto era strapieno di gente. Elias era sul divano che flirtava aggressivamente con Tuba. Aveva un viso femminile, con le guance scavate e gli zigomi alti. Quando sorrideva, gli venivano le fossette ai lati della bocca. Per giunta aveva un taglio di capelli da bambino, una pelle liscia e pulita, e un delicato reticolo di efelidi intorno al naso, grande e regolare. A me piacevano gli uomini alti e magri e i volti dominati dal naso, e restai a osservarlo fin troppo a lungo.

 Tuba si scostò i capelli dal viso, i suoi braccialetti tintinnarono; prese un altro sorso di birra, protendendo la lingua e leccando rapida il collo della bottiglia. AH'improvviso mi fece un cenno.

 «Masa!» Pian piano mi feci strada tra la massa di gente che ballava, qualcuno mi rovesciò della birra su una scarpa e si scusò con un gesto del capo.

 «Tesoro, stai bene? Ti presento Elias». Tuba guardava un po' me e un po' Elias e giocherellava con i suoi riccioli, in apparenza sovrappensiero, si arrotolava una ciocca di capelli intorno all'indice, poi la stirava e la lasciava andare. Poi mi chiese: «Sei qui con Cem?»

 

«Sì, ma è un'ora che non lo vedo».

 «Vado a cercarlo». Tuba sparì. Mi sedetti vicino a Elias e inarcai la schiena. La situazione era molto imbarazzante per tutti e due.

All'inizio restammo in silenzio, poi gli chiesi da dove venisse. Lui parlò di Dresda, Amburgo e Berlino, di pesca e di architettura, di film francesi, della mostra che avevano appena inaugurato al Museum für Moderne Kunst, di calcio e della voglia che ho dietro il lobo dell'orecchio sinistro.

 Ce ne andammo insieme dalla festa, piovigginava e Elias mi domandò se volevo che mi portasse a casa sul portapacchi della bicicletta. Mi osservava con una tale intensità e serietà che sembrava cercasse di studiarmi a memoria. Presi l'autobus notturno. Mentre ero sola alla fermata e me ne stavo pentendo, si mise a grandinare.

 Tre settimane dopo, per caso, incontrai Elias in tram. Accanto a noi c'era un ragazzino con un sacchetto trasparente in mano. Nel sacchetto nuotava un pesce rosso. Elias e io guardammo stupiti il ragazzino, ma lui non ci fece caso. Avrei volentieri passato di nascosto a Elias un foglietto con il mio numero, ma lui scese troppo in fretta.

 Nelle settimane successive continuai a pensare a lui. Poi lessi sul giornale di una mostra all'Accademia di Belle Arti. Mi comprai addirittura un vestito nuovo, ma faceva troppo freddo per togliersi il cappotto. Elias era in un angolo, appoggiato al bancone del bar con una sigaretta a un lato della bocca. Vicino a lui c'era una ragazza con una minigonna rossa e un rossetto corallo. Era giovane e carina, aveva una pelle perfetta e delle gambe perfette. Appena la vidi, pensai che dovevo rassegnarmi al mio tedesco e alle sue gambe perfette. Corsi fuori, lui mi raggiunse all'entrata, mi trattenne per una manica. Rientrammo insieme. Mi offrì una birra e io avevo paura di dire qualcosa di stupido, poi lui disse che alla maggior parte dei quadri tutto ciò che serve per essere arte sono pareti vuote. Stava diventando sempre più nervoso. Trovavo bello il suo naso e smisi di pensare a Sami, che era tornato in California qualche mese prima.

 La cenere della mia sigaretta aveva lasciato segni di bruciature sul lenzuolo. Me ne stavo nel letto mezzo vuoto e vidi il cadavere di una giovane donna in sottoveste azzurra apparire giusto davanti ai miei piedi, con le gambe storte e il basso ventre che sanguinava. Mi staccai da mio padre e corsi dalla donna. Aveva il vestito zuppo di sangue e anche sull'asfalto si stava allargando una pozza di sangue. Il sangue arrivò fino alle mie scarpe. Le tinse di rosso.

 Mia madre accolse Cem con sconcertante cordialità e gli fece il caffè.

 Cem si sedette vicino al mio letto e disse che per Elias lui e Konstantin, il suo ragazzo, avevano ingaggiato in Grecia delle prefiche, che per le successive ventotto ore avrebbero pianto la morte di Elias.

Avrei potuto vederle in streaming su internet. Aveva creato apposta un canale su YouTube. Estrasse dalla borsa il pc e sullo schermo vidi due anziane velate, che non facevano altro che star sedute in silenzio in una stanza semivuota su due sedie da giardino di plastica bianca. Cem guardava deluso lo schermo e gridò una bestemmia in turco. Subito dopo chiamò Konstantin, che sentii imprecare all'altro capo della linea.

Probabilmente lui chiamò a sua volta qualcuno in Grecia e dopo appena un quarto d'ora le prefiche si misero a fare il loro lavoro: urlavano, piangevano e singhiozzavano. Restammo a guardarle per un po', continuavano a ripetere un'unica frase. Per lo meno, a noi sembrava una frase. Chiesi a Cem cosa significasse, ma lui non lo sapeva. Richiamammo Konstantin.

 «Non riesco a sentire» disse lui. «Il volume è troppo basso».

 Avvicinammo il telefono allo schermo.

 «Agire. Soffrire, Imparare» tradusse Konstantin.

 «Come mai citano l'Orestea?» chiese Cem.

 «Sono greche» rispose Konstantin.

 «Richiamale» disse Cem.

Me ne stavo da sola nel letto matrimoniale, passavo le mani sulla metà vuota del letto e per dormire cercavo di trovare una posizione diversa da quella a cui ero abituata. Continuavo a pensare alla sua ultima notte, con il ricordo tornavo sempre là, ripercorrevo ogni secondo, avrei potuto evitare che morisse se mi fossi svegliata più presto, avrei dovuto controllare la ferita il giorno prima, mi sentivo responsabile della morte di Elisa. Il più delle volte cadevo in un sonno agitato verso l'alba e quindi mi alzavo tardi. Mi immaginavo che Elisa fosse a letto con me. Mi immaginavo di allungare la mano verso di lui e di trovarlo là, dalla sua parte del letto, con le ginocchia piegate e i capelli arruffati. Di chinarmi su di lui e dargli il buongiorno. La ricrescita della sua barba era ispida. Mi immaginavo di toccarlo. Il suo corpo era caldo. Lo tenevo stretto, non volevo più lasciarlo andare. Poi lui mi spingeva via, si alzava, andava in bagno, tornava e magari si sdraiava di nuovo brevemente accanto a me. Aveva addosso degli indumenti che non stavano bene insieme. Lo prendevo in giro per questo. Le lenzuola avevano ancora un po' del suo odore, per dormire indossavo la sua biancheria. Solo verso l'alba iniziavo a cercarlo nel letto e mi ricordavo.

 

 

 

 

Capitolo 3.

 Prima di girare la chiavetta dell'accensione, mio padre giunse le mani sul volante e per un attimo rimase senza fare nulla. Non si trattava di una preghiera, bensì di una tradizione russa, in base alla quale un viaggio doveva iniziare stando seduti in silenzio. Dopo il silenzio mise in moto e accelerò quando era ancora in una zona abitata. L'Arbre Magique appeso allo specchietto retrovisore sbatteva forte avanti e indietro. La mamma sorrise soddisfatta e sprofondò ancora di più nel suo sedile. Io ero seduta dietro tra Cem e Sami, dormivano entrambi.

 Il visto statunitense di Sami, un visto per motivi di studio, era scaduto; in generale era questione di poche settimane, ma quando su un passaporto c'era un nome arabo e Beirut come luogo di nascita, nemmeno la cittadinanza tedesca serviva a molto. Sami andava al consolato americano una volta al mese, compilava dei moduli e gli veniva assicurato che non mancava molto, giusto un paio di settimane, un controllo di routine. Se lo sentì ripetere per quasi un anno.

 Un'aurora opprimente riempiva il cielo. Mio padre si ostinava a guidare la sua Volkswagen oltre i limiti di velocità sulla corsia di sinistra, senza far passare né le bmw, né le Mercedes, mia madre lo guardava con tenerezza. A volte mi domandavo come sarebbe stata la nostra vita se mio padre fosse andato nello spazio. Mi chiedevo se sarebbe stato felice. Se mia madre sarebbe stata più felice. Ma probabilmente sarebbe bastato che fossimo rimasti nel Caucaso. O che io fossi una figlia migliore.

 Horst e Elke abitavano in una casa color pesca in stile "prefabbricato mediterraneo", che sembrava smarrita nella provincia della Germania orientale. Una quercia cresceva accanto alla porta d'ingresso bianca, tende chiuse, prato rasato con cura, capanno degli attrezzi. La loro era l'ultima casa del paese.

 Vennero ad aprire. Erano entrambi vestiti di nero. Scendendo dall'auto, sbattemmo forte le portiere e Elke trasalì.

 Mia madre abbracciò la madre di Elias con cautela, per evitare che i loro corpi si avvicinassero troppo, mio padre diede la mano a Horst e gliela strinse con tutte le sue forze. Anche Cem e Sami fecero le condoglianze. Nel corridoio Horst prese la mia giacca e quella di mia madre e le porse subito a Elke. Elke si passò i palmi delle mani sulle cosce, i pantaloni di satin le andavano stretti, fece una risatina nervosa, si scostò i capelli dalla faccia. Mia madre fece un sorrisetto di superiorità e piantò la borsetta in mano a mio padre. Indossava un abito nero che metteva in evidenza la sua magrezza, high heels e un filo di perle proveniente dal patrimonio della bisnonna prima della rivoluzione.

 Per l'imbarazzo, Cem e Sami si tolsero le scarpe. Elke si mise a fare domande, se avevamo fatto fatica a trovarli, com'era andato il viaggio, a che ora eravamo partiti e se non era stato troppo faticoso. Faceva domande a raffica, ma nessuno le rispondeva. Horst ci indicò un divano in pelle marrone, sul tavolino cerano sette piattini e altrettante fette di torta già tagliate. La stanza era arredata in un incomparabile stile Biedermaier in versione tedesco-orientale.

 «Viene dal nostro fornaio. Qui dietro l'angolo». A Horst tremava la voce. AH'improvviso si alzò e chiuse la finestra, lasciando fuori anche i rumori esterni, il cinguettio degli uccelli e delle remote risate di bambini. Dopo un po', dato che nessuno riusciva più a sopportare il silenzio, Cem chiese: «Lei colleziona orologi?»

 

Sulla parete di fronte erano appese decine di orologi in legno intagliato e dipinto. Ticchettando tutti insieme facevano un gran rumore.

 «No» disse Horst, l'alcolizzato.

 «Ah» annuì Cem.

 A Sami andò di traverso la torta, mio padre, zelante, gli diede delle pacche sulla schiena.

 «Però sono davvero tanti».

 Elke posò la sua mano paffuta su un ginocchio di Horst e ci sorrise.

«Erano di mio padre».

 «Collezionava orologi?»

 

«Sì».

 Horst si schiarì la gola e mi domandò: «Le sue cose sono da te?»

 

«Sai, se per caso tu non avessi posto» disse Elke in tono sommesso e si lisciò i pantaloni evitando di guardarmi.

 «Magari è quello che vuoi anche tu» disse Horst, prima di riavvicinarsi alla finestra.

 «E invece non vuole». Mio padre si guardò intorno aggressivo e mia madre si affrettò a elogiare la torta, Elke offrì con altrettanta rapidità una tazza di caffè.

 Mio padre ribadì, stavolta con enfasi: «Se lei non vuole, niente da fare». Il tedesco di mio padre suonava sempre scortese, in russo invece era diplomatico. Persino la sua postura cambiava quando parlava in tedesco, la schiena era dritta, i muscoli contratti. Il suo tedesco era ancora rudimentale, l'accento era turco, la logica delle frasi russa e i forestierismi latini.

 Cem porse a papà la zuccheriera e riprese il filo: «Quanti orologi ha?»

 

«Non lo so proprio, è strano che lei me lo chieda» disse Elke.

 «Trentasei» rispose Horst in tono sgarbato.

«Ccediglia,udieresi,scediglia» commentò Cem.

«Proprio così, non l'avrei mai creduto». Elke sorrise imbarazzata e versò il caffè. «Sì, è un lavoraccio. Bisogna continuare a caricarli. E ci vuole tempo!»

 

«Non le dà fastidio il rumore?»

 

«Il rumore?»

 

«Be', il ticchettio».

 «No».

 «No?»

 

«Per niente».

 Restammo in silenzio, evitando di guardarci, finché mio padre si alzò per andare a prendere la macchina.

 Horst e Elke ci precedettero in chiesa, noi li seguimmo. Io volevo andare a piedi, ma i ragazzi non si fidarono a lasciarmi sola. Il paese era lindo e ben tenuto. Non c'era molto: una gelateria, la Cassa di risparmio e visi rotondi e senza trucco. I barboncini facevano il loro mestiere nei giardini delle case e c'erano dei manifesti del npd* che penzolavano dai pali della luce. (Partito nazionaldemocratico di Germania, di estrema destra [N.d.T.]) Il parroco definì Elias un buon cristiano e nostro fratello. I partecipanti alle esequie non erano molti, gli abitanti del paese e i parenti alla lontana erano impassibili, i collaboratori dell'impresa di pompe funebri se ne stavano a mani giunte. Gli amici piangevano, non sapevo più se i suoi o i miei, i presenti avevano formato dei piccoli gruppi e giravano la testa dall'altra parte quando i nostri sguardi si incrociavano. Io ero in jeans e maglietta grigia, perché avevo dimenticato di cambiarmi. Cem aveva posato la sua mano sulle mie, non mi lasciava. C'era odore di incenso e di fiori che stavano marcendo.

 Suonarono le campane, gli astanti si affollarono intorno alle strette uscite della chiesa del paese.

Io rimasi indietro da sola. I becchini portarono la bara fuori dalla chiesa. Io li seguii e restai a guardare mentre la caricavano sul carro funebre. Misero in moto, Cem mi prese per mano e mi fece sedere nella macchina di mio padre, che si incolonnò dietro alle altre in direzione del nuovo cimitero. Ci disponemmo intorno alla fossa appena scavata. Il sole d'agosto era abbagliante, nei vestiti da lutto si friggeva. Il parroco afferrò per primo una pala. Piccola come un giocattolo. Gettò della terra sulla bara. Altri fecero lo stesso. Sui corpi danzavano delle chiazze di sole. Elke era crollata sul ciglio della tomba, piangendo in silenzio. Horst le posò un braccio sul gomito e la tirò su. All'uscita il parroco fece le condoglianze, strinse la mano a Elke, diede una pacca sulla spalla a Horst e a me fece un cenno con il capo. Una donna paffuta, con l'aria di una che vota per un partito conservatore perché non le interessa la politica, si fermò accanto a me e sussurrò: «Lei è la sua ragazza? Era così giovane. E bello». Poi arrossì. Aveva un residuo marroncino di petto di pollo tra due incisivi. Ma Elisa era stato davvero un bellissimo uomo.

 La trattoria di Elke era buia. Il legno scuro dei tavoli e delle sedie aveva un aspetto oleoso. I partecipanti al funerale erano ancora in piedi, a gruppetti. Tutti sani, volti rosei, la pelle grassa e lucida.

Per il resto: fiori appassiti, puzza di birra e strette di mano umidicce. Horst e Elke si muovevano a piccoli passi tra i presenti, che cercavano di confortarli. Alcuni dicevano che era orribile, che non si muore così giovani, tanto meno per una frattura. I più anziani li contraddicevano: in guerra.

 Elke mostrò un catalogo di pietre tombali, avevano optato per una semplice lapide orizzontale in granito nero massiccio da incassare nel prato, con la superficie levigata, antigraffio e molto resistente, un classico che non passa mai di moda, così era descritta sul catalogo. Poi Elke andò a salutare dei lontani parenti.

Mi recai dalla nonna di Elias. Per il funerale del suo unico nipote aveva lasciato per un giorno la casa di riposo. Era una donna graziosa con i sottili capelli bianchi raccolti sulla nuca in una minuscola crocchia. Mi porse la sua mano ossuta e mi strinse a sé. Sentii il suo alito dolce e il delicato profumo di lavanda dei suoi abiti.

 Tornammo verso mezzanotte. I miei genitori salutarono per primi e andarono a letto. Cem e Sami non mi perdevano di vista. Sapevo di cosa avevano paura.

 Gli orologi non suonavano tutti nello stesso momento, uno dopo l'altro i cucii uscivano sulla piccola piattaforma per lanciare il loro lugubre inno alla notte. Dopo il cinguettio meccanico, certi uccellini restavano per un secondo muti nell'aria e fissavano la stanza con sguardo cupo.

Poi il meccanismo si rimetteva in moto, l'uccellino scompariva dentro l'orologio e un altro iniziava a gridare. Alle dodici e dieci era tutto finito.

 «Vecchi» disse Sami.

 «Alemanni» disse Cem.

 «Vado a dormire».

 «Anch'io».

 «Masa?»

 

Dissi che volevo bere un'altra tisana. Aprii la porta della terrazza e mi sedetti fuori. Era una notte stellata, con il dito delineai le costellazioni, come avevo fatto in passato con mio padre.

 Il mattino dopo tornammo a casa. Papà sfrecciava, io lo guardavo e non capivo come era possibile che lui fosse ancora vivo e Elias no. Il paesaggio ci veniva incontro monotono, campi, prati e, nelle aree di sosta, insegne di McDonald's che sembravano mezzelune sui minareti.

Accanto all'autostrada stavano smantellando un luna park, una ruota panoramica mezza smontata si stagliava nel cielo nuvoloso.

 

 

 

 

 Capitolo 4.

 Poco dopo il funerale il mio sistema immunitario smise di funzionare. Mi venne di tutto, otite media, bronchite, gastroenterite, emicrania, certe cose a intervalli molto ravvicinati, altre insieme. Il mio corpo non ce la faceva più. Io non facevo niente per guarire, ma di per sé la voglia di morire non era sufficiente. Me ne stavo a letto a guardare il soffitto. C'erano sempre appesi gli aeroplani di carta che Elisa aveva costruito per me, perché amavo i mobile. Non sapevo che giorno, che ora fossero. Non ero sicura neppure del mese. Vivevo nel vuoto. A volte dimenticavo che Elisa non c'era. A volte aspettavo di sentire la sua chiave che girava nella serratura. Di sentire i suoi passi sul pavimento.

 Cem e mia madre mi davano delle medicine, mi obbligavano a mangiare.

Sami stava spesso seduto accanto a me e sembrava che il mondo fosse un cumulo di rovine.

 

 

Capitolo 5.

 La vigilia di Natale andai a correre al parco, lungo le rive del Meno, con banche, musei e panchine verniciate a colori scuri come sfondo. Era una sera perfetta per fare sport all'aria aperta. Per strada c'erano solo musulmani, ebrei e qualche cristiano solitario. Avevo le gambe pesanti e stanche, c'era una coppia che camminava piano davanti a me. Il loro bambino urlava e sembrava una falena, nella sua tutina da neve gialla. Volevo superarli, ma non vidi la radice di un albero e finii a terra, sulle mani e sulle ginocchia. Sentii un dolore lancinante, mi vennero le lacrime agli occhi. Il bambino applaudì divertito e smise di gridare. Avevo i pantaloni strappati e i palmi delle mani sbucciati.

Imprecai e mi rimisi lentamente in piedi. Due occhi e un velo mi stavano osservando. L'uomo mi chiese se andasse tutto bene. Annuii e anche lui annuì. La donna estrasse svelta dalla borsa una confezione di salviette umidificate, si avvicinò e me la porse. Allungai un braccio, ma lei mi prese la mano e si mise a pulire la ferita. I suoi movimenti erano rapidi e precisi. La ringraziai. Poi corsi a casa, dove avrei voluto farmi lavare le ferite da Elisa e raccontargli tutto. Lui mi avrebbe accarezzato, premuroso e amorevole.

 «Cos'è successo?» Mia madre sedeva con le gambe raccolte contro il petto sulla scala di fronte alla nostra porta di casa, ai piedi aveva delle gigantesche borse della spesa. Arrivava ogni sera verso le sei, con una ciotola coperta da un foglio di alluminio in mano. «Niente, sono scivolata».

 «Non puoi stare attenta?»

 

«Mamma».

 «No, davvero, dovresti stare più attenta a quello che fai. Ancora quasi non mangi, non metti in ordine e non ti trucchi più».

 «Mamma».

 «Lo so che sono tua madre. Come se servisse a qualcosa».

 Aprii la porta con le mani irrigidite dal freddo e feci entrare per prima mia madre. Lei posò le borse, si tolse cappotto e stivali e si infilò le pantofole che aveva portato a casa mia ormai da un po'. Riempì gli scaffali della cucina e il frigorifero di latte, yogurt, muesli, pane, arance, verdura e budino al cioccolato.

 «Lo sai che oggi è Natale?»

 

«Ce ne frega qualcosa?»

 

Mamma si mise a rovistare nei cassetti. Era convinta di sapere cosa fosse meglio per me e approfittava del fatto che ero senza forze. Trovò il cassetto degli strofinacci, ne prese uno, lo tenne sotto l'acqua fredda e lo usò per pulirmi le ferite sul volto e alle mani. Poi mi versò una generosa quantità di iodio sulle mani.

 «A proposito, volevo dirti un'altra cosa» disse mia madre. «Ho notato le tue lenzuola. Non le lavi bene. Non so cosa fai di sbagliato, ma di questo passo tra cinque anni saranno da buttare».

 Le lanciai uno sguardo riconoscente e scoppiai a ridere. Il suo volto era pieno di tenerezza.

 Mamma stava attenta a ciò che mangiavo. Lei stessa faceva di tutto per mantenersi sottopeso. Ce ne stavamo sedute in cucina e lei fumava una delle sue lunghe sigarette bianche, che le davano un che di frivolo.

Stappai una bottiglia di vino georgiano e mamma disse in tono molto serio e tranquillo, che doveva essersi preparato in anticipo: «Ti aiuto a dividere la biancheria».

 «No».

 «Allora lo faccio da sola».

Le dissi un'altra volta di no, stavolta forse a voce più alta, in modo più risoluto del necessario. Nel salotto al piano di sopra dei bambini stavano cantando Stille Nacht. Li accompagnava un flauto dolce sgangherato. Alla fine del canto, ci fu un lungo silenzio. Poi un uomo gridò qualcosa di incomprensibile, e dopo di lui una donna. I bambini si misero a piangere. Mia madre e io restammo zitte, di sopra ci fu uno sbattere di porte.

 «A essere sincera volevo regalare ai tuoi vicini delle mandorle. Per Natale. Ma non ce l'ho fatta».

 Il flauto dolce riattaccò con Stille Nacht,

 

«Ho tentato di tutto perché tu ti trovassi nelle migliori condizioni per diventare una bambina felice» disse mia madre.

 «Lo so».

 «Tuo padre è stato uno dei primi a dover partire. Ai tempi hanno preso tutti i russi che c'erano al ministero e li hanno spediti come osservatori indipendenti in Nagorno Karabakh. Non sapevo neppure se fosse ancora vivo. Insomma, Si supponeva che i russi fossero neutrali, ma gli azeri pensavano che tuo padre simpatizzasse per gli armeni e gli armeni pensavano che stesse dalla parte degli azeri».

 I vicini facevano sempre più rumore.

 «Dopodiché» non disse dopo cosa, ma il riferimento era comunque chiaro.

«Rimasi sola con te. Non hai mai detto una parola, non mi hai mai guardato in faccia. Non ti facevi neppure sfiorare, un po' come oggi.

Eri come un'estranea, in te non c'era più alcun calore. Non c'è mai più stato. Da quel giorno in poi ti sei rinchiusa in te stessa e io non ho più trovato il modo di arrivare a te. E assurdo. Non volevo lasciarti andare. Sapevo che era un errore, ma cosa avrei dovuto fare? Avevamo un cadavere in casa».

 «Non è colpa tua».

 Mamma alzò le sopracciglia.

«Ha qualcosa a che fare con me. Intorno a me tutto muore».

 «Che razza di scemenza è questa?»

 

«Non è una scemenza».

 «Sì, invece».

 «Ho abortito».

 «Quando?»

 

«Quando stavo con Sami. Poco prima di lasciarlo. Non mi veniva il ciclo e il mio primo pensiero è stato quello di prendere un appuntamento e infilare l'aborto tra un esame e l'altro. Poi ho fatto il test ed era positivo».

 «Non ne sapevo niente».

 «Non ho mai pensato di tenere il bambino. Cosa di cui mi sono vergognata. In clinica i corridoi erano pieni di foto di bambini. Rosa baby dappertutto. Riesci a immaginartelo?»

 

«Ti ha accompagnato qualcuno?»

 

«Cem. Tutti pensavano che il papà fosse lui e avesse paura della responsabilità. Lui non l'ha mai negato».

 «Sami dov'era?»

 

«Negli Stati Uniti. Non gli ho detto nulla».

 

 

  

 

 Capitolo 6.

 Hai una brutta cera».

 Nelle ultime settimane ero arrivata a malapena fino alla porta. Avevo guardato la televisione e qualche volta sfogliato libri, riviste oppure l'elenco telefonico. Tenevo spento il telefonino e avevo smesso di svuotare la cassetta delle lettere. Non avevo lavorato e mi ero dimenticata di fare domanda per il rinnovo della mia borsa di studio.

Era mia madre a pagare il nostro - ormai il mio - affitto. Sapevo che presto sarebbe cambiato qualcosa.

 «Sono scivolata» risposi, con l'aria di chi è conscia della propria colpa.

 «Non puoi stare attenta?»

 

«Me l'ha detto anche mia madre».

 «Masa, cavolo. Sembri una moglie maltrattata, davvero, se non ci stai attenta non esco più di casa con te».

 «Hai paura?»

 

«Vuoi che la Lufthansa mi rimpatri?» Cem andò in cucina e infilò la testa nel frigorifero. Frugò nei cassetti, studiò a fondo la verdura, ne buttò via un po' e controllò anche la data di scadenza sui vasetti di yogurt.

 «Sei andata a fare la spesa, molto bene».

 «É stata mia madre».

 «Che brava persona».

 «Perché? Io non lo sono?» «No».

 «No?»

 

Cem attraversò il salotto e si guardò intorno. Stava cercando di valutare quante cose di Elisa fossero ancora lì.

 «No». Scosse risoluto la testa. «Sai, quando un turco e la sua ragazza si incontrano per la prima volta e la ragazza, naturalmente turca anche lei, gli offre una torta o qualcos'altro, lui la sta mettendo alla prova. Più tardi dirà se lei è una brava donna oppure no. Se pensa che non lo sia, almeno può ancora rifiutarla prima che sia troppo tardi».

Cem mi guardò dritto in faccia. «Masa, non ridi proprio mai».

 «Cem?»

 

«Dimmi».

 «Mi racconti come è morto tuo fratello?»

 

«No». Aveva un'espressione decisa. Si sedette accanto a me e dalla tasca della giacca estrasse le cartine e una scatoletta rotonda.

 «Afgano nero, con i cordiali saluti di Konstantin». Cem mi fece annusare l'hashish.

 «Lo prende al parco?» domandai.

 «Da suo cugino».

 «Ci sono stato di recente, con...» mi interruppi, il volto di Cem si fece teso, io tirai un respiro profondo e proseguii: «Forse è passato già un po' di tempo. In ogni caso c'erano soltanto due tredicenni che hanno cercato di vendermi del rosmarino. Pensavo che facessero parte di un gruppo di ragazzi da cui avevo comprato altre volte, e ho detto loro in turco che avrebbero fatto meglio ad andare a fare i compiti, invece di prendere per il culo la gente che lavora. A quel punto uno ha detto che parlava solo tedesco e l'altro mi ha chiamata white trash».

 Cem scoppiò a ridere.

 «Il cugino di Konstantin non vende più là?» domandai.

«No, ora fa tutto da casa. Si è iscritto a Economia aziendale».

 Feci diversi tiri profondi e passai la canna a Cem.

 «Masa, oggi sono stato tre ore in cabina e ho tradotto dei discorsi del parlamento francese. Se non mi metto a studiare anche di notte, posso scordarmi l'esame».

 Cem era il mio compagno di cabina, ci davamo il cambio ogni trenta minuti, traducevamo insieme delle conferenze in cabine insonorizzate.

Eravamo affiatati, ci accorgevamo subito quando l'altro si incasinava con un termine o un'espressione, ci aiutavamo oppure ci davamo il cambio in anticipo. Persino le nostre voci si integravano bene.

 «Sai come si dice in francese armonizzazione delle scadenze elettorali'?» chiese Cem.

 Tiravo respiri lunghi e profondi e continuavo ad allungare la mano verso la canna. I miei arti si fecero pesanti. Cem diventava stupido quando era fatto: «Campagna elettorale continua, bilancio federale, proposta di legge d'iniziativa popolare, diète fédérale allemande, mandats directs et mandats de listes». Ridacchiava.

 Da quel giorno ripresi a trascorrere le mattinate in cabina di traduzione, dove ascoltavo in cuffia assurdi discorsi su energie rinnovabili, imposte sul reddito e piscicoltura e ripetevo le parole nel microfono in tedesco, russo o francese. Sebbene fossi concentrata, il più delle volte già dopo mezz'ora avevo dimenticato di cosa avesse parlato il relatore. Riferivo senza formulare neppure un singolo pensiero mio. Il mio cervello funzionava come una macchina. Di pomeriggio sedevo a un lungo tavolo in biblioteca, tra decine di altri studenti, e studiavo vocaboli. Leggevo per serate intere relazioni e articoli scientifici, al mattino prima di andare all'università giornali e riviste in inglese, tedesco, francese e russo. Cercavo di riempire di vocaboli il vuoto che c'era in me.

 

 

 

 

 Capitolo 7.

 La notte dell'ultimo dell'anno Sami si presentò alla mia porta. Aveva i capelli molto corti, più o meno come la ricrescita della barba.

Indossava un parka, dei jeans sformati infilati in pesanti stivali e una camicia ben stirata di un azzurro brillante.

 Lo feci entrare, mi seguì in salotto e si sedette sul divano. Stappai il vino che aveva portato e guardammo un film in televisione.

 Sami era nato a Beirut durante la guerra civile. Albert, suo padre, era svizzero, i suoi genitori italiani naturalizzati francesi, lui dirigeva la filiale di una banca a Beirut. Poco dopo la nascita di Sami vennero trasferiti a Parigi e il francese divenne la vera lingua materna di Sami. A tredici anni, la sua famiglia si trasferì a Francoforte. Quando parlava in arabo, Sami doveva spesso aiutarsi con dei vocaboli francesi, Beirut la conosceva solo attraverso brevi vacanze, foto sui giornali e le lunghe telefonate della madre ai parenti libanesi, al termine delle quali piangeva sempre.

 Sami aveva un fratello maggiore, Paul, che era figlio della prima moglie di suo padre. La seconda moglie di Albert, la madre di Sami, trattava Paul e Sami allo stesso modo, però la sua preferita era la figlia minore, che si chiamava Leyla ed era nata a Francoforte. Sami e Paul non erano gelosi di Leyla. Il loro amore era sincero e sconfinato. Paul fece la maturità e Albert decise che per lui sarebbe stato meglio andare a studiare Economia aziendale negli usa. Così Paul andò in California. Sami trascorreva ogni estate dal fratello maggiore e poco dopo si trasferì da lui per concludere la high school. Nella nuova scuola, nessuno dei compagni riusciva ad accettare l'abbinamento tra il suo duro accento tedesco e il nome arabo.

Sarebbe dovuto tornare indietro, ma non lo fece, perché si innamorò.

 Alcune settimane dopo il suo arrivo negli usa, Sami conobbe Neda. Aveva quattordici anni, lunghi capelli neri, occhi a mandorla, caviglie sottili e per lui era irraggiungibile. Divennero amici, qualche volta andavano a mangiare insieme oppure al cinema, ma Sami non ebbe mai il permesso di prenderla per mano. Neda si innamorò di Paul. A Paul non importava granché di Neda, e comunque non avrebbe mai tradito Sami. Sami e Neda rimasero amici. Alla fine dell'anno scolastico, Sami si trasferì a studiare in un'altra città della California.

 Trascorsero due anni e in una calda giornata di primavera, quando il campus profumava ancora di lillà, si incontrarono per caso. Neda aveva i capelli sciolti e inevitabilmente nacque una storia d'amore. Soltanto che Neda veniva da una famiglia tradizionale e i suoi genitori si aspettavano che sposasse l'anziano medico persiano che era stato scelto per lei. É probabile che Sami fosse un donnaiolo ed è probabile che in ognuna cercasse Neda.

 Quando mi innamorai di Sami, Neda si era sposata da un mese e Sami era già tornato in Germania per fare un master. Misi insieme tutto il mio coraggio e lo affrontai in un bar. Era seduto due tavoli più in là con un amico e non mi aveva mai rivolto uno sguardo. Quella sera però io mi annoiavo terribilmente, ero là con una ragazza che mi stava spappolando una mano, era una dottoranda in Gender Studies.

 Fin dall'inizio sapevo di Neda e sapevo pure che Sami sarebbe tornato in California di lì a due anni, per scrivere la sua tesi di dottorato. Restammo insieme per quei due anni e io lo amavo come non avevo mai amato nessuno, mentre lui amava il ricordo di Neda.

 Gli chiesi se facesse dei paragoni tra me e Neda. Avvenne una pigra domenica mattina, c'era una luce grigia e lattiginosa. Eravamo a letto, lui leggeva l'edizione domenicale del «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e io un dizionario. Di tanto in tanto leggevo una parola ad alta voce e lui correggeva la mia pronuncia dell'arabo. Sami rispose che fare paragoni non era da lui e comunque Neda e io eravamo troppo diverse.

Volli sapere cosa intendesse dire. Neda era fragile. Si era innamorato di lei fin dal primo giorno e, quando aveva visto quanto lei soffriva, gli si era spezzato il cuore. Lacrime di coccodrillo, osservai, visto che è stata lei a lasciarti. Non ebbi la forza di impedirglielo, disse Sami. Gli chiesi se paragonasse i nostri corpi, se pensava a Neda mentre era steso a letto accanto a me. Oppure se pensava a lei quando facevamo l'amore. Sami si alzò e uscì dalla stanza. Non si chiuse neppure la porta alle spalle, se ne andò, silenzioso e risoluto. In effetti se uno ti dice che ama un'altra e magari è anche ricambiato, non c'è altro da aggiungere, specie se tu lo ami.

 Setacciai tutta internet in cerca di foto di Neda e alla fine le trovai su un social network. Neda non era così bella e ciò che scriveva sul suo profilo non era così intelligente. Per un po' appesi una sua foto accanto allo specchio, mattina, mezzogiorno e sera confrontavo i nostri volti. Volevo capire come mai lui amasse lei e non me.

 Sami si addormentò a metà del film. Durante i titoli di coda gli misi addosso una coperta e spensi il televisore. Lui si svegliò.

 «Adesso vado».

 «Puoi restare qui».

Raddrizzò maldestramente la schiena: «No, vado subito». «Non puoi guidare, hai bevuto. Dormi qui».

 «Davvero?».

 «Sì, ti sveglio domattina presto».

 «Grazie».

 «Non c'è di che».

 Sami si girò verso lo schienale e si riaddormentò.

 

 

Capitolo 8.

 Windmühle presiedette l'esame finale del mio corso di laurea. Io ero tutta concentrata sul ronzio delle mosche che svolazzavano in giro, con il loro corpo verde brillante, più simile a un carro armato che a un missile. Avevo preso 1,0, il voto più alto, e non riuscivo a spiegarmelo. Mi chiesero dove volessi andare, risposi: all'oNU.

 Sapevo quant'era difficile?

 

Mi ero appena laureata a pieni voti.

 Windmühle rise.

 Mi ero preparata a fondo, avevo studiato le lingue principali dell'oNU e fatto il tirocinio necessario. Sono brava, dissi.

 Nulla da dire sui miei voti, ribatté lui.

 «A che livello è con l'arabo?» mi chiese Windmühle.

 «Piuttosto buono» mentii.

 «L'ha studiato per conto suo?»

 

«No».

 «Come no?»

 

«Non per conto mio. Ho seguito in parallelo un altro corso di laurea».

 «Qual è il dialetto che conosce meglio?»

 

«Il libanese».

 Una settimana dopo Windmühle mi chiamò e disse che ero risultata la migliore del mio corso. Poi lodò la tecnica che utilizzavo per prendere appunti e mi invitò a pranzo. Accettai senza sapere perché.

 Andammo in un ristorante italiano di fronte alla Alte Oper. Windmühle mi guardava, preoccupato che io scoppiassi a piangere. Era chiaro che sperava non succedesse al ristorante.

 Sul menu non c'erano i prezzi e la scelta era limitata. I piatti ci venivano serviti e portati via in un batter d'occhio. Di fatto li toglievano prima che riuscissimo a finire di mangiare. Windmühle continuava a ripetere: «Questo devi assolutamente assaggiarlo». E non smetteva di ordinare, sempre in italiano, sempre ammiccando e scherzando con i camerieri. Cercai senza successo di capire in che zona d'Italia avesse imparato la lingua: il suo italiano era chiaro e asettico. Privo di connotazioni dialettali, suonava freddo, come se fosse stato creato in laboratorio.

 «Dove ha imparato l'italiano?» gli chiesi.

 «A Magonza, all'università. E lei?»

 

Mi guardava con la stessa attenzione che aveva avuto durante l'esame.

 «A Rimini».

 «Cosa ci faceva là?»

 

«Ho fatto la cameriera per tre estati».

 Windmühle annuì e fece cenno al cameriere di servirci il caffè. Le tazze erano di porcellana bianca, quasi trasparente. Mi allungai sul tavolo e lo baciai. Sebbene stupito, ricambiò il mio bacio.

 «Il caffè non è buono qui, non trova? Gliene farò uno migliore a casa».

 Pagò discretamente il conto con la carta di credito, cosa che mi dispiacque, mi sarebbe piaciuto sapere quanto valessi per lui.

 Su una scala male illuminata constatai che Windmühle apparteneva al genere di uomini che toccano i capelli della donna prima di baciarla. I suoi gesti erano meccanici e prevedibili. Osservai il suo corpo mentre si posava sul mio. Lo guardai baciare la mia fronte, il naso e le labbra. Con tenerezza, solo un po' ingordo. Lo guardai slacciare il mio vestito e lo aiutai. Lo guardai sfiorare l'interno delle mie cosce, scostare da un lato le mutandine, stendere una mano sulla mia vulva, infilarsi un preservativo, poi vidi me stessa sollevare il bacino, sentii la penetrazione e trasalii, Lui lo prese come un segno di desiderio e iniziò a muoversi più in fretta dentro di me. Lo spinsi via.

 Andai in bagno e per la prima volta da parecchio tempo mi guardai allo specchio. Ero nuda e più magra di quanto fossi mai stata. Non avevo più i fianchi, le costole sporgevano e il ventre era incavato. Provai disgusto per me stessa e per l'uomo con cui ero appena andata a letto.

Mi aveva usata e io l'avevo lasciato fare. Mi sentii vuota, poi pensai che quello era il punto più basso della mia vita. Poi però osservai quel bagno con le piastrelle blu e vidi non solo una doccia in pietra naturale, ma anche un latte detergente e una spazzola con dei lunghi capelli biondi e il tutto mi parve ancora più misero.

 Tornai a casa in un vagone della metropolitana vuoto e guardai le gocce di pioggia che urtavano contro i finestrini.

 

 

  

 

 Capitolo 9.

 Di solito Cem veniva verso le dieci del mattino. Quando lo sentivo girare la chiave nella serratura, ero già seduta ad aspettarlo in cucina. Mia madre doveva avergli fatto una copia delle chiavi di casa.

 «Non ci crederai» disse Cem e lanciò il cappotto sulla spalliera della sedia. Il cappotto emanava il freddo della strada.

 Non feci domande e lui mise la caffettiera sul fuoco e scaldò il latte.

 «Mio padre ieri è stato alla cdu». (L'Unione cristiano-democratica di Germania è un partito politico tedesco di orientamento democratico-cristiano e conservatore [N.d.T.]) Fuori cadevano grossi fiocchi di neve. Li osservai dalla finestra, non ero pronta a credere alle sue parole.

 «Dov'è stato?»

 

«Alla cdu». Quando Cem ritenne di aver visto la giusta reazione sul mio volto, proseguì: «Si parlava di integrazione e dopo aver letto lo "Spiegel" e il "Bild", Haba ha iniziato ad aver paura. Nota bene, degli islamisti. La mia teyze ha cercato di spiegargli che, in quanto musulmano, nelle statistiche lui viene contato come islamista, ma lui non è stato a sentirla. Ha detto di non essere un musulmano. Poi ha letto un articolo del segretario generale della cdu e ha voluto sapere che cosa ne pensasse mia madre di tutta la questione. Lei gli ha detto di andare a buttare via la spazzatura».

«E lui l'ha fatto?»

 

«Cosa?»

 

«É andato a buttare via la spazzatura?»

 

Cem fece cenno di no: «E andato là. A un'iniziativa elettorale della cdu. La sala era piena, tra il pubblico c'erano solo facce bianche. In mezzo alla sala ha scovato un altro muso scuro e ha cercato di stabilire un contatto visivo, ma l'altro era imbarazzato e ha distolto lo sguardo.

Il segretario generale ha iniziato elogiando gli immigrati, ha detto che forniscono alla Germania, campione del mondo nelle esportazioni, le competenze necessarie. La Germania ha perso molto tempo a causa delle chiacchiere multiculturali della coalizione rosso-verde, il tempo delle favole è finito. Chi si sottrae ai propri doveri di immigrato non può aspettarsi tolleranza. Perciò critichiamo con decisione chi si oppone all'integrazione. É per questo che occorre uno Stato forte, anche nell'interesse degli immigrati rispettosi della legalità. Baha si è sentito apprezzato e ha annuito convinto. E poi è successo. Centinaia di migliaia di accaniti oppositori dell'integrazione che, consapevoli di trovarsi circondati da tedeschi, si isolano. Odio per gli stranieri e ostilità nei confronti dei tedeschi che si alimentano a vicenda. E se qualcuno, vista la bassa percentuale di bambini tedeschi nelle scuole e anche negli asili, si preoccupa per l'istruzione dei propri figli, e se qualcuno è ossessionato dalla paura di aggressioni violente andando a scuola e in metropolitana, è inutile metterlo in guardia contro generalizzazioni sbagliate e proporgli esempi di integrazione avvenuti altrove. Del tutto inutile. Perciò dobbiamo dire con chiarezza che noi prendiamo sul serio il crescente malumore per i gravi problemi di convivenza tra tedeschi e immigrati. Dobbiamo verificare se le sanzioni da noi stabilite vengono applicate sistematicamente e se è necessario inasprirle, per esempio in caso di mancata partecipazione a un corso obbligatorio finalizzato all'integrazione. É vero che per molti immigrati originari di Paesi musulmani, la fede e le sue implicazioni sociali e culturali hanno un ruolo importante. La libertà religiosa vale per loro come per noi cristiani. Vale per tutti allo stesso modo: quando si parla di diritti fondamentali - la parità per donne e uomini o il diritto a una vita senza violenza domestica - è inconcepibile fare sconti per motivi religiosi o culturali. E se molto spesso - come dimostrano numerosi studi scientifici - dei giovani musulmani, influenzati dalla religione, diventano violenti, le associazioni musulmane tedesche devono prendere provvedimenti decisi.

Limitarsi a mettere in guardia contro l'islamofobia non basta. Per un'integrazione che funzioni occorrono parole chiare, non favole, coerenza, non emarginazione. Apertura mentale, rispetto reciproco e Law and Order vanno di pari passo. E per la cooperazione tra persone di diversa matrice religiosa e culturale nel nostro Paese, è indispensabile una forte consapevolezza nel senso più profondo del termine, quindi anche la deliberata accettazione delle nostre tradizioni di origine cristiana. Quando baba è tornato a casa era un uomo distrutto. Non sapeva che fosse così tremendo».

 «E ora?»

 

«Non so, se ne sta sempre seduto davanti al computer. Cerca immobili in Turchia. É in Germania da quarantadue anni e ha scoperto solo ora di essere musulmano».

 

 

 

 

 Capitolo 10.

 Il giorno seguente andai nell'ufficio di Windmühle. La sua segretaria era stupita di vedermi, mi chiese se avessi un appuntamento.

 Rimasi un attimo di fronte a lei, un po' esitante. La parete alle sue spalle era piena di fotografie di Windmühle in piedi o seduto accanto a un personaggio importante. Per un momento la fissai irritata, poi mi limitai a proseguire fino all'ufficio del professore, dove mi accomodai sulla sedia per i visitatori davanti alla sua scrivania. Come sempre, Windmühle indossava una camicia bianca perfettamente stirata, con i primi tre bottoni slacciati. Smise all'istante di riempire non so quali moduli e mi sorrise incerto.

 «Come mai non accendi il riscaldamento?» domandai.

 «Non nevica più».

 «Fa freddo».

 «Non pensavo di rivederti così presto» disse lui.

 «Ho bisogno di un lavoro».

 «I posti all'oNU sono davvero pochi».

 Windmühle mi osservò divertito. Per quanto ne sapessi, non aveva alcun motivo per procurarmi un posto, ma volevo comunque provarci. Il suo ufficio era gelido come il mausoleo di Lenin. L'arredamento era neutro e prevedibile, un tappeto soffice e chiaro, una scrivania con il piano di vetro, sulla parete un quadro astratto. Un grande formato.

«Voglio una cosa qualsiasi in Israele».

 «Come mai proprio in Israele?»

 

«Sei Claude Lanzmann?»

 

Windmühle sogghignò e io mi chiusi la porta alle spalle in silenzio.

 

 

 

 

 Capitolo 11.

Sami parcheggiò all'entrata di casa mia. Gli avevo spiegato che si trattava di un viaggio urgente, perciò aveva preso in prestito lauto di suo padre, una grande auto aziendale nera, prodotta unicamente allo scopo di impressionare il prossimo.

 Mentre mi allacciavo la cintura di sicurezza, Sami mi osservava preoccupato. Aveva gli occhi grigioverdemarroni, dipendeva dalla luce e dall'angolazione con cui li guardavi. Ora erano arrossati per la stanchezza. Mise in moto. Io abbassai il finestrino e accesi la radio a tutto volume. C'era la luna piena.

 Trovai in fretta il vialetto tra le strette file di tombe, la lapide di Elisa era pulita, sopra c'erano dei fiori freschi. Mi tolsi dalla tasca della giacca una piccola biglia e la misi sulla tomba. Sami si teneva a una certa distanza e non mi perdeva d'occhio, dato che era già notte. Ma poi tornò alla macchina. «Scusami» dissi a Elisa, mi appoggiai alla lapide e allungai le mani verso di lui.

 Avevo con me delle foto: due che mi aveva scattato Elisa e due che mi ero fatta da sola allo specchio dopo che lui era morto. Scavai un buco accanto alla sua tomba, ci infilai le foto e diedi fuoco. La carta fotografica bruciò in fretta e in due minuti era tutto finito. Richiusi il buco e spianai la terra.

 Dovevano essere trascorse parecchie ore, Sami mi sollevò e mi portò in auto. Lo abbracciai e lo lasciai subito. Rimanemmo seduti uno accanto all'altra in silenzio, dopo un po' lui sfilò la chiave dell'accensione. Si girò verso di me, mi prese le mani, le girò con i palmi all'insù e se le posò sulle guance. Mi ricordai del suo odore e della sensazione che provavo baciandolo. Quando le nostre labbra furono sul punto di toccarsi, lo respinsi con tutte le mie forze. La sua testa sbatte contro il finestrino. Scesi dall'auto e corsi verso la strada. A un certo punto mi fermai e tornai indietro. Sami era seduto sul cofano. Mi spaventai quando vidi l'espressione ferita sul suo volto.

 «Non so cosa dirti. Scusa» disse.

 «Ti sei fatto male?»

 

«Mi dispiace molto».

 «Non posso» dissi.

 «Lo so».

 Gli presi la mano e lo abbracciai. Le nostre bocche erano di nuovo vicinissime. Non successe nulla.

 Andammo a passeggiare per il paese, girammo per le strade in cui Elisa aveva giocato da bambino, accanto a casette unifamiliari con le tapparelle abbassate, accanto alla trattoria dei suoi genitori e alla posta, percorremmo il cortile di una scuola, sostammo nel campo da pallacanestro, la gioventù ubriaca del posto rimaneva nascosta, guardammo la scura acqua del fiume che scorreva in paese e di cui non sapevamo il nome. Comprammo un gelato alla stazione di servizio. La commessa chiese a Sami da dove venisse. Da Francoforte, rispose lui. No, da dove veniva davvero. Le chiesi cosa intendesse. Lei sorrise confusa.

Strappammo la confezione dei nostri gelati. Il mio era ricoperto di cioccolato scuro e mandorle, quello di Sami era un cornetto alle noci.

 «Forza, diglielo» lo punzecchiai. La commessa bramava qualcosa di esotico.

 «Vengo dal Madagascar» disse Sami. «Là viviamo tutti in capanne sugli alberi e ci nutriamo solo di banane».

«É la prima volta che assaggia un gelato» aggiunsi io. Sami mi guardò sogghignando, almeno tra di noi era di nuovo tutto a posto.

 Era quasi l'alba, il cielo iniziò a rischiarare, la luce dei lampioni si fece giallastra e l'insegna al neon dell'area di servizio in autostrada si spense. Il parcheggio era pieno di soldati tedeschi. Le uniformi sembravano enormi pigiami in tela mimetica, mangiavano hamburger, menu completi con patatine, ali di pollo e gelato, le pance sporgevano sopra le cinture e io pensai che la divisa la dice lunga sulla situazione di un esercito. Sebbene quella che indossavano fosse un'uniforme tedesca, i soldati assomigliavano a dei grossi animali pigri. Non riuscivo a immaginare che quegli uomini fossero autorizzati a uccidere e morire da qualche parte, e per giunta che lo facessero volontariamente. Mi domandai se sul serio meritassero rispetto per questo e mi chiesi anche se al poligono di tiro pensassero agli afroamericani e gridassero motherfucker.

 «Ho il visto» disse Sami.

 «Oh» fu tutto ciò che dissi.

 Sami mi squadrò curioso. «Dopo un anno. Te lo immagini? Ho aspettato un anno intero».

 «Hai perso un anno intero».

 Mi guardò. «Meno male che ero qui. Lo dico per te». Fece una breve pausa. «Voglio solo dire che non sono un terrorista. Non c'era motivo di farmi dormire un anno intero sul divano dei miei genitori. Sto scrivendo una tesi di dottorato sull'idealismo tedesco, ho insegnato all'università, avevo degli amici e una specie di ragazza».

 «Oh».

 «Mi ha lasciato quando è stato chiaro che per un bel pezzo non sarei tornato a casa».

«Mi dispiace».

 «Non è il caso».

 «Hai saputo qualcosa di Neda?» Avrei voluto dirlo nel modo più casuale possibile, ma mi tremava la voce.

 «No. Come mai ti è venuta in mente?» domandò Sami stupito.

 «E così te ne vai via?»

 

«Sì».

 «Quando?» Deglutii e cercai di sembrare distaccata, ma mi tremava la voce.

 «Il mese prossimo. E tu cosa farai?»

 

«Ho un contratto a tempo determinato a Tel Aviv, nella sede estera di una fondazione tedesca. Non mi devo preoccupare per l'ebraico».

 «Ma tu lo sai, l'ebraico».

 «No».

 «Come no? Sei ebrea. La tua famiglia vive in Israele».

 «Parenti alla lontana. A parte una cugina. Non ho mai studiato l'ebraico».

 «É la prima volta che ammetti di non sapere qualcosa». Mi sorrise, poi aggiunse: «Andiamo, sono stanco».

 

 

 

 

 Capitolo 12.

 Cominciai a infilare tutto nelle casse, su qualcuna scrissi il mio nome, sulla maggior parte quello dei genitori di Elisa. Dalla sua morte erano ormai trascorsi più di sei mesi, e i suoi genitori mi avevano regolarmente scritto delle cartoline per raccomandarmi di spedire loro le cose di Elisa. Le cartoline raffiguravano paesaggi della Turingia.

Arrivavano ogni settimana in buste bianche, per non mostrarne il contenuto al postino. Dopo un po' i soggetti iniziarono a ripetersi. Le cartoline erano sempre scritte con una biro nera nella grafia minuta di Horst. Le formule di cortesia erano sempre più spesso omesse e di frequente c'erano singole parole illeggibili, dato che Horst scriveva quando era molto ubriaco e in momenti di grande turbamento emotivo, lamentandosi dell'ingiustizia che gli era toccata. Non capivo perché scegliesse proprio quei paesaggi della Turingia. La Turingia non aveva nulla a che fare con i nostri diversi punti di vista sul senso di giustizia.

 Non spettava a me giudicare, ma Horst era stato tutt'altro che un buon padre. Si beveva tutti i soldi della trattoria della moglie e di tanto in tanto allenava la squadra di calcio del paese. Elisa, che non aveva mai brillato nello sport, veniva picchiato dopo ogni partita, il figlio di un dirigente sportivo non poteva diventare un pappamolle o un omosessuale. Elias ci aveva messo molto tempo a capire che l'amore non si esprime soltanto attraverso le botte.

Non ero riuscita a spiegare né a Horst né a Elke che avevo bisogno delle cose di Elisa, che avevo bisogno di tenerle in casa nostra, perché per ore e ore, per giornate intere mi aggiravo per casa e mi convincevo che Elias sarebbe presto ritornato.

 Me ne stavo in quell'appartamento da cui non me ne sarei mai voluta andare e facevo le valigie. Elias e io ci avevamo messo parecchio tempo a trovare casa. Il più delle volte andavamo a vedere insieme ad altre trenta coppie degli immobili che erano sempre troppo cari. E poi Elisa criticava la pianta, i colori, i pavimenti, la luce. Appena vedevo la sua faccia già scontenta sulle scale, pensavo che dipendesse da me.

 Iniziai dalla cucina, era una stanza grande e luminosa, con un'attrezzatura semiprofessionale: avevamo piatti, ciotole, vassoi, bicchieri, forchette, coltelli, cucchiai, tegami, pentole, teglie e tortiere di tutte le forme e dimensioni, una macchina per fare la pasta e una per cuocere il riso, ma non c'erano due piatti dello stesso servizio. Le stoviglie e le posate erano immigrate nella nostra cucina un pezzo alla volta, per lo più provenivano dai ristoranti in cui Elisa aveva lavorato come aiuto cuoco, oppure da altri locali, e dato che era difficile far sparire in una borsa due calici da vino alla volta, apparecchiavamo la tavola con piatti e bicchieri tutti diversi tra loro.

Fregavamo ovunque, in bar, trattorie, ristoranti, chioschi, a Francoforte e in viaggio. Nella nostra cucina ogni oggetto aveva una storia: il grande piatto con una donna nuda veniva da un chiosco a New York, i calici di cristallo dagli hotel in cui avevamo lavorato, gli stampini per dolci da Parigi.

 Va da sé che non li consideravamo furti, ma colpi contro il sistema.

Quando venivamo sfruttati in posti di lavoro malpagati e trattati come servi della gleba dai nostri superiori, dovevano almeno saltare fuori un paio di coltelli da carne. Ci sembrava che il sistema avesse un debito nei nostri confronti. Quale fosse, non ci interessava.

 Elisa era molto attento al fatto che la tavola fosse apparecchiata come si deve. Se ne occupava canticchiando e iniziava sempre con i coltelli grandi, a un dito dal bordo del tavolo, ad angolo retto e allineati alla sedia, poi era il turno delle forchette grandi, eventualmente delle posate da pesce, poi i coltelli piccoli, le forchette piccole, le posate da dessert. A quel punto Elisa smetteva di canticchiare, corrugava la fronte come se diffidasse della sua stessa opera. Quando non aveva più nulla da ridire, cominciava a lucidare i bicchieri e sistemava il calice da vino rosso vicino alla punta del coltello grande, e poi via via il calice da vino bianco e il bicchiere per l'acqua, il più delle volte disposti a grappolo. Questa mise en place ottenuta con le nostre stoviglie rubate aveva qualcosa di anarchico.

 Vedevo Elisa in piedi in cucina, lo vedevo seduto al tavolo, lo vedevo versare il caffè nel muesli. Il mio corpo sentiva la sua mancanza, la mia mano cercava istintivamente la sua e, se mi distraevo, mi appoggiavo nel vuoto. Vedevo sagome che somigliavano alla sua. A volte stavo a letto ad aspettare che lui tornasse a casa. Era ancora in giro con gli amici, si era solo dimenticato di dirmelo. A volte lo aspettavo alla stazione della metropolitana Hauptwache. La sala era piena di gente e io guardavo impaziente l'orologio, pensavo che era di nuovo in ritardo, che mi toccava attenderlo un altro po'. Cercavo il suo volto in tutti i vagoni. In coda alla cassa del supermercato. Facevo ancora la spesa per due.

 Stavo avvolgendo nella carta di giornale tutto ciò che poi avrei sistemato nelle casse. Di lì a due giorni Horst avrebbe messo quelle casse nella cantina di casa sua, a Apolda. Spalancai la finestra della cucina, le erbe aromatiche che coltivavamo in un vaso davanti alla finestra erano morte.

Mi persi tra pentole, tegami e fiori e pensai alla nostra vecchia casa a Baku. A mamma che vendeva tutto quanto, le nostre cose che diventavano sempre meno e passavano ad altre persone. Mentre portavano via il divano, che perse una gamba sulle scale, mamma stava infornando un galletto con la pelle e un lucido strato di maionese unta. Doveva essere stato nel periodo in cui in città era ricomparso il cibo. Potei scegliere cosa portare con me in Germania. Quando ci ritrovammo di fronte alla residenza per richiedenti asilo politico, avevamo con noi tre valigie e ben presto scoprimmo che là non potevamo utilizzare ciò che avevamo. Fotografai le cose di Elisa, accesi la videocamera di Elisa e mi filmai mentre riempivo le casse. Proseguii. Macchine fotografiche, obiettivi, cavalletti, esposimetri, prodotti chimici. Decine di cornici che comprava ai mercati delle pulci e poi restaurava. Monografie d arte, schizzi, bloc-notes, disegni.

 La camera da letto. Presi i suoi maglioni piegati e ordinati dall'armadio in cui erano riposti. Non li avevo più toccati da quando ce li aveva messi lui, mi ero limitata a sciorinare di notte dalla sua parte del letto le magliette che aveva già indossato. Quel giorno infilai tutto nelle casse. Piegai e ripiegai ogni singolo indumento fino a farlo stare alla perfezione là dentro. Nella tasca dei suoi jeans c erano dei biglietti di mezzi di trasporto appallottolati. Non sapevo più dove fosse andato e perché. In un altro paio di pantaloni trovai la carta di una gomma da masticare, per un alito fresco che dura a lungo.

Qualche volta la sua bocca sapeva di quelle gomme. Tra i vestiti invernali di Elisa scovai una grande cassa che non avevo mai visto.

Chiusa con il nastro adesivo e coperta da un sottile strato di polvere.

Non ero sicura di avere il diritto di aprirla.

 Inoltre avevo paura. Paura di trovare i suoi appunti. Paura della parola scritta. Dei suoi pensieri. Forse avrei scoperto che non mi aveva affatto amato. Oppure non abbastanza. Avevo voluto che mi amasse sin dalla prima volta che l'avevo visto. Non potevo fare a meno del suo amore, perché lui era uno che amava con tutto il corpo e con tutta l'anima. E se quell'amore si fosse basato soltanto sul fatto che Elisa aveva un carattere altruista? Tutti intorno a lui dovevano essere felici. E se non mi avesse amato, ma avesse solo voluto farmi contenta?

 

Mi feci un caffè e, mentre aspettavo che l'acqua bollisse, presi un coltello, tornai in camera da letto e tagliai il nastro adesivo.

 La cassa era piena di fogli di carta tenuti insieme da elastici e clip.

Si trattava di fotocopie, articoli, testi scientifici, alcune cartine strappate da libri e appunti scritti a mano. A conti fatti, un'imponente, disordinata raccolta di materiali sul Caucaso, i bloc-notes erano pieni di nomi, date, cifre e in alcuni casi persino coordinate. Sui margini comparivano dei disegnini e di tanto in tanto il mio nome con un punto interrogativo.

 Mi sedetti in cucina e disposi le fotografie sul tavolo di fronte a me.

La maggior parte le conoscevo dai tempi della scuola elementare. Carri bestiame carichi di profughi, bambini affamati, paesi bruciati, piedi congelati avvolti alla meno peggio negli stracci, tendopoli, ferite, morti. Manifestanti, bus distrutti a colpi d'arma da fuoco, automobili accartocciate. Tombe con dei garofani rossi. Processioni con bare aperte. Aliyev, il primo, il secondo e il terzo. Azerbaigian style.

 Rimisi tutto nella cassa, mi rollai una canna e appoggiai il mio computer portatile sul tavolo della cucina. Avevo sottovalutato il desiderio di comprendermi di Elisa. Avevamo litigato molto, spesso per colpa della gelosia di Elisa nei confronti di Sami, c'era qualcosa che non mi aveva perdonato. Il più delle volte però la colpa era mia.

Pensava che io non mi fidassi di lui, ma io ero semplicemente dell'idea che non c'entrasse per niente con noi. Non volevo che per capirmi occorresse tirare in ballo un genocidio.

Una volta avevo letto un libro in cui si parlava di persone con disturbi postraumatici, io non mi sarei mai definita in quel modo, ma quel libro diceva che distruggiamo le persone che amiamo. E Elisa era morto.

 Su YouTube sentii mugbam, il jazz azero, Aziza Mustafa Zadeh e Muslim Magomayev. Mi misi a cantare con loro. L'azero, una delle lingue della mia infanzia. Canzoni per bambini e qualche poesia imparata a memoria erano tutto ciò che ne era rimasto.

 Tirai fuori dei lavori di Elisa e confrontai le fotografie. Sgomberai la sua scrivania e l'armadio: foto di Francoforte, Apolda, cumuli di spazzatura in Germania orientale, miei ritratti. Nella maggior parte dei casi guardavo scontrosa la macchina fotografica. Oppure avevo il volto nascosto dai capelli. Per giunta non ero molto diversa dalle altre sue modelle, corporatura, pose, portamento simili. Erano il suo amore e la sua fascinazione per me a fare la differenza. Stavo capendo come mi vedeva. Attaccai i negativi alla finestra e li guardai fino al calar del sole. Non avrei fatto stampare niente.

 

 

  

 

 Capitolo 13.

 Cem e io stavamo fumando sul divano, uno accanto all'altra.

L'appartamento era vuoto e silenzioso. Non c'era più molto da dire, quindi fumavamo una sigaretta dopo l'altra. Le casse attendevano in corridoio. Horst era in ritardo. Io ero molto calma, cosa che non dipendeva dal mio stato d'animo, ma dalla doppia dose di tranquillanti che avevo preso quella mattina.

 Suonò il campanello, Horst era sulla soglia. Una figura robusta, un volto rozzo e la bocca contratta in una smorfia crudele. Aveva le mani strette a pugno per la rabbia e nei suoi occhi c'era un odio incondizionato. Ebbi paura di lui. Ma questa non era una novità.

 Horst taceva. Le sue narici fremevano. Anche noi non dicevamo una parola. Lui ci fissava.

 «Le casse sono qui» mormorai e mi concentrai sul grazioso bricco d'argento appartenuto a mia nonna, dal quale stavo versando il tè.

Gliene porsi una tazza, ma lui non la prese. Dunque la riappoggiai sul tavolo.

 «Vuole che la aiuti?» chiese Cem con la sua consueta, spiccata cortesia.

 Horst scosse il capo, sollevando due casse insieme. La sua presa era incerta, le casse traballavano pericolosamente. Uscì in tutta fretta. I suoi passi pesanti riecheggiarono per le scale. Sbirciai dalla finestra e lo vidi caricare le casse in un furgone rosso. Cem si rollò un'altra sigaretta.

Quando Horst risalì, aveva la fronte imperlata di sudore.

 «Davvero non le serve aiuto?» domandò Cem.

 «C'è dentro tutto?» chiese Horst.

 Cem si strinse nelle spalle.

 «Mi pare poco» disse Horst.

 «Stammi bene a sentire. Di cos'hai paura? Non pensi che lei potrebbe tenersi un maglione di merda come ricordo?» gridò Cem.

 «Ne ho piene le scatole di voi» urlò Horst.

 Cem era teso in tutto il corpo, il collo gli si era riempito di chiazze rosse. Stava per perdere le staffe, ma io gli presi una mano fra le mie, i nostri sguardi si incontrarono e io sussurrai: «No. Ti prego, no».

 Horst restava sulla soglia, immobile. Aveva il volto deformato dall'ira.

Poi iniziò a piangere. Dapprima in silenzio, poi sempre più forte, finché il pianto divenne un singhiozzo. Feci un passo verso di lui, ma non riuscii ad andare oltre e lui rimase fermo immobile. Fu Cem a mettergli un braccio sulle spalle, a cercare di consolarlo. Io restai lì, incapace di muovermi o anche solo di dire qualcosa.

 Dopo che Horst se ne fu finalmente andato e di casa nostra non rimaneva più nulla, nessun ricordo, nessun odore, andai in camera da letto e mi gettai sul letto. Cem si stese accanto a me. Si mise a carezzarmi il viso. Dopo un po' disse: «Adesso basta. Ora ti alzi e andiamo a mangiare».

 «Non ho fame» risposi.

 «Non cercare scuse. Quand'è l'ultima volta che hai mangiato?»

 

Non lo sapevo.

 Cem mi prese di peso, afferrò i nostri giubbotti e mi cacciò in testa un berretto. Andammo in centro. Gli alberi erano spogli. La macchina di Cem aveva il riscaldamento rotto e lui continuava a chiedermi se avessi freddo, così come continuava a chiedermi cosa volessi mangiare.

Io volevo che decidesse lui, non avevo voglia di pensare, di provare sensazioni e neanche di mangiare, volevo solo vomitare finché in me non fosse rimasta più vita. Volevo rimettere fino all'ultima briciola. Lo dissi a Cem. Lui mi gridò che non ce la faceva a stare a guardare mentre crepavo lentamente, che non sapeva più cosa fare e che dovevo decidermi a ricominciare a vivere, io gli dissi che non ne ero capace e lui rispose, Sciocchezze, e disse che Horst era un pezzo di merda e

 

io risposi che non riuscivo più a ricordare che faccia avesse Elisa, al suo posto vedevo solo sangue e Cem urlò che dovevo smetterla con quelle storie e che neppure lui riusciva più a ricordare che faccia avesse suo fratello, ma non era una buona ragione, e io strillai che stava mentendo e poi ci fu uno schianto e fummo sbalzati in avanti.

 Dall'auto davanti alla nostra scese a fatica un anziano con un giubbotto trapuntato. Anche Cem e io uscimmo dalla macchina.

 «Mi dispiace» disse Cem. «É colpa mia».

 «Direi anch'io!» L'uomo si piazzò di fronte a noi con le mani sui fianchi. Aveva le labbra sottili su cui crescevano dei folti baffi bianchi che nascondevano una dentatura gialla. Aveva una sciarpa di cachemire marrone. "Perché marrone?" pensai.

 «Sei capace di guidare? Ce l'hai la patente?» chiese a Cem.

 «Ci dispiace!» dissi io.

 «Perché mi dà del tu?» domandò Cem, stringendosi la sciarpa al collo.

 «Dovrei anche darle del lei?»

 

«Sì» rispose Cem. Aveva la voce tranquilla, ma sapevo che la sua pazienza non sarebbe durata ancora a lungo.

 L'altro era diventato paonazzo: «Ma bene. Che sfacciataggine. Una vera sfacciataggine. E tu come ti comporti sulle strade tedesche? Sei solo un ospite qui».

Cem si raddrizzò, divaricò le gambe, anche lui si mise le mani sui fianchi: «Io qui ci sono nato».

 «Tu non sei niente. Un muso scuro, ecco cosa sei».

 Cem fece un passo verso di lui.

 «Chiamo la polizia» dissi io e composi il 112.

 «Faccia pure, avanti» mi esortò. «É probabile che il suo amichetto non abbia il permesso di soggiorno. E un clandestino. Uno che approfitta del nostro sistema. Come tutti loro».

 «Il vostro sistema fascista, certo!» gridai.

 «Tutti chi?» urlò Cem.

 «Non sono affatto un fascista! É che qui ci sono sempre più immigrati».

 «Però è un razzista».

 «Il razzismo non c'entra niente! Si tratta solo di poter dire ciò che si pensa».

 

 

 

 

 Capitolo 14.

 Le rose nel giardino dei miei genitori erano fiorite. Cem sta va parlando al telefono, camminando su e giù per il prato e gesticolando con la mano libera. Papà e mamma mi osservavano con un misto di muto rimprovero e sollievo. Mia madre era indecisa tra II peggio è passato e Due anziani soli in una terra straniera. Mio padre in quel momento aveva altre preoccupazioni.

 «E che tipo di lavoro è?» volle sapere.

 «Sono stata assunta come interprete per la sede estera di una fondazione tedesca».

 Mia madre mescolava sovrappensiero il suo tè. Dalla casa provenivano odori di cibo. Scommisi che si trattava di una trota ripiena di timo.

Cem gesticolava in modo sempre più impetuoso.

 «Ma non sei un po' troppo qualificata per quel lavoro? Voglio dire, hai fatto un esame così bello...» disse mia madre con un sospiro. «Hai sempre parlato dell'ONU. Che ne è dell'ONU?»

 

«Ma quale onu? Pensi forse che arrivare all'ONU sia così facile?» disse mio padre ed entrò in casa per versare dell'altro tè per mia madre e per sé. Quando tornò, si sedette cerimoniosamente accanto a lei sulla panca da giardino e disse: «No». Poi scosse il capo, per dare enfasi alle sue parole. «Deve farsi strada con calma. Troppo in fretta non funziona.

Prima deve dimostrare di essere affidabile. Poi forse verrà chiamata all'ONU».

«Papà, non si viene chiamati all'onu».

 «Ma certo che si viene chiamati all'oNU».

 «Non è vero».

 «Certo che sì. Da noi si viene sempre chiamati».

 «Qui ci si candida direttamente».

 «E perché allora non ti sei mai candidata, maledizione?»

 

Poi ci fu un silenzio scomodo e il ritmico mescolare nelle tazze dei miei genitori.

 «Prima si sarebbe potuto fare qualcosa» disse mio padre, che non si era ancora rassegnato all'idea di non avere più agganci.

 «Papà, ce l'ho fatta senza problemi anche da sola».

 Mio padre lanciò uno sguardo preoccupato a mia madre.

 «Non ho bisogno d'aiuto» riprovai a dire.

 «Ti servono soldi?» chiese mia madre.

 Scossi la testa.

 «Che tipo di organizzazione?» chiese alla fine mio padre.

 «Un'organizzazione politica» risposi io.

 «Di sinistra?»

 

«Sì».

 «Bene. Per lo meno la tua educazione non è stata del tutto inutile».

 «Era proprio necessario che tu dicessi una cosa così gentile?» disse mia madre. «Stai facendo scappare di casa tua figlia».

 «Non sto facendo scappare di casa nessuno. Per giunta non possiamo proprio dire che sia casa nostra, visto che la maggior parte del tuo stipendio se ne va per l'affitto».

 Mia madre si morse nervosa il labbro inferiore. Temeva un'escalation, ma il volto di mio padre tornò a rilassarsi. Restammo seduti uno accanto all'altro in silenzio, osservando Cem. Il quale urlava nel telefono: «Io non ho alcun problema con la mia identità nazionale, caro mio... Non venirmi a dire queste stronzate. L'identità nazionale. Lo porto in tribunale, l'ho denunciato.

Quindi ficcati la tua nazione da qualche altra parte... Ho bisogno di un avvocato, non della teoria della cultura. Oh, merda».

 «Cosa sta dicendo?» chiese mia madre, bevendo un sorso di tè.

 «Sta litigando con il suo ragazzo, mamma».

 «Che problema ha con il suo amichetto?»

 

«Cem, stai attento alle mie rose!» gridò mio padre in turco.

 In aereo ero seduta accanto a una donna con un bebé che dormiva tranquillo in una culla ai nostri piedi. Nella fila dietro c'erano altri quattro bambini, anche quelli erano figli suoi. La donna trascorse le quattro ore di volo in piedi per sorvegliare i bambini. Parlava con loro al plurale: «Les enfants, asseyez-vous! Soyez calmes!» Le hostess facevano fatica ad assegnare i pasti kosher. Erano segnati su una lista, ma la lista non era corretta. I bambini mangiavano kosher, ma dei biscotti che avevano con sé, non i vassoi dell'aereo.

 Prima del decollo cercai ancora di chiamare Sami. Non l'avevo salutato e lui non rispose. Appena venne spento il segnale di cinture di sicurezza allacciate, tutti gli israeliani balzarono in piedi e si misero a camminare avanti e indietro, in cerca di conoscenti.

 

Olga Grjasnowa - Tutti i russi amano le betulle
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