Parte terza
Capitolo 1.
Ero all'aeroporto Ben-Gurion, e stavo aspettando sotto dei palloncini colorati attaccati al soffitto. Lessi il tabellone degli arrivi, mangiai un panino, osservai la gente che si guardava intorno, soldati, nonne russe, ebrei ortodossi e grandi famiglie di arabi. Sullo stipite della porta del salone degli arrivi era fissata una mezuzah; molti passeggeri la baciavano e allo stesso tempo la toccavano con la punta delle dita della mano destra, che poi si portavano alla bocca.
mmezuza: Oggetto rituale ebraico, posto sullo stipite delle porte d'ingresso, consistente in un contenitore che racchiude una pergamena su cui sono stilati dei passi della Torah.
Sulla maggior parte dei volti si leggevano gioia e grandi aspettative. C'erano continuamente persone che si correvano incontro, si abbracciavano, si separavano, si scrutavano in volto come se cercassero di recuperare il tempo perduto. Accanto a me un ultraortodosso in abito nero e con un cappello a larghe tese si inginocchiò e baciò il suolo, un anziano venne a prendere una giovane con un ragazzino in braccio, che si mise a urlare e scalciare quando l'uomo cercò di toccarlo. Una donna di una certa età stava parlando al nipote in tono risoluto, nel salone dell'aeroporto le lingue si fondevano, creando un sottofondo melodioso: russo, ebraico, inglese, italiano e arabo. Dagli altoparlanti una profonda voce femminile continuava a esortare a non perdere di vista i propri bagagli e aggiungeva: «It's prohibited to carry weapons in all the terminal halls». Il mio computer era stato fucilato un quarto d'ora prima e io stavo aspettando l'attestato che mi avrebbe consentito di fare richiesta di risarcimento allo Stato israeliano.
Tutto era cominciato con il controllo del passaporto. Mi avevano chiesto come mi chiamavo.
«Maria Kogan».
«Ah, proprio Maria».
Mi strinsi nelle spalle e dissi: «Era un nome che piaceva a mia madre.
Masa».
«Cosa sarebbe Masa?»
«Il mio diminutivo».
Fece un'annotazione su uno dei moduli e studiò con attenzione il mio visto di lavoro.
Mi chiese come mai fossi in Israele.
«Per un lutto».
Altra annotazione.
«Quanto pensa di rimanere?»
«Il più a lungo possibile».
«E davvero suo questo computer?» Osservò maldisposto le etichette autoadesive con i caratteri arabi sulla tastiera.
«Sì».
«Sembra che lei sia molto interessata ai nostri vicini. Posso fare un piccolo test sul suo computer?» disse con un sogghigno, lo prese e si allontanò.
La situazione era seria, visto che perquisirono anche la mia valigia. Se ne occuparono due soldati giovani, non dovevano avere più di vent'anni.
Indossavano guanti di plastica trasparente e facevano battute per sdrammatizzare. La ragazza rovistò tra le mie cose in modo rispettoso, cercando di non guardare troppo, tanto che il soldato rasato a zero continuava a sgridarla. Se ne stava là a gambe larghe, fissando il contenuto della valigia e dando ordini. Venne esaminato ogni indumento, ogni sciarpa, ogni mutandina, vennero aperte tutte le scatole, controllarono persino il mio spazzolino da denti elettrico in cerca di esplosivi.
Il fatto che avessi con me pochi vestiti e molti dizionari fece nascere dei sospetti.
L'interrogatorio si svolse durante la perquisizione. Chi conosce in Israele? Da chi andrà ad abitare? Per chi lavorerà? In cosa consiste il suo incarico? Il soldato mi guardava negli occhi. Perché ero andata in Israele, come mai non ci ero mai stata prima e perché non volevo rimanerci per sempre? La soldatessa sfogliò con le lunghe unghie smaltate di rosso il mio dizionario arabo, anche il suo tono si fece sempre più aggressivo. Come mai avevo viaggiato nei Paesi arabi e cosa sapevo del conflitto in Medio Oriente?
«Parla l'arabo?»
«Sì».
«Per quale ragione?»
«L'ho studiato».
«Parla l'ebraico?»
«No».
«Ha un ragazzo?»
«Sì. No. Voglio dire, no».
«É arabo, egiziano o palestinese?»
«No».
«E di dov'è allora?» «É morto».
I due si guardarono irritati.
«Quando è deceduto?» chiese timidamente la donna.
«Poco tempo fa».
«Mi dispiace» disse la soldatessa e fece un sorrisetto.
«Di cosa è morto?» domandò il soldato.
«Embolia polmonare».
«Era arabo, egiziano o palestinese?»
Mentre mi domandavo se mi fosse stata davvero posta quella domanda, udimmo un annuncio: «Do not be alarmed hy gunshots because the Israeli security needs to blow up suspicious passenger luggage».
Seguirono alcuni spari. Il pelato venne chiamato sul walkietalkie e parlò in modo rapido e concitato. I soldati chiusero la mia valigia. Si scusarono per la perquisizione, dissero che si era resa necessaria dati i problemi di sicurezza e mi augurarono buon divertimento in Terra Santa. Il soldato cercò di convincermi ad andare a Eilat, lui veniva da lì e conosceva ogni sasso. La sua collega
lo interruppe e raccontò di certe piccole cascate intorno a Gerusalemme. Mi stava scrivendo i collegamenti dalla stazione centrale degli autobus, quando un ufficiale preoccupato corse verso di noi.
Si presentò, mi diede la mano, molto cortesemente chiese scusa perché il mio computer era appena stato fatto esplodere. Poi mi condusse in un'altra stanza, in cui i resti erano già stati ricomposti su un tavolo.
Il mio computer però non era stato davvero fatto saltare per aria: sulla scocca c'erano tre fori di proiettile. L'ufficiale stava masticando una gomma.
«Perché avete sparato al mio computer?» chiesi incredula.
«Pensavamo fosse una bomba. Si tratta di una procedura normale in caso di sospetto attentato terroristico». Parlava lentamente, come se si rivolgesse a una bambina a cui doveva spiegare una cosa ovvia.
«Adesso come faccio a lavorare?»
«Lo Stato d'Israele metterà a sua disposizione un altro computer».
«Quando?»
«A breve».
Mia cugina arrivò circa quaranta minuti dopo, mi si gettò al collo, era fantastica. Aveva risposto alla mia telefonata direttamente dal letto del suo nuovo regista, cosa della quale mi informò all'istante.
Hannah era una nipote di mia madre. La mia però è una famiglia molto ramificata, con gradi di parentela incerti, e mia madre non era molto brava a ricordare nomi e volti. Quindi tutti quelli che non guadagnavano soldi erano nipoti, i pensionati erano zii e zie, gli altri, cugini. Per distinguerli meglio, in segreto assegnava loro dei numeri. Hannah era la nipote n. 5 e sua madre la cugina n. 13, ma su questo la mamma aveva dei dubbi.
Conoscevo i miei parenti soprattutto dalle foto che ci venivano spedite con regolarità. Le più tristi erano le foto delle feste di famiglia - le zie avevano ancora qualche traccia di sorriso sul volto, ma i loro mariti non si sforzavano più e fissavano abbattuti l'obiettivo. Sul tavolo che avevano di fronte c'erano le stoviglie portate con sé dall'uRSS. Hannah invece era sempre la bellona appariscente davanti a paesaggi spettacolari: il Mar Morto, il lago di Tiberiade, il deserto.
Non avevo mai conosciuto davvero Hannah. L'ultima volta che ci eravamo viste era stato sette anni prima, quando i suoi genitori ci erano venuti a trovare in Germania. Era stata una vacanza breve, tranquilla. Hannah aveva sedici anni, io dodici e lei non si toglieva mai gli auricolari. I suoi genitori avevano noleggiato un'auto e giravano tra castelli renani e sinagoghe dimenticate. Mia madre era ben decisa a convincerli che per degli ebrei fosse possibile vivere in Germania.
Dopo la morte di Elisa, Hannah si era messa a telefonarmi spesso. La sera tra le undici e le dodici, dopo che mia madre se nera andata.
Sapevamo che non ci dovevamo avvicinare troppo, fare domande spiacevoli oppure aspettarci risposte sincere. Non parlavamo della morte di Elisa e neppure della figlia di Hannah. Lei mi raccontava di Israele, del paesaggio e delle spiagge, di diversi itinerari escursionistici nel nord che voleva fare con me e delle discoteche di Tel Aviv in cui saremmo potute andare insieme.
Mi parlava di cose normali, alle quali io non pensavo più. Nel giro di poco tempo conobbi la sua vita di tutti i giorni, i nomi e le storie dei suoi amici, e persino le unità in cui aveva prestato servizio.
«Deciditi a fare Yaliyab» mi disse.
«Non ci penso neppure» risposi. «Non rinuncio certo alla cittadinanza tedesca».
«ok, allora vieni almeno per un po'. Ti piacerà».
Pochi mesi dopo nel parcheggio dell'aeroporto Ben-Gurion, mi accolse un'aria calda e umida, mi sembrava di essere ai tropici. Di colpo mi rallegrai di essere lì. Mi rallegrai del lavoro e del fatto che forse la mia vita non era ancora finita.
Hannah non staccava il piede dall'acceleratore. Dietro di noi lampeggiavano le luci rosse e gialle dell'aeroporto.
«Non mi immaginavo che tu fossi così» disse Hannah accendendosi una sigaretta. «Non mi assomigli affatto. Pensavo tu mi somigliassi. No, non è che lo pensassi, lo speravo. Speravo tu mi somigliassi».
«Siamo solo cugine».
«Sì, ma tu non sembri...»
«Cosa?»
«Ebrea».
«Trovi?»
Hannah annuì e riprese a guardare la strada.
«Proprio per niente?» le chiesi.
«No».
Di nascosto mi guardai nello specchietto retrovisore.
«Davvero?»
«Mi spiace».
«Non ti preoccupare».
«Ti ho offesa?»
«No». Scoppiai in una risata fragorosa, isterica.
Capitolo 2.
Continuavamo a fermarci per fare foto, ogni volta Hannah chiedeva a qualcuno di fotografarci insieme, ciononostante impiegammo solo un'ora per attraversare tutta la Città Vecchia di Gerusalemme. Dopo aver passeggiato per i quartieri armeno, cristiano, ebraico e arabo, ci mettemmo in fila per passare un controllo di sicurezza. Persino il Muro del Pianto era diviso in due parti, una per le donne e una per gli uomini. Naturalmente la parte per le donne era molto più piccola. C'era un caldo paralizzante, lo Shabbat stava finendo e il Kotel era quasi vuoto. (Nome ebraico del Muro del Pianto9.
Una donna dall'aria stanca, con le guance smunte e grinzose, porse in silenzio a Hannah e a me dei teli in poliestere con cui coprirci le ginocchia e le spalle. Hannah prese un libro di preghiere dall'armadio all'ingresso del Muro del Pianto e vi si diresse decisa. Io indugiai, mi misi su una delle sedie di plastica bianca disposte senza un ordine apparente. Alla mia sinistra c'erano delle ragazze ortodosse che pregavano, graziose nei loro abiti buoni dello Shabbat. A destra una giovane con un lungo vestito grigio e una parrucca pregava dondolandosi.
Suo figlio, un bambino piccolo, saltava felice fra le sedie, si aggrappava al sedere della madre e cicalava fra sé e sé. Gli cadde varie volte la kippah, ma lui se la rimetteva subito senza che ci fosse bisogno di dirglielo. In fondo c'era una suora, immobile, sembrava scolpita in pietra, osservava ciò che succedeva da una certa distanza, senza alcuna emozione. Aveva lineamenti maschili e il volto bruciato dal sole. Solo i suoi occhi brillavano, concentrati sul suo animo di suora.
Proprio lì, nel luogo più sacro dell'ebraismo, avvolta nel poliestere rosa e blu, avrei potuto avere un colloquio con Dio. Lamentarmi. Pensai a lungo a ciò che avrei potuto scrivere sul mio foglietto, ma non mi venne in mente nulla. Volevo Elias, nient'altro. Quindi scrissi elisa su un pezzetto di carta, lo piegai, mi avvicinai al Muro, allungai la mano destra e recitai il Kaddish. Tutte le fessure erano piene di foglietti, preghiere e richieste in diverse lingue, spagnolo, russo, ebraico, non pochi erano sigillati. Mentre infilavo il mio foglietto nel Muro, altri volarono via, planando di fronte ai miei piedi. Mi chinai e iniziai a raccoglierli; non riuscendo a resistere, gettavo delle rapide occhiate al loro contenuto: in tutti i foglietti c'era un appellativo, caro Dio, Jahvè, El, Adonai. Mi chiesi se la mancanza di un appellativo screditasse il mio foglietto. Io però non avevo affatto pensato di rivolgermi a Dio, e neppure avrei saputo come farlo.
«Non è un gran problema» bisbigliò Hannah e indicò i foglietti caduti: «Il rabbinato li seppellirà sul Monte degli Ulivi».
Hannah e io eravamo sedute in un bar. Aveva ordinato lei per tutte e due e stava parlando veloce al telefono in ebraico. Aveva la voce un po' roca e vibrante. Era tornata a vivere dai suoi genitori, ma non voleva dirmi perché.
Cercai di chiamare i numeri che mi avevano scritto sul foglietto all'aeroporto, ma sembrava che un ufficio per i bagagli fucilati non esistesse. Di volta in volta mi toccavano il ministero degli Interni, l'ufficio del Turismo e l'agenzia ebraica. Nessuno voleva comprarmi un nuovo computer. Hannah cercava di incoraggiarmi, spiegandomi la difficile situazione politica ed elencando alcuni degli attentati.
Aveva paura che me la prendessi con Israele per l'attacco al computer e si mise a disegnare dei circoletti sulla mia piantina della città, uno per ogni attentato, fin quando la sua enciclopedia del terrore fu completa.
«Com'è il caffè?» chiese Hannah all'improvviso,
«Buono».
«Davvero?»
«Sì».
«A me pare terribile. Non riesco ad abituarmi al caffè di questo Paese».
«Di sicuro ce n'è anche di importazione».
«Non è così facile. Cosa ne sarebbe di noi, se tutti comprassimo solo merci di importazione? L'economia crollerebbe. Per noi non ci sarebbe più uno Stato da nessuna parte. Gli arabi in ogni caso fanno più bambini, quanto agli ortodossi, quelli non fanno altro. Presto di noi non rimarrà più nessuno. Ci saranno solo gli ortodossi. No, devo bere questo caffè, non ho altra scelta». Hannah fece una grassa risata: «Non mi avrai mica preso sul serio? Avresti dovuto vedere l'occhiata che mi hai lanciato. Anche mio marito mi guardava in quel modo disgustato, fin dal primo mattino. Non so cosa gli desse più fastidio in me, se il mio carattere o il mio corpo».
«Hai divorziato?»
«Non ancora».
«Dimmi di tua figlia».
«Ha gli occhi blu e una testa di riccioli neri. Una bambina graziosa.
Tutti ci invidiano. Invidiano la nostra fortuna. Dopo la separazione ci siamo messi d'accordo che sarebbe venuto a trovarla ogni giorno, all'inizio la mettevamo ancora a letto insieme, a volte lui arrivava più presto e guardavamo un cartone animato con lei, a volte lui restava più a lungo e bevevamo un bicchiere di vino insieme. Dà la colpa a me». Il volto di Hannah era impenetrabile. «Aveva l'odore di un'altra donna. Poi sparì. Nella cassetta delle lettere comparvero cartoline con paesaggi indefiniti o dipinti astratti. Scoprii che si nascondeva cinquanta chilometri più a nord, in un kibbutz, solo arance, niente arte astratta nei dintorni. Ci andai con mia figlia. Era abbronzato e rilassato. Stava mangiando un'arancia, ci sorrise. Gli spinsi mia figlia tra le braccia, gli dissi, ho bisogno del gabinetto e me ne andai».
Avevamo passato un piccolo posto di controllo circondato da aiole di fiori. Ma'ale Adumim era in mezzo al deserto, su un'altura da cui si poteva - e di sicuro si doveva anche - vedere la Giordania.
Mentre passavamo, una giovane soldatessa con il fucile ci fece un cenno, sbadigliando, poi ci ritrovammo nel mezzo di una periferia ordinata: aiole fiorite, asili, sinagoghe, un centro commerciale e delle linde case bianche con tetti di tegole rosse e cisterne dell'acqua bianche.
Alla fermata dell'autobus c'erano dei giovani seduti a gambe larghe che si grattavano le palle.
I villaggi che Hannah e io avevamo attraversato sulla strada da Gerusalemme a Ma'ale Adumim avevano i tetti piatti e le cisterne dell'acqua nere. Quando alla radio parlavano della politica israeliana delle colonie, nella mia cucina Sami e Cem scuotevano il capo, costernati. Elisa si chiamava fuori, rollando una canna oppure cucinando. Sempre con movimenti rapidi e precisi, per farci capire che non valeva la pena litigare, di lì a poco sarebbe stata ora di pranzare o cenare.
Ma'ale Adumim era uno degli insediamenti più grandi della Cisgiordania.
I miei parenti non erano coloni che sognavano la Terra d'Israele nei suoi confini biblici. Nel 1990, quando arrivarono insieme a una grande ondata migratoria, c'era penuria di case. Per comprarsene una, dovettero accendere un mutuo venticinquennale. In quel momento non capivano cosa fosse davvero una colonia, perché parlavano soltanto russo. Quando lo capirono, anni dopo, era ormai troppo tardi: avevano vissuto la Seconda guerra del Golfo e i loro figli stavano facendo il servizio militare.
Parcheggiammo giusto di fronte a casa, alla porta d'ingresso Hannah inserì il codice di sicurezza 1, 2, 3, 4 ed entrammo. La scala era luminosa e c'era odore di animali.
Mia zia n. 13 aveva alle spalle una gioventù in Unione Sovietica e aveva delle grosse borse sotto gli occhi, le vene varicose e il trucco sbavato. Praticava il birdwatching e fotografava le specie rare, poi partecipava alle discussioni sui forum di appassionati. Suo marito, mio zio, era ancora un bell'uomo, basso di statura e con un sorriso suadente. Venimmo subito spedite in bagno a lavarci le mani e poi fatte sedere a una tavola apparecchiata con cristalleria e stoviglie in porcellana di produzione sovietica.
«Ti piace Israele?» chiese la zia n. 13.
Risposi di sì.
«Lo dicono tutti quelli che non sono costretti a viverci» replicò pronto mio zio, anche lui covava rancore nei confronti degli ebrei.
«Tu non ami la tua famiglia» disse la zia fissandolo con uno sguardo freddo.
«Senti un po', cosa vorrebbe dire che non amo la mia famiglia?»
«Se tu ci amassi, non diresti una cosa del genere».
«Qui tutti pensano che il mondo intero li odi. E l'unica cosa su cui vanno d'accordo. Il mondo odia gli ebrei» disse lo zio.
«E tu? Sei qui a sputare nel piatto in cui mangi? Cosa pensi che succederà quando al tuo giornale scopriranno che vivi in una colonia? Avveleni ogni cosa con la tua demagogia di sinistra. E la tua famiglia non la ami, tutto qui».
Lo zio sogghignò e disse alla zia: «Di sicuro non amo te».
«A Berlino ormai mettono le pubblicità del Museo ebraico sulle confezioni del latte» dissi io, perché non mi venne in mente altro.
«Ce l'abbiamo fatta con le confezioni del latte. Siamo in finale» osservò secca Hannah.
La zia ridacchiò, ma poi si girò verso di lei e le disse brusca: «Quand'è l'ultima volta che hai visto tua figlia?»
«Mia madre pensa che si debba prendere il primo che capita e poi tenerselo per tutta la vita. Secondo lei da sola non valgo niente, devo avere un marito e occuparmi di mia figlia. Come vedi, la mentalità sovietica non passa mai. Sente più di me la mancanza di mio marito».
Hannah strabuzzò gli occhi e uscì dalla stanza.
«Dove vai?» le gridò dietro la zia.
«In bagno» urlò Hannah e mi lasciò sola con i suoi genitori.
«E troppo impetuosa. Una cosa che gli uomini non sopportano» farfugliò la zia.
La cena andò per le lunghe, la zia aveva preparato quasi tutte le ricette che conosceva: dava a ognuno una porzione generosa e poi, senza aspettare che la mangiassimo, ci riempiva a forza i piatti una seconda o una terza volta. Hannah non ritornò. Lo zio aizzava la zia: «Masa è troppo timida per servirsi da sé».
«No, si preoccupa per la sua linea» disse la zia n. 13, mentre scaricava delle altre cosce di pollo nel mio piatto.
Mi chiesi se quell'impulso a soffocare nel cibo la generazione successiva dipendesse più dalla mentalità caucasica o più dalle conseguenze dell'Olocausto su mia nonna. Era arrivata denutrita a Baku con suo fratello minore, erano gli unici sopravvissuti della famiglia.
Per tutta la vita le rimase la preoccupazione che non avessimo abbastanza cibo e ogni pasto a casa sua era un banchetto. Credo sia stata lei a introdurre l'edonismo nella nostra famiglia, visto che fu lei a insegnare alle sue figlie a vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Niente veniva rimandato al giorno seguente, né un acquisto, né una festa, né una carezza. Mia nonna votava Rabin perché somigliava a mio nonno e morì due mesi dopo il suo assassinio.
Durante un volo negli usa mi ero seduta accanto a una donna che ordinò tutto quello che la compagnia aerea offriva e si assicurò che il figlio più che adulto e il suo non meno adulto nipote mangiassero tutto.
Sul suo avambraccio c'era tatuato un numero. Per l'intero viaggio, suo nipote continuò a guardarmi con aria di scuse.
D'altra parte mangiare era una mitzvah (In ebraico "precetto). La zia volle sapere come stesse mia madre e, mentre iniziavo a rispondere alla domanda, mi chiese cosa ne pensassi della sua casa. Subito dopo mi domandò: «Nel frattempo tuo padre si è trovato un lavoro?»
Risposi di no, lei chiese: «E cosa fa tutto il giorno?»
Cercai di mantenermi cortese.
Per fortuna tornò Hannah e bisbigliò: «A volte sarei contenta se potessi sdraiarmi e morire». E poi: «Noi andiamo». L'ultima frase la disse ad alta voce, in tono imperativo.
Capitolo 3.
Era già pomeriggio inoltrato, ma il sole continuava a bruciare implacabile. Per la festa venne chiusa un'intera strada, la musica si spandeva anche nelle vie limitrofe, forte e veloce. Hannah e io ci mettemmo in fila per farci ispezionare le borsette. Mi ero abituata in fretta ai controlli, ciò che mi irritava era l'età dei soldati addetti alle perquisizioni, la maggior parte di loro avevano appena fatto la maturità ed erano già in divisa e dotati di armi automatiche.
Un gran numero di partecipanti era truccato da elfo o da fata e anche armato. Erano pistole ad acqua, qualcuna a forma di mitraglietta Uzi. Un uomo tarchiato con occhi scuri e scintillanti e
il volto colorato di rosso-giallo puntò contro di me la sua pistola ad acqua. Io gridai Lo, che in ebraico a quanto pare significa "no", agitando le braccia. La mia reazione non lo scoraggiò affatto, si mise a sghignazzare apertamente, sparò e io non schivai il getto d'acqua.
Hannah scoppiò a ridere, gridò a quel tizio qualcosa in ebraico, mi diede una pacca su una spalla e scomparve nella folla. L'aggressore mi si avvicinò, anche lui rideva e cominciò a parlarmi in un ebraico ancora più stretto.
«Ani lo metaberit iwrit - non parlo in ebraico» dissi.
«Per niente?» mi chiese deluso.
Scossi la testa e lui proseguì parlandomi in inglese.
«Peccato, ti avevo appena detto che ti devo una birra».
«Tu mi devi delle scuse».
«Non sei di qui, giusto?» Rise e mi porse la mano: «Io sono Sam».
«Non mi interessa» dissi io e lo piantai lì.
Al bancone c'era un uomo che fumava. I suoi occhi chiari e luminosi si erano fissati sul mio volto. Mi sedetti accanto a lui e chiesi un bicchiere d'acqua al barman, che prese la mia ordinazione alzando un sopracciglio. Hannah era scomparsa da un pezzo con uno con la barba.
«Questo cane è una puttana. Bamba. Si chiama così» disse Ori e con gli occhi indicò il gigantesco San Bernardo steso sul pavimento accanto a lui.
«Come le noccioline soffiate kosher?»
«Esatto, solo che Bamba non toccherebbe mai del cibo spazzatura. Si nutre solo di bistecche, qui non fa che mendicare cibo e
lo chef gliela dà sempre vinta. A casa non mangia più».
«É tua?»
«E del mio vicino. Io posso solo portarla fuori a cena».
Ori ordinò un'altra birra e restò in silenzio.
«Vieni qui spesso, vero?» gli chiesi dopo un po'.
«E la mia seconda casa». Ori si mise a sghignazzare e disse: «Vado a pisciare».
Accarezzai il pelo rosso-bruno di Bamba, poi lei sparì tra le gambe di qualche altro cliente, uggiolando in cerca di cibo. L'aggressore venne a sedersi accanto a me. Ammiccò con il capo e appoggiò l'arma al bancone.
«Da dove vieni?» mi chiese.
«Non vuoi neppure sapere come mi chiamo?»
«Io sono Sam, ma mi sono già presentato».
«Masa».
«Tedesca?» Passammo al tedesco. Nel corso del quarto d'ora successivo, Sam, che in realtà si chiamava Samuel, mi raccontò di essere nato a Berlino e di aver fatto l'aliyah qualche anno prima. Poi mi rimproverò perché vivevo in Germania. Lui sosteneva di avere troppa paura di sposare una non-ebrea. Sam mi chiese se fossi russa e ordinò una vodka per me e un bicchiere di latte freddo per sé. Buttai giù la mia vodka in un sorso e mi venne voglia di scomparire, Sam aveva ancora una peluria da sbarbatello sul labbro superiore. Rimasi seduta. Lui attaccò con un monologo. Ero proprio scura, di certo non ero un'ashkenazita. Quelli del Caucaso qui erano la mafia, si massacravano a vicenda. Solo le russe qui si sarebbero messe con gli arabi. Sam non avrebbe mai fatto entrare un arabo in casa sua, con tutte le armi che circolavano, davvero tante. Il suo coinquilino faceva parte di un'unità speciale, e non certo una di quelle in cui si sta là a sbadigliare.
«Non guardarmi così però, io non ho nulla contro gli arabi» disse.
«Io stavo con uno di loro».
«Non sei comunque un'araba. Ho amici arabi, un amico arabo, no, hai ragione, ho solo un cd arabo, ma mi piace. Mi piace proprio. Pensi che io odi gli arabi?»
Sam lavorava online per una grande azienda, anche di sabato. Ma c'erano cose che non avrebbe fatto. Mangiare carne di maiale, per esempio. Sam disse che i russi non erano veri ebrei. Mentre lo diceva sentii una mano tra le scapole.
Ori chiese sussurrando se il mio interlocutore mi stesse dando sui nervi. Gli riferii ciò che aveva detto Sam sugli ebrei russi. Ori si girò verso di lui e i due scambiarono un paio di frasi in ebraico. Sam se ne andò dal bar.
Ori si fece più vicino a me con il suo sgabello: «Tutti gli uomini che ci sono qui sono amici. Un bel momento, capita di rado che nel mio bar ci siano solo amici. Capisci? Ora devi diventare un'amica anche tu».
Parlava un inglese chiaro e fluente, ma non ero sicura che fosse la sua lingua madre. Anche se la sua intonazione era naturale, non riuscivo a localizzare l'accento. Non suonava né australiano, né nordamericano o britannico. Poi fece un errore e si corresse al volo. Disse di aver vissuto qualche anno a Londra da bambino e di essersi guastato l'accento britannico con la televisione americana.
«E tu cosa ci fai qui?» Ori mi appoggiò con cautela una mano sulla schiena. Gliela tolsi.
«Lavoro».
«Davvero? Non pensavo proprio che la nostra situazione economica fosse così buona».
Mi strinsi nelle spalle.
«Ho un amico a Berlino, non fa che insistere perché io torni là, ma non so a fare cosa. D'altra parte, presto Israele non esisterà più».
«Che cosa?»
«Certo. Se continua così, tra ventanni questo sarà uno Stato teocratico.
L'hai sentito quel tipo. La democrazia verrà abolita, a scuola si insegnerà solo la Torah, le donne non potranno più andare in spiaggia, durante lo Shabbat nessuno potrà allontanarsi più di cento metri da casa e, sì, certo, obbligo per tutti di indossare la kippah». Osservai la linea della sua bocca, un arco arrogante, non intonato con quegli occhi tristi. Scherzava, ma emanava infelicità.
Restammo a guardarci senza parlare. Ori cercava di fissarmi negli occhi, io bevevo la mia birra.
«Ti va di ballare?» mi sentii all'improvviso chiedere a Elisa.
«Dici sul serio?»
Annuii e mi avviai verso la pista da ballo. Elisa mi seguì. Al posto dell'aria condizionata c'era un impianto d'irrigazione: su tutta la pista, che si trovava verso il retro del locale, veniva nebulizzata dell'acqua. Ci ritrovammo subito con i vestiti bagnati.
Percepii il suo respiro, avevo la faccia vicinissima alla sua, lo baciai, le sue labbra si aprirono.
Ori chiamò solo qualche ora più tardi. Avevo già iniziato a guardarmi intorno nella mia camera da letto, in cerca di ciò che poteva aver dimenticato nel pomeriggio. Sul pavimento non c'era nulla tranne il mio reggiseno, che raccolsi in tutta fretta. Per la pruderie però era troppo tardi, quindi lo rimisi per terra. Lo ripresi in mano quando Ori disse che mi voleva rivedere. Ero così sbalordita che acconsentii. Dopo la sua telefonata mi avvolsi in una coperta pesante, andai nella terrazza sul tetto e rimasi per ore a guardare il mare, che si cullava tranquillo, avanti e indietro.
Abitavo nella soffitta di un vecchio edificio della Bauhaus. L'avevo trovata tramite il mio ufficio e firmai il contratto d'affitto senza averla mai vista. Si trattava di un annesso costruito in cima alla casa, male isolato e con un pessimo impianto elettrico, però aveva due stanzette e un tetto piatto praticabile. Le finestre della mia camera da letto erano per lo più aperte e davano su un hotel a due stelle. Anche le finestre delle stanze dell'albergo erano aperte, c'era un gran via vai di gente e tutti ripetevano le stesse cose: spiaggia, doccia, sesso.
Le coppie non facevano la doccia insieme, uno aspettava che l'altro finisse di usare il bagno, spesso quello che attendeva si appoggiava al parapetto del suo balcone affittato e sbirciava nella mia camera da letto. I villeggianti sono degli svergognati, vanno dritti per la loro strada, bramosi di appagare la propria curiosità. Gli uomini che viaggiano soli sono ansiosi di fotografare nelle loro stanze da letto le donne sole. Per poter vedere il mare piazzai degli sgabelli e un tavolo di fronte alla ringhiera della terrazza. Gli aerei passavano così bassi che avrei potuto colpirli con una palla da tennis, ma in genere decidevo di prendere di mira uno dei clienti dell'hotel.
Mi sedevo in terrazza oppure sul letto, fumavo hashish e non sapevo quanto sarei rimasta. Forse per sempre, magari solo per qualche mese. Un tetto piatto a Tel Aviv era una gran bella cosa e l'insegna al neon dell'albergo costituiva pur sempre un punto di riferimento.
Capitolo 4.
Il mio lavoro era comodo, ero stata assunta presso un'organizzazione tedesca che si occupava della situazione in Israele e sosteneva alcune ong pacifiste. In inglese ebraizzato il nome della nostra missione era Arab-Hugging. L'organizzazione, come decine di altre, si era integrata alla perfezione nel conflitto: se non ci fossero più state guerre, ci saremmo ritrovati tutti quanti disoccupati dall'oggi al domani e nei bar di New York, Londra, Parigi e Berlino non avremmo più potuto vantarci con i nostri potenziali partner sessuali di vivere in una zona di guerra.
Date le premesse, il team era piccolo e nessuno lavorava troppo. La vita quotidiana in ufficio era scandita per tutti noi dalla seguente routine: leggere i giornali, rispondere alle mail, bere il caffé, mail, pausa pranzo, caffè, mail, giornali online, ammazzare il tempo fino all'orario di uscita dall'ufficio. Le volte in cui lavoravo, traducevo corrispondenza e contratti in cui si parlava di ingiustizie sociali e del Conflitto. Poi andavo via, mi sedevo nel mio bar preferito sulla Shenkin Street e ordinavo una spremuta d'arancia. Gli altri colleghi pranzavano insieme, ma io li evitavo e a un certo punto accettarono che non mi andasse la loro compagnia. Nelle poche pause pranzo a cui partecipavo si scambiavano in tono sommesso e ponderato opinioni sulle manifestazioni e sugli ultimi sviluppi politici, mangiando petto di pollo con purea di patate.
In realtà una traduttrice era l'ultima cosa che serviva a quell'organizzazione, un buon programma informatico sarebbe stato più che sufficiente per le loro esigenze, ma io mi guardavo bene dal farglielo sapere. Venivo impiegata di rado anche come interprete, più che altro per gli ospiti tedeschi o per il direttore dell'ufficio e, quando capitava, non mi occorreva mai una seria preparazione.
I miei impegni come interprete erano delle piacevoli escursioni in Cisgiordania, tra cumuli di rifiuti e bambini che nessuno teneva d'occhio, a cui dovevo sempre chiedere la strada in arabo perché il nostro autista era immigrato solo due mesi prima dalla Siberia, usava un navigatore in russo e non era in grado di leggere i cartelli né in arabo né in ebraico. Dietro i finestrini di una jeep blindata e con l'aria condizionata, la West Bank era bella. Assomigliava un po' alla Grecia, con un paesaggio collinare a terrazze, gli ulivi e le strade accidentate. Poi però iniziavano posti di controllo abbandonati, cartelli stradali in inglese, arabo ed ebraico, poco prima degli insediamenti ebraici, che si integravano in quel paesaggio come degli ufo. Quei viaggi di lavoro avevano le caratteristiche di un'escursione scientifica in un parco dei divertimenti.
II più delle volte andavamo a Nazareth. I miei colleghi, israeliani di sinistra di origine europea, non facevano che lodare Nazareth, dicevano Meraviglioso e Qui sì che si mangia bene, ma erano soltanto commenti legati alla buona intenzione di mantenere alto l'umore di tutti, ostentata political correctness. Nazareth fu una straordinaria delusione: una cittadina con molti problemi, un grande mercato e una chiesa gigantesca, il cui valore artistico era soltanto di natura spirituale.
Di tanto in tanto accompagnavo dei delegati tedeschi ai loro incontri a Gerusalemme, presso qualche commissione della Knesset oppure nell'atrio di un hotel. In quelle occasioni sussurravo all'orecchio dei delegati ciò che i loro colleghi avevano appena detto in inglese a proposito del clima, e subito dopo sussurravo una possibile risposta in inglese, un complimento sull'aria condizionata o qualcosa del genere. I miei delegati ripetevano quasi sempre ciò che proponevo, ma con una pronuncia orribile. In quel modo però suonava per lo meno autentico.
Spesso la voce e la mimica dei delegati mi perseguitavano per tutto il giorno. Ero certa che con quel posto di lavoro Windmühle avesse voluto vendicarsi di me, tuttavia in quel momento ero contenta.
Capitolo 5.
L'asfalto odorava di pioggia ed era grigio come il cielo. Stavo aspettando un autobus per Gerusalemme. Nel tardo pomeriggio del venerdì chiudeva tutto, lo Shabbat era sacro e il divieto di lavorare assoluto.
"Il settimo giorno è Shabbat, sacro all'Eterno; chiunque lavorerà in questo giorno sarà messo a morte" è scritto da qualche parte nella Torah, se ben ricordo. Dato che entro un'ora non ci sarebbero più stati pullman in circolazione, l'autostazione di Tel Aviv era gremita. La pioggia si fece più forte, i viaggiatori si accalcavano nella soffocante sala d'attesa. Di fronte a me era seduta una giovane con l'uniforme dell'esercito che si stava mettendo lo smalto alle unghie. Sul sedile accanto al suo c'erano una minuscola borsa e una mitraglietta. Alla sua destra c'era un uomo in shorts blu reale, con una kippah bianca fissata alla sua testa di riccioli rossi da due grandi fermagli. Alle sue spalle due tailandesi di età indefinita stavano conversando ad alta voce.
Arrivò l'autobus e salimmo a bordo uno dopo l'altro. L'aria era calda e viziata, i finestrini erano appannati dall'interno. Come sulla maggior parte delle corriere israeliane, anche lì l'atmosfera era tesa. Tutti si scrutavano a vicenda, donne e bambini di solito non destavano sospetti, gli anziani neppure, erano soprattutto i giovani a indossare cinture-bomba. Ogni accenno di pancia appariva sospetto.
Una coppietta in uniforme prese posto sul sedile di fronte al mio.
Lei era più alta di lui, snella, bionda e truccata con cura. Lui aveva uno sguardo vivace, intelligente e un fisico pesante che manovrava con grazia nello stretto corridoio. Lei rideva delle storielle che lui le sussurrava in russo. Si baciavano a ogni piè sospinto. Per l'invidia avevo degli spasmi al cuore, perché non ricordavo di aver mai riso tanto quando Elisa mi raccontava qualcosa, e pensai di avergli fatto torto in quel modo.
Aspettavano davanti all'autostazione. Ori mi corse incontro, mi abbracciò e mi diede un veloce bacio sulla bocca. Era spensierato e fiducioso, come uno che non fosse mai stato ingannato in vita sua. Forse era anche a causa della sua età, aveva appena ventidue anni, aveva già fatto il militare e pensava che la vita fosse ben disposta nei suoi confronti.
«Sono così contento che tu sia qui» disse Ori. «Lei è mia sorella, Tal».
Tal mi porse la mano, che io tenni nella mia un po' più a lungo del necessario.
Ori prese la mia borsa, se la mise in spalla e con un cenno chiamò un taxi. Io continuavo a fissare Tal. Aveva lunghi capelli ricci biondo scuro e occhi nocciola che mi ricordavano la carta vetrata. Inoltre sul suo viso notai qualcosa che c'era anche nel mio, e non era nulla di buono.
Mangiammo nella Città Vecchia. Per strada incontrammo ebrei ortodossi con il vestito della festa per lo Shabbat, con splendidi scialli e cappelli di pelliccia.
Il locale era grande e arredato con semplicità, piastrelle di marmo chiaro sul pavimento e alle pareti, molto falso oro in cattivo stato e piccole composizioni di fiori artificiali sui tavoli.
Il nostro cameriere era un uomo magro, con folti baffi e i canini doro.
Passò controvoglia uno straccio non troppo pulito sul tavolo, per poi schiaffarci i menu sotto il naso. Quando lo ringraziai in arabo e chiesi una limonata fatta in casa, i suoi occhi si illuminarono. Ori e Tal erano stupiti almeno quanto il cameriere. Mi chiese se fossi un'araba del 1948. Risposi di no. Il suo volto allungato, ossuto e un po' arrossato mi osservò con aria interrogativa.
Ori mi fissò irritato, il cameriere captò il suo sguardo e, divertito, mi chiese in arabo: «Da dove viene, signorina?» Parlava con l'accento morbido e quasi cantato del dialetto palestinese, un suono che amavo, dato che mi ricordava un po' il libanese e quindi Sami.
«Dalla Germania». In questa situazione mi parve la risposta più semplice.
«Mio cugino vive in Germania, un bel Paese. Ma laggiù non si studia l'arabo».
«Io l'ho studiato».
«Vero. Con il suo arabo standard, lei sembra una conduttrice del telegiornale» rise.
«Cosa dovrei fare? All'università ci insegnano quasi solo il fusha; è raro che si studino gli 'amma, i dialetti» mi difesi.
«E lei quali ha studiato?»
«Il libanese» risposi e mi sentii arrossire.
Il cameriere mi sorrise. «E suo marito?» chiese.
Ori sollevò il sopracciglio destro con fare interrogativo.
«Non sono sposata. Sono un'interprete».
«Ebraico-arabo?» mi domandò.
Scossi il capo: «Traduco russo e francese».
Il cameriere annuì: «Il francese, romantico ma inutile. Il dessert lo offre la casa» diede un colpetto sulla spalla a Ori e si avviò in fretta verso il tavolo seguente.
«Parli arabo?» mi chiese Ori.
«Sì» risposi.
«Come mai?» domandò Tal.
«Che significa come mai?» replicai.
«Parli l'arabo ma non l'ebraico, è davvero strano» osservò lei.
«Che senso ha studiare una lingua poco parlata come l'ebraico, quando si può imparare una lingua ufficiale dell'oNU?»
«Il tuo arabo non è affatto male» disse Ori. Tal si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto.
«E tu lo sai l'arabo?» chiesi io a Ori.
«Solo quello che ho imparato nell'esercito, ma loro non lo vogliono sentire» rispose Ori. Tal si mostrò contrariata, Ori se ne accorse e io vidi lo sforzo che dovette fare per restare calmo.
«Un mio amico parla un arabo fluente. Il suo arabo è addirittura migliore di quello della maggior parte degli arabi» commentò Ori.
Deglutii.
«Soltanto perché lavora per i servizi segreti». Il vestito di Tal era di un blu-nero cangiante, al collo e fra i capelli scintillavano dei gioielli doro.
«Ero là anch'io» disse Ori.
«Allora dovresti sapere bene ciò che succede da quelle parti».
Tal si interruppe per un istante, rossa di rabbia. Ori la fissò ostile.
Tal si riappoggiò allo schienale. «Del resto è facile parlare. Hai fatto il militare seduto davanti a un computer. Non eri là fuori, non sai un bel niente».
Il cameriere si era messo a guardare il nostro tavolo con aria sprezzante.
«Bene, sei l'unica in famiglia ad aver combattuto. Ora mi rinfacci di non essere stato in un'unità combattente? Avrei dovuto perdere una gamba per questo Paese? O un braccio? Cosa avresti preferito?»
Tal si alzò, uscì e si chiuse la porta alle spalle sbattendola.
«Riusciremo mai a fare due chiacchiere senza mettere in discussione tutto quanto il sionismo e la storia di Israele?» Ori appoggiò i gomiti sul tavolo.
«Vado a cercarla».
«Ecco, sì, lasciami solo».
Tal era davanti al ristorante e stava fumando. Mi misi al suo fianco. Un gruppo di ebrei ortodossi ci passò in fretta accanto, avevano delle buste di plastica sui cappelli per proteggersi dalla pioggia.
«Io non li glorifico. Credo che la nostra cultura e quella palestinese siano sostanzialmente differenti. Nella cultura araba le donne non hanno diritti e penso che ci siano anche un sacco di altre stronzate. Per me la questione è che si tratta del mio Paese. Amo il mio Paese, ma non la situazione in cui si trova. Vorrei vivere in uno Stato libero e democratico».
«ok» dissi io, irritata.
Continuammo a fumare in silenzio, il sole tramontò in fretta, una rapida successione di rosa, arancione, violetto e lilla, poi la luce scomparve.
Quando rientrammo, la mano di Tal mi sfiorò il culo.
Quella sera mi fermai a casa di Ori. Gli avevo detto che era stato uno sbaglio andare a letto con lui e che non sarebbe più capitato, e poi gli raccontai di Elisa e del fatto che al buio non riuscivo più a ricordare la sua faccia. Ori era stato ad ascoltarmi paziente, senza parlare, e mi aveva abbracciato a lungo e aveva acceso la luce in corridoio. Mi tenne stretta senza dire nulla, mi faceva così bene che non riuscivo più a smettere di piangere. Piangevo per quanto mi sentivo bene. Piangevo perché mi teneva sempre più stretta. Piangevo perché le mie lacrime non lo imbarazzavano. E piangevo perché non se ne sarebbe andato finché non avessi smesso di piangere. Quando smisi di piangere si addormentò all'istante. Esausto. A causa mia. Mi alzai, mi vestii, gli lasciai un messaggio e tornai a casa.
Capitolo 6.
Una settimana dopo Tal mi invitò a cena. In realtà non ci sarei voluta andare, ma poi ero troppo agitata per disdire.
Per giunta avevo trascorso la mattinata con Hannah e la zia n. 13 allo Yad Vashem. Dopo una visita approfondita e prostrante al memoriale, la zia n. 13 ci aveva invitato a fare uno spuntino. Nella caffetteria climatizzata dello Yad Vashem ci aveva raccontato della ristrutturazione della sua casa, che era iniziata perché voleva prendere un televisore nuovo, lo stesso che la prozia n. 7 si era comprata di recente. Il nuovo televisore però non ci stava sulla parete, ragion per cui aveva fatto murare una finestra. Oltre a ciò, in un grande magazzino del fai da te aveva visto un bel parquet in offerta speciale e l'aveva subito acquistato. Tuttavia, dato che la zia n. 13 voleva risparmiare, quello che aveva comprato non bastava e nel frattempo il negozio lo aveva terminato. Ne aveva dovuto comprare un altro tipo, simile al primo, ma poi si era visto che quest'ultimo era più spesso dell'altro. A quel punto non sapeva più cosa fare. Gli arabi che lavoravano per lei dissero che avrebbe dovuto rifare tutto da capo, ma la zia n. 13 li accusò di jihadismo. Alla fine disse che voleva proprio raccontarci la fuga di mia nonna dai tedeschi.
Mi affrettai a dirle che quella storia la conoscevo già, perché temevo di non riuscire mai più ad andarmene dallo Yad Vashem.
«Ma di certo non sai i dettagli» disse Hannah, al che la zia n. 13 le lanciò un'occhiata soddisfatta.
«Penso proprio di sì» ribattei io.
«Non dobbiamo dimenticare nulla» disse la zia n. 13,
«Certo che no» dissi io. «Ma non è sufficiente».
«Cosa vuoi dire?» chiese Hannah.
«Anche i coloni fanatici commemorano l'Olocausto» risposi io.
«Anch'io sono una colona» disse la zia n. 13.
Mi morsi la lingua.
Tal abitava a Neve Tzedek, non lontano dal mercato in cui le comprai dei fiori; mentre li pagavo cercai di convincermi che sarei sempre potuta andarmene a casa a guardare Tatort oppure a chattare con Cem. Durante quelle conversazioni con Cem a volte, in realtà sempre, chiedevo notizie di Sami, visto che non volevo avere alcun contatto diretto con lui. Il perché non lo sapevo nemmeno io. Interrogai Cem, ma lui non voleva cooperare e continuava a ripetere: «Perché non lo chiami tu?»
Al citofono, Tal mi invitò a entrare. Quando varcai la soglia, lei era in cucina che si occupava di un grosso pezzo di carne sul piano di lavoro accanto al lavello. Mi sorrise e mi diede un tenero bacio su una guancia, fece sgocciolare la salsa dal petto d'anatra, tenendolo in mano.
«Mi occorre ancora qualche minuto, se ti va fatti un giro per l'appartamento» disse. Indossava un vestito nero con un profondo scollo sulla schiena e si era annodata in vita un grembiule a quadretti rossi e bianchi. Mentre finiva di marinare con cura il petto d'anatra, osservai con attenzione i tatuaggi che aveva sulla schiena.
«Mio fratello sarebbe geloso se ti vedesse qui» Tal mi fece un sorriso strano e stappò il vino.
«Non sei obbligata a raccontarglielo» le suggerii, controllando il mio tono di voce.
Riempì per primo il mio bicchiere e mentre il sapore del vino si diffondeva in bocca, Tal mi descrisse nei dettagli la zona di produzione. La bottiglia proveniva dai vigneti dei suoi genitori. Poi mi condusse in salotto, aveva un piglio sicuro e determinato. Sulla tavola c'erano mucchi di scampoli di tessuto e gomitoli di lana e al centro una macchina da cucire. Di fronte a noi, fissate con gli spilli alla parete porosa, erano appese delle foto in grande formato di giovani donne travestite in modi incomprensibili. La sua coinquilina aveva appena preparato un esame, spiegò Tal, e aggiunse che diventava nervosa se qualcuno toccava le sue cose, quindi, se non avevo nulla in contrario, era meglio che mangiassimo sul divano.
Spense la luce, accese alcune candele quasi consumate e scomparve in cucina. Si sentirono rumori di stoviglie, poi ritornò con due piatti di zuppa. Con le mani sudate, scivolai sul bordo del divano.
Mentre stavo mangiando la prima cucchiaiata, lei mi osservò impaziente: «É una zuppa di castagne, una ricetta di mia nonna, prima si fanno caramellare le castagne, poi le si bagnano con il brodo e si aggiunge del vino bianco. Quando la zuppa è pronta, ci metto un goccio di sherry, la frullo e la insaporisco con le spezie».
Una delle candele si spense. Ormai nella stanza era quasi buio. Tal si chinò su di me.
«Pensavo che la cucina israeliana fosse fatta soprattutto di insalate e salse» dissi, al che Tal scoppiò a ridere e mi lasciò stare.
La carne era tenera, mi parve di riconoscere cannella, anice stellato, bacche di ginepro e un sentore di dattero. Servendo del riso alle erbe fresche, Tal mi sfiorò quasi per caso un ginocchio. Percepivo l'aroma delle erbe che si confondeva con il delicato profumo di Tal e mi misi a studiare il suo corpo. Non parlammo molto, perché non riuscivamo a trovare un argomento comune di conversazione. Tal continuava a riempire i bicchieri.
Uno scarafaggio attraversò il salotto. Lo vedemmo al chiarore dei lampioni che proiettavano una pozza di luce sul pavimento. Tal balzò in piedi e lo schiacciò con una scarpa, sentimmo bene
lo scricchiolio della corazza. Poi raccolse l'insetto con il suo tovagliolo e lo fece sparire in cucina. Mi venne più vicina, mi scostò una ciocca di capelli dal volto. Mi girai e dissi: «Grazie mille! Davvero un'ottima cena».
«Aspetta, c'è ancora il dessert» mi sussurrò all'orecchio Tal, posandomi una mano sul collo.
«Non lo voglio, il dessert».
«Questo lo vorrai, te lo prometto».
Mi passò le unghie sul polso e tornò in cucina. Ci rimase un bel pezzo e quando riapparve aveva una ciotola in mano. Fragole ricoperte di cioccolato. Che cosa patetica, feci a tempo a pensare prima che lei mi infilasse una fragola in bocca. Mentre masticavo, mi prese la mano e disse che dovevo seguirla sul tetto.
Lassù c'erano una grossa, brutta pianta di aloe e un divano che puzzava di urina. Ci fermammo accanto alla balaustra. La notte era tersa e silenziosa. Nominai le costellazioni, indicai i pianeti uno a uno e ne parlai come se fossero i miei migliori amici. Tal mi stette a sentire molto interessata e accese un fiammifero. Tacqui. Il fiammifero si spense. Non saremmo riuscite a restare ancora a lungo una accanto all'altra e in effetti di lì a poco, casualmente, la mano di Tal si infilò nella scollatura della mia camicetta, la sua bocca finì vicinissima alla mia, mentre lei mi traeva a sé. La sua bocca sapeva di fragole e cioccolato.
«Buonanotte» dissi in tono deciso, togliendomi le sue mani di dosso. Lei scrutò il mio viso con attenzione, annuì e mi condusse giù. La luce sulle scale era abbagliante, Tal esitò, sulla soglia mi carezzò una guancia e disse: «A presto».
A casa presi più sonniferi possibile, mi appoggiai con la schiena alla finestra e mi misi a fissare il letto. Ero come paralizzata, non riuscivo a girarmi verso la finestra, perché sapevo che giù in strada avrei visto il cadavere di quella donna. Non riuscivo più a sopportare le notti. Avevo paura che Elias morisse di nuovo accanto a me. Capitava spesso che mi svegliassi nel cuore della notte perché credevo di sentirlo.
Tal era attivista. Comunista. Femminista. Soprattutto era complicata. Il suo attivismo e la sua ideologia costituivano una facciata che nessuno doveva oltrepassare. Tal era una delle persone più interessanti che conoscessi, soltanto che non avevo idea di chi fosse in realtà. Era iscritta a Hadash, il partito comunista arabo-israeliano, e sosteneva Breaking the Silence e Anarchists Against The Wall. Trascorreva gran parte del suo tempo a manifestazioni e meeting politici.
Tal aveva iniziato il servizio militare in un'unità scelta ed era di stanza nei Territori occupati. Dopo sei mesi di addestramento e quattro settimane di servizio nel corso della Seconda intifada, si recò nell'ufficio del colonnello e disse che avrebbe preferito stare in carcere per il resto della sua vita piuttosto che rimanere un giorno di più nell'esercito.
Anziché in cella, venne messa nella pasticceria dell'esercito. Dopo tre settimane tornò nell'ufficio del colonnello. Questi la osservò a lungo, poi la invitò a sedersi. Si accese una sigaretta e le porse il pacchetto. Tal non riusciva a stare seduta per l'agitazione. Il colonnello, parlando lentamente, la sommerse di parole: «In realtà non è di mia competenza. Io sono qui solo come riservista. Tra due settimane sarò di nuovo a casa. Sono un cuoco. Lavoro in un piccolo ristorante a Tiberiade, dalla mia cucina si vede tutto il lago. Non capisco cos'abbia da ridire contro la pasticceria».
«Voglio andare a casa» disse Tal.
Venne congedata dall'esercito per problemi di natura ideologica e tre giorni dopo abbandonò il Paese. In Tailandia e Vietnam provò tutti i tipi di droghe, ballò, si ubriacò e andò a letto con altri israeliani che, come lei, si erano appena lasciati alle spalle il servizio militare. In India per errore fece una torta con il detersivo per il bucato, ma la verità è che non voleva mai più tornare in Israele. A un certo punto, però, venne ritrovata dall'Assistenza psicologica israeliana, la cui unica rappresentanza all'estero si trova in India e ha competenza soltanto su casi come quello di Tal, e venne prima disintossicata e poi caricata su un volo El-Al. Arrivata in Israele, aderì a Breaking the Silence, un'organizzazione che incoraggia i soldati a parlare della situazione nei Territori occupati. Da quando Tal non faceva più uso di droghe, si dedicava a ciò che aveva visto e a ciò che aveva fatto.
Non mi avvisava quando stava per venire a trovarmi, a volte suonava alla mia porta nel cuore della notte, a volte mi piombava in ufficio. Aveva due gatti persiani. Erano bestie grosse e pigre, ipernutrite e con la pelliccia arruffata. Tal se ne prendeva cura a periodi. Quando era in un momento buono, ne spazzolava uno, mai tutti e due, riempiva le loro ciotole di prelibatezze per gatti e ce li aveva sempre in braccio. Ma quando attraversava una delle sue fasi complicate, gli animali non ricevevano cibo per giornate intere. Trattava anche me come i suoi gatti, a volte era fin troppo affettuosa, a volte gelida. Tutte e due sapevamo cosa volesse dire la guerra e com'era veder morire qualcuno.
Lasciar morire qualcuno, I miei incubi si trasformarono in allucinazioni. Mentre traducevo o stavo bevendo un succo d'arancia, mi apparivano la stoffa celeste che si impregnava lentamente di sangue e la pozza di sangue sull'asfalto. Bastava che allungassi le mani. Potevo toccarla. Sentivo la voce del suo assassino. Sempre più chiara. La maggior parte delle canne di fucile che vedevo erano reali.
Capitolo 7.
In ufficio regnava il buon umore, dato che il nostro capo era in vacanza. Una collega aveva persino portato una torta per celebrare la giornata. Anch'io non stavo facendo niente, a parte navigare su internet. Quindi decisi di chiamare Sami in California dal telefono dell'ufficio. Andai in cucina e mi chiusi la porta alle spalle. Quella però era l'unica stanza senza aria condizionata in tutto l'edificio, quindi aprii la porta del frigorifero e mi piazzai lì davanti per un po'.
Sami rispose al telefono e, senza perder tempo con le formule di cortesia, disse subito: «Non ne posso più, accanto a me è venuto ad abitare un arabo».
«E allora?»
«Dai, Masa, lo sai com'è. Quello è un vero arabo. Un egiziano, nato e cresciuto laggiù».
«Anche tu sei arabo» obiettai.
«Appunto. Quando l'ha scoperto, è cominciata questa storia del cazzo. Ha iniziato a invitarmi di continuo da lui, a venire da me senza essere invitato, a farsi prestare cose che non restituisce mai. Un bel giorno ha anche scoperto che Minna è palestinese e a quel punto mi ha sputato sui piedi».
«Che?»
«Mi ha sputato sui piedi». Sami rise. «E non è finita lì».
«Che altro è successo?» gli chiesi.
«Mi ha anche fatto un discorsetto: voi siete fuggiti, avete abbandonato la vostra terra, le vostre case e le vostre famiglie. Siete ancora vivi solo perché vi siete compromessi con gli occupanti». Sami mi riferiva questo discorso in arabo, imitando l'accento egiziano, pronunciando le parole in modo molto duro e parlando così forte e in fretta da sembrare isterico. Non riuscivo a smettere di ridere, soprattutto perché Sami di solito ci teneva tanto al suo dialetto libanese, che era assai più dolce e leggero di quello egiziano.
«Dopodiché ha cominciato a insultarmi come se fossi il rappresentante di tutti i palestinesi. Dovevi sentirlo. Vigliacco, vergogna del popolo arabo ecc. ecc. E poi, l'apoteosi. Le vostre figlie vanno a letto con gli ebrei».
Restai in silenzio.
«Masa? Sei ancora lì?»
«Cosa gli hai risposto?» domandai esitante.
«Che è un'assoluta scemenza. Le mie figlie non andrebbero di sicuro a letto con gli ebrei, non ce le ho neppure, delle figlie. A prescindere da questo, gli ho detto che io stesso sono andato a letto con un'ebrea, e non solo: me ne sono anche innamorato». Sami disse questa frase a voce molto bassa, quasi impercettibile.
Elias era al mio fianco, stava affettando le verdure con movimenti rapidi e precisi, chiuso in se stesso. Gli era cresciuta la frangia, facendolo assomigliare un po' a Harry Potter.
Avevo un nodo in gola, avrei potuto dire qualcosa e invece allungai una mano verso Elias e chiesi: «E poi?»
«Be', ieri qualcuno ha fatto una svastica sulla mia porta di casa».
Mi venne in mente un episodio accaduto in uno zoo americano: un ragazzo era rimasto così incantato da un cucciolo di pinguino da entrare di soppiatto nel recinto degli animali e infilare il pinguino nel suo zaino. Mentre se la portava a casa, la bestiola era soffocata. Sami mi aveva raccontato questa storia quando gli avevo detto per la prima volta che lo desideravo, e con questo intendevo che lo amavo. Non mi perdonò mai di aver usato quel termine. E aveva ragione, come avrei appreso in seguito.
Il giorno seguente mi diedi per malata, andai sulla terrazza di casa a guardare il mare. L'acqua scintillava. L'aria era calda. Tornai a letto.
Mi sforzavo di chiamare i miei genitori. Quelle conversazioni erano dure, io continuavo a recitare la parte della figlia di successo, ma non mi credevano più e andavano in cerca delle crepe nella facciata. Però il mio lutto non era una malattia, né Israele era un sanatorio. Papà mi aveva persino spedito un telescopio, che aveva passato a stento i controlli doganali.
In realtà non sapevo perché non riuscissi a parlare con loro. Dopo pochi minuti ne avevo abbastanza, non mi veniva più in mente nulla da dire e non li stavo neppure a sentire, sebbene fosse proprio con quell'attività che mi guadagnavo da vivere. Avrei voluto essere più premurosa nei loro confronti, più interessatale invece li trascuravo e mentivo sul mio stato.
D'altra parte quando parlavo al telefono con mia madre, mi prendeva la nostalgia di una casa, che peraltro non ero in grado di localizzare. Ciò che desideravo era un luogo familiare. Di fatto non c'era nessun luogo che io considerassi familiare: nel concetto di patria per me era sempre contenuto quello di pogrom. Ciò che desideravo erano persone familiari, solo che uno era morto, gli altri non li sopportavo più. Perché erano vivi.
Tal e io stavamo guardando il tramonto. L'aria era come una trapunta stesa su di noi. Quel giorno il sole declinò senza effetti di luce spettacolari, le onde si rincorrevano sulla riva del mare e l'ultimo chiarore scomparve piano dietro i frangiflutti. Ogni cosa aveva un suo ordine. La spiaggia era deserta, a parte poche coppiette e qualcuno che correva da solo.
Lei era accanto a me, con la testa girata di lato e gli occhi chiusi. Osservai il suo ventre, che si muoveva su e giù. Si era fatta tatuare sulle scapole due grandi uccelli, neri e molto nitidi. Potevano essere merli o pettazzurri. Si era raccolta i capelli in una crocchia, quindi si vedeva anche il tatuaggio che aveva sulla nuca, quattro minuscole lettere dell'alfabeto ebraico: Aleph, He, Beth, He. Ahava.
Amore. Le massaggiai la schiena, prima lungo la colonna vertebrale, poi le spalle e le braccia. Quando vedevo Tal, provavo un leggero nervosismo, un sottile malessere unito a dei lievi conati di vomito.
Forse si trattava soltanto di colmare un vuoto e Tal andava bene come chiunque altro.
Tal fece un sospiro di soddisfazione e un po' alla volta si rilassò. Le slacciai il reggiseno del bikini. Con la punta delle dita le massaggiavo i singoli muscoli, poi le strofinai la schiena con le mani aperte, infine mi chinai su di lei e con le labbra percorsi tutta la sua schiena, dal coccige fino alla nuca.
Un aereo militare ci passò sopra la testa, lasciando una scia di condensa nel cielo.
«Forse stanno finalmente bombardando l'Iran».
Non sapevo se scherzasse o no.
«Un Douglas A-4» disse Tal,
Le scie di condensa svanirono. Presi una bottiglia d'acqua dalla borsa.
Si alzò una brezza fresca. Mi stesi su di lei e respirai l'odore della sua pelle.
Capitolo 8.
Ci misi un po' a raccapezzarmi. Dopo aver guardato la data
sul calendario, avevo preso un mucchio di sonniferi e in quel momento non riuscivo a orientarmi. Mi svegliarono i martelli pneumatici, il cui rumore entrava in camera mia dalla finestra aperta insieme a una delicata brezza marina.
Corsi scalza in terrazza, perché dovevo assicurarmi che ci fosse ancora un mondo fuori dal mio appartamento. C'era. Il sole ardeva nel cielo, uomini e donne anziani camminavano verso la spiaggia, i clacson delle automobili suonavano e la ristrutturazione delle case in fondo alla strada procedeva a pieno regime. Nella via in cui abitavo c'era sempre casino, alla mattina arrivavano i pesanti camion della nettezza urbana, poi iniziava il trambusto dei cantieri, martelli, trapani e più tardi gli autobus, le macchine e gli scooter. Anche i passanti non andavano sottovalutati.
Rientrai, mi piazzai sotto la doccia. L'acqua era fredda perché mi ero dimenticata di accendere il boiler. Mi asciugai, andai in cucina, sciolsi un'aspirina in un bicchiere d'acqua e mi feci un caffè turco.
Presi la foto di Elisa dal portafoglio, la appoggiai al muro e accesi una candela.
Rimanevo spesso a osservare le sue foto, ogni giorno ripercorrevo con il pensiero la nostra ultima notte: "perché non mi ero svegliata prima e come avrei potuto impedire la sua morte?" Quella foto era stata scattata in Marocco, durante il nostro unico, però lungo viaggio insieme. Elisa sorrideva all'obiettivo e io nascondevo la faccia nei suoi capelli. Mentre fissavo la foto, sentii il suo odore nel naso e mi vidi di fronte la tramatura della sua pelle.
Quel giorno mi ero rivolta a un uomo con la bocca piena di denti d oro in una sala da tè e gli avevo chiesto di fotografarci. L'uomo aveva subito detto di essere una guida turistica e aveva cercato di rifilarci una gita organizzata. Lo ringraziai e rifiutai, mentre Elias si occupava di sistemare e verificare la macchina fotografica con meticolosa precisione prima di dargliela. Ne avevo abbastanza. Sciolsi nell'acqua un'altra aspirina e uscii di casa.
Il convegno era stato organizzato dall'ambasciata francese e si teneva in un hotel non lontano dal mio appartamento. Percorsi in fretta il lungomare fino all'albergo, alla sinistra avevo il mare e sedie a sdraio blu, alla mia destra torri che sembravano alveari e ospitavano degli hotel. La strada era intasata di taxi e scooter. Arrivai sudata e senza fiato, all'entrata aprii la borsa per il controllo di sicurezza e mi fecero passare. Alla reception ricevetti il tesserino di riconoscimento e andai subito in cabina.
Mi avevano chiamato con scarso preavviso, come sostituta e dopo un po' di tira e molla. Quindi ora tremavo per l'agitazione. Mi presentai e gli altri due, l'interprete dall'ebraico e uno di quelli dall'inglese, mi strinsero la mano. Venimmo a sapere che il responsabile di cabina era introvabile, proprio come il collega con cui avrei dovuto condividere la cabina. Un po' alla volta arrivarono altri interpreti. Nessuno sapeva nulla, mancavano poche ore all'inizio del convegno e non ci era chiaro dove fossero gli organizzatori e non avevamo neppure le cartelle di lavoro o il programma degli interventi. Avevo le mani fradice di sudore.
I colleghi avevano formato un capannello, sembravano rilassati e mi garantivano che quella conferenza sarebbe stata un gioco da ragazzi. Tra di loro c'era più di un interprete leggendario.
Tremavo sempre più. Un collega mi prese per un braccio e indicò un uomo che si avvicinava fischiettando. Il nostro responsabile di cabina era un tipo con le gambe e le braccia lunghe e sottili, gli occhi molto ravvicinati e portava degli occhiali con la montatura a giorno. Il suo aspetto aveva qualcosa di disarmante, ma si trattava di un'illusione ottica, in realtà aveva una pessima fama per i suoi accessi d'ira. Si presentò, distribuì le cartelle di lavoro e ci assegnò le cabine. Quando chiesi del mio collega di cabina, mi fece un sorriso subdolo e disse: «Sono io».
Risposi: «É un onore per me» e deglutii.
«Questo lo vedremo» replicò lui. «Lei è la più giovane delle nostre collaboratrici e, se non mi sbaglio, non ha mai lavorato per noi. La terrò d'occhio. Deve sapere che questa sarà una conferenza molto tranquilla, si parlerà solo di scambi culturali. Comunque lei si concentri e, se si dovesse trovare in difficoltà, passi subito il microfono. Esigo da lei la massima professionalità!»
Dalla mia cabina dominavo con lo sguardo la sala: solo tre persone ascoltavano il canale audio in russo. Ciò mi tranquillizzava un po', così mi concentrai sul relatore, seguendo i suoi gesti su uno schermo per videoproiezioni.
Prima della pausa caffè dovevo tradurre il discorso di benvenuto dell'attaché culturale francese e il primo pezzo dell'intervento di un professore emerito sull'identità ebraica nella letteratura francese dopo il 1990,
Quando l'attaché iniziò a esporre, il cuore mi batteva così veloce che ero sicura che l'avrebbero sentito anche i miei tre ascoltatori. Ma l'attaché parlava lentamente e impiegò il primo quarto d'ora per salutare uno per uno la maggioranza dei presenti. Poi lesse ad alta voce i nomi dei relatori e il titolo dei loro interventi. Tutte cose che si potevano leggere su un secondo schermo presente in sala. Quando iniziò a elencare gli obiettivi del convegno, il mio collega di cabina bussò e mi diede il cambio. Mi sentii presa per il culo.
Potei riprendere mezz'ora dopo, l'attaché stava ancora parlando, lento e circospetto, faceva delle battute che io traducevo in russo in maniera molto libera. I miei ascoltatori sorridevano. Il discorso non era granché impegnativo e io procedevo a una velocità ragionevole. Il volto del mio collega si faceva sempre più rilassato. Quando iniziò l'applauso di cortesia per il primo relatore, mi lasciò addirittura per un momento sola in cabina. Il professore invece non fu altrettanto semplice; sebbene si occupasse di letteratura contemporanea, utilizzava un lessico antiquato. E andava a rotta di collo.
L'aria lì dentro era sempre più soffocante, all'improvviso mi ritrovai indietro di una frase intera, il mio collega di cabina continuava a scrivere termini tecnici su un foglietto, che poi spingeva verso di me.
Ma tutto ciò di cui avevo bisogno era una piccola pausa del relatore: appena si fermò un istante per schiarirsi la gola, lo raggiunsi parlando più in fretta.
Dopo l'annuncio della pausa caffè, tutti e due tirammo il fiato.
Il responsabile di cabina mi fece persino un sorriso e mi domandò in francese: «Dove ha studiato?»
«In Germania».
«Niente male. Avrà di certo successo».
Poi corse fuori e io mi rinchiusi in bagno per tutta la durata dell'intervallo.
Quella sera arrivai a casa stremata. Ero paralizzata dalla stanchezza.
La candela di fronte alla foto di Elisa si era consumata. Fuori c'era una betoniera ancora in funzione.
Mia madre aveva lasciato un messaggio in segreteria. Erano stati al cimitero e avevano messo un sasso sulla tomba al posto mio. Mi chiedeva di richiamarla subito. Quel giorno la morte di Elisa acquisì un carattere definitivo: un dato di fatto che non concedeva più speranze.
Capitolo 9.
In Germania era autunno da un pezzo, ma qui continuava a essere piena estate. Nell'androne di casa, i cadaveri rinsecchiti degli scarafaggi si moltiplicavano. Le giornate si succedevano sempre uguali. Nei fine settimana e nei giorni festivi andavo in spiaggia oppure giravo per boutique. Non compravo quasi mai nulla, di tanto in tanto mi lasciavo convincere da una commessa a provare un vestito. In Frishmann Street scoprii un negozio che vendeva vestiti usati provenienti da Berlino.
Rielaborati. All'israeliana. In generale quell'estate tutti amavano Berlino. La maggior parte delle persone ci erano già state e volevano tornarci prima possibile.
A volte andavo a trovare Ori in laboratorio, nella parte sud di Tel Aviv. Quella zona era un concentrato del volume e dell'intensità della città. Profughi sudanesi, badanti filippine, artisti, studenti, vivevano tutti a Florentin. Ori faceva il falegname, con la sua passione per il legno costruiva mobili grossi e massicci. Ci sedevamo sui gradini fuori dal laboratorio, con l'anguria e una birra gelata. A volte si sedeva con noi anche il titolare di una ditta di rivestimenti per mobili, tutta la via era piena di falegnamerie e l'Hoodna, il nostro bar preferito, non era lontano.
Solo le preoccupazioni che mi creavo da sola non si attenuavano: temevo che Tal avesse un incidente, me la immaginavo in moto, che faceva un frontale a tutta velocità con un camion. La moto andava a finire sotto la parte posteriore del camion e lei si ritrovava con il torace spappolato. Poteva cadere nell'androne di casa oppure essere aggredita. Un serial killer poteva avvicinarsi di soppiatto e piantarle un coltello nella schiena. Le mani di Tal che si muovono a scatti, mentre lei si sta lentamente dissanguando, e intorno a lei si allarga veloce una pozza di sangue. Ciò di cui avevo più paura era che le succedesse qualcosa a una manifestazione, che venisse colpita da una pallottola vagante oppure travolta da un mezzo blindato. Le possibilità erano molte. Accarezzavo l'idea di denunciarla alla polizia in forma anonima, ad esempio per la sua attività politica. Almeno in carcere sarebbe stata al sicuro.
La chiamai.
«Tutto bene?»
«Sì» rispose lei annoiata.
«Come mai hai il fiatone?»
«Non ho il fiatone».
«OK».
«Masa, c'è qualcosa che non va?»
«No».
«ok. Sono al lavoro. Non posso stare al telefono».
«OK».
«Metto giù».
«Non correre troppo».
«Non sto guidando, sono al lavoro».
«Voglio dire, quando torni a casa».
«Non sei mia madre».
«Mi preoccupo».
Tal sbuffò innervosita nel ricevitore.
«Ero nella West Bank. Non sarà certo il viaggio a uccidermi». «Da un punto di vista statistico muore più gente per gli incidenti stradali che per gli attentati terroristici».
«Tu non stai bene».
Riattaccò; non riuscivo a capire come potessi essere diventata dipendente da lei in così poco tempo. La maggior parte delle volte la chiamavo solo per sincerarmi che fosse ancora viva. Attendevo che lei rispondesse e appena sentivo la sua voce, riagganciavo. Se mi richiamava, non rispondevo. Dicevo che il mio telefono non funzionava bene. Il blocco della tastiera. Non potevo farci nulla. Tal me ne regalò uno nuovo.
Capitolo 10.
Il khamsin soffiava caldo e secco e non portava con sé niente di buono.
C'era afa e io sentivo il sapore della polvere in bocca e sulla pelle.
Ori mi aveva chiesto di accompagnarlo in un luogo di adunata nel Negev, avremmo preso la sua macchina, poi io l'avrei ricondotta a Tel Aviv e avrei potuto usarla per le tre settimane successive oppure trascorrere qualche bella giornata nel Sinai. Mi sottopose le diverse possibilità come avrebbe fatto un commerciante con le sue merci e io acconsentii subito. Aveva una voce così sfinita e abbattuta che non mi rimase altra scelta.
Mi aspettava sotto casa sua, con una divisa militare color cachi e un mitra in spalla. Appena lo vidi, mi sentii male. Pensai subito a Farid, che non era mai più tornato. All'improvviso mi ricordai che aspetto avesse, un ragazzo allampanato con un vuoto tra gli incisivi. Lo vidi scendere le scale con il giubbotto di mio padre, che gli stava grande.
Sulle spalle una borsa di tela. Ero sicura che non avrei più rivisto Ori. Ecco che effetto mi faceva Israele.
«Non ti lascio andare» dissi.
«Non essere sciocca».
«No».
Ori rise incerto.
«Non ti porto» ripetei in tono freddo.
«Va bene, vorrà dire che prenderò l'autobus».
Sentii che avrei potuto ucciderlo e che avrei preferito farlo io, piuttosto che aspettare la notizia della sua morte.
«Non voglio che tu vada» gli gridai. Due donne tailandesi ci guardarono stupite.
«Devo».
«Non devi un cazzo!»
Scosse il capo, mi afferrò con cautela per le spalle. Piagnucolando, gli chiesi di non andare. Lui mi accarezzò i capelli. Mi misi a gridare, chiamandolo Elias. Elias, Elias, Elias. Mi fissò molto tranquillo. Gli diedi dei pugni sulle spalle e lui mi strinse forte, soffocando le mie grida contro il suo petto. Cercai di prendere fiato, ma l'aria non arrivava, la lingua mi si stava gonfiando e mi chiudeva la gola, e l'aria non arrivava. E mentre tremavo senza riuscire a respirare e gli dicevo che non doveva andare, lui cercava di calmarmi, ma l'aria non arrivava. Ori mi portò a casa sua, con il mitra sulla schiena. Mi fece sedere con precauzione sul divano, mi mise una coperta sulle spalle, mi accarezzò la schiena, percorrendo tutta la colonna vertebrale fino al coccige. Quando mi sentii meglio, bevemmo un caffè e fumammo dell'hashish insieme. La sera lui raggiunse la sua unità.
Capitolo 11.
Splendeva il sole e c'era un caldo afoso, il sudore iniziò a scorrermi sulla pelle non appena misi piede in strada. Gelavo sotto il condizionatore mentre lavoravo a una traduzione che si stava rivelando difficile. Si trattava di uno studio sociologico con molte note a piè di pagina e un audace lessico tecnico, ma dato che era venerdì, l'ufficio era quasi vuoto e io mi concedevo delle generose pause. Non riuscivo a concentrarmi, guardavo fuori dalla finestra e mi sforzavo di programmare la serata, benché non avessi voglia di fare niente. Forse potevo uscire con Tal, magari lei avrebbe persino accettato, quindi mi sarei fatta la doccia, truccata, vestita e depilata e poi l'avrei dovuta aspettare in terrazza perché sarei stata in largo anticipo. Lei avrebbe disdetto all'ultimo momento e a me sarebbe toccato pormi degli interrogativi esistenziali. Tutto sommato poteva diventare uno Shabbat piacevole, che si sarebbe prolungato fino a tarda notte in una disperazione da anestetizzare con l'alcol.
Mi feci un caffè nel cucinino dell'ufficio, sul tavolo c'erano dei panini mollicci, non avevo idea di chi li avesse portati. Decisi di comprare dei burekas. Per strada vidi un uomo che camminava lento spingendo una bicicletta. Era cambiato appena. Passando, i nostri vestiti si sfiorarono e lo seguii. Scese per la strada, svoltò in una viuzza laterale, poi in un'altra, finché ci ritrovammo in King George Street. La via era affollata e a ogni passo dovevo schivare delle persone, era come se tutti si fossero uniti in un corpo collettivo che mi intralciava. All'incrocio con Bograshov Street parcheggiò la bicicletta di fronte a un piccolo negozio. Lo seguii all'interno, sulle grucce erano appesi dei vestiti in stile Goa-hippie, colori sgargianti, più sgargianti del solito. Avevo la gola secca, volevo qualcosa da bere, ma non avevo niente con me. Lui era in piedi accanto al camerino con dei pantaloni in mano e mi guardava con aria interrogativa, anche lui indossava degli indumenti mal assortiti. Però non era Elisa. La commessa chiese se poteva aiutarmi in un tono e un volume quasi isterici. Colori e rumori si mescolavano, come se nella mia testa fossero saltate delle valvole. Cominciai a tremare e sudare e corsi fuori, in strada, verso il mare. A un certo punto mi scontrai con una donna robusta, dei pomodori caddero dalla sua borsa della spesa e rotolarono sull'asfalto. Ultrarossi e ultrapolposi. Un soldato con delle rughe di espressione e una mitraglietta Uzi in mano mi chiese se stessi bene. La sua voce mi martellava i timpani. Io continuai a camminare tremando. Tutto era insopportabilmente sgargiante e rumoroso. Mi appoggiai a una parete, sentii una mano sulla spalla, gridai, me la tolsi di dosso e feci qualche passo in una direzione a caso. Corsi verso il mare. Quando la paura cominciò a placarsi, mi ritrovai nella sabbia.
Il mare era calmo. Chiusi gli occhi, cercando di ricostruire il viso di Elisa, ma non mi apparve nessuna immagine. Le ciglia erano castane o nere, aveva l'orecchio destro a sventola? Il tremore riprese violento e
io sudavo e tremavo e sudavo. Mi sedetti in un bar, ordinai del latte freddo.
Respiravo a fondo, gonfiando la pancia, e osservavo le persone che mi passavano accanto. Quando smisero di essere minacciose, andai in bagno e mi lavai via il sudore. Tornai a sedermi, chiamai in ufficio e dissi di essermi presa una storta e ordinai dell'altro latte. Lo vedevo, lui, lui, soltanto lui. Poi qualcuno dal lato opposto della strada mi fece un cenno e gridò il mio nome. Stavolta non era un'allucinazione.
Daniel, con il naso arrossato per il sole e un gigantesco zaino da viaggio, si avvicinò sorridendo.
«Sapevo che prima o poi saresti finita qui» disse, piazzando lo zaino sulla sedia accanto alla mia. Non era cambiato molto, aveva solo la pelle abbronzata ed era anche un po' ingrassato.
«Sono appena arrivato dal Libano, volevo farmi un'idea della situazione.
In qualche modo avevi ragione. Quello che fa Israele non va affatto bene. In questo momento sarebbe proprio un bel gesto restituire i Territori occupati».
«Anche nel 1967 sarebbe stato un bel gesto. Anche giovedì scorso. Non è questione di bei gesti. Sei un perfetto cretino».
Il mio cuore aveva smesso di battere all'impazzata e anche la luce stava cambiando. Scendeva la sera.
«Ma in questo momento! Pensaci!» disse euforico.
Lo interruppi: «Cosa stai dicendo? Un bel gesto? Anche non sterminare gli ebrei sarebbe un bel gesto. Come mai ti preoccupi per i palestinesi?»
«Ho insegnato in un campo profughi. Gli sono piaciuto molto. Sai, qualche volta abbiamo parlato del conflitto».
«E cosa gli hai raccontato?»
«Macché. Hanno quasi sempre raccontato loro a me. Quanto è brutta tutta la situazione. Con Israele. Tutte le ingiustizie e le guerre. Non immaginavo. E da te non si riesce a sapere un bel niente. Mi hanno detto che odiano gli ebrei. Vogliono che muoiano. Ma li ho corretti. Ho detto loro che odiare gli ebrei è sbagliato. Che non si può fare di ogni erba un fascio. Erano dei bambini. Sei, sette anni o giù di lì. Ho spiegato che non è colpa degli ebrei. Gli israeliani sì, possono tranquillamente odiarli».
Capitolo 12.
Avevo perso il controllo. Persino il controllo sul mio corpo.
Piantai lì Daniel, andai a casa e mi versai un bicchiere di vodka.
Appena l'alcol iniziò a riscaldarmi da dentro, mi misi sotto la doccia, lavando con il getto d'acqua fredda il calore della pelle, poi mi avvolsi in un asciugamano e buttai giù un altro bicchiere. Quindi presi il telefono, composi adagio il numero, come se l'avessi dimenticato e, quando dall'altra parte sentii Cem, urlai e riagganciai. Lui richiamò.
«Ho sbagliato numero» dissi.
«Bugia» rispose tranquillo Cem. «Come stai?»
Con il telefono in mano, uscii in terrazza. Era già buio, le zanzare svolazzavano intorno al fascio di luce dei lampioni. Sulla ringhiera c'era uno scarafaggio, mi tolsi le scarpe, centrai
lo scarafaggio, lo schiacciai e lo spazzai via con la scarpa.
Ricominciai a piangere, le lacrime mi venivano dal diaframma, dallo stomaco, dalle viscere e non riuscivo più a smettere e piangevo e piangevo. Un pianto smozzicato, uno staccato che mi toglieva l'aria. Le mie mani ripresero a tremare. Avevo paura. Ma stavolta sentivo il respiro di Cem all'altro capo della linea, all'altro capo del mondo, e dopo un po' anche il mio respiro tornò a essere tranquillo. Solo in quel momento Cem parlò: «Masa, tra poco vengo là». Cem arrivò davvero. Il buono. Il mio consolatore. Gli avevo chiesto al telefono cosa avrebbe voluto visitare, lui rispose che gli sarebbe bastato andare a Gerusalemme, del resto veniva per prendersi cura di me, non per aspettare il giudizio universale sul Monte degli Ulivi.
Non andammo da nessuna parte, restammo in spiaggia fianco a fianco, prestando attenzione che l'altro non si scottasse. Facevamo il bagno, ma l'acqua non rinfrescava e ci godevamo di più la doccia sulla spiaggia che il mare. Di fronte a noi, una nonna russa con i capelli bianchi giocava con il nipotino.
«Sarà dura per lui» disse Cem, indicando il bambino.
«Magari no».
Cem mi fissò beffardo. «Sì invece, presto si renderà conto di essere diverso da lei. Adesso pensa ancora che tutti siano uguali. Ma tra un po' si accorgerà di essere nero».
«Tu quando hai cominciato a sentirti diverso?»
«Alle elementari. In quarta, poco prima che venisse deciso chi poteva iscriversi al liceo e chi no. In classe arrivò un nuovo compagno.
Pierre-Marie. Le insegnanti erano pazze di gioia. Il bambino quasi non parlava tedesco eppure, dato che era francese, tutte lo ritenevano uno straordinario intellettuale e pensavano che nel giro di una settimana avrebbe parlato un tedesco perfetto. A quel punto mi ero guardato intorno: nella mia classe c'erano un sacco di musi scuri. Marcel parlava italiano, Georgi greco, Taifun turco, Farid e sua sorella gemella armeno e persiano. E tutti parlavamo anche tedesco, senza accento. Ma nessuno di noi veniva ritenuto abbastanza intelligente da poter frequentare il liceo, per noi era consigliabile andare alle scuole professionali o, nel migliore dei casi, all'istituto tecnico. I nostri genitori non ci avrebbero aiutato, secondo loro. Ripensavo a mio nonno, che aveva sempre detto a me e a mio fratello: Il turco è la lingua degli antenati, l'arabo quella delle preghiere e il persiano la lingua dell'amore. Che sciocchezza. Credo di aver deciso allora di imparare a parlare quelle lingue meravigliose meglio delle insegnanti e di sbatterglielo in faccia, insieme alla loro egemonia culturale».
La nonna infilò premurosa le pinne al nipote. Il mare era placido e blu.
«Più tardi iniziarono le solite domande: da dove vieni? Oppure: ti senti tedesco o turco? A sedici anni dovetti andare all'ufficio stranieri per il permesso di soggiorno. Voglio dire, ma che significa? Sono nato qui.
L'anno della maturità non mi lasciarono neppure andare in gita scolastica a Londra, perché non avevo il visto. Lo sai cosa mi ha detto un'insegnante? Se fossimo persone per bene, avremmo da un pezzo il passaporto tedesco».
Cem fissò il mare davanti a sé. Poi fece un sorrisetto e aggiunse: «Ma il piccolo non farà cazzate, leggerà tutto e capirà tutto: tutti i classici degli studi postcoloniali, dei Critical Whiteness Studies, delle teorie sul razzismo, Fanon, Said, Terkessidis. Tra parentesi, ho finito il dottorato».
Quella sera, stanchi dopo tanto sole, andammo al ristorante e mangiammo riso e verdure stufate. Non c'era l'aria condizionata, perciò solo pochi tavoli erano occupati, ma il cibo era buono e tutte le finestre spalancate. Le mie cosce nude si appiccicavano al rivestimento in pelle della sedia. Cem era seduto di fronte a me e mi parlava dell'argomento della sua tesi di dottorato, io cercavo di sostenerlo, dato che aveva i sensi di colpa nei confronti dei suoi genitori perché non si era messo subito a lavorare. Passò un'ambulanza a sirene spiegate e tutti e due ci domandammo se fosse per un attentato o per un incidente.
«Come sta Sami?» chiesi dopo un po'.
Cem studiò con attenzione il mio viso: «E di nuovo negli usa». «Ah, ok».
«Quand'è l'ultima volta che hai parlato con lui?»
«Due mesi fa, credo».
«Tutto qui?»
«Che vuoi dire?» gli chiesi.
Cem mi versò dell'altro vino rosso e si appoggiò allo schienale della sedia. «Masa, sono anni che vi vedo rendervi infelici a vicenda. O lasciate perdere oppure state insieme».
«Si è rimesso con Neda?» Mi morsi il labbro, Cem iniziò a tamburellare quasi senza rumore con il dito contro lo spigolo del tavolo.
«Non capisco cosa ci fai qui» disse Cem. «La spiaggia è ok, il cibo anche. Ma cosa stai qui a fare?»
«Non lo so nemmeno io».
Cem si controllò, tacque. Vedevo bene che era impegnato a valutare quanto poteva essere diretto. Alla fine mi chiese: «Sei diventata religiosa? Hai scoperto che l'ebraismo è la tua identità culturale?»
«Dovevo andarmene».
«Non vuoi tornare?»
Passai il dito lungo il bordo del piatto,
«Non ancora».
«E quando?»
Mi sentivo così cretina che stavo per rimettermi a piangere: ero da sola in una città straniera, dove pativo la mancanza dei miei amici, che peraltro non volevo mi comprendessero, pur senza capire perché non lo volessi.
«Torna a casa!»
«Casa sarebbe la Germania?»
«Non parlo della Germania, sai anche tu quello che è successo laggiù.
Intendo dire a Francoforte, a Gallus (Quartiere di Francoforte.)».
«É là che è morto Elias».
«Non a Gallus».
Sul Rothschild Boulevard incontrammo per caso Ori. Ci venne incontro in pantaloni corti e canottiera, nella mano destra aveva una bottiglia di birra, nella sinistra il suo costosissimo telefonino. Cem e Ori si intesero al volo e ci sedemmo insieme in una gelateria. Si scoprì che Cem e Ori avevano gli stessi gusti in fatto di letteratura, musica e moda. Ci spostammo in un bar di Florentin, dove un amico di Ori metteva la musica.
Il bar era strapieno, la musica molto veloce. La maggior parte della gente era in piedi e fumava, qualcuno si era già messo a ballare.
Cem andò subito in pista e Ori lo seguì. Cem pareva divertirsi e non stava come al solito ai margini della festa, imbronciato, aspettando il momento buono per andarsene. Io giocherellavo con la cannuccia del mio drink e li osservavo. Ballavano bene, sembrava che attraverso la pista il ritmo si trasmettesse direttamente ai loro corpi.
La musica si fece più forte. Lo spazio più angusto. Il panico cominciò a invadermi le viscere. Me lo sentii risalire fino al petto, invadere i polmoni e poi su fino alla testa.
«Devo andare a casa» sussurrai all'orecchio di Cem e corsi via.
Fuori tirai un respiro profondo, ma non servì a niente, ero in iperventilazione, salii su un taxi, mi aggrappai alla portiera e in qualche modo arrivai a casa. Dieci minuti più tardi c'era anche Cem, mi accarezzò i palmi delle mani, le braccia e poi la faccia, come se volesse scusarsi per qualcosa di cui non aveva nessuna colpa. Chiamò la guardia medica.
Il dottore si infilò i guanti di lattice e mi fece un'iniezione, vidi l'ago che scompariva sotto la pelle e quasi all'istante mi tranquillizzai. La respirazione rallentò. La paura, Elisa e la donna con la sottoveste azzurra non c'erano più. Era come se la mia testa fosse avvolta nell'ovatta. Un grande batuffolo di ovatta. Il medico mi prescrisse di recarmi l'indomani stesso al pronto soccorso psichiatrico per farmi prescrivere delle benzodiazepine.
Comunque non era niente di grave. Mi addormentai.
Con le pillole andò subito meglio. Sapevo di avere un problema concreto, e per quel problema concreto c'era una soluzione chimica concreta.
Dopo mezza giornata trascorsa nel reparto di psichiatria, Cem mi scongiurò di tornare in Germania, eravamo in un bar di Dizengoff Street.
Io stavo inzuppando un cornetto nel caffè freddo e non ero sicura se ci trovassimo nel bar in cui ai dipendenti era proibito parlare arabo oppure in quello accanto. Avrei voluto chiederlo in arabo, ma Cem me lo impedì. Mi guardava come se fossi pazza e si comportò come una furia, mi minacciò di dirlo a mio padre, a mia madre e a sua madre, che peraltro da anni se ne fregava di tutto. Non la finiva più di parlarmi della Germania. Ma io volevo rimanere, sparire nel nulla e non ritrovarmi più.
Proposi di andare a Gerusalemme, magari - pensai - per strada avrebbe lasciato perdere.
All'autostazione ci prendemmo un gelato, prima di fare il giro dell'edificio per cercare un taxi collettivo per Gerusalemme. Sul prato di fronte all'autostazione c'erano dei profughi in attesa di un lavoro.
Sulla stampa in lingua russa li chiamavano con il termine tedesco Gastarbeiter. Non sapevo come potesse esserci qualcuno che trovava appropriata quella parola. Dentro e fuori dalla stazione c'erano molti negozietti che vendevano dolciumi e vestiti dozzinali. Uomini con la camicia sbottonata sul petto villoso e la catenina d'oro passavano con fare rabbioso accanto a giovani soldati in uniforme e sandali.
«Spiegami un'altra volta perché vuoi restare qui!» sibilò Cem.
Sul taxi collettivo c'erano cinque donne asiatiche, una aveva in grembo un sacchetto di plastica con delle prugne, le altre le mangiavano, chiacchieravano e ridevano. La macchina era piena del profumo dolcissimo dei frutti. Passammo accanto a campi di girasole secchi, la radio trasmetteva musica pop. Anziché guardare fuori, Cem leggeva la cartella di lavoro di un convegno imminente. Con la coda dell'occhio lessi: tassa sulle transazioni bancarie, normativa sulla ristrutturazione del debito, liquidazione coatta degli istituti di credito, termini di prescrizione della responsabilità degli organi esecutivi di gestione dei capitali azionari, problemi con i manifestanti. E probabile che fosse offeso.
A colpire Cem non fu Gerusalemme, ma soltanto le targhe su cui era scritto in caratteri latini dorati il nome di chi aveva donato un edificio, una panchina al parco oppure un'aiuola fiorita. Passeggiammo per il centro e Cem studiava ogni singola targa, mi chiedeva se conoscessi il donatore e se questi fosse felice e contento quando leggeva il proprio nome su una targa.
La serata era fresca e ci infilammo tra pellegrini cristiani, grandi famiglie di arabi e un gruppo di turisti Birthright che si entusiasmavano per i soldati armati, incaricati di vegliare sulla loro sicurezza.
Nota: Taglit-Birthright Israel è un'organizzazione senza fine di lucro che offre viaggi di dieci giorni in Israele ai giovani ebrei della diaspora. Fine nota).
Anche gli ebrei ortodossi affollavano le strade, gli uomini con cappotti neri e cappelli a larghe tese, le donne con la parrucca o il foulard in testa. Non pochi erano vestiti in modo povero e quasi tutti erano circondati da stuoli di bambini. Cem scosse il capo e io ero già sul punto di difendere un modo di vivere che disapprovavo. Però Cem rimase in silenzio, e io con lui.
Lo stesso autista ci riportò a Tel Aviv. Stavolta viaggiammo con un gruppo di soli uomini, ebrei ortodossi di Bukhara, che discutevano ad alta voce in russo. Uno dopo l'altro si tolsero di tasca i filatteri e il libro delle preghiere. Il più piccolo raccomandò in ebraico anche a Cem di indossare i filatteri. Cem si limitò a fare spallucce e tornò a occuparsi dei suoi vocaboli. Gli uomini iniziarono le loro preghiere a cantilena.
Tre giorni dopo Cem tornò da solo a Francoforte.
Capitolo 13.
Un mattino trovai nella casella della posta una lettera di Elke. Era scritta su carta candida, nella sua grafia pedante.
Feci a pezzi la lettera e la buttai nel bidone della spazzatura. Ero persino tentata di dare fuoco al bidone, ma era giorno e per strada c'era un sacco di gente che stava andando al lavoro. Quindi anch'io mi avviai verso l'ufficio.
Sui fili del bucato erano stesi pigiami da bambino e mutande, le bandiere bianche e azzurre sventolavano, i pendolari aspettavano alle fermate dell'autobus, i clacson strombazzavano e io pensavo che l'asfalto si sarebbe sciolto sotto i miei sandali. Di fronte all'ufficio postale, in cui di solito tutti spingevano, sgomitavano e urlavano, c'erano un gruppo di persone con lo sguardo gentile e diversi veicoli della polizia. Chiesi cosa fosse successo a una delle persone in attesa.
Niente di che, mi rispose, forse una bomba, pare che gli artificieri stiano per far brillare un sacchetto di plastica, tra poco ci lasceranno entrare.
Quando arrivai in ufficio, ero fiacca e sudaticcia. Sulla mia scrivania c'erano tre cartelle portadocumenti da tradurre. In cima alla pila era attaccato un post-it su cui si leggeva urgente. Erano le relazioni di alcuni gruppi israelo-arabi, che ricevevano cospicue sovvenzioni dalla fondazione per cui lavoravo. Quel giorno avevano finalmente spedito i verbali delle loro attività culturali: una festa per anziani ebrei e arabi a cui erano presenti quindici persone e un gruppo di scrittura per donne beduine, numero delle partecipanti, cinque. Nella sua relazione, la coordinatrice del progetto narrava entusiasta un incontro di quelle donne con un'autrice israeliana di romanzi sui gatti. Poi le parole si ridussero a righe e puntini e ricomparve l'insufficienza respiratoria, come una mano che mi stringesse alla gola. Pensai che fosse Elias. Uscii di corsa e mi rinchiusi in bagno, buttai giù qualche pastiglia di benzodiazepina e tornai calma. Chiamai Ori, ma non mi rispose. Gli lasciai un messaggio in segreteria per chiedergli di venirmi a prendere al lavoro. Mi richiamò un'ora dopo e mi domandò se fosse urgente. Gli raccontai della lettera di Elke.
Alle sei del pomeriggio, puntuale, Ori mi aspettava di fronte all'ufficio. Sembrava teso. Mi salutò baciandomi su una guancia, dopo la prima notte tra noi non c'era più stato nulla, ma era comunque nato qualcosa. Forse addirittura l'amicizia.
«Hai fame?» gli chiesi.
«No» rispose imbronciato.
«Ti spiace farmi compagnia?»
«D'accordo, conosco un posto qui vicino. Andiamoci».
Montammo sulla sua Vespa e ci recammo in un ristorante in Allenby Street.
Il ristorante apparteneva a un'importante catena e di fronte al bancone c'era una lunga, disordinata fila di clienti che aspettavano di potersene andare dal locale con un caffè in un bicchiere di carta.
Ori aveva adocchiato un tavolo libero in un angolo in fondo alla stanza, e si avviò risoluto. Io avrei preferito andare in un altro ristorante, ma qualcosa nel volto di Ori, una durezza che non gli avevo mai visto, fece sì che mi sedessi di fronte a lui. Due uomini nel tavolo accanto al nostro conversavano ad alta voce sulle possibilità di promozione dell'Hapoel, una squadra di calcio. Ma io capivo solo a frammenti ciò che dicevano e il calcio non mi interessava affatto.
Il cameriere mi guardò in modo strano quando gli chiesi il menu in arabo. Pensò che la mia domanda fosse uno scherzo e mi parlò in ebraico.
Quando gli risposi nel mio ebraico smozzicato, mi lanciò un'occhiata sprezzante. Il menu in arabo non c'era.
«Te lo traduco io» intervenne Ori.
«Tanto per cambiare» risposi.
Ori mi guardò innervosito.
«Perché non andiamo da qualche altra parte?» domandai.
Ori chiuse il suo menu e lo buttò sul tavolo. «Stai diventando come Tal».
«In questa via ci sono almeno duecento ristoranti».
«Sono sicuro che il menu in arabo non ce l'ha nessuno. Non puoi fare questo sforzo almeno per una volta?»
«Che cos'hai stasera?» gli chiesi.
Ori appoggiò i gomiti sul tavolo e mi fissò. «Oggi ero in giro con i ragazzi della mia unità. Avevamo un invito a cena».
«E non ti andava bene il cibo?»
«Eravamo dalla madre di un ragazzo che ha fatto il servizio militare con noi e poi è caduto in Libano. In realtà volevo bere ancora qualcosa con loro, ma poi mi hai chiamato tu, con il tono di una che sta per scoppiare a piangere».
Con voce tremante dissi: «Mi dispiace».
«Se vuoi vieni anche tu, forza». Ori prese una banconota dal portafoglio, la mise sotto il posacenere e si alzò. Io non sapevo che fare e rimasi seduta.
«Su, vieni» disse Ori. «Andiamo».
Risalimmo sulla Vespa di Ori e ci spostammo qualche via più in là.
Un uomo alto e allampanato aprì la porta. Ori e lui si salutarono con una stretta di mano. Poi ci condusse in terrazza. C'erano già cinque ragazzi su dei divani logori, tutti a piedi scalzi e in pantaloni corti.
Tre di loro avevano una chitarra sulle ginocchia, ma solo uno la suonava. Ori mi presentò a tutti e mi vennero subito offerte una birra e una canna. Accettai entrambe, ringraziai e mi accomodai accanto a Ori su un divano libero.
Ce ne stavamo seduti in silenzio, di tanto in tanto qualcuno portava delle birre o rollava una canna.
Andammo via dopo un paio d'ore.
«Stasera guidi tu» disse Ori lanciandomi le chiavi.
«Davvero?»
«Sono ubriaco» mi rispose. In effetti sulla terrazza aveva scolato una birra dopo l'altra.
Ci infilammo i caschi, Ori si sedette dietro e mi appoggiò le mani sui fianchi. Misi in moto facendo rombare il motore, poi mi avviai verso il lungomare. A destra si stendeva il mare, calmo nell'oscurità, a sinistra brillavano le luci della città. Per strada c'erano poche macchine.
Accelerai, mi chinai in avanti e acquistai velocità. La presa di Ori si fece più salda. Ma non potevo fare altrimenti, andavo sempre più in fretta, schivavo all'ultimo secondo le macchine che ci venivano incontro oppure mi limitavo ad aspettare che fossero loro a schivarci.
Quando finalmente rallentai e mi fermai sul ciglio della strada, Ori saltò giù, si tolse il casco e mi gridò: «Volevi che ci ammazzassimo?»
"Forse" fu il pensiero che mi attraversò la mente.
Ori si sedette sul bordo del marciapiede, si prese la testa fra le mani.
Gli tremavano le spalle. Mi misi al suo fianco, strinsi la sua mano fra le mie. Ma lui non ebbe alcuna reazione.
Capitolo 14.
Tal sedette sul bordo del mio letto e si mise a giocherellare con l'orlo della mia coperta. Non sapevo come avesse fatto a entrare in camera mia.
«Che è successo?» le chiesi.
«Non sei contenta di vedermi?»
«Mi sono appena svegliata».
«Me ne devo andare?» Si alzò e aprì le tende. Una luce chiara, forte inondò la stanza. Tal si girò di nuovo verso di me, aveva le labbra serrate in un'espressione caparbia, negli occhi un guizzo bellicoso.
Attese che fossi io a cominciare, ma non volevo farle quel favore.
Si rifiutava ostinatamente di amarmi. Non me ne importava niente, solo non capivo perché. Tal diceva di non credere nei rapporti umani, tanto meno nelle relazioni sentimentali. Quando voleva comunicarmi qualcosa di sgradevole, cominciava sempre la frase con motek oppure mummy, che in ebraico vogliono dire "tesoro", quindi quasi ogni giorno mi sentivo dire: «Tesoro, non ti amo» oppure: «Mummy, oggi non ho voglia di vederti». D'altra parte era ancora qui. Qui con me.
Mi misi a sedere sul letto e la osservai camminare per la camera, strappandosi un capello dopo l'altro per il nervosismo.
«Oggi non ti andrebbe di trascorrere la giornata con me?» mi chiese fredda, guardandosi in giro per la stanza.
«A respirare gas lacrimogeni?» «Preferisci sprecare tutta la giornata in spiaggia?»
«Sarei ben contenta di farlo».
L'ultima manifestazione a cui ero andata con Tal si era svolta a un incrocio animato, dove avevamo gridato i nostri slogan. Eravamo una trentina, tutti bianchi ed ebrei. Intorno a noi c'erano per lo meno altrettante persone che ci davano dei traditori della patria e dei figli di cane. Uno ci sputò e un altro cercò di lanciare la sua borsa della spesa addosso a Tal. Un paio di poliziotti glielo impedirono. Quella volta mi ero tenuta ai margini della manifestazione, accanto a due ragazzi che discutevano sottovoce in arabo su quale sarebbe stata la prossima tipa di sinistra che si sarebbero scopati. Quelle di sinistra sono le uniche ad aprire le gambe con gli arabi, disse il più giovane dei due. Peccato che dopo vogliano sempre parlare di politica, disse il suo amico.
«Masa, com'è che vorresti passare la vita?»
«In pace».
«Dici sul serio?»
«Sì».
Tal si fermò e incrociò le braccia sul petto. Il suo sguardo meditabondo si posò sulla mia bocca. Non avrei ceduto. Mi sarei giocata tutto. Ma lei non sarebbe stata così facile e soprattutto così veloce da persuadere come Elisa.
«Vuoi soltanto passare il tuo tempo qui a goderti il sole, il buon cibo e un po' di sesso? Tutto il resto non ti interessa proprio?» Tal si accovacciò, abbracciandosi le ginocchia.
«Certo, il mio posto al sole»,
«Non ci credo». Si alzò e riprese a camminare avanti e indietro. I suoi movimenti erano disarmonici.
«Ciò che voglio è acqua corrente, elettricità e un posto pacifico in cui nessuno venga ammazzato» dissi.
«In Germania eri in buone mani. Non cera motivo di venire qui».
Non le avevo raccontato niente di Elias e della sua morte. Mi misi a camminare a piedi nudi per la stanza, il pavimento era pieno di sabbia, che Tal doveva aver portato in casa dalla spiaggia. Camminava sempre scalza, anche sulle scale e in giardino, e tutta la sporcizia le restava appiccicata ai talloni e andava a finire sul mio pavimento e poi nel mio letto.
«Mia nonna ha ancora dei ricordi della pacifica Germania» aggiunse Tal.
«Pensi che la mia no?»
«La manifestazione è in Sheikh Jarrah. Dobbiamo andare».
Capitolo 15.
Trascorsi il fine settimana con Ori e Tal a casa dei loro genitori, che erano andati in Europa. Volevamo utilizzare quel periodo per conoscerci meglio. I genitori di Ori e Tal appartenevano a una specie di "generazione Mayflower" israeliana. Il padre era cresciuto in un kibbutz nel nord del Paese e la madre in un vasto appartamento a Tel Aviv.
Quando in Israele qualcosa andava storto, lo prendevano come un fatto personale. I nonni di Ori e Tal erano immigrati illegalmente dall'Europa orientale prima della fondazione dello Stato, pionieri israeliani che avevano bonificato le paludi con le loro mani.
Il padre era stato un paracadutista, una persona piuttosto semplice. Fino al giorno in cui sua sorella e il marito erano stati uccisi in un attentato durante la Seconda intifada. Stavano andando al Bar mitzvah di Ori. Quella disgrazia aveva cambiato tutta la famiglia: Tal era diventata violenta, Ori timido. I genitori non nutrivano sentimenti di vendetta e si erano comprati un piccolo vigneto nel nord di Israele, dove si erano ritirati nella speranza di portare i loro figli il più lontano possibile dall'intifada. Producevano solo qualche migliaio di bottiglie all'anno, la famiglia viveva affittando stanze ai turisti.
La tenuta era un posto davvero idilliaco, ma Tal e Ori discutevano in continuazione di politica. Dato che litigavano in ebraico, i dettagli mi sfuggivano. Sapevo che da tempo Ori era stufo della Realpolitik ed era comunque convinto che fosse troppo tardi per dividere il Paese in due. Tal era Tal e i genitori, che un tempo avevano anch'essi manifestato a favore della soluzione dei due Stati, davano la colpa alla destra israeliana e ai coloni e non credevano più a nulla. Tutta la famiglia sapeva che avrebbero continuato a esserci delle vittime.
Il diverbio era culminato quando Tal aveva affermato che Ori usava una crema da barba prodotta da un'azienda israeliana nei Territori occupati.
Aveva trovato in bagno la crema e l'aveva portata in giardino, dove Ori e io stavamo giocando a volano. Tal reggeva il tubo con la stessa aria schifata che avrebbe avuto tenendo in mano un ratto morto.
«Di chi è questa?» chiese.
Ori appoggiò in silenzio la racchetta sul prato e disse: «Qual è il problema?»
A quel punto Tal fece un discorso lungo e infiammato, che avremmo anche potuto leggere sulla homepage di Who profits. Parlando, Tal si infuriava sempre più, finché Ori la strinse fra le braccia e la scosse con forza.
«Basta» continuava a ripetere: «Basta. Basta. Basta». Tal scoppiò a piangere e lo prese a pugni sul petto. Lei picchiava e lui la teneva ferma e lei picchiava e lui la teneva ferma, e io me ne stavo in disparte, abbracciata alla mia racchetta. Infine Tal appoggiò la testa sul petto di Ori, singhiozzando.
Più tardi si mise sul divano a fissare il televisore. Io la guardavo dalla soglia. Ori era di sopra, in camera sua. Poi mi sedetti accanto a Tal, che non disse una parola. Aveva un problema cronico di circolazione alle mani, che infatti erano sempre fredde, in quel momento però erano ancora più gelate del solito. Le feci un tè, ma lei lo lasciò lì. Le appoggiai le mani sulla tazza per scaldargliele, le tolsi una ciocca di capelli dal viso e seppi che tutto era perduto.
a sera si infilò nella vasca da bagno, io mi sedetti sul bordo, vicino a lei. Malgrado l'acqua calda stava tremando in tutto il corpo, senza riuscire a smettere. Facevo attenzione che tenesse la testa dritta. Quando uscì, la asciugai con cura. Aveva la pelle d'oca e le gambe le tremavano ancora un po'. All'improvviso mi cadde tra le braccia, il suo corpo si era fatto pesante, io la sorressi e senza fretta la condussi a letto. Le infilai un pigiama di sua madre e mi sdraiai al suo fianco. Nel cuor della notte la sentii alzarsi, ma feci finta di dormire e la lasciai andare.
Il mattino seguente Ori mi annunciò che sarebbe partito per l'india il giorno stesso. Per l'esattezza di lì a tre ore. Tal non c'era più, aveva lasciato un bigliettino sul tavolo da cucina, sono nel SINAI, DEVO RIFLETTERE.
Il sole era abbagliante. Avevo dimenticato gli occhiali da sole e socchiudevo gli occhi. La strada era molto trafficata, avanzavamo piano e nelle altre macchine i pendolari sbadigliavano.
Ori sedeva in auto tranquillo e concentrato, cambiando stazione radio ogni due minuti. Il suo corpo era teso. Ci venne incontro una jeep con dei soldati a bordo. Ori salutò con un cenno. Loro gli risposero.
Arrivammo tardi. Parcheggiai la macchina e Ori si precipitò fuori. Io gli trottai appresso. Prima di lui nella coda cerano dei turisti bulgari. La maggior parte indossava un berretto con il logo del tour operator, la targhetta con il nome e una grossa croce d oro. Ori nutriva una sostanziale antipatia per le lingue slave. La coda non si muoveva, i turisti parlavano molto, e molto in fretta. Frenetici come formiche si scambiavano le loro impressioni. Una ragazzina piagnucolava, voleva essere presa in braccio dal padre.
Ori fissava risentito i turisti. Il suo sguardo vagava da un volto all'altro e lui si stava rabbuiando sempre più. L'imbarco sarebbe iniziato di lì a un quarto d'ora. Con la mano destra mi carezzò il viso e disse: «Cerco di sorpassarli». Si frugò in tasca, tirò fuori il passaporto e mi baciò su una guancia. Con la mano destra mi sfiorò il mento. Mi fissò come se volesse imprimersi bene in mente il mio viso.
«A presto, allora» dissi io, dato che non sopportavo il suo sguardo.
«Quando torno, non sarai più qui».
«E tu come lo sai?»
«Sei una donna che s'innamora in fretta».
«Se tu sapessi» risposi ridendo.
Con la sinistra fece un gesto che poteva significare qualsiasi cosa.
Corse verso il check-in. Mentre sicuro di sé sorpassava il gruppo di turisti fingendo di essere il loro accompagnatore, sembrava un giocatore di football americano. Reggeva il passaporto blu israeliano all'altezza del petto, come una lancia. Quando due addetti alla sicurezza armati si gettarono su di lui, lo buttarono a terra e gli misero in fretta le manette, pensai di essere davvero in uno stadio americano. I turisti del gruppo estrassero le macchine fotografiche e altri funzionari della sicurezza intimarono ad alta voce di non riprendere la scena.
Scoppiai a ridere. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che in quell'aeroporto succedesse una cosa del genere. Il mio riso fu così contagioso che anche il gruppo si mise a ridere. Mi avvicinai ridendo agli addetti alla sicurezza, loro mi fissarono sconcertati e lasciarono perdere Ori. Uno mi puntò contro la sua arma, io trattenni le risate, ricominciai subito dopo, poi smisi definitivamente quando vidi che Ori era offeso e umiliato.
Poi ci ritrovammo seduti nell'ufficio del capoturno. Dai tempi dell'esecuzione del mio computer non erano cambiati né l'ufficio, né il capoturno.
Sul tavolo di fronte a noi c'erano dei salatini e un termos di caffè.
Ori continuava a scuotere la testa e il capoturno mi sorrise in faccia, affidabile e professionale. Indossava uno splendido abito orribile e grandi occhiali da sole posati sulla testa rasata a zero.
«Le piace Israele?» mi chiese il capoturno, porgendomi il piatto con i salatini; io ne afferrai tre. Li mangiai in fretta, dato che erano la prima cosa che mettevo nello stomaco dalla sera prima.
«É abbronzata» osservò il capoturno soddisfatto. Mi aveva anche riconosciuto.
«Trova?» Mi guardai l'avambraccio. Negli ultimi mesi ero davvero diventata più scura.
«Le sta molto bene» rispose lui con un sorrisetto.
«Grazie».
«Per quanto ne avremo ancora?» chiese Ori.
«Ci potrebbe volere ancora un po'» risposi, e il capoturno annuì con un cenno del capo,
«Com'è andata alla fine con il suo computer? Ha ricevuto il risarcimento?»
«Il mese scorso».
«Ottimo». Il sorriso del capoturno si faceva sempre più ampio.
«Ho aspettato quattro mesi e mi è stato rimborsato solo l'ottanta per cento del prezzo. Cosa ci sarebbe di ottimo, scusi?»
«Lei sa quanto ha dovuto aspettare mio nonno per essere risarcito dalla Germania?» Evidentemente il capoturno era in grado di ridere in un'unica tonalità.
«Non funziona, è ebrea anche lei» commentò Ori.
«Ah, quindi lei non è una shikse?» mi domandò il capoturno.
«I suoi nonni sono dei sopravvissuti all'Olocausto» disse Ori.
«ORI» gli gridai in tono di rimprovero,
«Cosa vuoi da me? Se proprio dobbiamo giocare al Monopoli degli ebrei, per lo meno facciamolo bene».
«Vuole ancora un salatino?» chiese il capoturno.
Presi un salatino. Il salatino era già diventato molliccio.
Capitolo 16.
Quando non lavoravo e non faceva troppo caldo, passeggiavo per Tel Aviv.
Quell'estate all'entrata del mercato, vicino all incrocio di tre strade centrali, c'era seduto Gesù. Il messia era un uomo robusto con i lineamenti grossolani, i lunghi capelli biondo sporco e una veste di velluto rosso. Nei primi giorni dopo il suo arrivo sudava in modo spaventoso e aveva sempre una bottiglia d'acqua a portata di mano. Dopo un po' qualche hippie iniziò a radunarsi intorno a lui. I turisti facevano lo stesso e Gesù si mise a tenere delle lezioni sul senso della vita. Ormai se la cavava con pochissima acqua.
Tal non era ricomparsa. Non mi telefonava e non rispose a nessuno dei miei trentatré messaggi. La sua mano sul mio bacino mentre ci addormentavamo con il respiro sincronizzato era la prima cosa giusta dalla morte di Elisa. Ogni sera speravo che tornasse, ogni mattina correvo a casa sua per vedere se fosse di nuovo là.
Il mercato del Carmelo era ombreggiato e l'aria profumava di frutta. Le arance, le angurie e i fichidindia brillavano e i venditori rivolgevano dichiarazioni d'amore a ogni potenziale cliente.
Io flirtavo in arabo ed ebraico, tuttavia pagavo più degli anziani russi dallo sguardo burbero, che facevano scorrere con lentezza le monete tra le dita e si tuffavano in mare alle sette del mattino. Amavo anche i banchi che vendevano spremute di frutta, ce n'erano ovunque e ci lavoravano soprattutto uomini dalle braccia molto pelose.
Le arance venivano tagliate in due e poi infilate nello spremiagrumi come se fosse una ghigliottina. Le bucce d'arancia erano lucide e grasse e andavano a finire nell'immondizia.
Tutti i giorni era la stessa merda. Fissavo il telefonino come se potessi stregarlo, controllavo la posta elettronica ogni quarto d'ora e correvo alla finestra tutte le volte che sentivo passare una moto. Cosa che succedeva molto spesso, dato che abitavo su una strada di passaggio.
Una volta cercai anche di andare a trovare la zia n. 13. Al posto di controllo scesi dall'autobus, ma non riuscii a mettere piede nell'insediamento. Non dipendeva affatto dall'influsso di Tal, bensì da tre giovani palestinesi che aspettavano fuori dalla recinzione che un datore di lavoro israeliano li portasse con sé in cantiere. Lavoro illegale in un insediamento illegale. Presi un taxi e tornai a Tel Aviv.
Anche Hannah aveva perso interesse nei miei confronti. Non mi chiamava più e quando la chiamavo io tagliava sempre corto. Si trincerava dietro il lavoro, gli amici, il cane che peraltro non aveva. Non sapevo cosa fosse successo e neppure se fosse successo qualcosa. Cercavo un motivo per la sua mancanza di interesse.
Mesi dopo per caso la incontrai per strada, aveva il pancione. Non sapevo neppure che fosse incinta e mi sentii offesa. Una settimana dopo quell'incontro mi telefonò per invitarmi a una festa per la futura nascita del bambino: declinai cortesemente.
Quando raggiunsi il culmine della disperazione, andai in spiaggia. Di fronte a me c'erano due turisti avvinghiati: lei bionda e grossa, sulla cinquantina, con la schiena coperta di lentiggini. Lui quasi calvo, pesante catena d'oro al collo, sulla settantina. Entrambi guardavano incantati una partita di racchettoni, con la testa seguivano all'unisono i movimenti della pallina e, quando la pallina finiva fuori, mostravano il loro disappunto.
Una donna proprio davanti a me si girò sulla schiena e io ringraziai Anne Frank. All'età di undici anni, leggendo il suo diario, avevo capito che non ero l'unica donna a desiderare altre donne e che ciò non precludeva nulla. I passaggi omoerotici del diario mi tranquillizzavano ed eccitavano, proprio come la donna che mi stava di fronte a gambe larghe, offrendomi alla vista il suo bacino. Era ormai mezz'ora che la stavo osservando. Il cielo era sempre terso, senza una nuvola e, sebbene fosse ancora mattina, il sole scottava.
Il mio telefonino si mise a vibrare, sul display comparve il nome di Sami. Era un pezzo che non parlavo con lui e fui contenta contenta contenta, poi mi bloccai, sperando che non se ne accorgesse.
Mi chiese se potevamo trovarci a Vienna.
«Sei matto? Vieni qui tu, piuttosto» risposi io.
«Con il mio passaporto? No, grazie. Sono nato a Beirut, te ne sei già dimenticata?»
«Mi farebbe così piacere vederti». Le parole mi uscirono da sole.
«Ti ho spedito la prenotazione per posta elettronica».
«Che prenotazione?»
«Per l'albergo e il volo».
La donna che avevo di fronte si mise a pancia in giù.
«Cem e io ti abbiamo iscritto a un esame».
«Che esame?»
«United Nations Competitive Examination for Russian Language Interpreters a Vienna».
«Mi stai prendendo per il culo»,
«No».
«Sami, non sono pronta».
«Forza! Cem è anche dell'idea che tu debba tirarti fuori dal Medio Oriente».
«Anche Cem viene dal Medio Oriente e voi non potete iscrivermi a un esame come se niente fosse».
«Perché no?» Sami rise: «Abbiamo falsificato la tua firma». «Quando?»
«Due settimane fa, quando Cem era lì da te».
«Siete scemi?»
«Ci vieni?»
«C'è un'altra cosa che voglio dirti».
«Cosa?»
Ci fu una pausa. Sentivo il respiro di Sami ed era l'occasione giusta e mi limitai a dirgli: «Non sono pronta».
Capitolo 17.
Il mio capo era un ometto tarchiato con un inizio di pancia e vestiti costosi in tessuti leggeri. Mi aveva convocato nel suo ufficio per un discorso serio. Aveva usato l'espressione "discorso serio" e io temevo avesse scoperto che il mio posto era superfluo. Quando entrai nel suo ufficio, era dietro la scrivania e mi indicò con la mano destra due sedie nell'angolo sinistro della stanza. Sopra le nostre teste era appeso un ritratto della cancelliera federale.
Mi avvicinai alle sedie e feci per accomodarmi, ma lui disse: «Quello è il mio lato».
"Mi sta per licenziare" pensai, e mi misi sull'altra sedia.
«Masa, negli ultimi tempi non abbiamo tanto da fare, dipende in parte dalla situazione politica piuttosto tranquilla, ma anche dai rilevanti tagli al bilancio. E tu sei qui da poco».
Feci un respiro profondo.
«Ti racconterò una cosa sulle gerarchie. Sai, sono il tuo capo, perciò in sostanza dovresti fare ciò che ti dico io. Non ho affatto la sensazione che tu abbia introiettato questo concetto. Vedi, anch'io ho un capo e anche il mio capo ha un capo». Mi guardò negli occhi, per verificare se le sue parole stessero riecheggiando nella mia anima. Poi puntò l'indice della mano destra verso la foto della cancelliera. «A me non piace affatto quel capo. Sono forse contento di essere governato da una tedesca dell'Est? In generale voglio avere qualcosa a che fare con la Germania dell'Est? I nuovi land, non farmi ridere. Però faccio quel che mi si dice e pago le tasse. Mi capisci?»
Annuii.
«La settimana prossima arriva il nuovo responsabile da Berlino. Sai, la nostra posizione a Berlino non è particolarmente buona, la maggior parte dei soldi ormai va ai nostri uffici nel mondo arabo. Le fondazioni attive in Israele ne ricevono sempre meno. La tendenza generale è questa».
Annuii.
«Dovrò fare alcuni discorsi importanti con lui. Presentargli il nostro lavoro e i nostri progetti. Ma non verrà da solo, sarà accompagnato».
«Da sua moglie?»
«Non proprio».
«Ah».
«La signora che viene con lui non è mai stata nella nostra regione e vorrei che tu ti occupassi di lei».
«Perché io?»
«Avete la stessa età. La accompagnerai a Gerusalemme».
«Ma io non parlo l'ebraico».
«Ti ho sentito parlare. Non fare tante storie».
«Che cosa vorrà fare, una volta là?»
«Vorrà passeggiare per il mercato, comprare qualche spezia. Che ne so io. Devo parlare con lui e a lei serve una baby-sitter». «Io sono un'interprete».
«Appunto, Così potrai mercanteggiare sulle spezie».
Il mattino dopo passai a prendere il mio compito. Mi stava già aspettando fuori dall'hotel, aveva una minigonna di pelle e occhiali da sole con una montatura nera griffata. Aveva i capelli lunghi con delle mèche bionde e le unghie molto curate. Era già tanto che non nascondesse un cane nella borsetta. Mi salutò baciandomi sulle guance.
«Io sono Maya. Grazie di venire con me».
«E un piacere» cercai di sorridere in maniera sciocca come lei. «Cosa vogliamo vedere oggi?»
«Mi piacerebbe andare nella Città Vecchia e poi voglio visitare anche una colonia, una di quelle nei dintorni. Ho letto un sacco di cose. Che ingiustizia».
Passeggiammo per Yafo Street. Maya continuava a fermarsi per guardare le vetrine dei negozi e per scattare foto.
«Girare con la macchina fotografica è come avere con sé un bambino piccolo» disse in tono dolce-civettuolo. Gli apprezzamenti sul suo conto da parte dei passanti si sprecavano e persino qualche ebreo ortodosso le lanciava occhiate tutt'altro che furtive.
Nella Città Vecchia si faceva fatica a camminare, nelle strette viuzze si accalcavano turisti con lo zaino davanti anziché sulla schiena e credenti delle più svariate confessioni. Nelle tenute più fantasiose.
L'aria era umida e stagnante. I commercianti sedevano di fronte alle botteghe e ai chioschi e gridavano alla folla: «Please, come in» «Do you want to see my shop?» oppure «Natasa, Natasa, idi syda (In russo "vieni qui).
Maya sorrideva a tutti.
Eravamo circondati da vestiti, cartoline, bastoncini d'incenso, perle di vetro, bigiotteria a buon mercato, tinture all'henné e montagnette di spezie colorate. Le kejìab erano appese accanto alle magliette delle Forze di difesa israeliane e venivano vendute da negozianti arabi ed ebrei.
Uno addirittura ci corse dietro. Aveva sentito che parlavamo in tedesco e ci chiese di scrivergli offerta speciale in quella lingua. Era un modo per cercare di attirarci nel suo negozio, ma con Maya non era affatto necessario ricorrere a espedienti. Li seguii.
Tra kefiah e cartoline illustrate, Maya raccontò a me e al commerciante la storia della sua vita, che io evitai di tradurre. Nata nel Saarland, il padre era sindaco in un comune di duecento anime, la madre casalinga. Casa sua le stava stretta. Poco dopo aver conseguito la maturità in un istituto tecnico, aveva conosciuto in un bar di Saarbriicken un imprenditore parecchio più anziano di lei, che l'aveva portata con sé in Laos.
Si provò un foulard blu scuro, il negoziante le porse uno specchio.
Tutta presa a guardarsi, proseguì con il suo racconto: «Ricordo a stento il mio primo uomo, e quando penso a lui mi viene in mente il piccolo taccuino nero a righe blu che aveva sempre con sé. Su quel quadernetto registrava le sue defecazioni con meticolosa precisione».
«Vuole comprare il foulard?» chiese il commerciante e io le tradussi la domanda. Lei mi guardò in faccia come se solo in quel momento si fosse accorta della mia presenza.
«Non ho soldi con me» disse, bussando sulla vetrina con l'unghia di plastica per chiedere un altro colore. «In Laos mi sono abituata a fare la bella vita: trattamenti cosmetici, massaggi, yoga, ristoranti, leccornie, donne di servizio».
Riprendemmo a girare per la Città Vecchia. Una donna mi urtò una caviglia con la sua borsa della spesa a scritte rosse in cirillico.
Continuavamo a incrociare pattuglie della polizia armate fino ai denti.
Dovetti offrire una spremuta d'arancia a Maya, che la sorbì lentamente, senza smettere di chiacchierare. Di tanto in tanto cercavo di snocciolare qualche curiosità per turisti, di indicarle un reperto archeologico oppure la Via Dolorosa, ma lei prendeva come un'offesa qualsiasi interruzione del suo flusso verbale. Una volta tornati in Germania, lui chiese subito il divorzio, senza una spiegazione. Lei ebbe un appartamento a Stoccarda e dei soldi con cui si comprò orecchini di diamante, vestiti e un filo di perle che un tempo erano appartenuti a una contessa.
Si fece anche fare un tatuaggio. Il sole era allo zenit e ci dirigemmo verso l'Ospizio austriaco, io mi stavo già pregustando il sapore della limonata fresca.
Nella piacevole penombra di quel luogo, lei ordinò la specialità della casa, uno strudel di mele, e continuò a parlare. Disse che gli ebrei si godevano i frutti del lavoro dei palestinesi.
Mi ricordai di una volta in cui mi ero ritrovata con mia madre in una sala d'aspetto con le poltrone in pelle rossa e un distributore d'acqua vuoto; avevo letto una rivista con i bordi delle pagine consumati, qualcuno aveva già risolto tutti i cruciverba. E c'era un articolo che s'intitolava: "Il nuovo orgoglio della comunità ebraica di Berlino". Per mia madre era una cosa sgradevole. Preferiva gli ebrei tranquilli, discreti.
«Se si guarda questa roba, queste ingiustizie, al telegiornale della sera, non si può fare a meno di odiare gli ebrei. É evidente chi è il più debole, la vittima» disse asciugandosi la fronte sudata. «Pensa a quello che hanno fatto ai palestinesi, proprio loro che dovrebbero capire meglio degli altri».
«I lager tedeschi non erano concepiti per rendere gli ebrei moralmente migliori» risposi.
Mi fissò disorientata, rise e cacciò giù lo strudel austrofascista. Lo fece sparire un boccone dopo l'altro. Insaziabile come un buco nero.
Telefonai a Sami e gli dissi che avrei sostenuto l'esame alle Nazioni Unite. Avrei dato le dimissioni.
Capitolo 18.
Volevo dire a Tal che i suoi giochetti mi facevano proprio schifo, ne avevo abbastanza delle sue masturbazioni, della sua autocommiserazione, e avrei lasciato per sempre la città e il Paese. Non avendo il coraggio di chiamarla, le scrissi una mail per chiederle di vederci in un piccolo ristorante di pesce a Giaffa.
Non si era presentata. L'avevo aspettata al tavolo, da sola, la cameriera mi ronzava intorno con il menu, impaziente. Alla fine ordinai dello scorfano, che nemmeno toccai.
«Non è buono?» chiese la cameriera, posando una caraffa d'acqua sul mio tavolo.
«Non ho appetito» risposi.
«E allora perché sei venuta a mangiare?»
Pagai senza lasciare la mancia e uscii in strada. Continuavo a controllare il telefonino, nessun messaggio. Feci qualche giro intorno al posteggio dei taxi. I conducenti aspettavano con il motore acceso.
Il mio taxi stava attraversando Tel Aviv, dalla radio veniva una rumorosa musica orientale, il guidatore teneva una mano sul volante mentre con l'altra batteva il ritmo, e io mi sentii a casa. Era una casa dimenticata da tempo, un mosaico di paesaggio, temperatura, musica, odori e mare. Chiesi all'autista di fare il lungomare e di attraversare i quartieri poveri a sud della città; a un certo punto mi accorsi che associavo il concetto di casa ai luoghi che mi ricordavano Baku.
La serratura della porta di casa faceva dei rumori sospetti. Di sicuro ero stata derubata. Chiusi la porta e dissi ad alta voce: «Ehilà». Era come se cercassi di intimidire il ladro. Aleggiava uno strano odore, ma la casa era vuota. Sul tavolo della cucina c'era un mazzo di fiori appassito e un biglietto su cui Tal aveva scritto: occupati dei gatti, per favore. I gatti li trovai in un trasportino in camera da letto, i loro occhi risplendevano di colori psichedelici; miagolavano ostili. La gabbietta emanava un odore molto sgradevole.
«Ho bisogno di te» disse Tal una settimana dopo. Era al tavolo della mia cucina, accovacciata su una sedia, e piangeva. Continuava a singhiozzare forte. Aveva gli occhi iniettati di sangue, era come ingobbita, i capelli tagliati quasi a zero.
«Dove sono i miei gatti?»
«In una pensione per animali».
«Hai dato via i miei gatti?»
«Non sapevo se saresti tornata»,
«Come fai a essere così fredda?»
«Tu sei sparita. In tutta sincerità, non pensavo che ti avrei più rivista. Tal, cosa vuoi da me?»
«Il tuo aiuto».
«Non stai dicendo sul serio».
«Ci serve una traduttrice. Masa, non ti puoi immaginare cosa sta succedendo laggiù».
Tacqui perché in quel momento compresi che Tal non mi avrebbe lasciata, sarebbe sempre tornata da me fin quando non mi avesse svuotata del tutto. In ogni caso io non avevo più molto da offrirle.
«Soltanto per questa volta. Promesso. Se provi ancora qualcosa per me, devi venire». Tal mi appoggiò i palmi delle mani sulle guance.
Capitolo 19.
Calura estiva e afa, come ogni giorno. Ero sudata fradicia e avevo soltanto sceso i cinque gradini che da casa portavano in strada. Il supermercato era pieno di turisti alla disperata ricerca di qualcuno in grado di tradurre le scritte sui prodotti israeliani. Altri controllavano con espressioni dubbiose l'attestato di kasherut sulle confezioni. Comprai latte e caffè e attraversai la strada diretta a un fast food.
Il cibo dell'indiano era contenuto in due piccoli contenitori rettangolari. Elias non aveva fame, se ne stava apatico sul divano sotto uno spesso piumone e saltava da un canale all'altro. Mi sedetti anch'io e mi strinsi a lui. Volevo assolutamente sentire il suo calore, baciarlo e accarezzarlo, ma lui restava immobile, non mi concesse il benché minimo gesto di affetto. Il rigor mortis era già iniziato.