Parte prima

 

 

 Capitolo 1.

 Non volevo che quella giornata iniziasse. Avrei preferito starmene sdraiata e continuare a dormire, ma dalle finestre spalancate entravano in camera da letto le risate dei fruttivendoli e lo sferragliare del tram. Il nostro appartamento non era lontano dalla stazione centrale, questo faceva sì che nel quartiere ci fossero vie intere che la gente preferiva evitare, piene com'erano di supermercati a basso prezzo e giganteschi cinema porno. Noi vivevamo lì, tra una lavanderia cinese e un centro sociale frequentato da giovani alternativi che urinavano regolarmente nel nostro androne. L'appartamento era cadente e malridotto, ma economico. Ogni mattina verso le cinque i padri, fratelli e cugini scaricavano i furgoni, sbattevano le portiere, montavano le bancarelle, bevevano il tè, facevano bollire delle pannocchie e aspettavano che la strada si riempisse per mettersi a elogiare la loro frutta con una cantilena automatica.

 Io mi sforzavo di seguire le loro conversazioni, ma il più delle volte ne afferravo soltanto qualche brandello oppure mi riaddormentavo.

 Elias era accanto a me: irrequieto, le labbra semiaperte, i rapidi movimenti delle palpebre, il ventre che andava su e giù in modo irregolare. «Sbirro frocio, segaiolo, ti ammazzo!» gridò un ubriaco sotto il nostro balcone. I fruttivendoli risero di lui, sputando semi di zucca per terra.

 13 Elias si svegliò, si girò verso di me e mi appoggiò la testa sul ventre senza aprire gli occhi. Le sue mani si posarono sulle mie.

Restammo aggrovigliati insieme, finché la sveglia di qualcun altro si mise a ronzare al di là della parete e la mia mano cominciò a intorpidirsi sotto il suo peso. Quando non la sentii più, mi alzai e andai a fare la doccia.

 La cucina era tutta in disordine dal giorno prima, sui fornelli c'erano pentole e tegami con i bordi incrostati, sul piano di lavoro si accatastavano piatti e bicchieri mezzi pieni di vino. L'aria puzzava di gas di scarico ed era appiccicosa come sciroppo. Stava iniziando il giorno più caldo dell'anno.

 Elias sedette al tavolo della cucina, nella mano destra un cucchiaio di muesli, nel piatto di fronte a lui delle briciole e mezzo panino bianco ricoperto da uno strato di marmellata rosso scuro. Mi sedetti di fronte a lui, afferrai il giornale e, anziché leggerlo, osservai il suo viso.

Aveva gli zigomi alti, occhi grigiazzurri e ciglia scure, che risultavano un pochino troppo corte. Elias era grazioso come un ragazzino. La sua bellezza lo faceva arrabbiare, non restava nella memoria del prossimo come individuo, ma come uno che somiglia a un attore di cui proprio non si riesce a ricordare il nome. Ma era la sua cortesia istintiva più che la bellezza a fare quell'efFetto: sulle commesse impazienti, che di colpo smettevano di guardare l'orologio, sulle scolarette, che ridacchiavano, sulle infermiere, sulle bibliotecarie e su di me. Faccia da mascalzone, diceva mia madre. Ma a lei Elias piaceva proprio per la sua faccia, e perché per qualche motivo sapeva come ci si comporta con una famiglia orientale.

 Versò il caffè sul muesli. Il bianco si sciolse nel marrone, l'uvetta nuotava in superficie. Sul tavolo, sotto il giornale, c'era un libro di cucina aperto da cui una testa di pesce mi fissava con aria interrogativa. Chiusi il libro.

 «Tu sei vegetariano! Te lo sei già scordato?» dissi in tono scherzoso.

 «Per lo meno io guardo, prima di mettere qualcosa nel forno» rispose irritato.

 Si riferiva alla sera prima: avevo cercato di fare una quiche, perché volevo introdurre la parola quiche nel mio lessico. Come se fossi un'attrice francese che interpreta una casalinga francese in attesa del suo amante francese che ritorna invalido dalla guerra, e gli prepara una quiche senza sapere quale arto abbia perso. Quiche mi suonava bene e mi piaceva che fosse di genere femminile. Avevo comprato della pasta frolla surgelata che in seguito avevo scoperto essere dolce, e la quiche era immangiabile. In Francia quella pasta non era né dolce né salata.

Sebbene si trattasse di un gesto di cortesia per il quale non avevo insistito, Elias aveva comunque mangiato la mia quiche, la sua educazione continuava a opprimerlo. Ogni volta che ne prendeva un boccone, lo mandava giù con un bicchiere d'acqua.

 «Hai visto le mie ginocchiere?» chiese Elias, mentre io rovistavo in frigorifero in cerca della quiche.

 «Hai visto la cena?» chiesi io.

 «L'ho congelata».

 «Cosa?»

 

«Non pensavo che volessi mangiarne ancora».

 «E io non pensavo che tu volessi sempre fare il tedesco compassionevole» dissi io, al che Elias rise, mi porse il latte e il muesli e prese dalla mensola una scodella per me. Mi sedetti e impilai il mio materiale didattico - bloc-notes, liste di vocaboli, schede e dizionari, che studiavo a memoria dalla a alla z. Quando Elias tornò al tavolo, mi diede un bacio leggero sull'attaccatura dei capelli e ripeté: «Hai visto le mie ginocchiere?»

 

«Te l'ho appena detto».

 «Tu però metti sempre tutto fuori posto».

 «Non ho idea di dove siano» dissi.

 Mise con cura le stoviglie nel lavandino, facendo attenzione che i piatti non cozzassero tra loro.

 «Da quando in qua giochi sul serio a pallone? E con chi?» gli domandai.

 «Ci giocavo già prima».

 «Di sicuro ti romperai qualcosa».

 «Devo per forza avere una storia di immigrazione alle spalle per giocare a calcio?» mi chiese, fissandomi negli occhi.

 «Ancora con quell'espressione?» Cercai di risultare molto ironica, senza riuscirci. Ogni volta che udivo o leggevo l'espressione "storia di immigrazione alle spalle" mi veniva un travaso di bile. E con l'aggettivo "postmigratorio" andava ancora peggio. Odiavo soprattutto le discussioni in proposito, non solo quelle pubbliche, ma anche quelle tra me e Elias. In quelle conversazioni non si diceva mai niente di nuovo, ma il tono era didascalico e impetuoso. Uno dei due innescava la polemica e tutti e due ci impelagavamo in asserzioni e rimproveri. Elias mi rimproverava di essere troppo riservata, io lo accusavo di essere troppo insistente, la maggior parte delle volte a quel punto si passava dal generale al personale.

 Elias assunse un'aria offesa, allora mi avvicinai a lui, che mi mise le mani sui fianchi. Sul suo mento c'era un unico pelo biondo scuro. Glielo strappai. Lui mi appoggiò la testa su una spalla,

 

io lo baciai sul collo, infilai il mio ginocchio destro tra le sue gambe e iniziai a slacciarmi il vestito estivo, ma Elias scosse la testa e mi sussurrò all'orecchio: «Sono in ritardo».

 Con la mano aperta diedi un colpo al piano del tavolo, Elias mi guardò con aria di rimprovero e disse: «Non volevo farti arrabbiare».

 «Mia nonna diceva che bisogna sempre avere con sé delle mutande pulite».

  «Come mai?»

 

«Non si sa mai».

 «Sei pazza. Ora devo andare».

 Lo accompagnai fin sul pianerottolo e restai a osservare il modo in cui correva giù dalle scale. Spesso faceva due gradini alla volta, ogni tanto anche tre. Non camminava mai, correva e saltava. Mi versai un caffè e iniziai a studiare.

 

 

 

 

Capitolo 2.

 Allo sportello delle informazioni c'era un'infermiera che, malgrado il gran caldo, indossava un lungo maglione. Il suo pallore metteva in risalto i capelli color rosso fuoco, raccolti sulla nuca in una rigida crocchia. Fece un sorriso agrodolce e mi disse di non preoccuparmi inutilmente e di evitare di chiedere ulteriori informazioni. Avevo corso per tutta la strada fino all'ospedale, quindi ero sudata fradicia e me ne stavo di fronte a lei paonazza e senza fiato. Stavano operando Elias.

 Mi sedetti in sala d'attesa. C'era la radio in sottofondo. Tradussi in simultanea le notizie in inglese, la pubblicità in francese. C'era stata un'esplosione a Kabul, Gaza era stata bombardata e in Portogallo degli incendi stavano devastando i boschi. La cancelliera era in visita di Stato. Io sfogliavo un vecchio numero di «Vogue» ammazzando il tempo con la moda. Borsette. Bigiotteria. Ombretti. Qualunque cosa. Lessi delle tendenze del novembre precedente, pellicce e motivi floreali. Poi strappai la prima pagina, la piegai e me la infilai in borsa. Strappai pagina tre, la piegai e me la infilai in borsa. Strappai anche pagina cinque, la piegai e me la infilai in borsa. Arrivata a pagina centosette nella mia borsa non c'era più spazio.

 Un medico mi si avvicinò sorridente. Era alto, aveva un fisico possente, i capelli erano pettinati all'indietro con cura. Mi salutò prendendomi una mano e tenendola tra le sue un attimo di troppo. Aveva dei vivaci occhi castani. Mi colpì un odore di disinfettante, di marcio e di vecchio. Avevo bisogno d'aria. Il medico invece mi appoggiò la mano sul braccio, un gesto invadente che mi stupì. Disse qualcosa, ma io non capii e fui costretta a chiedergli di ripetere.

 «Capisce il tedesco?» chiese lentamente e scandendo bene le parole.

 «Certo» risposi.

 «Io sono Weifi. L'aiuto chirurgo Weifi. Lei è una parente di Elias Angermann?»

 

«Sono la sua ragazza».

 «Allora non posso parlare con lei».

 «Vedrà che non ci saranno problemi».

 Ci pensò su per un po', sembrava che stentasse a prendere una decisione.

Alla fine annuì e disse: «D'accordo. Come si chiama?»

 

«Maria Kogan».

 Mi osservò dalla testa ai piedi. «Il suo cognome è un po' complicato, posso chiamarla Maria?»

 

«No».

 Fece spallucce e in crescendo mi spiegò che avevano messo a Elias un chiodo nel femore, un impianto endomidollare a stecca, che gli avevano fissato una placca di metallo nell'osso e che aveva perso molto sangue.

Aveva degli schizzi sul camice e io mi chiesi se fossero di Elias o del paziente precedente. Annuii e aprii la porta della sala postoperatoria.

La convalescenza sarà molto lunga, sentii risuonare alle mie spalle.

 La stanza era vuota, a parte un letto circondato da monitor, tubi e una singola sedia. Le tende erano chiuse, le aprii appena, facendo cadere sul pavimento un raggio di luce. Appoggiai una mano sulla sponda del letto. Aveva il viso pallido come se non avesse più una goccia di sangue in tutto il corpo. Sulle labbra gli si era formata una sottile crosta bianca. Mormorò il mio nome e guardò verso di me. Dalla coscia usciva un tubo di drenaggio.

 Mi piegai in avanti, il puzzo di sudore freddo mi entrò nel naso. Gli diedi un bacio sulla fronte, gli accarezzai i capelli. Lui fece un gemito. Allungai una mano verso la sua, ma poi vidi che sul dorso aveva una flebo e mi ritrassi.

 «Sono messo male» disse Elias a voce così bassa che era impossibile lo stesse dicendo a me, e all'improvviso mi venne in mente che tanto tempo prima aveva affermato che esistono solo due scuole: quella "vecchia" e quella di Francoforte.

 Rimasi fino a tarda sera. Elias agitava la testa di qua e di là in modo febbrile. Solo ogni tanto un Sei ancora lì? si faceva strada attraverso il suo irrequieto dormiveglia.

 Quella sera mi preparai una zuppa istantanea e chiamai i suoi genitori.

Nessuno rispose. Mi stavo domandando se avrei dovuto chiamare Elke sul cellulare, quando mi ritrovai a parlare con la sua segreteria telefonica. «Sono Masa. Ciao». Feci una pausa, mordendomi un labbro.

«Elias è scivolato giocando a pallone. Si è rotto un femore. É all'ospedale». Le frasi mi uscivano a stento, era un decennio che non facevo più così fatica a parlare tedesco come quella sera. Elke mi richiamò nel cuore della notte. Mi chiese se fosse grave. No, la rassicurai. Disse che non poteva lasciare l'osteria. C'era il pienone ogni sera. Le risposi che c'ero io. Avrebbe cercato di venire prima possibile, disse Elke. Ci sono qui io, le ripetei.

 Preparai una borsa per Elias, piegai biancheria, magliette e l'unico pigiama che possedeva, ci infilai anche il suo nécessaire da viaggio, la sua macchina fotografica, un blocco da disegno e dei carboncini.

 Di pomeriggio i suoi compagni di stanza guardavano i talk show.

 I rumori della televisione si mischiavano con brandelli di conversazione, con il fruscio delle carte delle caramelle e dei giornali, con lo stridere delle scarpe e delle rotelle dei carrelli portavivande in corridoio.

 Il letto di Elias era in mezzo a quelli di altri due pazienti.

Accanto a ogni letto c'era un comodino. Su quelli dei suoi vicini si accumulavano tavolette di cioccolata, scatole di biscotti aperte, buste di orsetti di gomma, caramelle, riviste di sudoku, sigarette e giornali.

Diedi a tutti il buongiorno, ma nessuno mi fece caso.

 Elias giaceva pallido e con lo sguardo spento nel letto d'ospedale.

Accennai un sorriso e mi avvicinai a lui. Appoggiai la borsa da viaggio accanto al suo comodino e mi misi a elencare ciò che gli avevo portato.

Come a Natale, scherzò Elias, spossato.

 Intontito dalle medicine, aveva dormito per la maggior parte del tempo e si era mosso appena. Si era limitato a inspirare ed espirare. Io ero seduta accanto al suo letto, sbucciai mele acide, pere e un mango, avevo le dita appiccicose di succo. Presi un caffè e sparii in bagno a spruzzarmi dell'acqua fredda in faccia per scacciare le lacrime e il mal di testa. Trascorsero la mattina e il pomeriggio. Il sole tramontò con una lentezza straziante, fuori le ombre si allungavano e la mano di Elias era sempre nella mia.

 La mattina dopo stava già fotografando la stanza d'ospedale, la sua ferita e me che non riuscivo a guardare la ferita. Anche i vicini di letto vollero mettersi di fronte all'obiettivo. Avevano giocato a carte insieme e ora insistevano per chiacchierare con noi. Un professionista, non possiamo mica farcelo scappare, disse Heinz, quando seppe che Elias aveva studiato fotografia.

 Heinz era un ex militare e Rainer un fabbro. Con il senno di poi certe cose le avrebbero fatte in tutt'altro modo. Non molte, naturalmente non molte. Il paziente a sinistra si schiarì la voce e disse che si voleva complimentare con me, parlavo il tedesco meglio di qualsiasi russo-tedesco che avesse mai incontrato per lavoro, benché io fino a quel momento quasi non avessi aperto bocca. Heinz iniziò a raccontare di quando era prigioniero di guerra, finché Elias lo pregò di parlare piano. Poi Elias pregò anche me di parlare piano.

 C'era un caldo soffocante, l'asfalto rifletteva il calore, le strade non si rinfrescavano neppure di notte. Scesi dalla bicicletta davanti all'ingresso dell'ospedale e mi asciugai il sudore dalla fronte. Spinsi la bicicletta per qualche metro, tutti i posti nella rastrelliera erano pieni. Poi però ne vidi uno libero, lo occupai, la bici verde accanto alla mia si rovesciò, ci misi un po' a raddrizzarla.

 L'ospedale era un fabbricato lungo e basso con la facciata rivestita in pietra, al centro di un quartiere residenziale a ridotto limite di velocità, un edificio senza pretese, del tutto funzionale alle sue finalità mediche. L'aiuto chirurgo, che il giorno prima aveva rimosso il drenaggio a Elias, era seduto a fumare di fronte al reparto di ortopedia. Aveva le occhiaie e i capelli in disordine. L'avevo già visto in ospedale il giorno prima e sembrava avesse lavorato tutta la notte.

Mi fece un cenno con il capo e io rallentai fino a fermarmi esitante dinanzi a lui. Mi porse un pacchetto di sigarette celeste con delle scritte in caratteri arabi. Io gli offrii un cornetto. Lui soffiò fuori il fumo e infilò la mano nel sacchetto di carta. La pelle della sua mano era screpolata, le unghie giallastre per il tabacco.

 «É da poco che è passato alle sigarette con il filtro?»

 

«In verità no. Le ho avute da un paziente». Abbassò lo sguardo sul pacchetto, se lo rigirò tra le mani varie volte e poi passò il pollice sui caratteri arabi, come se prima non li avesse notati.

 «Non li so leggere» disse.

 Gli tradussi le scritte.

 Sospirò senza distogliere lo sguardo dal pacchetto.

 «Il paziente morto ieri pomeriggio. Stiamo fumando le sue ultime sigarette».

 Mandai giù il fumo e mi venne da tossire. Continuò a rigirare il pacchetto ancora per un po', poi se lo rimise nella tasca dei pantaloni.

Allora diede un morso a una punta del cornetto, sul suo camice caddero delle briciole piatte come scaglie e lui prese a fissare a turno me e il suo cornetto. «É qui per il signor Angermann?»

 

Annuii.

 «Stamattina aveva una macchia».

 «Come ha detto?»

 

«Una macchia».

 «In un polmone?»

 

«Cosa le viene in mente?» scoppiò a ridere il medico: «Ma no, intorno alla ferita, una piccola macchia, non è insolito, non si preoccupi».

 Mi diede una cameratesca pacca sulla schiena e scomparve all'interno dell'edificio.

 Quella sera la ferita di Elias iniziò a suppurare, il pus emanava un odore dolciastro e pungente che mi ricordava il profumo sovietico Warszawianka e mi provocava dei conati di vomito. La macchina fotografica di Elias giaceva sul comodino, lui giaceva sul letto con la faccia rivolta verso il muro ed era febbricitante. Suonammo il campanello per chiamare l'infermiera, lei però se la prese comoda, ma poi entrò nella stanza all'improvviso, tanto che all'inizio la scambiai per un fantasma. Indossava un camice corto ed esibiva una dentatura smagliante. Su un incisivo giallastro brillava uno strass blu. Poco seria. Si era messa le mani sui fianchi e aveva buttato la testa all'indietro. Aveva una luce fondamentalista nello sguardo. Parlava svelta, in tono basso, disse che Elias doveva alzarsi subito in piedi. A me non sembrava una buona idea, ma quando cominciò a gesticolare come una pazza urlando che davo i numeri, dovetti tacere e assecondarla.

L'infermiera trascinò Elias fuori dal letto: «Forza, giovanotto, in piedi!»

 

Elias rimase in piedi, fermo, mordendosi le labbra. Vidi il dolore sul suo volto e rimproverai l'infermiera ad alta voce. La mia voce suonava stridula.

 «É per il suo bene» mi rispose lei gridando.

 Appena Elias fece un passo, mandò un gemito di dolore, ma non si rimise a sedere. Restò in piedi, soffrendo, mentre l'infermiera annuiva incoraggiandolo. «Avanti, avanti».

 Elias mosse un altro passo, stavolta senza fiatare. Il suo volto era esangue.

 «Non vede che gli fa male?»

 

«Il dolore fa parte della vita. Mi creda, lavoro qui da ventanni!»

 

«Ventanni di troppo!»

 

«Masa, adesso basta!» Sulla fronte di Elias si formarono delle gocce di sudore, aveva il respiro veloce e irregolare. Si mosse barcollando verso il letto, cercò un appoggio, prese rumorosamente fiato e si aggrappò con tutte e due le mani alla sponda del letto. Lo spinsi sul letto. Elias non oppose resistenza e lasciò che lo mettessi a sedere. Gli posai una mano sulla guancia, che era ruvida e scottava. Aveva le lacrime agli occhi e anch'io.

 Mi piazzai davanti a Elias, pronta a tutto. Ma lui mi trasse a sé sul letto e disse all'infermiera un debole: «Se ne vada, per favore».

 «Una cosa del genere non mi era mai successa». La donna si precipitò fuori dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.

 Elias mi appoggiò la testa su una spalla, io lo aiutai a sdraiarsi. Si rannicchiò e si girò verso la parete. Poco dopo iniziò a tremare in tutto il corpo. Gli accarezzai i capelli, lui non reagì. Corsi in corridoio e trascinai nella stanza la prima infermiera che incontrai.

Lei tolse le bende dalla ferita di Elias e chiuse le due tende che dividevano il suo letto dagli altri, che pure erano vuoti. La ferita aveva un brutto aspetto. Elias venne mandato in radiologia e quando lo riportarono indietro non faceva altro che torcersi dai dolori. I medici attesero gli esiti dal laboratorio. Infine entrò il primario, un ometto pelato con la pancia prominente. Lo seguivano una dozzina di ossequiosi studenti di Medicina, perché a quanto pare quello era un ospedale universitario. Il primario esaminò la ferita, aggrottando la fronte.

Dopo di lui, gli studenti si chinarono verso Elias, qualcuno fece un'espressione disgustata, altri li spinsero via per osservare meglio la ferita. Io ero in un angolo e non vedevo né Elias né la ferita. Ma ne sentivo l'odore.

 Elias, pallido e ormai incapace di parlare, venne riportato in sala operatoria il mattino seguente. I suoi genitori erano partiti all'alba e ora stavamo aspettando tutti insieme nella caffetteria: il padre, con il suo naso dai grandi pori, aveva una vera e propria faccia da bestia. La madre aveva le guance paffute e gli avambracci robusti; tutti e due sedevano in silenzio con le tazze piene e dei panini che si erano fatti da sé.

 Horst leggeva lo «Spiegel», Elke e io guardavamo fuori dalla finestra.

Il cielo era scuro, nella notte il tempo era cambiato, c'era vento e piovigginava. Ogni tanto il padre, ogni tanto la madre mi squadravano di nascosto. Io scrutavo i loro volti e pensavo alle foto di Elias da piccolo, Elias il primo giorno di scuola, Elias davanti all'albero di Natale e allo Jugendweihe, un ragazzino pallido e sgomento.

  Nota: Cerimonia d'ingresso nell'età adulta diffusa specialmente nella ex ddr  tra i quattordicenni tedeschi, come alternativa laica alla cresima cattolica e protestante. Fine nota.

 Quando entrambi mi fissarono insieme, iniziai a vergognarmi per com'ero vestita, perché ero truccata e avevo i tacchi; peraltro; avevo trascorso la notte in ospedale, quindi non mi ero truccata quel mattino ma il giorno prima. Elke si schiarì la gola e guardò l'orologio, Horst sfogliava nervoso il giornale. Eravamo seduti a una finestra che dava su una via stretta e vuota. Il mio sguardo si fissò su un fagotto grigio in mezzo alla strada. Dapprima pensai che fosse solo un sacchetto di plastica, ma di solito i sacchetti di plastica non sono grigi. Poi pensai a un animale di peluche. Mi scusai, appoggiando la tazza sul tavolo in modo un pochino rumoroso, e dissi che dovevo andare in bagno. Una volta lì, lo specchio mi rimandò una brutta immagine di me stessa: avevo il naso lucido, cosa che ne metteva in risalto le dimensioni e la gobba, il mascara era colato. Il medico non aveva saputo dire quanto sarebbe durato l'intervento.

 Ero in strada e respiravo piano per calmarmi. Il vento soffiava freddo e mi tremavano le mani. Per un po' osservai il mio respiro, poi vidi l'animale. Era una lepre ed era viva, o per lo meno la sua gabbia toracica si alzava e si abbassava a intervalli irregolari. Conoscevo solo due preghiere: il Padre nostro e Ascolta, Israele. Il Padre nostro era inutile e Shemà Israel da solo non sarebbe bastato. Volevo mercanteggiare con Dio. Elias in cambio della lepre, Lui doveva far morire la lepre e non Elias. Ero profondamente pentita di non essere religiosa e di non avere da offrire qualcosa di più efficace rispetto ad "Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno. E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E metterai queste parole che Io ti comando oggi, nel tuo cuore". Cominciai a pregare dondolando, come avevo visto fare agli ebrei ortodossi.

Non Elias. No, per favore. No. No. Seppellirò la lepre e reciterò a memoria il Kaddish delle lepri.

 Pregai Dio di uccidere subito la lepre. La lepre continuava a respirare, non c'erano automobili in vista. La sollevai con cautela, non aveva ferite evidenti. Ma le orecchie penzolavano mosce, il pelo era pieno di polvere della strada e i suoi occhi rossi erano pressoché morti. Ammesso che si possa prevedere la morte attraverso il colore rosso degli occhi. E se non fosse stata affatto ferita, se si fosse soltanto sdraiata un attimo?

 

Rimisi giù la lepre e recitai un'altra volta lo Shemà Israel. Da destra mi passò accanto una piccola Opel. I genitori di Elias mi osservavano, li vidi che mi guardavano dalla finestra della caffetteria. Fui colta dal panico, iniziai a cercare una pietra. Ma sull'istante pensai, "qui non ci sono pietre". Però si trattava di Elias. Proseguii lungo la strada, vicino alla fermata dell'autobus c'era una pietra del selciato fuori posto. Un buon segno. Scavalcai la barriera di protezione e presi la prima pietra che trovai.

 Quando tornai, l'animale era ancora ostinatamente vivo. Come si fa a spiegare la fede a una lepre? Mi chinai, le accarezzai la testa, era morbida e bagnata, non reagì quando la toccai. Mi tremava la mano. Mi alzai, sollevai il braccio, la pietra finì accanto alla testa della lepre. Allora la raccolsi ed ebbi la sensazione che la lepre mi stesse fissando. Le chiesi perdono e feci di nuovo cadere la pietra, stavolta la centrai, le esplose il cranio, fuoriuscì il cervello, misto a sangue e frammenti d'osso. Mi voltai, reprimendo la nausea che mi stava assalendo.

 Quando tornai dai genitori di Elias in caffetteria, cercai di entrare senza far rumore, senza sbattere i tacchi delle scarpe contro gli scalini di marmo. Le mie mani erano rosse per il freddo.

 

 

 L'operazione era andata bene, comunicò l'aiuto chirurgo Weift Se ne stava là a gambe larghe, strinse sorridendo la mano a Elke e Horst. Io ero lì vicino a loro e osservavo Elias. Giaceva immobile sul letto.

Nella coscia aveva un pezzo di metallo ancora più lungo. Prevedevano di dimetterlo entro tre settimane. Poi avrebbe proseguito con la riabilitazione in ambulatorio. La pioggia sferzava i vetri della finestra, per strada i passanti si affrettavano sotto gli ombrelli aperti.

 

 

 

 

 Capitolo 3.

 Mia madre continuava a chiamarmi per chiedermi se doveva venire e io le rispondevo di no. Arrivò la domenica portando con sé gli avanzi del pranzo di compleanno di mio padre. Misi sul tavolo due piatti, coltelli e forchette, il cibo lo lasciai nei contenitori senza neppure riscaldarlo. Mia madre mi osservava preoccupata, io ricambiavo stancamente i suoi sguardi. Volle sapere tutto sulla diagnosi di Elias.

I miei genitori si erano a lungo lambiccati il cervello per capire come avrebbero potuto russificare il nome di Elias, per trasmettergli tutto il loro amore attraverso un affettuoso diminutivo. Infine mio padre annunciò Elisa: mia madre applaudì entusiasta e da quel momento in poi lo chiamarono Elisa. (pron. Elisha)

 

Mangiammo in silenzio. A me non dava fastidio, ma mia madre non sopportava il silenzio e parlava del suo lavoro. Insegnava pianoforte, aveva iniziato in una scuola di musica, poi era passata all'accademia musicale. Anche lei i primi tempi aveva avuto difficoltà con il nuovo sistema: formatasi in un conservatorio sovietico, aveva degli standard professionali al di sotto dei quali non riusciva ad andare. Quando il padre di una delle sue prime allieve, un pastore, si lamentò con lei perché la figlia non si divertiva alle lezioni di musica, a mia madre vennero la tachicardia e le mani sudate. Fino a quel momento non aveva mai pensato che il divertimento fosse lo scopo dell'arte. Tanto meno si sarebbe aspettata una cosa del genere da un pastore. In urss la musica veniva trattata con la massima serietà e lo stesso valeva anche per il balletto e le arti figurative. A differenza della Germania, qualsiasi bambino poteva avere, oltre al normale corso di studi, una formazione artistica di livello professionale e soprattutto gratuita, a patto però che fosse determinato a lavorare duro: mia madre non riusciva a concepire che qualcuno non lo fosse.

 Un tempo, quando ancora era giovane, bella e aveva successo, prima del suo sconsiderato matrimonio con mio padre, nel nostro salotto c'era un pianoforte a coda. Prima dei concerti mia madre si esercitava per giorni e giorni. Per questioni igieniche e per la situazione generale andai all'asilo solo per poche settimane. Quindi me ne stavo in sala, seduta sotto il pianoforte ad ascoltare mia madre.

 Quando vedevo i miei genitori, li rassicuravo sempre che le cose mi andavano bene, parlavo di borse di studio, corsi estivi, stage e soggiorni all'estero, raccontavo dei miei progetti, dove avrei lavorato e quanto avrei guadagnato. Raccontavo di Sami e in seguito di Elias, e i miei genitori credevano a tutto perché recitavo molto bene la mia parte.

Arrivati al secondo - carne d'agnello con castagne lessate e frutta secca, dolma, foglie di vite ripiene di riso, agnello macinato, cipolle tritate fini e noci - mia madre rideva. Raccontai aneddoti sull'ospedale che mi inventavo sul momento.

 Quando finalmente se ne andarono, sul tavolo rimasero melagrane, arance, pere, banane, involtini di pasta sfoglia e l'ultima fetta di torta al cioccolato. Accesi il televisore, una replica di Tatort - una serie poliziesca - sfarfallò sullo schermo. A Hannover tutto faceva pensare che presto una commissaria di polizia avrebbe trascorso una notte d'amore con uno del Sud. Alzai il volume al massimo e mi infilai sotto la doccia. Insieme alle cellule epidermiche morte sfregai via il più possibile l'odore di ospedale. Tentavo di ricordare il corpo di Elias senza i chiodi e la lunga ferita nella coscia. Poi mi immaginai di baciare una donna sulle scale, tra porte che sbattevano, odori di cucina e bambini che gridavano, e di infilarle una mano tra le cosce. Prima ancora che venisse scoperto l'assassino, ero già sul divano a spalmarmi la crema sulle gambe. Avevo la mia ipotesi e aspettavo la fine dell'episodio.

 Il quadrante della radiosveglia segnava le quattro del mattino. Ebbi un crampo al ventre, avevo un saporaccio in bocca e mi faceva male anche la nuca. Mi trascinai in bagno controvoglia e cercai la scatola degli assorbenti. Lavai via il sangue sotto il getto caldo della doccia, mi avvolsi in un asciugamano di spugna verde menta e mi rimisi a letto.

 La casa era silenziosa. Mi domandai se avessi chiuso a chiave la porta, se fosse normale che il frigorifero facesse dei rumori così sospetti e perché i vicini stessero già schiamazzando giù per le scale. Alle cinque decisi che restare a letto non aveva più senso. Presi il primo indumento che trovai sul pavimento, un vestito estivo a quadretti rossi e bianchi, che mi copriva a malapena i fianchi, tanto da farmi sembrare una bambina cresciuta troppo in fretta. Mi legai i capelli e andai in cucina. Cercai di pensare a tutte le cose che avrei potuto fare in assenza di Elias, ma non me ne venne in mente nessuna, perciò smisi di occuparmi anche di quelle che avrei dovuto sbrigare quando lui era lì: c'erano dappertutto confezioni aperte, giornali, tazze e ciotole sporche, la spazzatura traboccava, e va da sé che non stavo separando carta, vetro, plastica, residui organici, metallo, apparecchi elettrici e rifiuti ingombranti.

Accesi la radio e tradussi le notizie del mattino in francese, mentre sciacquavo la caffettiera e inzuppavo una baguette precotta in una ciotola di latte a lunga conservazione. Il suono del telefono mi spaventò, mi ingozzai con il pane che non avevo neppure terminato di cuocere. Sul display comparve il numero di Elias.

 «Già sveglio?» chiesi stupita.

 «Cosa credi? Ci svegliano alle sei per il giro dei medici. Ti fissano come se tu fossi un coniglio appena uscito dal cilindro. E se qualcuno non si fosse svegliato a tempo e si fosse perso il gioco di prestigio, dopo un po' ritornano».

 «Come va?»

 

Ci fu un fruscio nella linea.

 «Ti fa male?» gli chiesi.

 «No» rispose lui.

 Sapevamo tutti e due che era una bugia.

 «Oggi ce la fai a venire più presto?» mi chiese esitante.

 «Sì» cercai di suonare affettuosa, proprio mentre mi veniva in mente che quel giorno avevo un seminario. Ma ormai era troppo tardi. Gliel'avevo promesso.

 «Grazie».

 «Non c'è di che. Ti devo portare qualcosa?»

 

«Roba calda, qui la gente non fa che lasciare la finestra aperta».

Sussurrò nel ricevitore qualcosa che non capii, poi riprese a parlare in tono normale: «L'ideale sarebbe una sciarpa e dei maglioni, quello nero e quello grigio scuro di cachemire».

 «Vuoi qualcosa da mangiare?»

 

«Proprio no, qui non fanno che rimpinzarmi. Sto già ingrassando. Ma potresti portarmi i libri e l'obiettivo che c'è nel comò, nel primo cassetto a sinistra; stavolta però prendi quello giusto».

 «Mica hai bisogno di tutta la tua fottuta attrezzatura, no?»

 

Riattaccai e cercai di ripescare dalla scodella di muesli il pezzo di pane che nel frattempo si era inzuppato, ma risultò più semplice bere tutto. Ero furiosa con Elias, con me stessa e con il mondo intero.

Percorsi lentamente i corridoi della biblioteca dell'Accademia di Belle Arti, che erano completamente diversi da quelli della mia facoltà.

Presi un volume da uno scaffale e sfogliai le riproduzioni dei maestri fiamminghi e la documentazione di un happening. Quando ebbi tra le mani il catalogo della mostra sui Sonic Youth, mi domandai se la mia vita stesse andando per il verso giusto. Ho una certa facilità con le lingue, afferro in fretta le strutture e ho una buona memoria, ma negli ultimi anni non avevo fatto altro che studiare lessico tecnico e costrutti grammaticali. Ero disciplinata e avida di successo. A scuola avevo imparato inglese, francese e un po' d'italiano, poi ero stata per un anno in Francia come ragazza alla pari, per perfezionare la lingua. In seguito mi ero iscritta a un corso per interpreti e nel tempo libero avevo studiato italiano, spagnolo e un po' di polacco, ma non riuscivo a entusiasmarmi per le lingue slave. Ciononostante avevo fatto un semestre all'Università Lomonosov di Mosca e degli stage presso organizzazioni internazionali a Bruxelles, Vienna e Varsavia. Una borsa di studio mi aveva consentito di liberarmi della maggior parte dei miei lavoretti extra. Tuttavia ero arrivata ad avere un curriculum davvero lungo e mi ero abituata al Ritalin e ad altre sostanze che aiutano a studiare.

Presi la prima laurea in corso e iniziai a seguire una scuola di arabo.

Sami era stato un buon insegnante, ma era tornato negli usa. Un anno più tardi conobbi Elias.

 Stavamo insieme da appena due mesi quando decidemmo di fare un viaggio.

Girammo per quasi quattro mesi per la Francia e l'Italia, da là alle Baleari e in Spagna, poi Marocco, Egitto e Turchia. Durante quel viaggio, Elias fece le foto per il suo lavoro di fine corso. Al nostro ritorno, lui scomparve in camera oscura e io mi iscrissi a due master, Interpretariato e Arabistica.

 Il bibliotecario aveva dei grandi occhiali con la montatura in corno e fissava la mia maglietta. Gli porsi i libri. «Mi dispiace, non riesco a evitarlo. Sono proprio belle, parlo delle tue tette».

Lo guardai negli occhi, erano grigi e freddi. Era palesemente soddisfatto di sé, non sembrava imbarazzato né a disagio e mi restituì i libri sorridendo. Magari aveva decostruito il suo sessismo e a quel punto pensava di potersi permettere qualunque cosa. Volevo mollargli sulle dita quel pesante mucchio di monografie d'arte, ma lui tolse le mani appena in tempo. Allora pensai di sputargli addosso, ma mi parve troppo teatrale.

 Ero così furibonda che andai all'università a piedi. Speravo che nel tragitto mi sarei calmata. Era un'ora di strada, dovevo passare per il centro città sovraffollato e il quartiere delle banche. Nel frattempo mi avrebbero chiesto l'elemosina tre volte, sorriso sei volte, domandato due volte una sigaretta, tre volte un euro e un vecchio hippie mi avrebbe pregato di fargli un massaggio tantrico. Arrivai in ritardo al seminario e la mia traduzione in francese risultò insufficiente. Quel giorno non ero proprio in grado di affrontare Traduzione simultanea francese-tedesco in e Introduction à la problématique des techniques industrielles, e la traduzione in generale.

 Il mio professore mi chiese di andare a parlare con lui. Dall'inizio del corso non avevo mai preso meno di 1,5 (Nelle università tedesche il voto migliore è 1, il peggiore 5 [N.d.T]) e in quel caso si era trattato di un errore durante il primo semestre. Quel pomeriggio si sarebbe seduto di fronte a me con la sua tazza blu in mano e mi avrebbe esortato a darmi da fare. Poi si sarebbe informato sulle regioni vinicole dell'Azerbaigian e si sarebbe detto spiacente per il mio plurilinguismo tardivo, quella non era la mia madrelingua, non c'era niente da fare. E io ancora una volta avrei mescolato in silenzio il mio tè senza zucchero, senza parlargli dell'eccellente brandy della regione intorno a Ganja, perché quel brandy non si trova né in bottiglie eleganti né nei negozi per buongustai della Fressgass di Francoforte, ma soltanto a Ganja, in piccole taniche che vengono spedite solo agli intenditori e ai parenti stretti. E non gli avrei detto che l'azero forse l'ho imparato dai vicini di casa, non dai miei genitori, e che lo parlavo in maniera fluente, senza accento, finché non ci siamo trasferiti in Germania e non ho più avuto occasione di praticarlo. E neppure gli avrei detto che in Azerbaigian avevo avuto fin dall'età di cinque anni un insegnante privato di inglese e uno di francese e che mia madre per quelle lezioni aveva dovuto vendere un anello con diamante di sua madre.

Né gli avrei detto che quelli che non hanno l'acqua corrente in casa non sono per forza degli incolti, ma il mio professore era il mio professore e aveva adottato a distanza dei bambini in Arica e in India. Il suo multiculturalismo si svolgeva in centri congressi, sale conferenze e hotel costosi. L'integrazione per lui consisteva nella richiesta di meno velo e più pelle e nella ricerca di un vino esclusivo o di una destinazione di viaggio insolita.

 Quando arrivai all'ospedale ero ancora più infuriata. Rainer disse che Elias era a fare un'analisi e Heinz aggiunse strizzando l'occhio: «Potrebbe metterci un bel po'. Ma resta qui tranquilla. Di te ci occupiamo noi». Risero entrambi.

 Sbattei i libri sul tavolo e me ne andai subito. Gli edifici dei diversi reparti si trovavano in un giardinetto, ma non era un posto tranquillo, le panchine erano sempre tutte occupate da anziani e i vialetti erano affollati di gente in sedia a rotelle. Mi sedetti sull'unica panchina libera e accesi una sigaretta. Dopo neppure cinque minuti una graziosa vecchietta con un fazzoletto colorato in testa e gli incisivi d'oro si sedette accanto a me. Dal pigiama dell'ospedale estrasse un sacchettino di semi di girasole e iniziò a infilarseli in bocca e a sputare i gusci giusto davanti ai miei piedi.

 «Dentro non mi lasciano più. I vicini di letto protestano con il dottore».

Le risposi in russo e il suo viso si illuminò. Mi agitò il sacchettino di semi di girasole sotto il naso.

 «Sei fidanzata?»

 

«No».

 «Ce l'hai un ragazzo?»

 

Annuii e lei sputò soddisfatta un discreto carico di gusci.

 «Alla tua età io ero già sposata».

 Feci spallucce.

 «Lo fa spesso?»

 

«Mi scusi?»

 

«Lo fa spesso?» ripeté lei. «Ti picchia spesso? Pesta duro, con forza?»

 

«Non mi picchia».

 «Lo fanno tutti. Mio marito mi picchiava. Mia suocera. Lei più di tutti.

Lei me ne dava tante. Mia cognata, era cattiva anche lei. Sono stata per due anni in ospedale».

 «Due anni?»

 

«Sì. Due anni».

 «In che reparto?»

 

«In quello sovietico, come tutti. Che razza di domande mi fai?»

 

«Era rinchiusa?»

 

«No, la mia testa funziona benissimo. Cosa stai dicendo? Ero incinta del settimo».

 Rimasi in silenzio.

 «Sei sono più che sufficienti! Gli dissi che non mi doveva più toccare, ma lui continuava a farlo».

 Annuii.

 «Non ne avevo più voglia. Sono salita in cima all'armadio e sono saltata giù. Gli organi del ventre sono caduti fuori e io mi sono ritrovata all'ospedale. E ora eccomi qui di nuovo».

 

 

 

 

Capitolo 4.

 Conoscevo l'uomo chino sugli spiccioli alla cassa. Cappotto nero e capelli argentei, sistemati con cura sulla sua testa spigolosa. Non lo vidi subito, prima notai la sua andatura un po' ciondolante e le scarpe a punta di coccodrillo. All'università ci passava davanti sorridendo, come si sfiora un gruppo di persone senza bisogno di distinguerne i volti. Windmühle incarnava l'arroganza di un interprete di successo che, con il colletto della camicia sollevato, dava udienza, padroneggiava parecchie lingue e riceveva incarichi da tutte le grandi istituzioni. Si diceva che la sua voce in cuffia piacesse così tanto che una volta un delegato del Liechtenstein gli aveva fatto una proposta ambigua. Quando teneva lezione, l'assoluta autoreferenzialità era la sua condizione normale.

 Alla cassa Windmühle stava pagando un panino imbottito. Intorno all'ospedale Nordwest non c'era altro che un cimitero, un'impresa di pompe funebri e un negozio di prodotti per la casa. Ero seduta nella caffetteria dell'ospedale, di fronte a una minestra acquosa che non mi decidevo a mangiare. Poi mi immaginai tutti i bacilli che nuotavano tra le patate stracotte e le carotine in scatola. Erano già due settimane che Elias si trovava nel reparto di ortopedia e ci sarebbe dovuto restare per lo meno altrettanto. Contavamo i giorni che, a seconda dell'umore, erano molti oppure pochi.

Windmühle mi sorrise. Ricambiai circospetta, lui si avvicinò e mi chiese se poteva sedersi con me. I tavoli erano tutti vuoti. Annuii.

 «Sa una cosa? Credo di conoscerla».

 Annui di nuovo.

 «Lei è stata una mia studentessa, vero?»

 

Sorrise incoraggiante. «Come mai ha smesso di venire al mio seminario?» Diede un morso al panino.

 Rimasi in silenzio.

 «Lei è russa?»

 

«Un po'».

 Volevo prenderla alla lontana, ma Windmühle fece un cenno di diniego: «Mi dica piuttosto, quali sono le sue lingue b?»

 

«Russo, francese e inglese».

 «Altre?»

 

«Nessuna lingua di lavoro».

 «Ma di sicuro sono opzioni c».

 Annuii senza sapere cosa dire. Windmühle mi osservava, io annuii di nuovo e fissai la mia tazza.

 Il terzo giorno che ero in Germania andai a scuola e venni subito retrocessa di due classi. Anziché calcolare le radici quadrate, mi ritrovai a colorare le figure di un libro.

 Accompagnai i miei genitori all'ufficio stranieri e là imparai che sapere le lingue è potere. Chi non parlava tedesco non aveva voce e chi biascicava qualche parola non otteneva la dovuta attenzione. Le richieste venivano accolte o respinte in base all'accento più o meno forte. Attendemmo finché il numero dei miei genitori comparve al di sopra della pesante porta di ferro. Si attendeva a lungo perché di rado l'ufficio stranieri in un giorno gestiva più di cinque migranti, per farcela dovemmo metterci in coda già parecchie ore prima dell'apertura.

Anche ai colloqui con gli insegnanti, un'altra faccenda decisamente vessatoria, me ne stavo seduta in corridoio con i capelli a caschetto, gli occhiali e l'apparecchio per i denti, accanto a mia madre. Mi fissavo le scarpe, vergognandomi a turno di me stessa e di mia madre. Le insegnanti di tedesco, matematica e geografia spiegavano al l'unisono che la mia conoscenza della lingua era insufficiente e che quello non era il posto giusto per me. Io traducevo con impazienza per mia madre. La mia scuola conosceva i migranti solo attraverso la stampa scandalistica e i programmi televisivi del pomeriggio. É vero che nella mia classe c'era una ragazzina la cui madre veniva dalla Finlandia, e in un'altra classe un bambino con la mamma olandese, ma nessuno dei due indossava i vestiti del discount ed erano in ogni caso mormoni. Arabi, neri e turchi non ce n'erano. Trotterellavo appresso ai miei compagni di scuola, cercavo di vestirmi come loro e di avere gli stessi hobby, noi però non potevamo permetterci nessuna delle due cose. Quando in classe c'era scompiglio, davano la colpa a me, anche se io mi vergognavo anche solo di aprire bocca. Per tre anni praticamente non dissi una parola. Ero concentrata su un futuro incerto. Ordivo sogni: studiavo carte geografiche, leggevo guide turistiche e facevo elenchi di cose che mi sarebbero servite in viaggio. Ero sicura che tutto sarebbe andato meglio appena fossi partita e avessi iniziato a vivere come fotografa, giornalista o assistente di volo. Nella nostra cittadina c'era una base militare americana e qualche volta pensavo di sposare un soldato, ma mi trovavo troppo brutta e più tardi venni a sapere che le mogli dei soldati restavano in Germania.

Mentre io volevo andare via.

 In terza superiore avevo un'insegnante di tedesco che soffriva di alopecia. Il collegio dei docenti e gli studenti delle prime classi non glielo perdonavano. Quando non riuscì più a tollerare quelle umiliazioni, le indirizzò su qualcun altro. Era un tranquillo pomeriggio d'inverno, c'era una luce sbiadita e in classe mancava l'aria. Quella professoressa oltre che tedesco insegnava anche educazione civica, si parlava di delinquenza di origine straniera e tutti erano a favore dell'immediata espulsione dei criminali immigrati.

Per la cronaca, si stava parlando del caso Mehmet: un delinquente che non mi sarebbe affatto piaciuto incontrare, tuttavia non capivo proprio in cosa consistesse di preciso la differenza tra lui e un criminale tedesco - senza contare che Mehmet era nato in Germania, cresciuto a Monaco, aveva studiato esclusivamente in scuole tedesche e malgrado ciò non era cittadino tedesco. La mia insegnante aveva pronta una risposta a questa domanda.

 Quando non riuscii più a sopportare questa discussione, presi dalla cartella le forbici per i lavori manuali, mi alzai e mi avvicinai alla cattedra. Mi piazzai di fronte a lei con le forbici nella mano destra.

In quell'istante sapevo di poter fare tutto ciò che volevo. Le strappai la parrucca dalla testa. Qualcuno scoppiò in una fragorosa risata, quando apparve quella testa quasi calva, con giusto qualche ciocca di capelli avvizziti. Lei non si difese, si limitò a guardarmi atterrita.

Mi fece addirittura pena, perché era una vittima quanto me, ma io, al contrario di lei, avevo deciso di difendermi.

 Venni espulsa dalla scuola. Mia madre era inorridita, mio padre divertito e un po' orgoglioso, e io sapevo che da quel momento in poi tutto sarebbe andato meglio. All'inizio pensai di abbandonare per sempre la scuola e fare un viaggio intorno al mondo, ma non avevo né i soldi né un passaporto tedesco. Quindi mi trasferii nella scuola Max Beckmann di Francoforte e andai a vivere con Sibel. Allora avevo già diciassette anni.

 Ormai parlavo cinque lingue in modo fluente, più qualcun'altra, tipo il tedesco-da-turista-festaiolo-a-Maiorca, anche se non c'era nulla in me che facesse pensare al tempo libero.

 «E cosa ci fa qui?» mi chiese Windmühle.

«Sono venuta a trovare il mio ragazzo».

 Annuì senza domandarmi informazioni su Elias, cosa che apprezzai.

 «E lei?» gli chiesi.

 «Le lascio un biglietto da visita. Può farsi sentire, se ne dovesse avere bisogno».

 Ormai Windmühle aveva mangiato e se nera andato da un pezzo, e io ero ancora lì con il suo biglietto da visita in mano.

  

 

 Capitolo 5.

 Nella stanza c'era un caldo soffocante. Elias non diceva una parola e io neppure. Heinz era stato dimesso da un paio di giorni e Rainer stava sostenendo un'esame.

 «Ci metterei sopra una coperta, se potessi» disse Elias.

 Mi abbracciai un ginocchio e ci appoggiai la testa, in modo da non vedere né Elias né la sua ferita.

 «Ricomincerai a guardarmi, quando sarò guarito?»

 

«É soltanto la tua gamba che non riesco a guardare».

 «Perché no?»

 

Andavo su e giù per la stanza. Elias mi seguiva con gli occhi, che erano disperati e stanchi. Ciononostante dentro di sé stava bene e io lo invidiavo per questo. Abbassò lo sguardo.

 «Non so per quanto riuscirò a sopportarlo» disse Elias.

 «Vuoi lasciarmi?»

 

«Non riesco ad aiutarti».

 «Ti ho chiesto di farlo?»

 

«Perché non ti decidi a dirmi cosa ti è successo? Siete emigrati nel 1996, quando non ce nera più bisogno».

 «Non ce nera più bisogno. Lo sai tu».

 «Certo, lo so io» ripeté Elias in tono amaro.

 «Sembri uno dell'ufficio stranieri» lo interruppi.

 Lui fece un respiro profondo e disse: «Non possiamo andare avanti così».

«Ah, è così? Mi stai lasciando?» gridai.

 «No!»

 

«E allora non venirmi a dire queste stronzate».

 Corsi fuori sbattendo la porta. Era una discussione che avevamo spesso, e ogni volta era peggio.

 In bagno misi le mani sotto il getto d'acqua calda. Iniziai con il dorso, poi i polsi, infine ficcai sotto l'acqua tutta la testa. Mi gocciolava sui piedi. A quel punto pensai di scappare via. Sarei stata in grado di raccogliere le mie cose e lasciare la nostra casa nel giro di due ore. Avrei potuto sopravvivere nella maggior parte dei Paesi.

Praticamente non avevo bisogno di nulla. Sarei potuta andarmene subito.

 Rientrai nella camera. Elias mi sorrise e allungò le mani verso di me.

Mi avvicinai al letto. Il sole stava morendo nel cielo e inondava la stanza di luce calda.

 «C'era una bambina, e c'era un padre. Il padre voleva portare al sicuro la bambina. Per andare dalla nonna dovevano correre per dieci minuti. La bambina non aveva ancora sette anni e sentiva che negli ultimi giorni era cambiato qualcosa, ma non avrebbe saputo dire cosa. Stava pensando proprio a quello, quando la donna accanto a lei esplose. Il sangue scorse lento fino alle scarpe della bambina, e le punte delle scarpe della bambina si tinsero di rosso. Il sangue era caldo e la donna era più giovane di me oggi. La bambina si tolse una ciocca di capelli dalla faccia e le rimase del sangue su una guancia. Sarebbe potuto andare peggio, disse la nonna in tarda serata, mentre lavava via la crosta di sangue dalla scarpa della bambina».

 Elias prese la mia mano tra le sue e ne baciò il palmo e mi riempì il braccio di piccoli baci. Poi allungò le dita verso il mio viso, mi carezzò la guancia e mi strinse a sé.

 

 

 

 

Capitolo 6.

 Il cielo era cupo, sulle banchine della stazione i pendolari attendevano, gruppi di studenti del tutto identici tra loro salivano e scendevano. Ogni due minuti si fermava un treno della ferrovia urbana.

Io non riuscivo a concentrarmi sulle mie schede e osservavo gli studenti. I ragazzi erano tutti vestiti in stile tamarro di periferia.

Le ragazze usavano i display dei telefonini come specchi, cercavano di rimettere in sesto le loro acconciature. Il gruppo dei Gangsta si dava delle arie parlando uno pseudo arabo o turco, i minorenni salutavano i loro compagni di scuola con frasi come: «Be', allora... bunun uzerine ciao». Campi, case in costruzione e piccoli edifici ferroviari iniziavano a diradarsi e loro si gridavano a vicenda: «Be' allora ciao, raga!» Case e persone iniziarono a sembrare forme di pane in cassetta cotte male. Ero contenta che la mia giovinezza stesse finendo.

 Ufficialmente facevamo parte del contingente di rifugiati ebrei destinato a rimpolpare le comunità tedesche. Ma noi emigrammo a causa del Nagorno Karabakh, non certo in quanto ebrei.

 All'inizio del 1987 in Armenia iniziò una campagna il cui obiettivo era l'integrazione del Nagorno Karabakh nella Repubblica sovietica armena.

All'epoca in quella provincia vivevano azeri e armeni. A Erevan si tennero delle manifestazioni, le prime di quel genere in Unione Sovietica. Il 20 febbraio 1988 il Territorio autonomo del Nagorno Karabakh annunciò la sua uscita da quella che allora era la Repubblica sovietica azera. Ci furono i primi scontri, gli azeri iniziarono a fuggire. La situazione si aggravò.

Ma nessuno si aspettava Sumgait. Tutto iniziò con una piccola manifestazione: sembra che dei profughi provenienti da Kafan si fossero radunati nel centro di Sumgait. La polizia non fece nulla. Nei due giorni successivi delle bande devastarono la città, trasformandola in una zona della morte per gli armeni. Fracassarono le finestre, incendiarono automobili e diedero la caccia agli armeni. Vennero saccheggiate e bruciate case, gli abitanti vennero umiliati, maltrattati, assassinati e stuprati. Diverse persone furono uccise a colpi d'ascia e i loro corpi ridotti in uno stato tale da renderne impossibile l'identificazione. Spesso gli assassini non erano in grado di distinguere gli azeri dagli armeni, non esistevano caratteristiche etniche peculiari e la maggior parte degli armeni parlava un eccellente azero. Io stavo andando al conservatorio con mia madre, quando a Baku si diffusero le prime voci. Eravamo in coda per il pane e la donna prima di noi raccontò agli altri in russo che avevano fermato la macchina del suo ragazzo, avevano fatto scendere tutti e ordinato di dire ad alta voce la parola jundukh, che in azero significa nocciola. «Di' fundukb!» aveva gridato l'aggressore. «Se sei capace di dire fundukh, sei un musulmano.

Quindi non ci sono problemi». Mia madre mi spiegò che azeri e armeni pronunciano la parola in modo diverso. Fu l'unica cosa che riuscì a spiegarmi. Nel pogrom morirono una trentina di persone. Quasi tutti i quattordicimila abitanti di origine armena fuggirono da Sumgait.

 Nei mesi e negli anni successivi la violenza, le espulsioni, gli stupri e i pogrom proseguirono da entrambe le parti. I movimenti nazionalisti divennero sempre più forti, lo status del Nagorno Karabakh continuò a rimanere incerto. Infine il parlamento armeno decise che il Nagorno Karabakh apparteneva all'Armenia.

Due giorni più tardi gli azeri dichiararono che quel territorio era loro. Gli armeni abbandonarono l'Azerbaigian, gli azeri abbandonarono l'Armenia, in pochissimi casi di loro spontanea iniziativa. Noi raccoglievamo vestiti e cibo per i profughi, che erano sempre più numerosi. La prima volta che vidi un ragazzo della mia età chiedere l'elemosina in centro con dei monconi al posto delle gambe, andai fuori di me, perché capii che non era nato così e neppure si era trattato di un incidente. Mio padre venne inviato come osservatore in Karabakh e spesso non sapevamo per giornate intere se fosse ancora vivo oppure no.

 La lotta per il potere e per il petrolio era in corso da tempo. A Baku venne fondato il Fronte nazionale. Impediva le assemblee nelle fabbriche e negli uffici, accumulava armi che comprava dai soldati russi. In modo illegale, va da sé. A quei tempi un kalashnikov costava cento dollari, un carro armato tremila. Anche la nostra vicina divenne un'ardente nazionalista. Mentre lei partecipava a quelle riunioni, mia madre si occupava di suo figlio Farid.

 L'odio non era un fatto personale, ma strutturale. Le persone non avevano più un volto, degli occhi, un nome e un lavoro: erano diventati azeri, armeni, russi e georgiani. Persone che si conoscevano da una vita, dimenticavano tutto ciò che sapevano le une delle altre. Rimaneva solo la cosiddetta nazionalità.

 Il 13 gennaio 1990 sostenitori del Fronte nazionale, profughi dei territori annessi e presunti agenti del kgb andarono in tutte le case di armeni, procedendo in maniera sistematica perché avevano le liste con gli indirizzi. Quelle visite significavano saccheggi, stupri, mutilazioni e omicidi. Uccidevano con coltelli e bastoni. Non di rado qualcuno finiva giù dalla finestra. Io non potevo uscire di casa e neppure fare domande.

 Mio nonno, che all'epoca viveva con noi, aveva gli occhi e i capelli scuri con gli zigomi molto pronunciati. Mentre si stava recando in tram all'università, dove insegnava Chimica inorganica, venne preso per armeno e pestato. Tre giorni dopo morì d'infarto. Quella mattina fui io a trovarlo sulla sua poltrona preferita. Mio padre chiuse a chiave la porta della stanza. Era suo padre.

 La mamma, in lacrime, chiamò sua madre. Litigarono per un po', poi mia madre riagganciò e disse di vestirmi. Riempì una borsa e la diede a mio padre. In strada non si sentiva nessun rumore, accanto a certe case c'erano mobili sfasciati. E vetri. Mio padre mi trascinò per un braccio, dovevo sbrigarmi. Mia nonna viveva solo tre vie più in là. Quando arrivai da lei, ero distrutta, e così pure la mia infanzia.

 Il 15 gennaio 1990 le truppe russe circondarono Baku. La popolazione si fece irrequieta, lungo le strade di accesso a Baku e di fronte alle caserme russe vennero eretti blocchi e barricate per impedire l'occupazione della città. Pochi giorni dopo il kgb fece saltare in aria le emittenti radiotelevisive. Su tutti i canali rumore bianco. Nessuno sapeva più nulla, eravamo pronti al peggio. Fui la prima a sentire i carri armati per strada. La vicina di casa era nella cucina dei miei genitori e si mise a urlare: «I russi sono tutti assassini».

Mio padre, calmo e tranquillo, le disse: «Se ne vada da casa mia, per favore».

 I tiratori scelti russi aprirono il fuoco sui civili disarmati, i carri armati travolsero le barricate, la gente e persino un'ambulanza.

Quella notte morirono centinaia di persone. Una ragazza ebrea di sedici anni venne uccisa in salotto perché la sua ombra era visibile dalla finestra. Morì dissanguata su un tappeto dai colori e motivi tipicamente caucasici.

 Il mattino seguente in diecimila protestarono di fronte al palazzo presidenziale. Il 23 gennaio ci fu una cerimonia pubblica in onore dei "martiri" e proprio allora i miei genitori cercarono di seppellire mio nonno. La sua salma stava marcendo da giorni nel nostro salotto. Fu una decisione sbagliata, la macchina dei miei genitori venne bloccata, volevano farli scendere e li accusarono di essere agenti russi e assassini. L'odio a quel punto era rivolto contro i russi. Insieme ai miei genitori c'era un'amica che parlava azero senza accento ed era del Fronte nazionale. Quella volta l'amica salvò i miei genitori.

 I successivi quaranta giorni di lutto coincisero con uno sciopero generale. In ottobre ci fu la dichiarazione d'indipendenza. Vennero approntati strumenti d'identificazione e di classificazione; venne issata una nuova bandiera: blu, rossa e verde con una mezzaluna bianca e una stella bianca a otto punte. Il blu rappresenta il cielo, il rosso la libertà e il sangue che è costata, il verde la fecondità della terra -

così ci insegnarono a scuola. Solo in dicembre iniziai ad andare a scuola. Stavamo in classe con il giubbotto e scrivevamo con i guanti perché le finestre erano sfondate. Un coprifuoco non dichiarato aleggiava su Baku come nebbia e proseguì fin quando emigrammo.

 Nel Nagorno Karabakh infuriava la guerra. La nostra vicina implorava Dio cinque volte al giorno: «Non far partire mio figlio». Non servì a nulla, quarantott'ore dopo il suo diciottesimo compleanno, Farid venne arruolato. Mia madre gli diede il caldo giubbotto di mio padre. Farid non tornò più, sua madre smise di pregare.

 I rifugiati del Nagorno Karabakh erano accampati nei parchi, avvolti nelle coperte, alcuni erano mutilati. Molti occuparono appartamenti di armeni, spesso con la violenza. Un milione di azeri erano fuggiti dal Nagorno Karabakh. Le scuole in lingua azera si riempirono di nuovi studenti provenienti dal Karabakh, quelle in lingua russa erano sempre più vuote. Nel frattempo io giocavo con le bambole e mi esercitavo a dimenticare.

 Negli anni seguenti ci furono poco gas, poca elettricità, poca acqua, al massimo un'ora al giorno. Tutte le prestazioni ospedaliere divennero a pagamento, non si riusciva a stampare il denaro abbastanza in fretta e non era più possibile rispettare alcuna regola. Il sistema era crollato. Persone a cui poco tempo prima le cose andavano bene, vagavano per le strade a capo chino e con un'espressione priva di speranza, molti mendicavano. Una donna ben vestita suonò alla nostra porta, i suoi gemelli stavano per morire e, mentre prendeva i soldi che mia madre le stava porgendo, le tremavano le mani. L'intellighenzia e la mafia emigrarono, a Baku non rimase quasi nessuno: niente medici, niente professori, niente ingegneri; né armeni, né georgiani, ebrei, russi, tatari. C'erano solo tombe, alla cui manutenzione si provvedeva con soldi inviati dall'estero.

 Non potevamo rimanere in Azerbaigian.

 Mio padre si rifiutò di andare in Israele. Mia madre parlava ogni mattina dell'antisemitismo in Russia, ma tra sé e sé non riusciva a pensare a mio padre in uno Stato ebraico. Le parole Territori occupati, esercito e Stato ebraico non facevano parte del suo futuro utopico.

 Nel 1990 mia zia emigrò in Israele. I miei genitori non andarono con lei. Avevano tutti e due un buon lavoro e decisero di aspettare.

All'inizio c'era ancora la speranza di venire accolti negli usa o in Canada, ma quelle frontiere furono le prime a chiudersi. Si poteva ancora entrare in Germania e Israele, ma solo in quanto ebrei, ragione per cui i registri delle sinagoghe si stavano riempiendo di nomi, così come gli elenchi dei richiedenti un visto di ingresso all'ambasciata tedesca e a quella israeliana. Per fare ciò si dovevano corrompere le stesse persone a cui in passato si era data una bustarella per farsi cancellare la parola ebreo dal passaporto e dal certificato di nascita, visto che all'epoca era possibile fare carriera solo avendo i documenti "puliti".

 Nel frattempo era scoppiata la Seconda guerra del Golfo, l'Iraq lanciava missili Scud contro Israele, mia madre se ne stava davanti al televisore, disperata, con la cornetta del telefono in mano. Anche se si trattava di una cosa insensata, visto che le telefonate internazionali andavano prenotate con settimane di anticipo.

 I miei parenti trascorsero il loro primo inverno in Israele nei rifugi antiaerei e con le maschere antigas. Mia madre decise di non seguirli laggiù in nessun caso. L'idea di andare proprio in Germania parve ai miei genitori altrettanto assurda. Ancora nel 1994 mia madre diceva che non avrebbe mai messo piede in quel Paese, dove le ceneri erano ancora calde. Mia nonna era una sopravvissuta. Nove mesi dopo i miei genitori fecero richiesta di un visto di ingresso all'ambasciata tedesca. Nel 1995 la nostra domanda venne accolta e noi iniziammo a vendere le nostre cose: prima gli elettrodomestici e l'attrezzatura da cucina, poi i mobili. Per molto tempo mia madre non riuscì a decidere a chi cedere il suo pianoforte. Ogni vendita di un oggetto veniva celebrata con del cibo, gli alimentari erano di nuovo disponibili anche se a prezzi esorbitanti. Soltanto i libri non li volle nessuno. I duemila volumi si convertirono in un bel mucchio di spazzatura. Nel 1996 andammo in Germania. Nel 1997 pensai per la prima volta al suicidio.

 Scesi all'ultima fermata, Friedberg. Faceva brutto tempo, le case erano basse e silenziose. Di fronte all'edificio della stazione si sentiva puzzo di urina e un dodicenne mi gridò: «Puttana». Quando mi girai verso di lui, fece una fragorosa risata e disse qualcosa in turco ai suoi amici, che stavano trangugiando dei noodle alla piastra presi in un chiosco cinese. Tutto il gruppo si mise a sghignazzare e io augurai ad alta voce che il cibo gli andasse di traverso.

 Il campanello emise per tre volte un suono stridulo prima che mio padre mi aprisse. Per la sorpresa, gli si contrassero gli angoli della bocca, poi assunse subito la consueta espressione di completo abbattimento. Mio padre era un uomo che aveva capito che le cose non sarebbero mai andate bene. Lasciai che le sue labbra sfiorassero la mia guancia destra e gli diedi una cauta pacca sulla schiena. Mia madre non c'era e lui volle sapere se avessi già mangiato. Senza aspettare la mia risposta, salì in camera da letto, dal suo computer e dai suoi film russi. Io presi dal frigorifero uno degli yogurt senza lattosio di mia madre e mi sedetti davanti al televisore, che non accesi.

 Sul divano in pelle marrone scuro c'era un telo color crema. Il telecomando era avvolto nella pellicola trasparente. Nell'armadio a parete, accanto a un'edizione russa delle opere complete di Feuchtwanger, c'erano le foto incorniciate dei giorni migliori: mia madre e io al mare di fronte a un castello di sabbia, il matrimonio dei nonni, mio padre da giovane, ritratto dinanzi all'ingresso del centro di addestramento Jurij Gagarin. Tutti i russi volevano diventare cosmonauti, ma mio padre lo era davvero. Tuttavia non poté mai andare nello spazio. Era iscritto al partito, come Jurij Gagarin, concluse la scuola per piloti con lode e studiò all'Accademia militare per ingegneri delle forze aeree come Gagarin, completò come Gagarin la formazione da astronauta, ma poi tutta quella storia alla Gagarin finì. Nessuno seppe mai perché. Papà tornò a Baku e nessuno se la prese con lui per quell'insuccesso, nessuno considerò il suo ritorno un fallimento. Ebbe un posto al ministero e divenne un uomo stimato e impegnato. Penso che questo e il crollo dell'Unione Sovietica siano stati gli eventi più inattesi della sua vita.

 A volte, quando tornava a casa dal lavoro, mi portava sul tetto. Là montava un telescopio e mi illustrava le costellazioni, me ne sussurrava i nomi, come se quei nomi li conoscessimo solo noi due, come se fossero il nostro segreto. Sentivo il suo alito caldo, che sapeva di mandorle e, se prima aveva bevuto, mi faceva indossare la camicia da notte, mi metteva a letto, e mi dava un bacio,i peli ispidi della sua barba mi pungevano la guancia,  e mi carezzava i capelli. Poi appoggiava la mano sul calorifero con la stessa delicatezza con cui l'aveva posata sulla mia testa e usciva dalla stanza. La Germania non aveva senso per mio padre. Se ne stava lì, nella sua Siberia sociale, con i pantaloni della tuta e una canottiera con le spalline strette, quelle che in inglese si chiamano wife beater, il che peraltro non aveva niente a che fare con lui. Da un giorno all'altro si era ritirato dal mondo. Non strinse più amicizia con nessuno, quasi non usciva di casa, lo faceva solo qualche volta, per girare a confrontare i prezzi tra i diversi benzinai.

 Per prima entrò in cucina la mamma. Papà scese, si sedette a tavola e iniziò a farsi una sigaretta. Mia madre spalancò la porta del frigorifero. Io dovetti spremere un limone e affettare una cipolla. In una pesante padella di ferro mamma fece scaldare dell'olio d'oliva e si mise a cercare del rosmarino. Papà attese impaziente che sul pesce si formasse una crosta bruno-dorata e stappò il vino. Di tanto in tanto, mentre mangiava, mia madre ci diceva qualcosa sui suoi studenti di pianoforte. Quando il silenzio diventava insopportabile, mio padre e io ci rivolgevamo qualche domanda. Durante il dessert, papà cominciò a enumerare tutti i conoscenti che in vita loro si erano rotti qualcosa e mia madre continuava a correggerlo. I loro occhi erano grandi e fissi come i fari di una macchina.

 Il mattino dopo volevo ripartire, ma mia madre aveva già scongelato l'agnello per la cena. Non osai andarmene. La seconda sera fu malinconica, i miei genitori se ne stettero sul divano a ricordare lo scintillio della superficie del mare nel golfo di Baku, la motonave con cui si andava in gita e i concerti di Rostropovic.

Si dimenticarono di proposito la corruzione, il Fronte nazionale e le code chilometriche davanti ai negozi di alimentari vuoti e alle ambasciate occidentali. Anche se i ricordi delle code rallegravano mia madre, proprio come i ricordi dei centri di accoglienza per i rifugiati o degli stròmling. A quei tempi la nostra alimentazione per lo più consisteva proprio di stròmling e caviale, che veniva pescato e lavorato illegalmente. In generale non c'era pane né altro cibo, a parte gli stròmling, che sono dei pesci d'acqua dolce simili a minuscole aringhe.

Facevo ore di coda con mia madre per averli. A lume di candela, perché l'elettricità c'era solo di rado, del resto anche le candele erano preziose, mia madre eviscerava i pesci con le sue mani da pianista.

 Il giorno seguente, quando tornai a Francoforte, nella mia borsa c'erano tre bottiglie di vino kosher. Mia madre non beveva mai quel vino, lo ordinava in sinagoga per fare un piacere al rabbino e a Dio e poi richiedeva un quantitativo doppio di vino georgiano a certi suoi conoscenti. Tra la vendita di vino kosher in sinagoga e quella di vino georgiano in municipio c'era un sorprendente nesso di mercato.

 

 

 

 

 Capitolo 7.

 Neppure la luminosa facciata a vetrate riusciva ad avere la meglio sulla pannellatura in legno scuro dell'arredamento del bar. Sul bancone c'era un vaso con dei gigli, appeso alla parete di destra un televisore a schermo piatto che trasmetteva la cnn senza audio. A pranzo il bar era sempre pieno di bancari che parlavano in inglese con accento europeo, si allentavano la cravatta e ordinavano panini.

 Cem fissava lo schermo. Il locale aveva aperto solo mezz'ora prima, il cameriere se ne stava svogliato dietro il bancone a lustrare i bicchieri con un canovaccio a quadretti. Aveva i capelli piuttosto lunghi, che gli ricadevano sul viso.

 «Sei pallida» disse Cem.

 Aveva gli ultimi bottoni della camicia slacciati, sul suo petto luccicava una mezzaluna d'oro. A Cem la barba cresceva in maniera irregolare, a destra della bocca c'era una chiazza spoglia, un punto glabro.

 Mi sedetti di fronte a lui. Era il primo della sua famiglia ad avere studiato e parlava il turco meglio dei suoi genitori. Cem era nato a Francoforte ed era cresciuto bilingue, o per lo meno ne era convinto. Fu solo durante una vacanza a Istanbul che scoprì di parlare in dialetto.

Inoltre doveva spesso sforzarsi per trovare le parole. Quindi trascorse un anno nella migliore università di Istanbul, dove acquisì il raffinato accento delle locali classi alte. Con i parenti continuava a esprimersi nel dialetto del paese da cui erano emigrati. Tra noi parlavamo in tedesco, come due stranieri modello, perfettamente integrati. L'azero però è così simile al turco che riuscivamo a capirci comunque, quindi le storielle infantili gliele raccontavo nella mia lingua e Cem citava in turco le frasi dei suoi genitori e delle sue zie. A volte rideva delle espressioni antiquate che utilizzavo, prendendole dall'azero.

 «Cosa bevi?» gli chiesi.

 «Un whisky».

 «Non è un po' presto?»

 

«Quando hai l'esame?»

 

«Tra quattro giorni, ma stasera c'è una festa».

 «Non ne ho voglia».

 «Ma certo che ne hai voglia, stai tutto il giorno all'ospedale. Oggi esci con me. Forza, ne abbiamo bisogno tutti e due». Sogghignò e vuotò il bicchiere in un unico sorso. «Ma prima guardati la mia traduzione».

 Il cameriere posò due bicchieri e una ciotola di arachidi sul nostro tavolo. Cem lanciò un'occhiata ardente al suo pacchetto di sigarette ancora sigillato. Sulla confezione c'era un messaggio di avvertimento sui rischi mortali legati al fumo. Sapevo che Cem si stava già pregustando il fruscio del cellophane, il gesto di strappare la carta argentata, il sapore del filtro in bocca, il clic dell'accendino e la prima boccata di fumo. Ma forse stava solo pensando al cameriere.

 «Come sta?» domandò Cem.

 «Elisa? Di merda. Gli fa molto male. Cerco di distrarlo, ma non funziona».

 «Ti dà sui nervi?» chiese Cem.

 «Che razza di domanda è questa?» «Ho ragione?»

 

Presi una nocciolina, sentii il gusto salato sulla lingua e la masticai.

 «Mi dispiace» disse Cem.

 Alla cnn diedero le notizie sul Medio Oriente. Una manifestazione di uomini con la kefiah, inferociti, che sventolavano bandiere palestinesi, stava attraversando Gaza, inframmezzata da immagini di case distrutte e carri armati israeliani. Cem scosse il capo e bevve un sorso dal suo bicchiere.

 «Cosa sta succedendo?» chiesi.

 Fece un respiro con il naso e rispose: «La guerra».

 «Non credo» dissi. Cem mi osservò divertito, per cui aggiunsi: «Se stesse davvero scoppiando una guerra, lo capiremmo perché ci sarebbe un lungo collegamento con un corrispondente».

 «Però ne ha tutta l'aria. Mio padre ha già parlato di fare una donazione per i profughi».

 «Ma non lo dice ogni volta?» La mia voce si era fatta più aggressiva, come se fosse una cosa intenzionale.

 «Certo». Cem si stirò la schiena, girò la testa a destra e a sinistra, le vertebre cervicali schioccarono forte. Guardò il televisore, sbadigliò, ripeté il suo Certo e aggiunse:

 

«In fin dei conti papà preferisce giocare al lotto». E fece una risata triste.

 «Fanno sempre vedere la stessa cosa: guarda anche tu. Immagini della vittima e dell'aggressore montate rapidamente una dopo l'altra. Prima di tutto il testo, le azioni israeliane sono aggressive, sproporzionate e l'incursione nei Territori palestinesi grave. Poi arrivano le immagini delle vittime: madri straziate che piangono i loro martiri sulla terra inaridita e sullo sfondo alte fiamme e carri armati israeliani e posti di blocco».

 «E allora? Stai dicendo che non è vero niente? Non essere ingenua» disse lui. In quel momento la cnn stava mandando in onda un'americana bionda che gesticolava preoccupata nella telecamera.

 «I giornalisti non possono neppure entrare nei Territori, stanno su una collina che c'è di fronte».

 «E scrivono quello che dettano i militari israeliani» replicò Cem pungente.

 «Ma se non sanno neppure l'ebraico o l'arabo».

 «Già, dovrebbero prendere te, vero?» mi interruppe lui.

 «Coglione».

 «Non ti agitare in questo modo. Non è che siano tutti ignoranti solo perché non hanno due lauree».

 Mi alzai e corsi ai servizi. Tenni le mani sotto il getto d'acqua calda, cercando di circoscrivere la rabbia. Avevo la sensazione di dover dire qualcosa che in altre circostanze avrei criticato.

 Sentii bussare alla porta del bagno, Cem infilò la testa dentro e si guardò scrupolosamente intorno. Aveva gli occhi grandi e verdi come un lago profondo di primo mattino. Disse che non voleva entrare perché era la toilette delle donne. Gli tremava la voce. Gli dissi che me ne fregavo se entrava o no. Mi chiese se dentro ci fossero altre donne. Gli dissi che me ne fregavo anche di quello. Lui entrò.

 «Anch'io me ne frego. Davvero!» disse Cem. «Torniamo di là, in televisione ci sono anche altre guerre». Mi mise un braccio sulle spalle. «Ho qui un'arancia, la vuoi un'arancia? Smettila, ti prego. Lo sapevi che sotto Gaza ci sono un sacco di tunnel e che ci sono in giro più Mercedes che qui? Sul serio, a Gaza presto ci sarà una Goethestrasse». (La via dei negozi di lusso di Francoforte [N.d.T.])

 

Nascosi il volto nella sua camicia, Cem profumava di buona volontà e di una costosa Eau de Cologne, mi tenne ferma e sussurrò: «Tornerà. Sarà presto tra noi».

Le pareti erano rivestite di tappezzeria in seta, fiori bianchi su un fondo scarlatto attraversato da fili doro. Ero in un ex bordello nella zona della stazione e mi guardavo intorno. Alle pareti cerano pesanti cornici dorate lavorate artisticamente, divani e poltrone erano ricoperti di velluto rosso. Un barman aveva il fard e un diadema, un altro aveva una calza di nylon infilata sulla testa. Entrambi erano vistosamente svogliati. Belle ragazze con le labbra lucide e dolci profumi danzavano una house music aggressiva. Quei giovani campioni di bellezza e successo la sapevano lunga in fatto di accessori feticisti, molti indossavano maschere e piume, gli uomini erano seminudi e si sforzavano di sembrare dei gigolo. Tutti ridacchiavano, si muovevano a asso di danza, flirtavano.

 Mi sistemai il vestito di fronte a uno specchio. Sami era in piedi, appoggiato con disinvoltura a una colonna. Aveva dei jeans scuri e una giacca di pelle nera e stava facendo accendere la ragazza al suo fianco.

La ragazza era molto bionda e sotto il leggero tessuto del vestito attillato si intravedevano i suoi piccoli seni.

 Mi avvicinai da dietro a Sami e posai una mano sulla sua ampia schiena.

Fu un movimento istintivo, poi rimasi là, con la mano sulla sua schiena, stupita di me stessa, senza sapere cosa stesse per accadere. Quando lui si girò verso di me e mi fece un sorriso, mi sentii dire: «Non sapevo che tu fossi a Francoforte».

 L'abbraccio risultò cameratesco, mentre ci stavamo separando lui lasciò la mano per pochi istanti sul mio braccio. Io non mi mossi fin quando non la tolse.

 «Da un mese» disse Sami.

 «Per quanto ti fermi?»

 

L'accompagnatrice di Sami sbadigliò ostentatamente. Io le lanciai uno sguardo indagatore e cercai di caricarlo di tutto l'odio possibile, ma lei mi ignorò.

 «Solo il tempo necessario. Il mio visto per motivi di studio è scaduto e sto aspettando che me lo rinnovino. In questo momento sto ciondolando a casa dei miei, vedendo vecchi amici» disse Sami.

Tutti e due centellinavamo imbarazzati le nostre birre. L'altra ragazza gli sussurrò qualcosa all'orecchio, si passò la lingua sui denti e finì per andarsene.

«Volevo chiamarti, Masa, ma non ero sicuro che fosse una buona idea».

Sami si accostò tanto che la sua bocca si trovò vicinissima alla mia. Io mi misi in punta di piedi, gli tolsi i capelli dal viso e gli diedi un bacio sulla fronte.

 «Mi sei mancata» disse Sami, soffiandomi nell'orecchio, come faceva un tempo quando dormivamo insieme. Il nostro respiro era pesante e quasi sincronizzato.

 Sami sembrava uno che sa bene cos'è la bella vita, dove si può farla, come si riesce a tenersela stretta e alla fine anche come sbarazzarsene, prima che arrivi ad annoiare a morte. In breve: c'era in lui qualcosa di pericoloso, che però non suscitava diffidenza. Aveva uno sguardo sempre troppo serio e sul suo naso, che trovavo molto sexy, c'era una piccola gobba, per la quale poteva ringraziare una rissa da lui stesso scatenata in una discoteca di paese.

 Sebbene non stessimo più insieme da tempo, ogni tanto mi capitava di tendergli istintivamente la mano. A volte, quando sentivo la vicinanza del suo corpo oppure lo guardavo troppo a lungo, era di nuovo tutto là: amore e desiderio e bisogno e bramosia. Però ci eravamo fatti così tanto male a vicenda che un riavvicinamento era impossibile.

 In coda fuori dal bagno c'era Daniel, sembrava un coniglio emaciato e ferito. Daniel si definiva antitedesco, il che per lui significava essere filosemita, proamericano e in qualche modo appartenere alla sinistra radicale. Era uno di quelli che hanno sempre qualche progetto per salvare il mondo: prima era l'energia nucleare, poi c'erano state la foresta pluviale, l'agricoltura biologica e alla fine era stato il turno degli ebrei, Dei quali si era occupato con particolare interesse.

 Ogni volta che lo incontravo, Daniel mi illustrava - senza che glielo avessi chiesto - il suo luminoso futuro come sarto da uomo a Londra.

Herzl aveva detto Se lo vogliamo, non è un sogno, e Daniel voleva e voleva, ma intanto continuava a tirare la cinghia. Io avevo già tre Aperol Spritz in corpo, facevo di tutto per schivarlo e cercavo Cem, che era in un angolo a telefonare. E probabile che stesse parlando con il suo ragazzo che era cuoco e si era trasferito in Francia da tre settimane. Non capivo perché Cem si ostinasse ad andare alle feste, lui che odiava la musica ad alto volume e la gente che va alle feste. Ogni volta, per ciascun minuto che si costringeva a rimanere, era una battaglia contro se stesso.

 Quell'idiota di Daniel mi fece un cenno. Io lo ignorai, ma lui iniziò a ululare il mio nome per tutto il locale, la situazione si fece imbarazzante. Mi si avvicinò in fretta, a passi lunghi e goffi, mi prese la mano anche se io non gliel'avevo porta. Si aggrappò alla mia manica, aveva l'alito che sapeva di birra e cattiva digestione.

 «Ehi, io sono dalla vostra parte» disse Daniel.

 «Dalla parte di chi?»

 

«Dalla vostra, no?»

 

Daniel si inumidì le labbra, mi faceva infuriare che lui avesse un'opinione precisa e io solo dubbi.

 «Voi chi?» Stavo quasi gridando, un paio di persone in coda si voltarono.

 «Dalla parte di Israele, è ovvio».

 «Ci hai già dato dentro, eh?»

 

«Sei acida. Cosa ne pensi della situazione? Voglio dire, come ebrea».

«Daniel, piantala con queste cazzate. Cosa vuoi da me? Vivo in Germania. Ho un passaporto tedesco. Non sono Israele. Non ci vivo. Non voto là e non ho neppure una gran simpatia per il governo israeliano».

 Daniel mi faceva sempre pensare a una prozia che nel suo salotto israeliano - la replica esatta del suo salotto di un tempo in Unione Sovietica - beveva tè con un goccio di limone e leggeva con attenzione «Westi», il giornale degli immigrati russi in Israele. «Westi» dava informazioni molto dettagliate sugli attentati compiuti da arabi in Israele, sulle profanazioni di cimiteri per mano di arabi in Francia e sulle opinioni espresse in pubblico da chiunque altro a proposito degli ebrei.

 Daniel riteneva Sami un antisemita, Sami riteneva Daniel un filosemita, e avevano entrambi ragione. Io avrei preferito che mi lasciassero in pace, ma durante un lavoro di gruppo all'università, Daniel aveva detto che il mio amante arabo mi sottometteva e sfruttava. Una piaga d'Egitto, così lo aveva definito. A quel punto io gli avevo rotto un dente e se Daniel non si fosse preso tutta la colpa avrei rischiato di essere espulsa. Che in effetti aveva, e non solo in senso storico. Da quando gli mancava un dente, mi trattava come se fossi il suo cucciolo di ebreo. La mia unica pecca era quella di non essere appena uscita da un campo di concentramento.

 «Lo so bene». Daniel fece un profondo sospiro, tirandomi per la manica, «Solo la violenza esercitata dallo Stato protegge gli ebrei, sai che anche mio nonno ha partecipato alla violenza esercitata dallo Stato, e se a quei tempi anche voi aveste avuto uno Stato che esercitava la violenza, le cose sarebbero andate diversamente, malgrado la violenza esercitata dal nostro Stato. A causa del vostro trauma collettivo» fece una pausa, io nel frattempo avevo quasi raggiunto il gabinetto e finalmente stavo per chiudermi la porta alle spalle. «Non voglio mettermi a fare un discorso sul totalitarismo partendo da concetti generali astratti, non fraintendermi. Oggi è evidente che molti ebrei vedano Israele soprattutto come un luogo in cui rifugiarsi dal genocidio. E Auschwitz potrebbe ripetersi in qualunque momento. Però rappresentate la conseguenza oggettivata della furia distruttrice dell'antisemitismo, avete un ruolo esecutivo, per così dire. Dopo Auschwitz, gli ebrei devono potersi difendere da coloro che vogliono ucciderli. Mio zio Günther, lui non avrebbe fatto altro che ammazzare ebrei, però non lo pensava davvero, lui non ha combattuto, era nella sanità militare.

Nessuno della mia famiglia ha combattuto, veniamo da un'isoletta. Al massimo là si combatte con le dighe. Ma questa qui...»

 

Daniel prese fiato e con un gesto teatrale della mano mi indicò la toilette: «Questa è la concreta emancipazione degli ebrei dalla costante minaccia di sterminio. Voi difendete con la vita il vostro Stato, che vi siete conquistati e fate funzionare. L'esercito israeliano non è oggetto di discussione, non se ne parla proprio, è la vostra carne e il vostro sangue, siete voi, le vostre braccia e gambe, i vostri piedi e le vostre dita dei piedi e delle mani e i capelli e gli strumenti per la visione notturna e...»

 

«Daniel, io non sono Israele».

 Si passò la lingua sulle labbra sottili, mi guardò in viso stupefatto e disse: «Non riesco proprio a piacerti, d'accordo. Ma sono un bonaccione e quando ho un debole per una donna, mi lascio fare di tutto». Sorrise tra sé e sé e sospirò. «Vado in Israele. Ho prenotato oggi».

 «Cosa ci vai a fare?»

 

Mi fissò spaventato, come se non ci avesse ancora pensato.

 «Sole».

 «Cosa?»

 

«Sono dieci anni che mi occupo di quel Paese. Non me lo merito?» Mi venne di nuovo voglia di picchiarlo e avevo già chiuso la mano a pugno, quando Cem mi trascinò via: «Forza, andiamocene, ne ho abbastanza. Che festa di merda».

 Di fronte a noi c'era il Meno, nero e placido. Quasi non c'era vento e sull'altra riva qualcuno stava pescando.

 «Ti giuro, era la prima volta che prendevamo un film porno. In Olanda.

Erano mesi che ci pregustavamo quella vacanza, per prima cosa mio fratello e io siamo andati in un coffee shop e poi a cercare un porno.

Volevamo roba forte e non capivamo una parola. Abbiamo preso una cassetta nell'angolo più nascosto, dal ripiano più alto, è naturale. Una roba difficile. Finalmente infiliamo la cassetta nel videoregistratore e all'inizio vediamo solo dei piedi. Una ragazza che passeggia vicino a un ruscello, ma si vede solo fino al ginocchio. Continuiamo ad andare avanti, però non succede nulla, tranne i piedi e il ruscello. Eravamo in Olanda, un Paese tollerante eccetera eccetera, nostro padre ci aveva messo in guardia, il mullah ci aveva messo in guardia. Eravamo davvero arrapati. E poi niente. Piedi. Mio fratello perde la pazienza, dà fuoco alla cassetta e la butta giù dalla finestra dell'ostello della gioventù, era davvero incazzato. Sei mesi dopo è morto. Ti ho mai raccontato come è morto mio fratello? Ci ha messo sei mesi per crepare». Cem lanciò la sua bottiglia di birra nel fiume e si passò le dita sulla faccia.

 Non aveva mai raccontato né a me né a Sami come fosse morto suo fratello, sapevamo solo che era successo molto tempo prima, per un cancro. Spesso, quando Cem era ubriaco, ci prometteva tra bestemmie e minacce di parlarci della morte di suo fratello. Però non lo faceva e noi non gli facevamo domande, perché anche noi avevamo i nostri segreti.

 Sami rollò una canna. Io allungai una mano verso Cem. Cem la prese e mi strinse a sé. Disse: «Masa, non so come dirtelo, ma è tutta la sera che ricevo sms dai miei cugini che mi invitano nei prossimi giorni a non fare la spesa da Aldi, visto che quelli a quanto pare con i soldi comprano armi per l'aeronautica militare israeliana. Ed è tutta la sera che spero tu non te ne accorga».

 «Anch'io» disse Sami.

 «Che cosa? Li stai ricevendo anche tu?» chiese Cem.

 «Sì, non ho idea di chi sia a mandarmeli, arrivano da numeri che non conosco».

 «Anche tu avevi paura di Masa?»

 

«Be', certo. Pensavo, adesso mi ammazza, e come darle torto?» rise Sami.

 «Se tu sapessi la scena che mi ha fatto oggi. Nel bagno delle donne».

 Appoggiai la testa sulle ginocchia di Sami e Cem si chinò su di me e disse che gli sembrava un peccato che Sami e io non stessimo più insieme. I suoi migliori amici.

 Sami aveva fame, Cem e io gli andammo dietro. La maggior parte dei negozi sulla Kaiserstrasse erano già chiusi. Per strada c'erano ancora alcune donne anziane con i capelli ossigenati e scompigliati. Arrivammo a una lavanderia aperta ventiquattr'ore su ventiquattro. All'interno c'era una coppietta, tutti e due sembravano tossici. Lui stava facendo le parole crociate, lei si teneva stretta a un bicchierone di plastica e fissava con sguardo vacuo il tamburo della lavatrice attraverso l'oblò.

I loro corpi non si sfioravano.

 Di notte non c'erano più posti dove andare, nel quartiere della stazione tutto si stava trasformando lentamente in negozi di frutta e pescherie.

Tuttavia da nessun'altra parte si trovavano alimentari altrettanto freschi e a buon mercato, e a mezzogiorno si formavano lunghe code in cui donne stanche con miniabiti stretti oppure ampi hijab stavano accanto a ruffiani e altri uomini che tenevano gli occhi ben aperti. Sami ci trascinò da un venditore di kebab, lui e Cem ordinarono. Il pavimento era appiccicoso, un ratto attraversò la stanza, gli spiedini di carne luccicavano, io mangiai del baklava, tutto girava, l'aria era dolce e il mio corpo si sciolse nel miele.

 

 

 

 

 Capitolo 8.

 Avevo la testa rintronata. Ero nuda in una stanza buia. Sulla parete sopra il letto c'erano poster con dei cavalli e foto di ragazzi in età puberale che cantavano oppure recitavano, fotografati in pose simili a quelle dei cavalli. Sul comodino c'era il telefonino di Sami, il mio vestito era appeso con cura alla sedia e accanto si trovavano le scarpe di Sami. Era sempre stato molto ordinato. Persino nella nostra relazione tutto era regolato con precisione, ma con il tempo era impallidito

 

il ricordo di chi fosse stato a lasciare o mortificare l'altro.

Rimaneva solo la memoria di qualche bel momento, di una vaga felicità e del desiderio. A quei tempi si trattava di voglia fisica, ormai forse si trattava della voglia di essere di nuovo desiderata come prima.

 Mi vestii in fretta e uscii in corridoio. In cucina, Minna stava canticchiando un motivetto che non conoscevo. L'aria era satura di odori di cibo ed era come se qualcuno avesse cancellato gli ultimi tre anni della mia vita. Tutto era di nuovo lì, di fronte a me: i pomeriggi insieme a Sami, con sua sorella minore che non ci lasciava mai soli e Minna che la esortava a continuare così, le cene con i genitori di Sami, in cui si parlava un misto di francese e arabo, i vecchi dischi con le canzoni di Fairouz, quelle che Minna cantava il mattino, la sensazione di essere ubriaca d'amore, le carezze di Sami e il vuoto dopo quelle vette.

 «Salam aleikum» Minna mi sorrideva dalla soglia della cucina. Ero contenta di vederla, anche se avrei preferito non incontrarla. Volevo andare in fretta al bagno per lavare via da me la serata precedente e Sami. «Aleikum salam» salutai Minna.

 Lei mi diede un energico abbraccio e mi spinse in cucina, dove mi versò un caffè turco in una tazzina a fiori. La colazione era già sul tavolo.

 Minna si sedette di fronte a me e squadrò curiosa il mio viso. Il suo sguardo era scevro da qualunque rimprovero. In passato l'avevo ammirata, come si ammirano le madri degli altri anziché la propria. Quando l'avevo vista per la prima volta, avevo giurato a me stessa che sarei diventata come lei: allegra e piena di calore. Sul frigorifero c'era una bandierina palestinese fissata con una calamita nera. Minna era venuta al mondo in un campo profughi in Libano.

 Sami uscì dal bagno con un paio di pantaloncini e una logora maglietta bianca. Lui non mi guardava negli occhi e anch'io evitavo di farlo. Ai piedi aveva un paio di ciabatte da piscina almeno due taglie più della sua.

 «Habibi, che brutto aspetto che hai».

 Sami le diede un bacio e mi guardò imbarazzato.

 «Dov'è Leyla?» domandai.

 Leyla era la sorellina di Sami e quello in cui mi ero svegliata quel mattino era il suo letto.

 «Al Vogelsberg. In gita scolastica» Sami riempì di cibo il suo piatto, che non toccò. Giocherellava invece con la forchetta, nervoso: «Abu è a una conferenza in Svizzera».

 «Peccato che non vi incontriate. Ti avrebbe visto volentieri. Qui sentiamo la tua mancanza».

 «Mamma».

 Continuavo a evitare di guardare in faccia Sami.

 «Kullu man Alaiha». Tutto proviene da Dio. Minna sorrise incoraggiante a Sami e me, come se volesse dirci: non vi preoccupate. Tuttavia ci sentimmo a disagio. Minna capì, si alzò, massiccia com'era, mi abbracciò e disse: «Spero che tu torni». Con queste parole, lasciò la stanza.

 «Alors» dissi mordendo la crèpe che avevo nel piatto già da un po'.

 «Come stai?» chiese Sami dopo qualche istante.

 «Ho i postumi».

 Sami mescolò rumorosamente il caffè. Si alzò, aprì il frigorifero, prese un vasetto di marmellata e lo mise sul tavolo. Rimase in piedi dietro la mia sedia, mi appoggiò le mani sulle spalle, mi carezzò con tenerezza le scapole. Io non mi mossi. Sami mi diede un bacio dolce e indagatore in cima alla testa. Sentivo il suo respiro caldo sulla nuca e dovetti contrarre ogni muscolo per non reagire. Lui tolse le mani dalla mia schiena e tornò a sedersi.

 Restai sulla mia sedia, paralizzata, incapace di dire una parola. Sami prese in mano la marmellata, osservò il retro del vasetto, le sue sopracciglia cespugliose si inarcarono e lesse ad alta voce: «Sogno arabo - confettura di pesche con vaniglia e una nota di caffè. Le nostre confetture di frutta sono preparate con frutta fresca colta a mano da colture locali non intensive o da frutteti di nostra proprietà. Cosa sono le colture locali non intensive?»

 

«Cosa te ne importa?»

 

«E talvolta viene lavorata insieme a frutta esotica, per creare insolite combinazioni. Secondo te anche la frutta esotica proviene da colture locali non intensive? Un'alta percentuale di frutta, un sapore piacevole e senza additivi chimici contraddistingue questa specialità fatta a mano nella nostra fabbrica di marmellate. Dal punto di vista grammaticale c'è qualcosa che non va in questa frase».

 Vorrei che la smettesse di leggere ad alta voce, ma sembra che ci stia provando gusto: «Le nostre confetture sono ideali non solo a colazione, ma anche in molte altre occasioni. Lasciatevi sedurre dalle nostre insolite combinazioni. Cazzo, che roba». «ok.

Possiamo parlare?» dissi io.

 «Vuoi un caffè?» chiese lui.

 «No».

 «Sicura?»

 

«Sì».

 «Lo farei comunque, non è un problema».

 «Sami».

 «Potresti mangiarci insieme una cucchiaiata di Sogno arabo». Mi alzai.

Lui mi guardò: «ok, vuoi parlare».

 Sami balzò in piedi, riempì fino all'orlo due tazze di caffè e iniziò a rovistare nei cassetti, voltandomi di nuovo le spalle. «Cosa stai cercando?» gli chiesi.

 «Lo zucchero» rispose lui.

 «Io non lo metto. Lo sai».

 «Io sì invece».

 «Non lo metti mai nel caffè».

 Lui si girò per un attimo verso di me e disse: «Non è vero». Poi riprese a frugare nella credenza di Minna.

 «Ma certo che è vero».

 «Ho iniziato a metterlo quando ero negli usa».

 «Ti faceva schifo. Non puoi d'un tratto volere lo zucchero». «Là è tutto quanto iperzuccherato, perché il caffè non dovrebbe esserlo?»

 

«Non riesco a credere che Minna non abbia zucchero in casa» dissi io.

 «O l'ha finito oppure sono io che non lo trovo. Che ne so». «Possiamo parlare?»

 

«Ora?»

 

«Sarebbe meglio».

 «Merda, mi sa che devo scendere a comprarlo. Qui non ce n'è».

 Sami corse fuori dalla cucina e poco dopo sentii la porta che si richiudeva alle sue spalle. Io corsi in camera, presi le mie cose, in corridoio inciampai nei miei piedi, finii a terra e poi cercai di sgattaiolare fuori da quella casa. Volevo evitare di incontrare di nuovo Sami sulle scale, così salii, rimasi ad aspettare al piano di sopra, rannicchiata, osservando la tromba delle scale. Quando Sami rientrò e chiuse la porta dell'appartamento dietro di sé, lasciai il mio nascondiglio e corsi fuori.

 

 

 

 

 Capitolo 9.

 Il mio treno era in ritardo. Il flusso dei passeggeri sul binario opposto mi ricordava la densità del miele con qualche acino d'uva passa.

La donna di fronte a me indossava il burqa, riuscivo appena a immaginare la sua figura, il velo lasciava solo una stretta fessura per gli occhi.

Camminava dietro un ometto che continuava a girarsi per guardare lei e il bambino. Quest'ultimo, che aveva le guance paffute, sedeva nella carrozzina con le gambe raccolte, aggrappato a un aeroplano di plastica.

Mi appoggiai a un manifesto elettorale azzurro della cdu: FERMARE YPSILANTI, AL-WAZIR E I COMUNISTI! (Deputati rispettivamente della spd e dei Verdi al parlamento regionale dell'Assia.

Quando arrivai, stavano giusto distribuendo la cena. Una ciotola di plastica piena di zuppa marrone e due fette di pane integrale. Dal bagno comune della stanza d'ospedale si sentì tirare lo sciacquone e qualcuno che scatarrava e scorreggiava rumorosamente. Elias aveva un brutto aspetto, il volto emaciato, gli occhi arrossati. Le mani giacevano aperte sul letto. Gli chiesi se andasse meglio, lui annuì, e anche quella volta era una bugia. Quando lo baciai, la sua barba mi punse. Bevemmo in silenzio il tè del reparto, poi mi misi sul letto con lui, che mi strinse forte.

Era da tempo che non dormivamo insieme e in quel momento, sdraiata accanto a lui, mi ricordai del desiderio e pensai che lo provasse anche lui e mi sentii in colpa perché la caduta nell'appartamento di Minna mi aveva provocato un gigantesco livido blu sul ginocchio e sperai che lui non lo vedesse. Poi mi accorsi che stava piangendo in silenzio, solo il torace gli tremava un po'. Mi aggrappai ancora di più a lui, infilai le mani sotto il suo pigiama e lo baciai sulla bocca. Lui mi guardò con aria di scuse, gli occhi pieni di tenerezza e amore.

 Elias aveva un nuovo vicino di letto, un uomo piccolo e robusto, protesi all'anca, un ucraino del contingente di rifugiati ebrei, presunto demente. Pensava che Elisa fosse suo zio Stasik e passava nottate intere a chiedere aiuto gridando: «POMOGITE, boze moi, da POMOGITE mne». AIUTO, per l'amor di Dio, AIUTATEMI. Malgrado il dolore, Elias si alzava, andava al suo letto e gli chiedeva cosa stesse succedendo, e quello rispondeva: «Stasik, spostami la gamba destra, mi fa così male». Elias lo faceva, zoppicava fino al suo letto e, appena stava per riaddormentarsi, le grida ricominciavano da capo. «POMOGITE, boze moi, da POMOGITE mne». Naturalmente Elias si rialzava per aiutarlo. La storia si ripeteva per tutta la notte. Dopo due notti e tre giorni, Elias non ne poteva più, aveva gli occhi iniettati di sangue e la gamba era di nuovo gonfia per tutte le volte che si era alzato in piedi.

 La sera andai da Elias e il nonno russava, contento di sé. Mi sedetti accanto a Elias sul letto. Lui mi parlava piano all'orecchio,

 

io accarezzavo il suo braccio e sentivo il suo respiro. Mentre gli stavo passando l'indice dallo sterno fino all'ombelico, il vicino ricominciò a chiedere aiuto urlando. Gli domandai in russo che cosa volesse, lui ripeté il suo slogan: «POMOGITE, boze moi, da POMOGITE mne». Suonai il campanello per chiamare l'infermiera, che arrivò subito, si chinò sul letto e gli chiese, anche lei in russo, che cosa volesse. Non ebbe risposta, attese un istante, gli rifece la stessa domanda e l'uomo rispose, come se lo stessero torturando: «Acqua».

 Gli diede l'acqua, cercò di calmarlo, lui disse: «POMOGITE, boze moi, da POMOGITE mne». Al che lei fece spallucce, ci guardò come per scusarsi e scomparve.

 «Quando esco di qui, vorrei fare un viaggio con te» disse Elias.

 «Dove vogliamo andare?»

 

«Tu di cosa avresti voglia? Tel Aviv?»

 

«POMOGI, STASIK, POMOGI».

 Mi riavvicinai al suo letto e gli chiesi cos'altro volesse. Lui chiamò anche me Stasik e mi domandò dell'acqua. Gli diedi la sua tazza con il beccuccio, ma lui cambiò idea e mi pregò di raddrizzargli il cuscino. Io gli raddrizzai il cuscino, poi mi chiese di spostargli la gamba sinistra e, mentre lo facevo, vidi che sogghignava. Il nonno sogghignava.

 Era giunto il momento di fare qualcosa contro di lui. Il giorno dopo marinai la lezione di lessico ingegneristico francese e andai in ospedale fin dal pomeriggio. La figlia del nonno era all'entrata del reparto, in una nube di profumo Chanel, e stava fumando. L'avevo già vista una volta, per poco tempo, in camera di Elias. Accanto a lei c'era una graziosa signora anziana, con dei gioielli vistosi e cari e i capelli color lilla. Erano accompagnate da un'infermiera.

 Quando le salutai, non mi degnarono di uno sguardo. Io mi fermai comunque di fronte a loro. L'anziana, che parlava in yiddish, si stava lamentando in modo straziante. Del suo destino, di quello di suo marito, del suo gatto, dell'ospedale, delle lenzuola dell'ospedale. Io presi un respiro profondo e mi presentai. Poi dissi che il loro padre e marito non poteva andare avanti così. Rimasero in silenzio e mi osservarono.

L'anziana si mise a fissare le mie sudice scarpe da ginnastica bianche e i miei jeans logori.

La più giovane delle due spense la sigaretta e cominciò a parlare forte e in fretta: suo padre era stato un partigiano e aveva combattuto contro la Germania nelle foreste dell'Ucraina. Prendersi cura di un veterano non era certo una pretesa eccessiva, a meno che mio marito non fosse un nazista. O magari non era nemmeno mio marito. Era forse per quello che non mi aveva ancora sposato? Se sentivo l'assoluto bisogno di prendermela con un uomo onorato, avrei dovuto vedermela con Bella, la sua infermiera. Dopodiché la figlia scomparve. Il suo profumo rimase.

 Bella sogghignò. Aveva delle scarpe di pelle marrone e un abito da uomo beige. Era una butcth in tutto e per tutto. (Voce inglese di uso piuttosto comune anche in Italia in ambito glbt; designa una lesbica con atteggiamenti e abbigliamento prettamente mascolini [N.d.T.]) Gli occhi gialli della signora anziana brillavano maligni. I diamanti dei suoi orecchini antichi scintillavano. Mi insultò anche lei. Dovevamo vergognarci di chiavare in camera di suo marito, senza neppure essere sposati. Disse proprio chiavare. Io arrossii e avrei voluto ribattere, ma l'infermiera rise, guardò la donna con aria severa, come fosse una sua proprietà, e mi disse: «Non si preoccupi, è una puttana anche lei.

Sapesse quante volte ho dovuto portarla dal ginecologo. E non le dico cosa le ha tirato fuori. Stracci, bottiglie, per lei l'unica cosa che conta sono le dimensioni».

 All'improvviso, l'anziana si mise a gridarmi dietro: che razza di donna ero e come osavo rivolgermi così a lei, la moglie di un partigiano? Mio marito mi aveva forse ordinata su un catalogo di ucraine? Non mi avevano insegnato le buone maniere?

 

Le lasciai sole.

 

 

 

 

 Capitolo 10.

 Quel pomeriggio avrebbero dimesso Elias dall'ospedale. Trascorsi metà del mattino a depilarmi con cura con la cera calda, poi misi in ordine, lavai, spazzai, pulii e andai a fare la spesa.

 Come da regolamento, all'entrata del supermercato presi un cestino, mi fermai indecisa nel reparto della verdura, poi vagai per i corridoi e finii per riempirlo di ogni sorta di cose. Avrei spremuto arance, caramellato pere, tagliato e cotto verdure, lasciato perdere la carne di maiale, lavorato, tirato e infornato un impasto. Soltanto che non sapevo come si facesse, quindi misi qualche rivista per casalinghe nel mio cestino. C'era un'altra donna che se ne stava incerta tra gli scaffali.

Aveva lineamenti delicati, non era truccata e aveva delle scarpe piatte di velluto grigio, con un fiocchetto sulla punta arrotondata. Leggeva attenta le cose scritte in piccolo sulle confezioni, sbuffava e a un certo punto si gettò su un dipendente del supermercato, agitando con fare minaccioso la sua borsa della spesa in iuta: «Non è possibile, l'insalata bio non può essere finita. Certo che no. La tenete nascosta.

L'altra non è buona, capisce? Non è buona! Viene tutta dall'America!» e scoppiò a piangere. La guardia giurata del supermercato e io la guardammo sconcertati.

 Arrivata alla cassa, premetti un tasto, ARTICOLO RICHIESTO IN ARRIVO, il pacchetto di sigarette cadde sul nastro trasportatore, io sorrisi e con le dita tamburellai una marcetta.

La nuca della donna che mi precedeva nella fila era così perfetta, così stretta e bianca, che subito fui assalita dal desiderio.

 Elias tornò a riempire il letto. Ero grata che respirasse tranquillo e regolare accanto a me, supino, con le braccia spalancate. La sua coperta non bastava per piedi, braccia e spalle. Lo coprii con la mia e andai in cucina a prendere un bicchiere d'acqua e le sigarette. Poi mi sedetti sul davanzale. La camera da letto sembrava più grande, lo strato di polvere grigiastra e appiccicosa che era ormai penetrato nel legno bianco degli scaffali dormiva incolore nell'oscurità, come tutto il resto. L'aria mattutina era fresca, avevo i brividi, spensi la sigaretta e mi rimisi a letto. Elisa si girò verso di me nel sonno, mi baciò una spalla e continuò a dormire placido.

 La sua assenza era stata tremenda. Era stato quasi come quando se nera andata Sibel. La casa si era riempita del vuoto in cui lui non mangiava, non sudava, non dormiva, e non mi guardava. Nel nostro appartamento, tutto apparteneva a Elias, la maggior parte dei mobili, la cucina, il tavolo, le librerie. Il nostro letto l'aveva costruito Elias.

 Aveva detto che sarebbe andata in Germania settentrionale. Aveva detto Rùgen, ma io non le credetti. La sua era una famiglia tradizionale, tre fratelli maggiori, tutti nati in Germania e ossessionati dall'onore.

Sibel non poteva avere ragazzi, non poteva parlare con tedeschi, russi e jugoslavi, né stare in giro quando era buio. Andava a scuola accompagnata da uno dei fratelli. Il quale a un certo punto decise che Sibel guardava troppo un suo professore, e le marchiò la schiena con un ferro da stiro. Il padre di Sibel, inorridito, si mise a camminare in cerchio sul tappeto del salotto e finì per picchiare il fratello di Sibel. Poi bevve il tè e prese a schiaffi la madre di Sibel, perché il tè si era raffreddato troppo in fretta e perché lasciava che sua figlia se ne andasse in giro come una tedesca. Sibel venne tolta da scuola, suo padre iniziò a cercarle un fidanzato in un internet café. Era convinto di concludere un buon affare. Anche se Sibel non avrebbe avuto una grossa dote, era cittadina tedesca, cosa che la rendeva desiderabile per molti uomini. Un matrimonio era l'unico modo legale per entrare in Europa, e l'Europa era la grande speranza.

 Sibel rifiutò il primo fidanzato e anche il secondo, e per questo

 

il fratello maggiore la pestò. Il minore, che aveva un anno più di lei, la tenne ferma, le infilò la mano nelle mutandine e le sussurrò all'orecchio: «Sei una vergogna per tutta la famiglia. Ti ammazzeremo».

Sua madre disse: «É un brav'uomo, lavorerà per te, ti proteggerà. Credi che qualcuno si innamorerà di te solo perché sei giovane e bella? Che rimarrà sempre con te? Che ti amerà? Non essere ingenua. Per favore, non essere ingenua». Sibel piangeva davanti allo specchio, perché era ingenua. Voleva esserlo.

 Sibel scappò di casa, prima si fece ospitare da un'amica tedesca, ma i genitori dell'amica avevano paura degli uomini musulmani, sebbene Sibel non avesse raccontato nulla della loro effettiva brutalità. O dell'Islam. Tre giorni dopo, Sibel era di nuovo in mezzo a una strada.

Amareggiata e sola.

 Indossava solo vestiti, gonne, camicie di seta e scarpe con fibbie scintillanti, camminava su tacchetti rumorosi e anche così sembrava zucchero, pura, irresistibile e assoluta. Due volte scopò con ragazzi che stavano con me. Per questo la odiavo, fino in fondo, da tedesca, solo che non riuscivo a smettere di desiderarla. Il contratto d'affitto e il telefono erano a nome mio. Le facevo dei bonifici e, quando doveva andare dal medico, le prestavo la mia tessera dell'assicurazione sanitaria.

 Lei dormiva senza coperte, splendente nella sua biancheria intima rosa antico. No, faceva solo finta di dormire. Restai a lungo a osservare il suo corpo magro, le ginocchia piegate e i capelli lisci e scuri eh e ricoprivano tutto il cuscino. Le tende erano aperte, la stanza era lambita da una luce morbida. Da una settimana c'era sempre bel tempo. Il cielo era immobile, senza nubi, a parte le scie di condensa degli aeroplani che comparivano di tanto in tanto. Sibel respirava tranquilla e regolare, non si sentiva volare una mosca. Mi sfilai il vestito. La tenda della finestra di fronte si mosse. Mi slacciai il reggiseno, tolsi le mutandine e mi sedetti sul letto. Mi chinai su di lei e le baciai una spalla, lei sorrise senza aprire gli occhi. Passai un dito sui suoi capezzoli.

 «Sei davvero porca» mi sussurrò all'orecchio e rise. «Lo sapevi che le ragazze curde si baciano sempre sulla bocca, come surrogato del sesso vero? Non possono certo andare a scuola di equitazione».

 «Sei curda, Sibel?»

 

Mi guardò, scoppiò a ridere, ma non rispose. Poi si mise a pancia in giù. Aveva il corpo pieno di cicatrici.

 Ormai andavamo a letto insieme quasi tutte le sere, quando iniziarono le telefonate, dapprima nel cuor della notte, poi al mattino presto, infine di giorno. Il ricevitore era muto, non sentivamo altro che il suo respiro pesante. Di notte Sibel lasciava la luce del corridoio accesa e non usciva più da sola. Prendeva un taxi anche quando a piedi ci avrebbe messo solo cinque minuti.

 Una sera tutto l'appartamento rimase al buio. Nello stesso istante suonò il telefonino di Sibel, il numero del chiamante non comparve sul display. Dall'altro capo si sentiva un respiro pesante e il silenzio.

 «Mio fratello lavora per i servizi segreti» gridò Sibel, mentre

 

io trafficavo al quadro dei fusibili con una torcia in mano. Avevo paura quasi quanto lei, anche se per altri motivi.

 Il giorno dopo, quando tornai da scuola, Sibel non c'era più. Si era portata via i suoi vestiti luccicanti, i fermacapelli, i cosmetici e i campioncini di profumo, e anche il mio passaporto, la tessera dell'assicurazione sanitaria e i contanti.

  

 

 Capitolo 11.

 Incontrai Sami in una piccola osteria dove si andava a bere il sidro.

Era un posto puzzolente di birra e olio fritto. Ciononostante era molto apprezzato da alcolizzati locali e turisti. Ci sedemmo all'unico tavolo libero, di fronte alla porta a vento che dava sulla cucina e sui bagni.

Quella sera i clienti abituali, in tuta e maglione, si distinguevano da un gruppo di irlandesi, che sproloquiavano ad alta voce sul loro albergo e sulla Seconda guerra mondiale. Uomini anziani, con la pelle del volto arrossata, di buon umore. Avevo dimenticato se ero stata io o Sami a proporre quell'osteria. Per lo meno non c'era il rischio di incontrare gente che conoscevamo.

 Due cameriere, una più anziana, con l'abbronzatura artificiale ed eyeliner blu, una più giovane che sembrava non avesse ancora perso tutte le speranze, ridacchiavano dietro il bancone. Sebbene il locale fosse pieno, non avevano granché da fare. I clienti ordinavano poco. La più giovane fissava Sami e si avvicinò al nostro tavolo con un sorriso.

 Elias era stato a guardare dal divano mentre mi preparavo. Avevo indossato un abito attillato, mi ero messa il fard e spruzzata il profumo dietro le orecchie. Tutto per un altro. Mi aveva chiesto dove stessi andando. Mi vedo con Sami, gli avevo risposto, cercando di nascondere l'agitazione. Ma Elias se nera accorto comunque. Se ne stava in silenzio, rabbioso. Aveva consumato tutte le sue energie per i quindici passi che separavano la camera da letto dal salotto.

 E ora che ero seduta di fronte a Sami tacevo, perché sentivo ancora lo sguardo di Elias su di me. Sul florido décolleté della cameriera ciondolava una croce ricoperta di strass. Ordinammo del sidro, sebbene nessuno dei due ne avesse voglia.

 «La mia domanda di visto è stata rifiutata» disse Sami. Aveva delle profonde occhiaie, mi stava davanti con le spalle curve, tenendomi le mani fra le sue.

 «Di nuovo?»

 

La cameriera posò il sidro sul nostro tavolo, fece un sorriso a Sami, il quale però rimase indifferente a quelle avances. I bicchieri erano graffiati. Sami era stato il mio primo ragazzo, prima di lui l'amore per me era sempre finito con un rifiuto.

 «E adesso?» gli chiesi.

 «É chiaro che perderò il semestre. Spero solo che non diventi un anno intero. Non voglio che mi caccino dal dottorato». La sua voce suonava stanca e incerta. Un tempo era stato lui il più forte, quello sempre pieno d'impegni e determinato. Quello che andava dritto per la sua strada.

 Volevo dire qualcosa di incoraggiante, qualunque cosa pur di togliergli quell'espressione rassegnata dal volto. E invece, mordendomi le labbra, gli chiesi: «Credi che ti butteranno fuori?»

 

Rise sottovoce: «Sarebbe un miracolo se non lo facessero».

 Sami toccò il mio bicchiere con il suo e bevve. Mi ero aspettata che questo incontro sarebbe finito male o per lo meno avrebbe preso una piega sgradevole, invece era tutto normale. Accarezzai Sami su una guancia. Lui girò il mio polso in fuori, se lo portò al naso.

 «Hai un buon odore» disse.

 «Ho il mio solito odore».

 «É proprio quello che intendevo».

Ritrassi la mano, nervosa, mi misi a dondolare avanti e indietro sulla sedia.

 Sami posò la mano sul tavolo, la osservò e disse: «Non riesco più a dormire. Mi addormento, ma poi nel bel mezzo della notte mi sveglio.

Vispo come un grillo, me ne sto sul divano nel salotto dei miei genitori e non so che fare. Non so dove sbattere la testa, cammino per casa, leggo riviste e romanzi. Soprattutto russi». Sami fece una pausa e mi fissò dritto negli occhi. Io sostenni

 

il suo sguardo. «Il mio appartamento negli Stati Uniti è vuoto.

Nella mia vecchia camera da letto ci dorme mia sorella. Non sono né qui né là. Se almeno sapessi quanto dovrò restare. Mi prenderei una stanza.

Farei qualcosa. Non vegeterei con questa sensazione di essere in transito».

 «E di giorno? Cosa combini?»

 

«Cerco di andare avanti con le mie ricerche, ma è una cosa ridicola. Di mattina vado in biblioteca, leggo. Ma a mezzogiorno, sono già stanco.

Sono sempre stanco, ma resisto in biblioteca, non voglio tornare a casa.

Soprattutto non voglio che Minna mi veda in questo stato». Fece una pausa, vuotò il bicchiere in un sorso e ne ordinò un altro. «Chiede spesso di te».

 I nostri piedi si sfiorarono sotto il tavolo. Le voci in inglese si fecero più forti, ma in quel brusio non riuscivo a capire una parola.

Stavano facendo un gioco in cui chi perdeva era costretto a bere e cantavano. La cameriera portava al gruppo un giro di grappa dopo l'altro.

 Io guardavo Sami, sentivo in me un calore e desideravo Elias, le sue carezze, i suoi malumori e il suo odore.

 «Non voglio tornare a casa troppo tardi» dissi. Sami annuì, fece un cenno alla cameriera.

 Era una notte stellata. Passeggiammo in silenzio fino alla fermata del tram. Io avevo freddo. Sami attese con me, lo presi come un gesto affettuoso. All'arrivo del tram mi diede un bacio su una guancia e rimase lì fin quando non fui salita a bordo. Iniziò a piovigginare.

 La casa era già immersa nell'oscurità, sebbene non fossero ancora le undici. Il mio ombrello stava sgocciolando sul pavimento di linoleum e io lo aprii, come una brava donnina di casa. Nell'appartamento penetrava solo qualche raggio di luce dei lampioni e, in lontananza, lo sferragliare del tram. Aprii il frigorifero, il ripiano superiore era pieno di pellicole di Elias, pescai dal freezer una bottiglia di vodka e me ne versai un bicchiere. Il tutto senza accendere la luce. L'alcol mi bruciò in gola e mi riscaldò. Mi spogliai in fretta e mi infilai sotto la doccia. Ci rimasi fin quando mi fui lavata via l'odore dell'osteria e il ricordo di Sami.

 Elias era sdraiato dalla mia parte del letto, con la coperta tirata sulla testa. Lo cercai a tentoni. Mi prese fra le braccia, mi strinse con tutte le sue forze e io ricambiai il suo abbraccio con tutte le mie forze. Lo percepimmo sia lui sia io. Restammo così, sentendo il respiro dell'altro, senza osare muoverci.

 «Che ore sono?» mormorò Elias.

 «Le undici».

 «Bene. Sei tornata presto». Si addormentò. Io rimasi sveglia accanto a lui, all'improvviso ebbi paura, ma non sapevo di cosa.

 All'alba facemmo l'amore fino a quando iniziarono le urla degli ubriachi, che ignorammo con signorile tranquillità. Poi rimanemmo a lungo vicini, Elias mi accarezzò i fianchi, mi baciò la schiena, poi di colpo si drizzò e disse: «Ho perso molto peso, vero?»

 

Mi alzai anch'io e lo guardai con attenzione.

 «É perché non faccio che stare sdraiato» disse, e aggiunse a bassa voce: «Tutti i muscoli sono spariti».

 Posai la mano destra sul suo viso, gli baciai la punta del naso e dissi: «Torneranno. Andrà tutto bene» e siccome mi fissava scettico, aggiunsi: «Te lo prometto».

Sorrise e io proposi: «Preparo la colazione, ok?»

 

«Non posso continuare a essere così debole».

 «Diamine, in quell'ospedale non ci torno più» dissi io.

 Elias ricominciò con le sue domande. Eravamo a letto, il suo corpo e il mio corpo. La pioggia batteva contro i vetri della finestra. Per la prima volta da parecchio tempo avevamo trascorso una bella serata insieme, senza litigare, pizza e film, senza nemmeno un'ombra di irritazione.

 Litigavamo per qualunque inezia. Lui non si ristabiliva, aveva forti dolori, non riusciva quasi a muoversi. Le prime settimane dopo l'operazione la gamba non poteva sopportare un carico di più di venti chili, il che significava che senza l'aiuto di qualcuno, Elias non era neppure in grado di alzarsi. Io andavo al supermercato, dal fornaio e al lavasecco. Stendevo il bucato, lavavo i piatti, passavo l'aspirapolvere, andavo in biblioteca e facevo da mangiare. Alla sera ero esausta, piombavo a letto e mi addormentavo all'istante. Elias rimaneva a lungo sveglio accanto a me, riusciva a dormire solo alle prime luci dell'alba.

La mia cucina non gli piaceva, giocherellava con il cibo nel piatto, non mangiava nulla e un'ora dopo si scaldava un pentolino di latte. Con un'espressione seria, inzuppava dei panini alla nutella nel pentolino.

Io stavo zitta, ma era da un po' che lo trattavo con freddezza. Sapevo che era puerile, ma ero stracarica di lavoro e sovreccitata. Sempre più spesso Elias mi rinfacciava che non osava avvicinarsi a me.

 Anche quando eravamo irritati, il più delle volte facevamo finta di niente. A volte era allegro, allora venivano a trovarci degli amici, guardavamo un film e bevevamo qualche birra. Ma succedeva di rado.

 «Che cosa ti è successo a Baku?» Mi fece quella domanda in fretta, senza preavviso.

Io trattenni il respiro, ci pensai e dopo un bel po' risposi: «Ma te l'ho già raccontato».

 Elias si sollevò a fatica.

 «Devi cominciare ad avere fiducia in me» disse.

 «Non è questo il punto». La mia voce suonò brusca.

 «E qual è allora?»

 

Mi sollevai anch'io e accesi l'abat-jour.

 «Cosa mi dici di tuo padre?» domandai io.

 La sua espressione si fece ancora più tesa.

 «A cosa ti riferisci?» chiese lui esitante.

 «Vi ha mai picchiato?»

 

Elias mi guardò, spaventato dalla piega che aveva preso la conversazione: «A cosa ti riferisci?» mi chiese di nuovo.

 «Quando era ubriaco, ti picchiava?» La mia voce si spezzò, mi sentii in colpa.

 «A volte beveva per giornate intere, poi non toccava la bottiglia per mesi. Era una lotteria: non sapevo mai in che condizioni lo avrei trovato. Beveva soprattutto di sera, quando mamma era al lavoro. Lo mettevo a letto, portavo via le bottiglie e pulivo il suo vomito prima che mamma tornasse a casa il mattino dopo»,

 

«Ti lasciava solo con lui?»

 

«Cos'altro poteva fare? Lavorava, sopportava in silenzio i suoi malumori e il suo autoritarismo. Subito dopo la caduta del Muro restò senza lavoro. Ma aveva già iniziato a bere prima. Ah, cosa vuoi che ti dica?» Elias tacque. Io restai in attesa, pur essendo sicura che non avrebbe più aperto bocca. Invece dopo un po' riprese, e io mi domandai cosa sapessi in realtà di lui, se lo conoscessi davvero.

 «Qualche volta, nei giorni in cui non era più in grado di formulare una frase sensata, l'ho fotografato. Un giorno trovò la scatola con quelle foto».

 «Cosa successe?» Elias spense la luce e nascose la faccia nel cuscino. Gli infilai le mani sotto la maglietta, gli accarezzai la schiena e lo riempii di baci sulla nuca. Ma lui non si mosse. Tuttavia nei giorni successivi Elias mi raccontò molte altre cose. Era come se in lui una diga avesse ceduto.

 

 

  

 

 Capitolo 12.

 Da bambina andavo spesso al parco a passeggiare con mia madre, nel pomeriggio e qualche volta anche al mattino. Nel parco c'erano delle giostre, katcheli, tutte guaste. Oppure mancava la corrente per farle muovere. La mamma mi raccontava sempre storie paurose a proposito del katchelcik.

 A quei tempi il mio gioco preferito si chiamava Notiziario e funzionava più o meno così: ci spartivamo il parco e ciascuno cercava di conquistare il territorio degli altri. Con tutti i mezzi, proprio come vedevamo nei notiziari che andavano in onda dopo i cartoni animati.

Giocavamo al Fronte nazionale, giocavamo alla guerra.

 Il nome di quel bambino non lo ricordo più, ma aveva i capelli rossi e le efelidi persino sui piedi e sulle ginocchia. Era il mio nemico. Il mio Nagorno Karabakh personale. Ci facevamo la guerra. Uno dei due finiva sempre per piangere. Questo dipendeva soprattutto dal fatto che ci picchiavamo con pietre e bastoni. Una volta il ragazzino si nascose su un albero. Era un albero grande e bello, ai margini del parco, lontano dalle madri. Lui lanciava sassi e chiodi da un ramo alto ma quando stavo per conquistare l'albero, come avevano fatto le forze armate armene con Shusha, le nostre madri decisero che dovevamo fare la pace. Il padre del Rosso era questore e aveva ottimi contatti con

 

il mercato nero. La madre del mio nemico era una donnina dai lunghi capelli rossi. Al parco si vantava sempre della sua passione coniugale - ogni giorno in pausa pranzo il suo focoso marito tornava a casa per fare l'amore con lei. Lei confonde il sesso con l'amore, sentii dire da mia madre, non senza un pizzico di gelosia nella voce.

 Le madri discutevano in cucina. Io ero con il mio nemico in camera da letto dei suoi genitori, di fronte allo specchio di un enorme armadio.

Lui scelse un prendisole in seta e io una camicia da uomo bianca. Sopra le nostre teste era appesa una foto incorniciata di Saddam Hussein. Il nemico citò suo padre e assunse la posa di un Napoleone. Saddam era un uomo giusto. L'unico vero uomo in circolazione. A parte suo padre, naturalmente. Il padre di Saddam? Il Rosso ci pensò su. No, suo padre.

Saddam era anche l'unico a riuscire a spuntarla con gli ebrei. Quando gli spiegai che anch'io ero ebrea, non ne fu affatto stupito.

 Solo qualche settimana dopo lui e sua madre dovettero fuggire. Il marito aveva detto a sua moglie di non essere più in grado di garantire la loro sicurezza, né quella di lei, né quella del bambino, quindi avrebbero dovuto subito lasciare la città. Lui rimase nella casa, peraltro appartenente a suo suocero, che era armeno.

 Mia madre cercò di salvare un paio di cose dell'appartamento per spedirle alla moglie, che viveva nascosta. In casa si era già installata la nuova moglie. Un'azera. Mentre mia madre imballava libri e spartiti, la donna non fece obiezioni, si limitava a lanciare occhiate sprezzanti intorno a sé, come se fosse lei quella che stavano derubando. Ma quando mia madre cercò di mettere via le posate d'argento, che facevano parte della dote come l'appartamento, la nuova si mise le mani sui fianchi e minacciò: «Quelle le lasci qui. Altrimenti vado a chiamare mio marito».

 La cosa più difficile fu tornare a casa con la valigia, per la folla inferocita chiunque girasse con una valigia era armeno e veniva linciato seduta stante. Mio padre si nascose con la valigia nel più vicino androne, mentre mia madre rimase davanti all'edificio in attesa che passasse un gruppo di pogromchiki. Solo allora lui uscì e corse fino all'androne successivo.

 Elias stava trafficando ai fornelli. Mi avvicinai a lui da dietro, gli misi le braccia intorno ai fianchi, mi appoggiai alla sua schiena. Lui non si girò verso di me e io mi staccai.

 «Elias?»

 

Continuò a darmi la schiena. Gli posai una mano sulla spalla, ma lui si scostò. Per un po' rimasi a fissare la sua schiena, poi mi sedetti a tavola.

 «Cosa c'è?»

 

«Niente».

 Si girò verso di me. Aveva il naso arrossato e gli occhi lucidi. Quindi mi chiese risoluto: «C'è qualcosa tra te e Sami?»

 

Presi un piatto dal tavolo e furiosa lo scagliai contro il muro, mancando di poco la sua testa.

 Vidi l'incertezza affiorargli nello sguardo e gridai: «Pensi che me ne vada in giro a scopare mentre tu sei all'ospedale?»

 

Scosse il capo.

 «Come ti viene in mente?» domandai.

 «Stare qui a ciondolare mi sta facendo diventare pazzo».

 «Sei proprio scemo». Mi tremavano le mani e continuai a gridare: «Ognuno ama per quanto gli è possibile. Se non ti basta...»

 

Elias mi guardò sconvolto e io mi resi conto di essermi spinta troppo in là. Ormai tra noi la leggerezza era finita, mi voltai verso la finestra e la aprii. Avevo le lacrime agli occhi. Non avrei dovuto dire niente, fino a quel momento non avevo mai minacciato Elias, non avevo mai fatto giochi di potere con lui e avevo sperato che nella nostra relazione non sarebbe mai successo. E invece ero stata io a cominciare. Sentii che Elias cercava di chinarsi per raccogliere i cocci.

«Lascia stare!» esclamai.

 «Ci penso io» mormorò Elias e mi fece troppa pena perché io riuscissi a sopportare il suo sguardo.

 «Ti ho detto di lasciar stare».

 «No, ci penso io».

 «Non ce la puoi fare».

 Elias appoggiò sul tavolo i cocci che aveva già raccolto e zoppicò fino in camera da letto. Mentre cercava di aprire la porta, inciampò. Il suo corpo cadde a peso morto sul pavimento. Corsi da lui, tentai di aiutarlo a rimettersi in piedi, ma lui mi respinse.

  

 

 Capitolo 13.

 Accesi la luce. Elias sedeva dritto sul letto dalla parte del cuscino.

Aveva il respiro pesante, i capelli fradici di sudore. Mi svegliai di colpo.

 «Che succede?»

 

«Crampi» rispose.

 «Alla gamba?»

 

«Sì».

 Gli tremavano gli arti, le braccia, le gambe, le mani. Stava battendo i denti. Il suo labbro superiore era madido di sudore. Gli tolsi le bende.

La gamba non sembrava troppo gonfia, ma la ferita aveva i margini arrossati ed era piena di pus.

 «Chiamo l'ambulanza» dissi.

 «No».

 «No?»

 

«Non voglio tornare in ospedale. Aspettiamo fino a domattina».

 «No».

 «Sono solo crampi. Capita. Andiamo domattina, al pronto soccorso adesso non possono fare niente. Tanto vale che io resti qui. Vammi a prendere dell'acqua, per favore».

 Andai in cucina e riempii un bicchiere fino all'orlo. Poi mi lavai le mani, misi a bollire dell'acqua, presi due asciugamani puliti e ne inzuppai uno di acqua fredda, l'altro di acqua bollente.

Yornai in camera da letto, cercai di agire con calma e sorridendo a Elias, ma non ce la feci.

 Per prima cosa misi l'asciugamano freddo sulla fronte di Elias, poi con quello disinfettato rimossi il pus dalla ferita. Appena la sfioravo, Elias lanciava un urlo, sobbalzava, inarcava la schiena, e ricadeva gemendo. Composi il numero dell'ambulanza e passai l'asciugamano umido sul volto di Elias. Piano piano, una dopo l'altra, le finestre della casa di fronte si fecero buie.

 Tremava in tutto il corpo, provavo a tenerlo fermo, lo abbracciai, ma aveva un crampo dietro l'altro a intervalli sempre più brevi. La ferita gocciolava. Mi sdraiai al suo fianco. Elias diede un violento colpo alla testata del letto e si mise a imprecare e piagnucolare. Passò un'eternità prima che si sentisse la sirena davanti a casa nostra. Li chiamai dalla finestra del pianerottolo e li scongiurai di affrettarsi.

Finalmente udii i passi pesanti del medico e del barelliere sulle scale, li condussi in camera. Elias continuava a rigirarsi nel letto.

 Snocciolai la cartella clinica di Elias. Il medico annuì e si infilò dei guanti di gomma bianchi.

 «Si calmi, d'accordo?» mi disse, misurò il polso a Elias e tastò la ferita. Elias lanciò un grido di dolore, io cercai di tranquillizzarlo, appoggiai la mia mano sulla sua. Non c'era nulla da fare. Il dottore tirò fuori dalla sua valigetta una siringa e gli fece un'iniezione. Poi proseguì la visita, osservò pensieroso la ferita e riprese a toccarla.

 Elias iniziò a sudare freddo, urlò: «La smetta!» Si aggrappò alla mia mano e girò la testa dall'altra parte. Dapprima pensai che non volesse guardare, ma si trattava di un crampo ai muscoli della nuca. Elias si agitò per qualche minuto, faceva fatica a respirare, rantolava.

 «Quando ha cominciato la ferita a suppurare?» domandò il medico.

«Forse da un paio d'ore. Non lo so, stavo dormendo. Non può dargli qualcosa?»

 

«L'ho già fatto».

 Mentre l'attacco passava, il medico fece un cenno al barelliere. Quello scese in silenzio all'ambulanza e tornò pochi minuti dopo con un collega e una barella. Elias si era un po' calmato, gemeva meno e respirava normalmente. I vicini guardavano curiosi dalle finestre.

 Appena arrivati in ospedale, un'infermiera mi chiese quanto tempo fosse passato da quando Elias aveva mangiato l'ultima volta.

 

Olga Grjasnowa - Tutti i russi amano le betulle
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