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Mercoledì, 2 maggio 2012.

 

Aldani si svegliò di soprassalto con un pensiero martellante: i traslocatori! Si era del tutto dimenticato di loro, nemmeno aveva provato a chiamarli. Non aveva cellulari di riferimento, ma avrebbe magari potuto lasciare un messaggio in segreteria. Guardò l'ora sul telefono, visto che l'orologio non lo portava più da tanti anni. Le sette e trenta, soltanto mezz'ora di tempo. Odiava fare le cose in fretta. Innanzitutto, provò a telefonare ai traslocatori. C'era in effetti la segreteria e lasciò un messaggio.

Dopo dieci minuti, era seduto in altana col caffè davanti. Lo sorseggiò il più lentamente che gli riuscì, poi prese il cellulare e compose un numero.

«I bambini sono svegli?»

«Lo sono dalle sei.»

«Perché non dormite di più, voi che potete?»

«Dillo a loro.»

«Magari se li mettessi a letto un po' più tardi...»

«Nicola!»

«Ok, d'accordo. Passameli.»

Ci fu una lunga trattativa con i bimbi, condotta dalla madre, su quale dovesse essere l'ordine per salutare il papà. Alla fine, fra uno strillo e l'altro, fu concordato, o per meglio dire imposto, l'ordine decrescente di anzianità.

«Quando vieni a casa?» chiese Mattia, sei anni.

«Presto, piccolo.»

«Presto quanto?»

«Molto presto, fra qualche giorno.»

«Ma, papi, hai detto presto anche l'altra volta...»

«Hai ragione, piccolo, ma stavolta è sicuro.»

«Io sono grande. Andrò alla scuola elementare.»

«Hai ragione.»

«E tu non sei di parola.»

Aldani non seppe cosa rispondere. Il fatto era che Mattia aveva ragione.

«Quando torno, andiamo a montare il cavalletto alla bici.»

«Lo ha già fatto la mamma.»

«Ah. Va bene, allora andiamo in libreria.»

«Davvero?»

«Sì, io e te da soli.»

«Senza le bambine?»

«Senza le bambine!»

«Sììì! Bambine... Bambine!» chiamò Mattia dall'altra parte del telefono.

«Mattia, aspetta, non...»

«Bambine, lo sapete che, quando viene papi, andiamo in libreria io e lui da soli? E voi no-ooo!»

Non c'era niente da fare, il «da soli», innescando la competizione con le sorelle, faceva sempre la differenza. Il dialogo con Mattia era ormai andato, inghiottito da urla e pianti di protesta delle bambine. Il telefono, infine, si rianimò.

«Ciao, papi. Lo sai che Mattia non vuole che veniamo anche noi in libreria...» Era Sara, quattro anni e mezzo, in lacrime.

«Non ti preoccupare, amore, come stai?»

«Possiamo venire anche noi, vero?»

«Poi vediamo...»

«Perché non possiamo venire anche noi?»

«Perché l'ho promesso a Mattia...»

«Io voglio stare con te, da sola.» Passaggio dal noi a io.

«Amore, ne riparliamo quando torno a casa, va bene?»

«Io voglio venire in libreria con te!» Pianto disperato.

«Sara? Sara?» Ok, anche la secondogenita era andata.

«Adesso tocca a me!» L'urlo deciso di Micaela, tre anni, si impose sul frastuono generale. «Papi, Mattia non vuole che veniamo in libreria...» La copia carbone di Sara.

«Ciao, piccola!» Stavolta «piccola» era adeguato.

«Papi, possiamo venire in libreria con te?»

Regola da non dimenticare mai: niente promesse al telefono.

«Ascolta, piccola, quando vengo a casa, ne parliamo, va bene?»

«Gneeee!»

No, non andava bene. Aldani comprese che la telefonata era finita. All'altro capo dell'apparecchio era il delirio. Anna riuscì per un istante a impossessarsi dell'oggetto.

«Come riesci tu a incasinare tutto, dovresti proprio spiegarmelo.»

«Ma io... Anna? Anna!» Fine delle trasmissioni. Che disastro!

La scampanellata disordinata, che preannunciava una difficile discussione, colse Aldani nel pieno di un pensiero complicato: si poteva lui considerare un padre a modo? Mise da parte quel pensiero, non senza un certo sollievo. Ci sarebbe tornato su, senza dubbio. In un altro momento. «Sì?»

«Veneta Traslochi.»

«Venite su, vi devo parlare.»

«Parlare?»

«Sì, terzo piano.»

Il mestiere di facchino, o di traslocatore, non era per tutti. I tre tizi in pantaloncini che comparvero sulla porta, trascinandosi dietro un discreto olezzo di sudore stantio, erano proprio belli grossi. I muscoli di braccia e gambe erano da palestra, e le magliette rosse, già fradicie, con la scritta bianca Veneta Traslochi lasciavano anche intuire i pettorali niente male. D'altra parte a Venezia gli ascensori erano alquanto rari.

«Ho avuto alcuni contrattempi, e gli scatoloni del trasloco non sono ancora pronti.»

I tre tizi lo squadrarono sfoderando uno sguardo ironico del tipo «stai scherzando, vero?»

«Mi rendo conto che questo vi crea qualche problema, ma ho lasciato un messaggio in segreteria stamattina e...»

«Stamattina?» chiese il tizio al centro che aveva l'aria del capo.

«Sì, alle sette e mezzo.»

«Nialtri a quel'ora gierimo za in barca», disse il tizio a sinistra.

«Proprio cussì», rincarò quello a destra.

«Capisco che, per essere qui alle otto, siate partiti almeno mezz'ora prima...»

«Appunto, comandante. Come la mettiamo, adesso?» Fu la volta del tizio al centro.

Aldani guardò i tre negli occhi, a uno a uno. «La mettiamo che fisseremo un'altra data per il trasloco, e mi metterò d'accordo col vostro direttore per l'eventuale disturbo di stamane.»

«Il disturbo non è eventuale.»

«Va bene. Vedremo.»

«E il direttore non c'è.»

«È in ferie?» chiese Aldani con ingenuità.

«No, la Veneta Traslochi è una cooperativa, non abbiamo un direttore, e il capo sono io.»

Ah, ecco. Di bene in meglio. «Allora, signor...»

«Visentin.»

«Bene, signor Visentin, ci risentiamo tra qualche giorno per fissare una nuova data.»

«E se el ne dà buza n'altra volta?» domandò il tizio a sinistra rivolto al capo.

«Mi no me fido», aggiunse quello a destra.

A quanto pare, oltre a non fidarsi della promessa di Aldani, i due scagnozzi erano incapaci di parlare italiano.

«Hanno ragione», sentenziò il capo.

Aldani decise di darci un taglio e fece quello che di solito aborriva: «Vedete, signori, sono il commissario Aldani della Squadra mobile, sezione Omicidi, Questura di Venezia», e sottolineò l'affermazione mostrando il tesserino. Un fremito leggero percorse i tre armadi. «Il contrattempo cui accennavo or ora...» Or ora, chissà come gli era venuto... Aldani gioì dentro di sé a quel tocco così fine. «...è il caso Albrizzi, trovato cadavere in laguna giusto ier l'altro mattina, immagino ne abbiate sentito parlare. Le indagini mi hanno tenuto impegnato causando l'impedimento...» Impedimento! «...che non mi ha consentito di rispettare gli impegni presi.»

I tre tizi si guardarono.

«Spero che ora sia tutto più chiaro, e che troveremo un accomodamento.»

Ci fu un silenzio imbarazzato.

«Ma certo, dottore!» esclamò, infine, il capo. «Accomoderemo senz'altro! Noi abbiamo il massimo rispetto per il lavoro della Polizia. Il caso Albrizzi: brutta storia, dottore, non la invidio.»

«No, no, par carità...» disse il tizio di sinistra, senza specificare a cosa si riferisse di preciso.

«Certo, certo, fusse mai che...» fece eco, egualmente insensato, quello di destra.

«Bene. Allora, signor Visentin, mi rifaccio vivo io, appena possibile.»

«Non si preoccupi, dottore! Anzi, ecco il mio cellulare: mi chiami quando vuole», aggiunse, porgendo un biglietto da visita.

«Grazie. Arrivederci, allora.»

I tre tizi si avviarono lungo le scale sperticandosi in saluti e riverenze. Appena furono scesi di un piano, Aldani li sentì parlottare in veneziano stretto. Riuscì soltanto a intercettare, oltre ai soliti porchi, la frase: «E mi cossa casso ghe ne savevo ch'el giera un polissioto?» Scosse la testa e richiuse la porta.

Passò alla solita edicola per prendere il giornale. Resosi conto che non c'erano i quotidiani per via della festività, fu colto da una fulminea irritazione, e nemmeno il caffè di Bepi riuscì a sedarlo. Quando arrivò in Questura, era sudato come un porco e aveva una certa qual voglia di attaccar briga.

«Ho i CDR del cellulare del morto», esordì Manin, entrando in ufficio con una cartelletta in mano.

«Che cazzo sarebbero i CDR, Manin?» sbottò Aldani.

«I tabulati telefonici.»

«E allora chiamali tabulati, no?» Cominciava a sentirsi un po' obsoleto. «Comunque, ce n'è voluto di tempo.»

«Dottore, ieri era il Primo maggio...»

«Fa' vedere», ordinò il commissario. Li sfogliò in fretta. «Non telefonava un granché, il tizio.»

«Secondo me, aveva un secondo telefono, magari intestato a qualcuna delle sue società, o a chissà chi, se voleva fare il furbo.»

«Forse. Una parola, rintracciarlo!»

«La cosa interessante è che dopo la sera del 20 aprile, venerdì, non ci sono più telefonate.»

«Pensi al momento del suicidio?»

«Se è caduto in acqua e aveva in tasca il cellulare...»

«In effetti... Borsato ha detto che... Vediamo, devo essermelo segnato da qualche parte... Eccolo: “tra le dodici di venerdì 20 e le dodici di sabato 21”. Sembrerebbe tornare...»

«Già.»

«Riusciamo a sapere quando il telefono ha smesso di funzionare?»

«No, dottore, bisognava predisporre i sistemi del gestore.»

«E non si può farlo ora?»

«No. Andava fatto in via preventiva e, trattandosi di fatto di intercettazioni, serviva l'ordine del gip.»

«Naturalmente.»

Manin abbozzò.

«Vedremo cosa ne esce», concluse Aldani, e poi: «Sei pronto?»

«Pronto? Pronto per cosa?»

«Andiamo a trovare il commercialista.»

«Chiamo la sezione Mare?»

«Non serve, si va a piedi. Fa bene alla salute.»

«E meno male...»

«Come dici?»

«Niente, dottore, niente...»

Dallo studio di Amedeo Bassan, al secondo piano di un aristocratico palazzo ristrutturato, con l'aria condizionata sparata a palla, si intravedevano le scalinate del ponte di Rialto e la ressa multicolore che affollava i negozi di chincaglierie per turisti. Una premurosa segretaria chiamò il commercialista, che si affacciò a una porta dopo pochi secondi. Un volto giovanile, un paio di occhiali dalla montatura sottile, un vestito elegante.

«Venga commissario, venga.»

Aldani si voltò verso Manin. «Tu aspetta qui», disse con un cenno impercettibile della testa rivolto alla segretaria.

Manin annuì e puntò verso una poltrona sotto una finestra.

Bassan richiuse la porta dietro di sé, fece accomodare il commissario e si sedette al di là di una scrivania imponente, modernissima e del tutto sgombra di carte. Sulla superficie lucida del mogano - era senz'altro mogano, il legno più pregiato che Aldani conoscesse - si rispecchiavano un oggetto a forma di fagiolo che doveva essere un telefono, una lampada filiforme che somigliava a una mantide religiosa, un computer portatile chiuso, un blocco immacolato di fogli di carta e, infine, una stilografica Montblanc in oro massiccio. Non c'era altro. Da non credere. Pensò alla sua, di scrivania.

«Come saprà, Mirco Albrizzi è stato trovato morto due giorni fa all'alba, in laguna», disse il commissario.

«Ho letto i giornali ieri. È incredibile, povero Mirco. Ma si è davvero suicidato?»

«È una delle ipotesi che stiamo vagliando.»

Bassan assunse un'espressione indecifrabile.

«Lei era il suo commercialista, vero?»

«Sì, seguivo le sue attività.»

«Tutte?»

«Be', direi di sì.»

«Di cosa si occupava Albrizzi?»

«Di finanza, in primo luogo, ma anche di costruzioni e attività immobiliari in genere.»

«Si spieghi meglio.»

«Tramite una propria società...»

«La Polifilo?»

«Esatto, la Polifilo holding. Vedo che è già al corrente.»

«Continui», disse freddo Aldani.

«Dunque, la Polifilo detiene la maggioranza di varie società: finanziarie che gestiscono fondi azionari e che operano in borsa; molte immobiliari attive nella compravendita e nel restauro di immobili; infine, le società di costruzioni vere e proprie...»

«Come Corallo Costruzioni e Marecons Cantieri?» Aldani aveva ben assimilato quanto il buon Danieli gli aveva riferito il giorno prima, il che gli dava un piccolo vantaggio nei confronti di Bassan, che al di là delle apparenze non sembrava molto entusiasta di quel colloquio.

«Esatto», sillabò il commercialista, studiando con attenzione il suo interlocutore come per capire dove volesse andare a parare. Pareva aver compreso che era meglio giocare a carte scoperte.

«Capisco. E gli affari? Come gli andavano?» proseguì il commissario.

Bassan lo guardò strano e alzò le sopracciglia. «In che senso?» prese tempo.

«Be', guadagnano o no, tutte queste società? Lei dovrebbe saperlo, no?»

«Commissario, ci sono i bilanci che...»

«Certo, certo, li guarderemo, ma mi interessa il suo parere.»

«Be'... sì, guadagnano. I progetti in corso sono tanti e diversificati. Procedono bene, direi, e i bilanci consolidati di quest'anno sono tutti in attivo...»

«Consolidati?»

«È un termine tecnico. Sarebbero i bilanci che non tengono conto delle entrate e uscite intra gruppo.»

Aldani restò in silenzio osservando Bassan.

Questi continuò: «Ad esempio, se una società del gruppo vende qualcosa a un'altra società del gruppo, quel costo e quel ricavo non vengono conteggiati».

«Ho capito. Dunque, gli affari vanno benone. Immagino che il Mose abbia un ruolo di primo piano in tutta questa floridità.» Senza volerlo Aldani aveva impresso un tono sibillino alla frase.

Bassan non rispose subito. «Certo, commissario. Le società del gruppo hanno regolarmente ottenuto appalti di un certo impegno economico e stanno...»

«Non intendevo metterlo in dubbio.»

«Che cosa, scusi?»

«Che le aggiudicazioni siano state regolari. E per quanto riguarda le attività finanziarie?»

«Be', quello è un settore più difficile, la volatilità degli scenari ne è una caratteristica costante.»

«Dunque?»

«Non vanno male, anche se, a volte, alcune operazioni non conseguono il risultato sperato, ma è fisiologico.»

«Fisiologico...» ripeté Aldani.

«Sì commissario, è normale, però...»

«Però?» incalzò.

«Be', a volerla dire tutta...»

«Bravo, diciamola tutta», si lasciò sfuggire Aldani, stremato dal registro di quel colloquio così lontano da quelli cui era uso.

Bassan lo guardò con fastidio, ma non reagì. «Dicevo: in effetti, qualche pensierino glielo stava dando la banca.»

«Quale banca?»

«BancaVeneta, naturalmente.»

«Perché, era molto indebitato con BancaVeneta?»

«Ma no! Commissario, si può dire che BancaVeneta l'abbia costruita lui!» La loquela di Bassan scomparve di colpo. Sembrava non aver più voglia di parlare.

«Si spieghi meglio, per favore.»

«Be', era su tutti i giornali.»

«Che cosa era su tutti i giornali?»

Il commercialista non rispose.

«Senta, Bassan, non la capisco. Collabori, e sarà tutto più semplice. Non mi costringa a convocarla in Questura. O magari davanti al piemme.»

«BancaVeneta ha qualche difficoltà», disse infine Bassan.

«Me ne parli.»

«Premetto che il mio studio a loro non eroga servizi e che, quello che le dico, l'ho saputo da Mirco o dai giornali.»

«Vada avanti.»

«Ebbene, BancaVeneta è una creazione di Mirco Albrizzi a beneficio del suo entourage imprenditoriale e finanziario. È l'istituto di riferimento di un certo gruppo di portatori di interessi. Tutto nell'ambito delle regole, s'intende. Fra l'altro, la banca sta aprendo molti nuovi sportelli in tutto il Veneto, e il capitale gestito è in costante aumento.»

«Il problema, Bassan...»

«Sofferenze.»

«Prego?»

«Prestiti a breve e medio termine che la banca fatica a farsi restituire.»

«Cioè debitori che non pagano?»

«Sostanzialmente.»

«Di che cifre stiamo parlando?»

«Si vocifera di parecchie decine di milioni, ma, le ripeto, lo studio non è loro consulente, per cui non ho informazioni precise. Dovrebbe chiederlo alla banca.»

«Lo faremo, ne stia certo.»

Manin si guardò attorno. Pareti candide, faretti a illuminare quadri che immaginò di pregio, anche se lui non capiva nulla di pittura, due poltroncine di design, la scrivania della segretaria che sembrava uscita da una collezione d'arte moderna. Il dottor Bassan doveva intendersene.

Si alzò avvicinandosi alla scrivania. «Ha sentito che brutta storia?»

La ragazza annuì.

«Conosceva il signor Albrizzi?»

«Certo, era un nostro cliente. Veniva spesso qui.»

«Quando lo ha visto l'ultima volta?»

Alla domanda vagamente inquisitoria la ragazza si irrigidì.

«Non si preoccupi, non è mica un interrogatorio!» aggiunse Manin con allegria.

La ragazza sembrò tranquillizzarsi. «Due venerdì fa. Aveva un appuntamento con il dottore.»

«A che ora?»

«Abbastanza presto...» Sfogliò veloce un'agenda. «Ecco, alle nove e trenta.»

«Come lo ha trovato?»

La ragazza sembrò non capire.

«Voglio dire, le è parso strano, preoccupato, allegro, o che altro?»

«Serio. Di solito scherzava, faceva qualche battuta, ma nelle ultime settimane non era così.»

«Ha idea del perché fosse così serio?»

«Io faccio il mio lavoro, non mi intrometto negli affari dei clienti.»

«Allora, si trattava di una questione di affari...»

«Non ho detto questo!»

«Sì che l'ha detto.»

«Forse.»

«Allora?»

«Be', è soltanto una mia impressione. Io rispondo al telefono, apro la posta e gestisco gli appuntamenti. Forse dovrebbe parlarne col dottore.»

«Ci sta già pensando il commissario. Avanti, dica la sua, signorina...»

«Marta. Marta Caselli.»

«Forza, Marta, non abbia timore.»

La ragazza esitò ancora poi cedette: «Credo che il signor Albrizzi avesse problemi finanziari».

«Torniamo al suo rapporto con Mirco Albrizzi. Vi incontravate spesso?» chiese Aldani.

«Almeno una volta alla settimana, e comunque ci si sentiva al telefono», rispose Bassan.

«Quando vi siete visti l'ultima volta?»

«Ora non ricordo di preciso. Dovrei verificare in agenda.»

«Può farlo, per cortesia?»

Bassan alzò il telefono. «Marta, mi controlli quand'è stato l'ultimo appuntamento con Mirco Albrizzi? ... Sì... Va bene, grazie.» Bassan chiuse la comunicazione. «Il 20 aprile, il venerdì mattina prima del ponte.»

«Che impressione le ha fatto?»

«Mi è sembrato come sempre. Perché me lo chiede?»

«Perché uno che sta per suicidarsi dovrebbe manifestare qualche segno esteriore, nervosismo ad esempio.»

«No. Non mi pare di aver notato niente di particolare.»

«E di che avete parlato?»

«Dettagli gestionali, problemi burocratici, documenti da firmare... Le solite cose, insomma.»

«Quanto si è trattenuto nell'ufficio di Bassan?» chiese Manin.

«Non molto... una mezz'ora, e quando è uscito...» Marta si interruppe.

«Quando è uscito, cosa? Su, non si faccia pregare.»

«Era alterato.»

«Si spieghi meglio.»

«Be'... Credo abbia avuto una discussione col dottore.»

«Una discussione? Hanno alzato la voce?»

«Sì.»

«Pensa stessero litigando?»

«È possibile.»

«Ha sentito cosa si dicevano?»

«Soltanto qualche parola.»

«Ad esempio?»

«Non ricordo bene... Parlavano di errori commessi. A un certo punto il dottore ha gridato: “Sei un bastardo!” Questo l'ho sentito bene. E a quel punto il signor Albrizzi è uscito sbattendo la porta.»

«Bene, dottor Bassan. Grazie per le informazioni, e si tenga a disposizione, credo avrò ancora bisogno di lei.» Aldani si diresse alla porta accompagnato dall'uomo. «Un'ultima cosa, dottore. Conosce l'avvocato di Albrizzi?»

Bassan esitò.

«Mi riferisco all'avvocato Giuseppe Bellemo.»

«Certo che sì. Col nostro lavoro è inevitabile. Ha lo studio in campo Sant'Angelo.»

«Grazie.»

Nell'ingresso Manin stava ancora chiacchierando con la segretaria.

«Andiamo», gli disse Aldani. «Ah, un'ultima cosa, dottor Bassan: ha mai incontrato Helen Habduc?»

«Prego?» domandò il commercialista in piedi sulla porta dell'ufficio.

«La fiamma di Mirco Albrizzi.»

«Mai sentita nominare.»

«Una bella ragazza di colore...»

Bassan scosse la testa con decisione.

«Va bene. Ancora un'ultima cosa, stavolta è davvero l'ultima...»

«Sì?»

«In giornata dovrebbe passare in Questura per la verbalizzazione delle sommarie informazioni. Spero non le sia di troppo disturbo.»

«Farò il possibile», disse molto collaborativo, ma l'espressione contrariata lo tradiva.

Appena scesero nel campo, Aldani estrasse il cellulare e chiamò la sezione Mare. «Sono Aldani. Ho bisogno di un trasporto... Rialto, riva del Ferro... grazie.» Il telefono scivolò nella tasca. «Abbiamo tempo per un caffè», disse rivolto a Manin.

Dal campo alla riva erano due minuti. Si sedettero a un tavolino sotto un ombrellone multicolore vicino all'acqua. Sopra di loro incombeva la mole del ponte di Rialto. Il traffico sul Canal Grande si era sopito, e le pietre e i mattoni delle rive godevano di un raro momento di tregua nel moto ondoso.

«Bene! Così il caro dottor Bassan ha mentito», esclamò Aldani sbattendo la mano sul tavolino.

«Pare proprio di sì. Chissà perché...» incalzò Manin.

«Non ti preoccupare, avremo modo di chiederglielo. D'altra parte non dev'essere simpatico ammettere alla Polizia di aver litigato con qualcuno che di lì a poco si sarebbe suicidato.»

«Certo che è ben strano quello studio, dottore.»

«Che intendi dire?»

«Io non ho mai visto uno studio di commercialista dove non ci sia nessuno che aspetta. In quei posti c'è sempre qualcuno in attesa. Siamo anche in periodo di dichiarazione dei redditi. Il telefono, poi, non ha mai squillato. E mi sono informato: oltre a Bassan e alla segretaria, c'è soltanto un ragioniere che viene due volte la settimana.»

«Avrà pochi clienti», azzardò Aldani allungando lo sguardo sul canale.

«Pochi, ma buoni. Dottore, io non m'intendo molto, ma ha visto che studio?»

Aldani annuì. «Intanto, cerchiamo di capire il motivo per cui Mirco Albrizzi si è suicidato.»

Il rombo di un motore che invertiva la rotazione avvicinandosi al pontile distrasse Aldani. Alla guida scorse il solito Vitiello. Gli scappò un sorriso.

In piedi sulla lancia Aldani estrasse il cellulare. «Danieli!»

«Commissario, che succede?»

«Sei proprio uno stronzo.»

«Perché?»

«Perché non mi hai detto di BancaVeneta.»

«BancaVeneta?»

«Non fare lo gnorri.»

«No, no, è che stavo facendo un riposino.»

«Allora, datti una svegliata, fai mente locale e vieni in Questura. Di corsa!»

Il telefono sulla scrivania squillò.

«Pronto?»

«Parlo con il commissario capo Aldani?»

«Sì.»

«Sono il capitano Colucci della Guardia di Finanza. Avrei necessità di conferire con lei.» L'inflessione era senz'ombra di dubbio romana.

«A che proposito?»

«Il caso Albrizzi.»

Aldani restò in silenzio per qualche istante. «Non c'è problema, collega. Ti trovi a Venezia?»

«Sì, mi hanno assegnato un ufficio al Comando regionale, in campo San Polo.»

Assegnato... «Ti va bene se faccio un salto io da te?»

«Come preferisci.»

Il finanziere era passato subito al tu. Apprezzabile. «Facciamo a mezzogiorno?»

«Perfetto.»

«A più tardi, allora.» Aldani era proprio curioso.

«Ciao, commissario. Ho fatto presto?» La testa di Danieli sporgeva dalla porta socchiusa.

Aldani sedeva alla scrivania, Manin su una sedia. Entrambi erano silenziosi. Avevano fatto il punto e ora stavano rimuginando sui burrascosi sviluppi della spinosa indagine.

«Entra, Schinco, e taglia corto.»

«Gentile come sempre», disse il giornalista ammiccando a Manin, che sorrise di rimando.

«Piantatela.» Chiamò il bar interno e ordinò tre caffè.

«Posso sedermi?» chiese Danieli.

«Certo, Schinco, accomodati.»

«Sai che non mi piace quel soprannome.»

«È per quello che lo uso.»

«Dottore, perché lo chiama Schinco?» azzardò Manin.

«È una lunga storia... A scuola lo prendevamo in giro perché voleva fare il giornalista, soltanto che i primi articoli erano davvero delle porcherie», rispose Aldani.

«Poi, però, sono migliorato.»

«Sì, in effetti. Così cominciammo a chiamarlo Schinco.»

«Tu, hai cominciato...»

«E gli altri mi sono venuti dietro. Schinco, come dicesi di pennino spuntato, schinco per l'appunto.»

«Ah, non lo sapevo», disse Manin.

«È un termine dialettale che non si usa più da molto tempo, da quando non si usano più i pennini ma le biro. Io lo ricordo bene perché mia madre, le rare volte che parlava dei tempi della scuola, a cavallo della guerra, mi raccontava che schincava i pennini in continuazione.»

«Sa, dottore, non riesco a immaginarmela da giovane.»

Aldani squadrò l'ispettore meditando una risposta.

«Ok, ok, commissario, forse è meglio che veniamo al punto», si intromise Danieli.

«Per una volta concordo.»

Bussarono alla porta, ed entrò una ragazza con un vassoio. «Buongiorno, commissario.»

«Ciao, Antonella.»

La ragazza cercò senza successo uno spazio libero sulla scrivania.

«Posa pure qui, grazie», disse Aldani.

I tre uomini sorbirono in silenzio il caffè, ognuno perso nei propri pensieri, forse fantasticando di dove avrebbe potuto essere, invece che in un caldo ufficio della Questura, in quell'afosa giornata di maggio che ancora si trascinava nella pigrizia delle festività appena trascorse. Il condizionatore era spento, ma i due ospiti non osarono chiedere il perché.

Aldani sbatté la tazza sul piattino, decretando la fine della tregua olimpica. «BancaVeneta», sentenziò.

«Storia complicata, commissario.»

«E tu semplifica.»

Manin trattenne a stento un sorriso.

«Tu, invece, non distrarti, così mi risparmio tante spiegazioni, dopo», lo redarguì Aldani, e aggiunse: «Danieli, comincia».

«La storia ufficiale narra che alcuni anni fa un gruppo veneto di imprenditori di vaglia decise di creare una nuova banca, che avrebbe dovuto diventare un punto di riferimento nel panorama creditizio locale. Insomma, una banca veneta per gli imprenditori veneti in appoggio al mitico modello di sviluppo veneto.»

«Hai detto per caso “veneto”?» lo stuzzicò Aldani.

Danieli non colse. «Per semplificarsi la vita, scelsero una banca già esistente - un piccolo credito cooperativo di Noale, mi pare - le fecero una bella iniezione di euro e partirono con la campagna acquisti. In pochi anni, la piccola banca crebbe al di là di ogni aspettativa, diventando un istituto di dimensioni ragguardevoli, anche se sempre troppo piccolo per gli standard attuali. A un certo punto, anche per prendere le distanze dalle proprie origini, cambiò nome in BancaVeneta.»

«Che c'entra Mirco Albrizzi in tutto ciò?»

«Be', tutta la serie di acquisizioni, fusioni, incorporazioni fu opera sua. È chiaro che non operava da solo, ma era affiancato da una lobby di gente ben ammanicata nel tessuto produttivo veneto, veneziano in particolare, i cui buoni offici hanno aiutato parecchio a concludere gli accordi. Diciamo che gli accordi tra banche sono dettati da considerazioni di vario tipo, e quelle economiche non sono sempre al primo posto.»

«E qui arriviamo alla storia non ufficiale», chiosò Aldani.

«Esatto. Gli amici di Mirco erano tanti, ma quelli che contavano in questa operazione erano l'avvocato Giuseppe Bellemo, il commercialista Amedeo Bassan e, naturalmente, lo zio Nereo.»

«E magari anche Vania Corò?» suggerì Manin.

«Sì, anche lei faceva parte del gruppo, anche se con un ruolo di secondo piano. La parte del leone, però, la faceva lo zietto senatore, perché l'impronta di tutta questa operazione, come avrete capito, è squisitamente politica.»

«Concludi.»

«Allora, BancaVeneta doveva diventare il forziere del partito, che sul lato finanziario era ancora troppo scoperto, a differenza di altri partiti da tempo meglio attrezzati. Fare una banca, però, non è così facile come sembra. Non basta buttarci dentro dei soldi, bisogna poi saperla gestire.»

«Spiegati meglio.»

«Una banca, soprattutto se radicata nel territorio come BancaVeneta, fra le altre cose presta soldi. Li presta a chi offre garanzie, in modo da avere certezze sul fatto che il debito venga restituito. Chi non ha garanzie, non ottiene prestiti. Semplice. Ma la banca di riferimento di un partito ha il vizio di prestare soldi agli amici e ai notabili che orbitano attorno al partito, gente che di solito non ha abbastanza garanzie, o non ne ha per nulla. Succede che il presidente, l'amministratore delegato, un direttore, o più spesso qualcuno della cerchia, che fra l'altro sono tutti consiglieri di amministrazione, fa pressione sul consiglio in favore di tizio o caio, presentando fideiussioni, garanzie di vario tipo o addirittura assegni, tutte cose che spesso si rivelano carta straccia. Il consiglio, però, ha le mani legate e approva il prestito. Risultato? I debiti non restituiti cominciano a crescere e a crescere, finché vanno fuori controllo, complice magari la crisi generale.» Danieli prese fiato.

«E?» lo incalzò Manin.

«E la banca rischia il crack, il fallimento, con tutto quello che ne consegue.»

Calò il silenzio.

«Bene, dunque i quattro fanno tutti parte del consiglio di amministrazione di BancaVeneta, giusto?» disse infine Aldani, interessato a un aspetto in particolare di quanto aveva raccontato il giornalista.

«I quattro? Quali quattro?»

«Il senatore, l'avvocato, il commercialista, la ex moglie.»

«Be', sì.»

«Interessante.»

«Aspetta di sentire il resto.»

«C'è dell'altro?»

«Niente di ufficiale.»

«Ti stai ripetendo.»

«Repetita iuvant.»

«Te l'ho già detto, il tuo latino non è credibile.»

«Ok, commissario, allora: da banca di riferimento di un partito, BancaVeneta ha il suo bravo capo occulto.»

Aldani ebbe un'intuizione e fermò il giornalista alzando il palmo della mano. «Il governatore Gaffin?»

«Mi compiaccio.»

«In effetti, questo spiegherebbe alcune cose. Schinco, devo ammettere che sei stato di una certa utilità.»

«Grazie, capo!»

«Non chiamarmi capo, e non t'allargare, adesso. Se leggo sul giornale anche una sola riga di indiscrezioni...»

«Ma io devo fare il mio lavoro!»

«Lo farai dopo, quando la vicenda sarà chiusa.»

Danieli scosse piano la testa rivolgendosi a Manin: «Vedi, ispettore, che cosa ci si guadagna ad avere un poliziotto per amico? Alla fine gli scoop li fanno sempre gli altri».

Stavolta, alla sezione Mare, Aldani aveva chiesto esplicitamente di Vitiello. Quell'uomo gli metteva buonumore, e Diosolosa se ne aveva bisogno. Il caso Albrizzi si stava complicando: la morte dell'amante gettava un'ombra sinistra (sì, proprio «ombra sinistra» aveva pensato) anche sul suicidio di Mirco, e lui era stufo di sorbirsi tutte quelle pressioni che lo stavano irritando alquanto. E poi c'era il trasloco, una spina nel fianco. Anna aveva proprio ragione. Cazzo se aveva ragione! Estrasse d'istinto il cellulare e compose un messaggio: «Ti amo». Il doppio bip annunciò che l'sms era partito.

Vitiello si esibì col Toni in una delle sue partenze a razzo, consapevole di godere ormai di una certa impunità. Passarono sotto la suggestiva arcata super ribassata del ponte di Calatrava che scavalca il Canal Grande in corrispondenza della Zirada, il curvone tra piazzale Roma e la ferrovia. Transenne all'inizio delle rampe testimoniavano, però, che il ponte, inaugurato da qualche anno soltanto, era di nuovo sotto osservazione. Lo chiamavano il «ponte in prognosi riservata», perché afflitto da un endemico problema di allontanamento delle rive su cui poggiavano le fondazioni. Le ultime misure parlavano addirittura di due centimetri, che avevano costretto i tecnici a mettere in tensione i martinetti idraulici, e il fenomeno sembrava non volere arrestarsi.

Aldani non amava quel quarto ponte veneziano dal nome così fuori contesto, ponte della Costituzione, che tanto aveva fatto parlare di sé, a partire dall'archistar, Calatrava per l'appunto, che aveva sacrificato il rispetto dei più basilari principi di statica alle mode del momento. E poi c'era la questione economica: il costo del ponte era lievitato negli anni, tanto da attirarsi l'attenzione della Corte dei Conti. Per non parlare dei documentati problemi tecnici con la conseguente sequela di rattoppi e di «giunte» fisiche che gli avevano fatto guadagnare il soprannome di «ponte de le zonte». E, come si dice a Venezia, pezo tacón ch'el sbrego, peggio la toppa che lo strappo.

Un doppio bip annunciò un sms in arrivo. Era Anna: «Anch'io, stronzo». Che tesoro!

Vitiello scelse la via più breve, virando a destra nel rio Novo che costeggia i giardini di Papadopoli. Una volta quel rio era il primo che i turisti appiedati, scaricati al Tronchetto o a piazzale Roma da auto o bus, traversavano per entrare nel corpo della città. Ora, invece, la maggior parte preferisce valicare il ponte della Costituzione, non fosse altro che per visitare l'osannata grande e scomodissima opera di architettura moderna con gli scalini fuori bolla e a passo variabile.

Il motoscafo virò a sinistra nel prosieguo del rio Novo, l'ampia via d'acqua che si incunea nel centro storico fino al rio Ca' Foscari e al Canal Grande, una scorciatoia realizzata negli anni Trenta per rendere più celeri i collegamenti tra piazzale Roma e San Marco. Fino a qualche decina di anni prima veniva percorsa dalla linea 2 dei vaporetti, quando l'azienda di trasporti aveva ancora un nome pronunciabile, ACNIL, e non una specie di starnuto, ACTV. Da ragazzino, Aldani prendeva spesso la linea 2 insieme con il padre. Era un percorso strano, perché il vaporetto passava rasente le case. Si ricordava bene anche i semafori che regolavano il traffico. Poi la linea 2 era stata soppressa, perché il moto ondoso si portava via le pietre dei palazzi. Non che fossero una gran perdita, i palazzi: tutta roba recente. D'altra parte il rio era stato progettato a tavolino, allargando e raddrizzando i rii esistenti e buttando giù vecchie costruzioni, con la stessa baldanza del ventennio che aveva prodotto a Roma via della Conciliazione e via dei Fori Imperiali. Artefice di tutto, il grande Eugenio Miozzi, padre anche del ponte della Libertà, del ponte della Stazione e del ponte dell'Accademia, a proposito di ponti. Altro che Calatrava!

Il servizio vaporetti non era più stato riattivato, e così il rio Novo era diventato pertinenza esclusiva dei privati, a volte poco più che intromettitori abusivi, che con i loro enormi lancioni granturismo scorrazzavano impuniti, spostando vagonate di turisti tra piazzale Roma, Tronchetto e piazza San Marco, con buona pace del moto ondoso, col risultato che i veneziani erano costretti ad allungare le percorrenze di decine di minuti passando col vaporetto per il Canal Grande o il canale della Giudecca.

I volumi gotici del palazzo sede dell'università Ca' Foscari occupavano la parte finale della riva destra del rio Novo, verso il Canal Grande. Sul lato sinistro, invece, si ergeva l'imponente palazzo Balbi, la sede della Regione Veneto, la tana del caro governatore Gaffin.

Il Toni virò a sinistra sfilando accanto alla lanterna in vetro e metallo sospesa sullo spigolo di Ca' Foscari. Aldani ricordava quella specie di faro che nelle giornate di nebbia autunnale, quando il caligo lagunare rendeva oltremodo difficile navigare e l'ovatta bagnata ristagnante sui canali era scompigliata dal continuo ululare di sirene e di clacson, annunciava il pericoloso sbocco nel trafficato Canalasso.

Vitiello si destreggiò al solito suo modo nel Canal Grande, cercando di evitare barchini, taxi e mototopi che avanzavano da tutte le direzioni e di non farsi mandare a quel paese dai vaporetti in lento avvicinamento al grande e orrendo pontile multiplo di San Tomà, che si incuneava invadente nelle acque del canale. Poche centinaia di metri e svoltarono a sinistra nel rio di San Polo. Erano quasi arrivati. Aldani si riteneva un uomo fortunato a poter solcare tutti i giorni la città a bordo di un motoscafo. Certo, lo faceva per lavoro, un lavoro difficile e faticoso, a volte impossibile, ma navigare a Venezia lo riempiva sempre di gioia.

La porta d'acqua di palazzo Corner-Mocenigo si affacciava sul rio dietro campo San Polo. La costruzione cinquecentesca del Sanmicheli, da poco restaurata, era davvero imponente nella sua articolazione su sei piani: piano terra, primo piano nobile, secondo piano nobile, intercalati da tre mezzanini. L'edificio si incuneava in profondità fino a ricavarsi un affaccio, sottolineato da una serie di trifore, su campo San Polo, il più esteso di tutta la città. I palazzi veneziani sono come quinte teatrali, ricercate ed eleganti soltanto dove necessario. Sul tetto una selva di antenne faceva trapelare solidi indizi sulla particolarità dell'attuale inquilino.

Vitiello cominciò a decelerare e Aldani apprezzò, non avrebbe gradito farsi cazziare dai colleghi finanzieri. Una serie di paline verdi e gialle preannunciava il pontile, alquanto affollato di lance di servizio grigie come il colore dell'arma.

Aldani riuscì a scendere a terra con una certa fatica. «Aspetta qui, ma, se serve, sposta il Toni, mi raccomando», disse a Vitiello.

«Eccerto, dotto'!»

Il commissario varcò l'ingresso d'acqua. Un finanziere in divisa lo accolse con un certo sussiego militaresco e lui sfoderò il tesserino con un gesto appena plateale, tanto per darsi un tono, visto che, come sempre, era in borghese. «Ho un appuntamento con il capitano Colucci.»

«Un momento.» Il finanziere compose un numero al telefono della scrivania. «Il capitano sta scendendo», disse dopo qualche istante.

In quel momento squillò il cellulare. «Buongiorno, signor questore.»

«La volevo avvertire che presto verrà contattato dalla Guardia di Finanza.» Pausa. «Per il caso Albrizzi.»

«Capisco.»

«Mi hanno chiamato da Roma. Il generale Franco De' Vecchi del Nucleo speciale Polizia valutaria ha chiesto la nostra completa collaborazione.»

«Capisco.»

«La pianti di dire “capisco”, Aldani, non sa nemmeno di cosa stiamo parlando!»

«Be', posso immaginare, signor questore.»

«Lasci perdere l'immaginazione. Collaborazione completa, questo serve. E discrezione, naturalmente.»

«Naturalmente.»

«Bene, Aldani, allora...»

«Signor questore...»

«Sì?»

«Posso mettere al corrente il capitano Colucci di tutti i dettagli dell'indagine?»

«Certo, certo.» Pausa. «Soltanto se necessario, naturalmente.»

«Naturalmente.»

«Aldani...»

«Sì?»

«Chi sarebbe questo Colucci?»

«Il capitano della Guardia di Finanza cui sto per stringere la mano.»

Silenzio. Aldani se la rideva tra sé.

«Massima collaborazione, Aldani, mi raccomando», riprese, infine, De Girolami.

«Sarà fatto, signor questore», disse Aldani alzando appena il tono di voce.

Colui che doveva essere il capitano Colucci lo stava osservando in silenzio ai piedi dello scalone che portava ai piani superiori. La divisa, su cui spiccavano i gradi da capitano, era a dir poco impeccabile. Quell'uomo sembrava esserci nato. Aldani pensò alla sua, di divisa, non c'era modo di fargliela stare, un vero schifo. Per fortuna, la doveva indossare molto di rado, talmente di rado che la lasciava in Questura e, quando serviva, si cambiava in ufficio.

«Aldani, immagino.»

«Piacere, collega.»

Si strinsero con forza la mano.

«Spero non fossero grane», buttò lì Colucci riferendosi alla telefonata.

«No, era soltanto il questore che mi sta col fiato sul collo. Questa vicenda sembra premere a molti. Anche a Roma, a quanto pare.»

«Vedo che sei già informato.»

«Il questore, appunto. Un minuto fa.»

Il capitano sorrise. «Saliamo da me.»

L'ufficio di Colucci si trovava al secondo mezzanino, perciò era angusto e con il soffitto basso. Dava sulla facciata principale, però, sull'ingresso d'acqua, e la vista era davvero stupenda. C'era un scrivania ingombra di faldoni e due sedie. A dire il vero i faldoni occupavano ogni spazio libero.

«Lo so, non è un granché, ma come avrai capito io sono di stanza a Roma, e questa specie di archivio è il massimo che sono riusciti ad assegnarmi. Non mi lamento.»

«In compenso, il condizionatore funziona bene.»

«Vengo subito al punto, Aldani: come sai, sono in forze al Nucleo speciale Polizia valutaria di Roma, e puoi immaginare di cosa mi occupo.»

Aldani annuì.

«A Roma abbiamo un fascicolo grosso così su BancaVeneta. Da un paio d'anni stiamo indagando su una serie di operazioni finanziarie effettuate dall'istituto di credito che soltanto di recente ha raggiunto un volume d'affari di dimensioni ragguardevoli. Siamo anche al corrente che il consiglio di amministrazione opera in maniera, diciamo così, disinvolta, e conosciamo quali sono i personaggi che contano all'interno del gruppo. Quando abbiamo saputo della morte di Mirco Albrizzi, vale a dire dell'uomo dietro le quinte, abbiamo colto una nota stonata, anche perché aveva effettuato di recente una serie di operazioni anomale che coinvolgevano la sua holding e le società collegate. Ed eccomi qui.»

«In missione speciale.»

«Più o meno.» Colucci sorrise.

«Scommetto che anche tu avresti dovuto essere in ferie in questi giorni.»

«Si capisce subito, eh?»

Risero.

«Lo vuoi un caffè?» chiese Colucci sollevando il telefono.

Aldani annuì. Appena il capitano posò il ricevitore partì in quarta: «Veniamo al dunque: se il Nucleo sta indagando, vuol dire che sotto c'è qualcosa di grosso, altrimenti bastava la Tributaria».

«Hai ragione. Immagino tu sappia che BancaVeneta è espressione del partito al governo della Regione.»

«Naturalmente», annunciò Aldani un po' tronfio, tralasciando il dettaglio che lo aveva saputo appena un'ora prima. Se ne pentì subito e si corresse: «Diciamo che le questioni economico-finanziarie non sono il mio forte, ma ho certe fonti che mi hanno messo al corrente».

«Ecco, diciamo che le questioni economico-finanziarie, come tu le definisci, sono proprio il mio pane, invece; e, siccome il tuo campo è il crimine, credo che riusciremo a collaborare in modo proficuo.»

Assalto e stoccata finale: osso duro, Colucci. Per fortuna, arrivò un finanziere col caffè e la questione si smorzò lì.

Parlarono fitto per un'ora. Il capitano fu molto chiaro nelle sue spiegazioni, nonostante la complessità della materia, e Aldani comprese quasi tutto, anche se ogni tanto perdeva il filo.

La Finanza teneva d'occhio da qualche tempo Mirco Albrizzi. Per farla breve, sospettavano che tramite suo e BancaVeneta venisse riciclato denaro sporco. Roba da malavita organizzata, non semplici speculazioni finanziarie. Roba pesante, insomma. Non era chiaro se Albrizzi e i suoi compari fossero o meno al corrente della reale provenienza dei soldi, ma pecunia non olet, per cui la sostanza alla fine non cambiava. Purtroppo la Finanza non era ancora riuscita a trovare il bandolo. Soltanto sospetti, ipotesi e supposizioni, tanti indizi, ma di prove nemmeno l'ombra.

«Frustrante», commentò Colucci.

«Innocenti o troppo abili», aggiunse Aldani.

«Albrizzi, ma soprattutto la sua cricca.»

«La banda dei quattro.»

«Come dici?»

«Be', sono in quattro, no? L'avvocato Bellemo, il commercialista Bassan, l'ex moglie Vania Corò e lo zio Nereo, il senatore.»

Colucci osservò Aldani come se lo avesse visto in quel momento. «Esatto», disse infine. «Banda dei quattro rende bene l'idea. Con Mirco un po' fantoccio, un po' burattinaio... Ancora non sono riuscito a valutare appieno il suo apporto alla vicenda. Di sicuro, non era scemo, visto come è riuscito a tirare le fila della sua holding.»

«Lo sai che la lettera trovata nella cassaforte, vuotissima, della Polifilo sembrerebbe scritta di proprio pugno da Mirco Albrizzi? Lo ha confermato il consulente del tribunale, anche se non ha ancora depositato ufficialmente la perizia. Ti interessa sapere cosa c'era scritto?»

Colucci annuì. Aldani tirò fuori dalla tasca una fotocopia spiegazzata e la porse al capitano che lesse con attenzione. «Una lettera d'addio con tutti i crismi. Anche troppo. Non mi sembrava il tipo da gesto estremo», commentò alla fine.

«Neanche a me, però al momento l'autopsia confermerebbe il suicidio.»

«Ma perché ha usato il motoscafo?»

«Ce lo stiamo chiedendo in molti. Suona stonato.»

«Chi sarebbe questa Helen?»

Aldani, certo che il momento sarebbe infine giunto, sorrise platealmente. «Questa è una vera anteprima...» disse, interrompendosi per stuzzicare l'interlocutore.

«Ok, collega, pendo dalle tue labbra.»

«Helen Habduc, amante del suicida, è stata trovata ieri sera nella sua mansarda di San Stae. Morta ammazzata. Pistola, sembra.»

Colucci non fece una piega. «Ah. Queste faccende sono la tua specialità, giusto collega?» Aldani sorrise. «Però, complica le cose, direi...»

«Direi anch'io», confermò il commissario, e mise a parte il capitano dei dettagli. Gli ci volle un buon quarto d'ora.

«Pensi che Albrizzi abbia ucciso la sua donna prima di spararsi a sua volta?» chiese infine Colucci.

«Forse. L'autopsia ci dirà di più. Spero che almeno fissi con precisione il momento della morte. C'è un particolare che non torna, però...»

«La scomparsa del Mac?» suggerì Colucci.

«Esatto.» Aldani squadrò il capitano, compiaciuto. «Perché Albrizzi avrebbe dovuto sbarazzarsene? Supponendo che contenesse informazioni riservate, di qualunque natura fossero, sai quanto gliene frega a un morto di quello che succede dopo la sua dipartita?»

«A meno che non sia stato lui ad averla uccisa.»

«E a sottrarre il Mac.»

«Infatti. Credo ci sarà da lavorare parecchio.»

«Concordo», concluse Aldani. In quel momento il suo cellulare squillò. «Manin, novità?»

«Sì, dottore. Ha presente le due studentesse che abitano sotto l'appartamento della Habduc?»

«Sono tornate?»

«Già. Ora sono lì. Che faccio, le convoco in Questura?»

«Meglio di no. Non subito, almeno. Ci vado a parlare, e vieni anche tu. A piedi, io ho il motoscafo.»

«Va bene, dottore.»

Aldani chiuse la comunicazione. «Collega, ti va di accompagnarmi?»

«Dove?»

«A casa dell'amante uccisa. Devo fare due chiacchiere con le inquiline del piano di sotto. Vista l'ora, magari poi andiamo a mangiare qualcosa insieme. Ti porto io in un posto...»

Colucci consultò l'orologio da polso. «Se non ti crea problemi...»

«Figurati. Così ti faccio conoscere l'ispettore Manin che sta seguendo con me l'indagine. Sì, insomma, il caso Albrizzi.»

«Nel pomeriggio, ho un appuntamento col direttore dell'agenzia UniCredit di campo Manin. Albrizzi ci teneva il suo conto personale. Ho l'impressione che ci saranno delle sorprese. Se vuoi venire...»

«Perché no. E poi sono di strada, nel pomeriggio vado dall'avvocato Bassan, uno dei nostri bravi consiglieri di amministrazione di BancaVeneta. Allora, andiamo, il motoscafo è qua sotto.»

Il motoscafo, però, non era attraccato al pontile, assediato dalle lance dei finanzieri. Dondolava sulla riva di corte Amaltea, giusto di fronte al palazzo. Aldani lanciò un lungo fischio a Vitiello, che leggeva il giornale appoggiato al muro di una casa.

«È sempre così affollato?» chiese Aldani.

«Non lo so, sono appena arrivato. C'è in corso una riunione di generali, però.»

«Questo spiega.»

Saltarono da una lancia all'altra finché raggiunsero il Toni che borbottava impaziente.

«Vitiello, ti presento il capitano Colucci.»

«Buongiorno, capita'!» esclamò Vitiello, facendo il saluto militare.

«Buongiorno, Vitiello, sei de' Roma, eh?» disse Colucci, calcando l'accento.

«So laziale, capita'!»

«Ci tiene a sottolinearlo», precisò Aldani. «Andiamo, Vitiello, pontile di San Stae. E tranquillo, eh, che abbiamo ospiti.»

«Non si preoccupi, dotto'.»

Per fortuna, lo stomaco di Colucci fu all'altezza.

Aldani bussò con decisione.

Gli aprì una ragazza magrolina, capelli corti biondi, sorriso incerto. Dietro di lei una mora, più rotonda, lo sguardo preoccupato. Entrambe sfoggiavano vestitini leggeri, adeguati alla temperatura africana.

Molto eleganti, roba di marca, valutò Aldani, anche se non ci capiva niente di moda. Anna lo prendeva sempre in giro per le sue sonore cantonate. «Buongiorno, sono il commissario Aldani della Questura, e questo è l'ispettore Manin. Lui è il capitano Colucci della Guardia di Finanza.»

«Buongiorno», disse la magra.

«Buongiorno», ripeté la tonda.

«Possiamo entrare?» suggerì Aldani, dopo qualche istante di silenzio imbarazzato.

«Ma certo», disse la magra.

Mentre li facevano accomodare nel piccolo soggiorno, le ragazze continuavano a lanciare occhiate preoccupate a Colucci. Quella divisa impeccabile incuteva un certo timore.

«State tranquille, il collega della Finanza non è qui per voi», si sentì in dovere di chiarire Aldani.

Le ragazze sembrarono rincuorarsi. Incredibile: al piano di sopra era morta ammazzata una donna, e quelle due erano preoccupate per il loro contratto d'affitto in nero. L'appartamento era arredato con mobili economici che mostravano i segni del tempo, ma era pulito e in ordine. Non un ordine qualsiasi, ma un ordine femminile, con quel tocco di eleganza inarrivabile per un maschio. Aldani, chissà perché, ripensò ai cartoni vuoti che lo attendevano a casa.

«Bene, posso conoscere i vostri nomi?» cominciò.

«Io sono Lory», disse la magra. «E lei è Mony.» La tonda non parlava molto.

«Al secolo?»

«Come dice?»

«I vostri nomi e cognomi.» Aldani parlava, e Manin prendeva nota sul tablet.

«Ah, mi scusi. Io sono Loretta Varani, e lei è Monia Rinaldi. Lory e Mony per gli amici.»

Aldani sospirò, poi fece qualche domanda alle ragazze. Erano arrivate un paio d'anni prima dall'hinterland milanese, stanche dei ritmi di vita metropolitani e desiderose di sostituirli con quelli di una città a misura d'uomo. Vuoi mettere il fascino di studiare a Venezia? Frequentavano Architettura a Ca' Foscari. Un tempo, il glorioso Istituto universitario di Architettura di Venezia, che nel 2001 aveva preso il nome più banale di Università IUAV, era una fucina di talenti. Dopo le rivolte sessantottesche e gli anni del voto politico, aveva faticato a risollevarsi. Era ancora prestigioso, certo, ma lontana era ormai l'epoca dei fasti, ed era anzi divenuto specchio della decadenza collettiva della città. A quanto pareva, però, le ragazze non erano rimaste deluse, gli entusiasmi giovanili prevalevano.

«Bene, signorine, veniamo al punto.» Aldani abbandonò il tono scanzonato che aveva usato per rompere il ghiaccio, assumendone uno più consono: «Siete già al corrente che ieri sera abbiamo rinvenuto il corpo di Helen Habduc, uccisa nel suo appartamento da un colpo d'arma da fuoco», e indicò con un dito il soffitto.

Le ragazze annuirono piano.

«Sappiamo che eravate fuori città. Quando siete partite?»

«Venerdì scorso. In mattinata. Siamo andate qualche giorno a casa di amici a Milano Marittima», rispose Lory.

Aldani decise che le due studentesse erano di buona famiglia: Milano Marittima, la spiaggia della capitale lombarda nata a tavolino un secolo prima dall'idea folle di un artista spalleggiato da famosi architetti milanesi, era ancora un posto d'élite. «Dunque, venerdì 27 siete partite e siete tornate stamane. Conoscevate Helen?»

«Sì.»

«Come?»

«In che senso?» intervenne Mony.

«Eravate amiche, o soltanto “buongiorno buonasera”?» spiegò paziente Aldani.

«No, no, non eravamo amiche!» disse Lory con enfasi eccessiva.

«Qualche volta siamo state a casa sua, però non ci frequentavamo. Lei aveva giri diversi dai nostri», precisò Mony.

«Ad esempio?»

«Prego?» chiese Lory.

«La sua amica ha parlato di “giri”. Mi spiegate meglio?» Aldani stava esaurendo la pazienza.

Le ragazze si guardarono dubbiose.

«Be', aveva amici molto più vecchi di lei...» disse Lory.

«Come Mirco Albrizzi?»

«Be', sì.»

«Lo conoscevate?»

«Di vista. Una volta è arrivato che noi eravamo da Helen. Ce ne siamo andate subito.»

«In che rapporti era Helen con Albrizzi?»

«Non lo so. Forse stavano insieme, ma non ne sono sicura.»

«Perché?»

«Lei ne parlava come di un amico.»

«Sapete che Albrizzi è morto?»

«Davvero?» chiese Mony.

«Si è suicidato una decina di giorni fa. Il corpo è stato ritrovato soltanto ieri l'altro.»

«E lei pensa che...» Lory non terminò la frase.

«Non sappiamo ancora, ma è difficile pensare a una coincidenza. Quando avete visto Helen per l'ultima volta?»

Le ragazze ci pensarono su. «Non ricordo di preciso...» rispose Lory per entrambe. «Credo un paio di settimane fa... L'abbiamo incrociata per le scale.»

«Ricordate qualche fatto strano avvenuto nei giorni prima della vostra partenza? Avete sentito rumori particolari?»

«No», disse Lory.

«Non so, però...» disse Mony.

«Però?» incalzò Aldani.

«La sera prima che partissimo, stavamo preparando le valigie, ho sentito dei rumori...»

«Può essere più precisa?»

«Lo stereo era a tutto volume... Comunque, erano dei colpi. Colpi secchi.»

«Quanti?»

«Due, mi pare, ma soltanto il secondo ha fatto vibrare il soffitto. A Venezia i pavimenti ballano con facilità.»

«Lo so. Dunque, avete sentito due colpi. Ravvicinati?»

«Sì.»

«Uguali?»

«No. Diversi.»

«Diversi come?»

«Non lo so...» disse mogia Mony.

«Nemmeno io, però, è vero che il secondo ha fatto vibrare il soffitto», aggiunse Lory.

«Sì, sì, come se fosse caduto per terra qualcosa di pesante», precisò Mony di colpo loquace.

«Il primo colpo poteva essere lo sparo di un'arma da fuoco?»

«Non so, gliel'ho detto, la musica era troppo alta», di nuovo Mony.

«Va bene. Dunque... questo è successo la sera di giovedì 26 aprile, giusto?»

«Sì.»

«A che ora, più o meno?»

«Saranno state le undici... Massimo mezzanotte.»

«Ancora una cosa. Helen aveva amiche?»

Le due ragazze si guardarono a lungo.

«Sì.»

«Le avete conosciute?»

«No, soltanto incrociate qualche volta.»

«Tra loro ce n'era una bionda? Molto bionda?»

«Sì.»

«Veniva più spesso di altri?»

«Sì.»

«Era la sua amica del cuore?»

Silenzio.

«Signorine...»

«Era la sua fidanzata», disse infine Mony.

«Di chi?»

«Di Helen.»

«Ho capito bene?»

«Sì, commissario, Helen era lesbica.»

«Ah.» Erano riuscite a sorprenderlo quelle benedette ragazze.

Prese la parola Manin: «Signorine, ma avete detto che Albrizzi ed Helen stavano insieme...»

«Forse, non so... Helen era bisex, comunque.»

«Ah.» Manin era imbarazzato.

«Come si chiama la fidanzata bionda?» proseguì Aldani.

«Non ne abbiamo idea.»

«Era veneziana?»

«Credo di no. L'ho sentita parlare, l'accento non era italiano, direi dell'est.»

Aldani avrebbe voluto puntualizzare che «dell'est» era un po' vago, ma decise che poteva bastare. «Bene, signorine, per il momento è tutto. Vi chiedo la cortesia di passare in Questura per la verbalizzazione. Domattina, andrà benissimo. Manin, prendi accordi, noi intanto scendiamo.»

«Non è stata uccisa da Albrizzi, questo è certo», sentenziò Aldani.

I tre uomini stavano in piedi, agganciati ai corrimano del Toni, mentre Vitiello faceva il pelo a un vaporetto giusto sotto l'arcata del ponte di Rialto. L'ombra dell'imponente costruzione rinfrescò l'aria per un lungo istante. Era l'agilità del ponte a trarre in inganno sulla sua larghezza. Aldani, fin da bambino, era affascinato dalla sensazione che provava nel passarci sotto, come se i blocchi di pietra annerita dai secoli fossero la volta di una grotta.

Il traffico era scemato, ma le acque non sembravano essersene accorte e continuavano ad agitarsi come in moto perpetuo. Il rumore, ora attenuato, di Venezia sarebbe presto tornato a farsi sentire. Il sole picchiava duro, ma la brezza forzosa indotta dal motoscafo ne allontanava gli effetti.

«Dottore, questo caso ci farà dannare», disse Manin.

Aldani annuì. «Vitiello, mollaci laggiù.» Indicò uno dei due pontili di riva del Ferro in quel momento sgombro da vaporetti.

La lancia si avvicinò al pontile. Aldani e Colucci scesero al volo.

«Allora, siamo d'accordo, Manin: io e il capitano mangiamo qualcosa e poi andiamo all'UniCredit di campo Manin...» Aldani si interruppe, non aveva fatto caso prima a quell'omonimia. L'ispettore sorrise, Aldani ricambiò. «Da lì allo studio di Bassan sono dieci minuti. Ci vediamo in campo Sant'Angelo alle quattro e mezzo.»

«Va bene.»

«E un'altra cosa: chiedi a Bustelli di raccogliere qualche informazione su Helen. Con qualcuno avrà pure lavorato. Mi interessa soprattutto quella sua amica bionda.»

«Sì, dottore.»

«E di' a Zurlini di fare qualche ricerca nelle banche dati, chissà che non ne venga fuori qualcosa.»

«Sì, dottore.»

Dopo aver lasciato il Toni, si avviarono verso le Mercerie, la serie di calli interamente affiancate da negozi che da Rialto arrivano fino a San Marco. Nel passato cuore del sistema commerciale veneziano, dove si scambiavano le merci pregiate provenienti da terre lontane, le Marzarie erano ora un susseguirsi di negozi di abbigliamento di lusso, di calzature, pelletterie, gioiellerie, con i grandi marchi globali che a suon di milioni cercavano di accaparrarsi ogni vetrina utile, facendo somigliare sempre più quelle calli a strade di New York, o di Parigi, o di Londra. Di veneziano restava ben poco, forse qualche negozio di vetri di Murano, anche quello platealmente griffato.

Nonostante l'ora, le Mercerie erano affollate di gente, per lo più turisti. Pareva una colonna di formiche che seguivano il sentiero tracciato dalle compagne.

Giunsero, infine, al ponte dei Bareteri, un ponte dall'insolita larghezza che scavalca l'omonimo rio, collegando le Mercerie di San Zulian a quelle del Capitello.

«Ti dispiace se faccio una telefonata?» disse Aldani a Colucci giusto a metà del ponte, in pieno sole.

«Fai pure.»

Richiamò un numero dalla rubrica.

«Pronto?»

«Sono il commissario Aldani della Questura, volevo parlare con il dottor Borsato.»

«Borsato non c'è.»

«Allora, può controllare se c'è il dottor Basenti?»

«Qua no ghe xe nesun Basenti.»

Ma con chi cazzo stava parlando? «Il dottor Marco Basenti dovrebbe sostituire il dottor Borsato», spiegò paziente.

«Ah, quelo novo?»

«Immagino di sì. È lì?»

«Non lo so.»

«Può controllare, per favore? Sono il commissario Aldani», ripeté.

«Va ben, va ben! Desso vado!»

Diosialodato...

«Pronto? Chi parla? Pronto! Io starei lavorando!»

«Dottor Basenti?»

«Sì. Chi è?»

«Quell'ameno soggetto che ha risposto al telefono non glielo ha detto?»

«No, evidentemente.»

«Sono il commissario Aldani della Questura.»

«Ah, buongiorno. Immagino il motivo della sua telefonata.»

Acuto, il ragazzo. «Borsato non è rientrato?»

«Volatilizzato.»

«È da lui. Allora, cosa mi dice di quella donna?»

«Che non le abbia già detto ieri sera, vale a dire quindici ore fa?»

«Sì», riuscì soltanto a dire Aldani. Quell'uomo era un diavolo.

«È morta per il colpo alla testa, esploso a distanza molto ravvicinata, diciamo dieci, quindici centimetri. L'effetto di vampa è chiarissimo. Il proiettile è entrato dal parietale destro, le ha trapassato il cervello ed è uscito dall'occhio sinistro. Decesso istantaneo.»

«Ho fatto bene a non guardare.»

«E, visto che vorrà sapere quando è stata uccisa, aggiungo che la morte risale a circa sei giorni prima del ritrovamento, giorno più giorno meno, diciamo tra il 25 e il 27 aprile.»

«Quarantott'ore di forbice. Borsato per la morte di Albrizzi me ne ha date soltanto ventiquattro.»

«Io sono più prudente.»

«Me le farò bastare. Abbiamo dei testimoni, che forse hanno sentito lo sparo verso la mezzanotte di giovedì 26.»

«Per l'appunto.»

«Dimmi qualcos'altro», disse Aldani passando senza accorgersene al tu. Era più forte di lui.

Basenti non fece una piega. «Ti potrà interessare che non ho riscontrato violenze di alcun tipo sul suo corpo.»

«Conosceva l'assassino?»

«Probabile.»

«D'altronde la porta non è stata forzata.»

«Il poliziotto sei tu.»

«Mi sembri Borsato. Voi anatomopatologi siete tutti uguali.»

La risata di Basenti gli assordò l'orecchio.

«Ok, per ora basta», disse Aldani, quando l'altro si fu quietato. «Se c'è qualche novità, telefonami. Ti do il mio numero.» Il commissario dettò. «E tu mandami un messaggio così memorizzo il tuo.»

«D'accordo.»

«A proposito...»

«Sì?»

«Fareste meglio a spostarlo dove non può fare danno, il soggetto.»

«Concordo con te, ma di questi tempi meschini possiamo soltanto accontentarci. L'alternativa è nessuno che risponde al telefono.»

Risposta pronta. Sempre. Quell'uomo avrebbe fatto strada, cazzo.

Il locale era rintanato in un sotoportego vicino al ponte dei Bareteri, tanto vicino al flusso incessante di turisti, quanto lontano dai percorsi più battuti. L'insegna era un neon minuscolo e malandato che penzolava all'interno della vetrata d'ingresso e che con grafia incerta diceva soltanto: dal Baffo. Non c'erano altre indicazioni, men che meno indizi che lì dentro servissero cose commestibili.

Colucci era perplesso. Da buon foresto non poteva non esserlo.

«Vieni», disse Aldani.

Furono investiti da una zaffata di odori umidi e speziati, buon cibo, senza dubbio, anche se di difficile identificazione, se non da narici ben addestrate. L'ingresso era angusto, ma poi il locale si allargava verso l'interno, illuminato a fatica da alcune finestrelle quadrate che davano su un rio. Stoviglie sbattute e frammenti di dialoghi in dialetto echeggiavano nel locale. Erano tutti veneziani, i turisti lì non ci arrivavano. E come avrebbero potuto?

Un lungo banco vetrina dai vetri appannati e rigati da gocce d'acqua celava misteriose meraviglie culinarie. Quali, agli occhi di Colucci, non era dato sapere, visto che se ne stavano ben rintanate dentro a vaschette metalliche con relativo coperchio. Dietro al banco stazionava un uomo tarchiato, cinto da un grembiale di colore indefinibile e con due mustacchi d'altri tempi grossi così: il Baffo, chi altro.

«Ciao, Baffo, come vanno gli affari?»

«Benon, commissario», rispose l'uomo osservando di sottecchi il finanziere. «Par fortuna che de magnar e de bévar ghe xe sempre bisogno.»

«Questo è un collega che viene da Roma. Fammi fare bella figura.»

«Allora, andiamo sul sicuro, commissario: lesso misto di manzo e gallina col cren. Una prelibatezza», disse, scoperchiando una delle vaschette. Una vampata di vapore si alzò verso il soffitto. Il profumo era invitante.

Colucci non sembrò entusiasta.

Il Baffo lo squadrò con occhio clinico. «Magari un bel piatto de nerveti lessi co la segola?» E scoperchiò un'altra vaschetta. L'odore pungente non dava adito a dubbi sulla presenza della cipolla.

Colucci ancora titubava.

Il Baffo fremeva.

«Ci sarebbe qualcosa di non bollito?» sussurrò Colucci.

A quelle parole il mustacchio del Baffo cominciò a tremare. I muscoli dell'uomo sembrarono come gonfiarsi, forse stava soltanto inspirando.

Fatto sta che Aldani prese in mano la situazione: «Baffo, credo che il capitano apprezzerà molto i tuoi würstel con crauti. Ce li hai sempre, vero?»

L'uomo sembrò rilassarsi. «Eccomenò, commissario! Pronti!» E scoperchiò due vaschette fumanti da cui con una clip estrasse una manciata di würstel belli spessi che ricoprì con un profluvio di crauti dorati. «Ecco qua!»

«E per me un po' di quel lesso misto col cren», concluse Aldani.

«Ottima scelta, commissario. El ciapa qua!»

I due uomini si sedettero a un tavolo.

Colucci continuava a fissare Aldani, che spiegò, a bassa voce: «Vedi, collega, questo posto è famoso per i suoi bolliti. Sono la specialità della casa. Non c'è altro che bolliti, di tutti i tipi, ma soltanto bolliti. Sai, il Baffo è un po' suscettibile».

Colucci cominciò a mangiare in silenzio. Piano piano sembrò, però, apprezzare la pietanza. «Non male», disse infine. Si accorse che il Baffo lo stava scrutando da dietro il bancone. «Buoni, davvero», ripeté alzando di un'ottava il tono di voce. «Mai mangiato niente di simile.» Poi sussurrò: «Würstel e crauti, però, non mi sembrano un piatto veneziano, no?»

«Diciamo che sono un retaggio del periodo austro-ungarico.»

«Be', un ottimo retaggio. Toglimi una curiosità: cos'è il cren?» domandò indicando il piatto che Aldani si stava spazzolando.

«Questo.» Il commissario era intento a spalmare una salsa beige chiaro, abbastanza consistente, sui pezzi di carne bollita. «Credo si ricavi da una radice. Roba che si usa molto dalle parti di Belluno, ma anche in pianura si fa apprezzare. Gli dà un bel piccantino al lesso, che di suo sarebbe insipido. Dovresti provarla.»

«La prossima volta. Avrò altre occasioni, non credo che lascerò presto Venezia.»

Terminarono in fretta, ripulendo i piatti sotto lo sguardo soddisfatto del Baffo. L'incidente diplomatico era stato sventato. Era ora di andare in banca. Meglio arrivare qualche minuto in anticipo, aveva detto Colucci.

Si fermarono a prendere il caffè lungo la strada. Un bar qualsiasi, un caffè qualsiasi, soltanto pura necessità di caffeina per un pomeriggio che si preannunciava faticoso.

Giunsero a destinazione una decina di minuti prima delle tre. L'agenzia UniCredit occupava il piano terreno di un vecchio edificio, a tal punto restaurato e impreziosito da improbabili marmi da risultare kitch. Le banche si somigliano ovunque, e ovunque devono ostentare la loro opulenza. Anche a Venezia non fanno eccezione. Soprattutto a Venezia.

Aldani e Colucci entrarono uno alla volta dalla porta girevole di sicurezza. All'interno furono investiti dal gelo insano dell'aria condizionata. I clienti erano pochi, qualche testa si girò a osservare, guarda caso, quell'uomo in divisa da finanziere. Faceva sempre il suo effetto.

Colucci non fece in tempo a rivolgersi a un impiegato che da un séparé sbucò un uomo brizzolato, giovanile, in un impeccabile completo, che, allargando le braccia, ma non troppo, come si conviene, accolse il finanziere con moderata affabilità. Quasi a dire: eccomi qui, pronto a collaborare appieno. «Il capitano Colucci, immagino?» disse con voce impostata sul professionale che ben si accostava a tutto il resto. Porse la mano.

Il finanziere strinse. «Sono io.»

«Mauro Dal Negro, direttore dell'agenzia, abbiamo parlato al telefono.»

«Ricordo. Questo è il commissario Aldani della Squadra mobile di Venezia. Indaga sulla morte di Mirco Albrizzi e mi accompagna in veste, diciamo così, ufficiosa. Se non le dispiace, naturalmente.»

Il direttore strinse con vigore la mano di Aldani. «Certo che no, capitano. Venite, andiamo nel mio ufficio.»

L'ufficio del direttore era in verità alquanto angusto, ricavato nella parte posteriore della banca, con una finestra, munita di robuste inferriate, che dava su una calle in ombra. Tristanzuolo, insomma.

Dal Negro li fece accomodare sulle sedie di fronte alla scrivania, quindi si sedette a sua volta, con gesto appena plateale. Sembrava avere un gusto innato per la teatralità. «Come le avevo spiegato al telefono, ho chiesto l'autorizzazione alla Direzione clienti Corporate della sede centrale di Noale, la quale, vista la particolarità ed eccezionalità della situazione, mi ha dato l'ok ad anticiparle tutte le informazioni di cui avrà bisogno. In attesa della richiesta ufficiale, s'intende.»

«Che non tarderà», precisò Colucci. «Molto bene. Dunque, Mirco Albrizzi aveva un conto presso la sua agenzia.»

«Esatto.»

«Da quanto tempo?»

Il direttore consultò un fascicolo che teneva davanti a sé. «Dal novembre del 2002.»

«Era intestato a lui?»

«Sì, conto personale.»

«Niente cointestatari?»

«No.»

«Niente a che vedere con le sue società?»

«No.»

«Allora, mi scusi, come mai ha chiesto l'autorizzazione alla Direzione Corporate?»

Il direttore esitò un istante. «Be', capitano, è ovvio che sapevamo bene chi fosse Albrizzi, non era certo un cliente normale. Insomma, nonostante avesse aperto il conto da privato cittadino, gli applicavamo una serie di agevolazioni da cliente affari.»

«Ad esempio, il tasso di interesse?»

«Ad esempio.»

A Colucci venne spontaneo guardare Aldani, che seguiva la conversazione con estrema attenzione. «Qual è il saldo del conto?» proseguì.

«Ora controllo. Mi sono permesso di stampare alcuni documenti dal nostro sistema informativo, così è più comodo. Deve sapere, capitano, che di recente il signor Albrizzi aveva effettuato una serie di movimenti.» L'uomo cominciò a estrarre dal fascicolo una pila di contabili.

«Si spieghi meglio.»

«Trasferimenti di fondi.»

«Consistenti?»

«Consistenti.»

«Posso vedere?»

Il direttore porse al capitano alcune contabili.

Questi le esaminò, prima con molta attenzione, poi sfogliò qui e là, mostrando grande dimestichezza per la materia. «Ho compreso bene?» chiese, infine.

Aldani non aveva capito a cosa si riferisse. Sembrava un discorso in codice tra i due.

«Immagino di sì.»

«Lei mi conferma, dunque, che tra il 25 marzo e il 18 aprile di quest'anno Albrizzi ha trasferito una montagna di soldi in posti come isole Cayman, Panama, Svizzera, Liechtenstein, eccetera eccetera?»

«Sì.»

«Per un totale di...» Colucci iniziò a fare i conti sommari.

«Quarantadue milioni e quattrocentomila euro, arrotondando», lo anticipò il direttore.

Nell'ufficio scese il silenzio. Colucci era basito.

Aldani colse l'occasione: «Direttore, per quale motivo Albrizzi ha spostato tutti quei soldi?»

Dal Negro fece una voce melliflua: «Commissario, non penserà mica che chiediamo ai nostri clienti cosa fanno del loro denaro?»

Aldani si rese conto dell'ingenuità della domanda, ma non mollò la presa: «Mi vuole dire che un suo ottimo cliente trasferisce oltre quaranta milioni di euro in paradisi fiscali, e lei resta impassibile?»

«Commissario, il concetto di paradiso fiscale è buono per i giornalisti. Noi ci limitiamo a rispettare le norme internazionali, e anche le operazioni con quei Paesi rientrano a pieno titolo nella legalità. E poi c'erano le fatture.»

«Quali fatture?» s'intromise Colucci.

«Naturalmente, ogni trasferimento era conseguente al saldo di una regolare fattura emessa da società estere.»

Aldani scoppiò in una risata fragorosa, ma si trattenne dal parlare.

«Quali società?» insistette Colucci.

«Società di consulenza, soprattutto.»

«Di diritto italiano?»

«No, no, sono LLC americane, società anonime lussemburghesi o inglesi.» Lesse qua e là dai fogli: «Business Consulting Ltd, Dolphin Sa, Aurora Trust Ltd, Palm Inc...»

Aldani non resistette: «E non le è parso strano che un privato cittadino versasse milioni di euro in banche di paradisi fiscali per pagare le fatture di improbabili società di comodo?»

«Commissario, come le ho detto, noi ci preoccupiamo di rispettare la legge italiana e le norme internazionali, ed è quello che abbiamo fatto...»

«Non ne dubito», tagliò corto Colucci lanciando un'occhiata al collega. «Ora, mi farebbe vedere il saldo?»

Il direttore tirò fuori un foglietto bianco con sopra stampate poche righe e lo porse al capitano.

Colucci lo osservò a lungo, infine lo allungò ad Aldani che strabuzzò gli occhi, ma non disse nulla. «Ebbene, direttore, possiamo sintetizzare la questione dicendo che prima di morire Albrizzi ha trasferito all'estero oltre quaranta milioni di euro lasciando nel conto...» riprese la contabile da Aldani «...centotrentasette euro e ventiquattro centesimi, tanto per essere precisi. Esatto?»

«Esatto.»

«Alla faccia delle sorprese!» esordì Aldani, passandosi una mano sulle tempie da cui colava un rivolo di sudore. La differenza tra l'interno climatizzato della banca e il mondo esterno era abissale. «Tu lo sapevi?»

«Al telefono mi aveva accennato qualcosa, ma non ne immaginavo la portata», disse Colucci.

«Questo fatto cambia un po' la prospettiva.»

«Un po', sì.»

Si erano trattenuti in banca un'altra mezz'ora buona, durante la quale Colucci aveva esaminato con attenzione tutto il fascicolo di Albrizzi. Aldani aveva osservato in silenzio. Quello che aveva capito era che il conto si era ingrossato negli anni grazie ai frequenti bonifici provenienti da società italiane, probabili compensi dovuti a consulenze che Albrizzi dispensava a destra e sinistra. Molti provenivano proprio da BancaVeneta. In apparenza, niente di illegale, tant'è vero che veniva fatto alla luce del sole. Secondo Colucci, ci sarebbero volute settimane di verifiche amministrative e contabili incrociate per capirci qualcosa.

«Questa storia non mi convince», continuò Aldani, scuotendo la testa.

«In che senso?»

«Possibile che Albrizzi trasferisca all'estero tutti quei soldi, e di certo ci ha impiegato del tempo a organizzare il tutto, e poi, di punto in bianco, decida di suicidarsi?»

«Dimentichi BancaVeneta.»

«Anche se BancaVeneta era vicina al crack, avrebbe potuto andarsene all'estero a godersi i soldi. Non sarebbe certo stato né il primo né l'ultimo a farlo, e non mi pareva il tipo da farsi tanti scrupoli.»

«Non hai tutti i torti», disse Colucci pensieroso.

I due si diressero in silenzio verso il lato in ombra del campo.

«E se non fosse morto?» buttò lì, infine, il finanziere.

«Come dici?»

«Sì, se il cadavere non fosse di Mirco Albrizzi, ma si trattasse di una messinscena, e intanto il vero Albrizzi se ne stesse ai Caraibi a sorbirsi una piña colada?»

«Suggestiva ipotesi, in effetti», disse Aldani pensoso.

«Avete verificato che sia proprio lui?»

«Non lo so. Nessuno lo ha nemmeno messo in dubbio.»

«Il cadavere era sfigurato.»

«Alquanto, in effetti. La moglie, però, lo ha riconosciuto.»

«A volte basta una somiglianza.»

«Vero, soprattutto se sai già chi aspettarti.»

«O magari era al corrente di tutto.»

«Complice?»

«Perché no?»

Silenzio.

«Ci vorrebbe l'analisi del DNA, ma di questi tempi nessun funzionario la prescriverebbe, se non fosse proprio indispensabile; costa troppo. E poi bisogna mettersi d'accordo col Gabinetto regionale di Padova. Sai, quelli sono un po' rognosi.»

«Se ti può consolare, anche da noi ci fanno due palle così con la spending review.»

Aldani sorrise. «Ed Helen?»

«Chi lo sa.»

«Forse era al corrente anche lei. O magari doveva sparirsene insieme a lui», insistette Aldani, trascinato da un pensiero.

«E qualcosa è andato storto.»

«Ha cambiato idea, e Albrizzi l'ha fatta fuori. Questo spiegherebbe perché è morta dopo di lui.»

«Cioè dopo la morte del sostituto di Albrizzi. Se l'ipotesi fosse vera», precisò Colucci.

«Giusto, il sostituto. Però...»

«Però?»

«Hanno dovuto ammazzarlo, il sostituto.»

«Non è detto.»

«Che intendi dire?»

«Magari era già morto», buttò lì Colucci.

«E come cazzo hanno fatto a procurarselo?»

«Il cadavere?»

«Già.»

«All'obitorio. O in cimitero.»

«Sì, vabbe', mica siamo in un telefilm americano. Comunque, chiederò al medico legale di fare qualche verifica aggiuntiva. Non si sa mai.»

«Buona idea.»

«Anzi, lo chiamo subito.»

«Buona fortuna. Io torno in ufficio a raccogliere le idee e a organizzare l'indagine amministrativa.»

«Ci sai tornare all'ufficio?»

«Credo di sì, al limite chiederò.»

«Con quell'uniforme non avrai di certo problemi.»

Colucci fece un gran sorriso. Uomo simpatico, il finanziere.

«Ciao, Basenti, sono Aldani.»

«Sono già pentito di averti dato il numero.»

«Ti devo chiedere una cosa.»

«Pensa un po'.»

«Come fate a essere certi che il cadavere di Mirco Albrizzi sia proprio di Albrizzi?»

Pausa.

«Sospetti che il corpo possa essere di un altro?»

«Sto cercando di escludere questa ipotesi, per ora assai remota.»

«Be', tanto per cominciare è stato riconosciuto dalla moglie.»

«Mi riferivo a certezze oggettive.»

«Capisco. Abbiamo fatto gli esami del sangue e potremmo verificare la corrispondenza del gruppo in qualche vecchia cartella clinica. O nella tessera sanitaria elettronica, nel caso ce l'avesse, ma dubito.»

«Non è una prova definitiva.»

«Vero. Meglio di niente, però.»

«E se il gruppo corrispondesse?»

«Allora, per dirimere la questione si potrebbe fare l'analisi odontostomatologica.»

«Ti riferisci ai denti?»

«Sì, ma bisogna avere radiografie recenti. E poi non funziona come al cinema.»

«Oppure?»

«Oppure, lo sai già. Cosa me lo chiedi a fare.»

«Esame del DNA?»

«Esatto, però costa un occhio e senza l'autorizzazione di un giudice te lo puoi scordare. Per di più tocca aspettare settimane.»

«Anche se fosse il questore a sollecitare?»

«Be', potrebbe aiutare.»

«D'accordo. Ti farò sapere. Intanto, ti puoi occupare del gruppo sanguigno?»

Aldani era appoggiato a una delle due vere da pozzo di campo Sant'Angelo. Osservava distratto alcuni ragazzini che schiamazzavano poco distante dietro a un pallone tra nugoli di piccioni che si alzavano e si posavano instancabili. Un fluire ininterrotto di gente attraversava da una parte all'altra il grande campo che si trova lungo il percorso pedonale tra San Marco e il ponte dell'Accademia. Il pallone volò verso un chiosco. Un uomo uscì da dietro una catasta di cassette gesticolando furioso: «Via de qua! Se ve ciapo!» I ragazzini si dileguarono.

Aldani guardò l'ora sul telefono. Scosse la testa e compose un numero. «Ciao, Doria. Disturbo?»

«Figurati. Indovina a cosa sto lavorando.»

«Vengo al sodo. Ricordi il bossolo ritrovato sul Riva di Albrizzi?»

«Sì.»

«E il proiettile che ha trapassato la povera Helen?»

«Sì.»

«Che mi dici in proposito?»

«Entrambi calibro 7,65 millimetri Browning, questo è assodato. Il primo è stato sparato da una semiautomatica, tant'è che abbiamo trovato il bossolo. Il secondo non sappiamo, il bossolo non c'era, forse asportato dall'assassino, o magari si trattava di un revolver. Abbiamo verificato nell'archivio dell'IBIS, ma non abbiamo trovato riscontri con altri delitti. Altro non saprei dirti.»

«Dunque, non c'è modo di capire se Helen è stata uccisa dalla stessa arma?»

«No, alcuno. A meno che non salti fuori un altro bossolo o un altro proiettile da abbinare, ma la vedo dura. Perché me lo chiedi?»

«Sto lavorando a un'ipotesi balorda e cerco riscontri per cassarla.»

«Sarebbe?»

«Sai, è quasi certo che Helen è morta molti giorni dopo Albrizzi.»

«Ah.»

«Difficile, quindi, che sia stata uccisa da lui.»

«Molto.»

«Poniamo che la pistola usata sia, invece, la stessa.»

«Poniamo. Allora, qualcuno potrebbe averli uccisi entrambi, inscenando il suicidio.»

«No, non pensavo a questo, visto che Albrizzi qualche settimana fa ha trasferito all'estero più di quaranta milioni di euro.»

«Cosa?»

«Hai sentito bene. Poniamo che invece Albrizzi abbia inscenato il suicidio e poi, per qualche motivo, abbia ucciso Helen.»

«Se la pistola fosse la stessa, tornerebbe, ma non c'è modo di verificarlo, a meno che non troviamo la pistola, il bossolo o il proiettile.»

«Me l'immaginavo. Comunque, è un'ipotesi alquanto campata in aria.»

«Anche perché c'è un problema», aggiunse Doria.

«Quale?»

«Il cadavere. Se non fosse di Albrizzi, allora di chi sarebbe?»

Aldani stava per dire la sua, quando si sentì chiamare. «Ora devo andare, ne riparliamo, Doria. Grazie.»

Manin si stava avvicinando a grandi passi con un braccio alzato. «Dottore!»

«Sei in ritardo. Andiamo, lo studio di Bellemo è in quel palazzo.»

«Ha ragione, dottore, ma ho pensato di fermarmi dai Gardin. La questione del motoscafo, ricorda? Ieri non sono riuscito a passare, e chiederglielo al telefono non mi sembrava il caso», disse Manin, inseguendo il commissario.

«Allora?»

«C'è voluto più del previsto», continuò Manin.

«Lo avevo supposto. Sei scusato. Ora vieni al punto.»

«Dunque, davanti a palazzo Albrizzi non c'è un pontile che dia accesso all'entrata d'acqua, che d'altra parte non è nemmeno agibile essendo sbarrata da molti anni.»

«Questo lo sapevamo già.»

«Sì, sì, ora ci arrivo. Accanto al palazzo, lato chiesa, per capirci, c'è una calle molto stretta che termina sul Canal Grande con un cancello chiuso a chiave. I Gardin hanno confermato che una copia della chiave del cancello ce l'aveva Albrizzi nel suo mazzo personale. Appena possibile voglio verificare tra gli effetti ritrovati sul cadavere.»

Aldani si arrestò davanti a un portone. «Siamo arrivati.»

«Di là del cancello c'è il pontile dove Albrizzi ormeggiava di solito il suo vecchio Riva», proseguì Manin.

«Hai chiesto se lo usava spesso?»

«Sì, no... Cioè: sì gliel'ho chiesto, e no, lo guidava di rado, anche se sempre di persona. Preferiva il taxi o andare a piedi. A piazzale Roma aveva in affitto un paio di posti auto nell'autorimessa comunale.»

«Fammi indovinare. Porsche?»

Manin lanciò un'occhiata al commissario. «Sì, Carrera. Ma anche un suv.»

«Devo indovinare ancora?»

Manin sorrise senza rispondere.

Aldani suonò il campanello.

L'odore di stantio che impregnava le scale si affievolì soltanto quando varcarono la soglia dello studio al piano nobile. Il lungo salone prendeva luce alle due estremità da file di strette ma ravvicinate finestre, più luminose quelle a sud che davano sul campo, più cupe quelle a nord che davano su un rio. Frammenti di pavimento a terrazzo sbucavano tra un tappeto e l'altro.

«Sono il commissario Aldani, Squadra mobile.»

Una donna non più giovane, dall'abbigliamento alquanto fuori moda, che sembrava non volesse lasciare adito a dubbi sulla sua condizione di sessantenne, grazie anche ai capelli cotonati che somigliavano a un enorme zucchero filato, si alzò da dietro un tavolo. «L'avvocato la sta aspettando.» La voce era piatta, ma venata di ostilità.

Aldani lanciò un'occhiata a Manin che annuì senza darne a vedere.

«Venga», disse la donna.

Aldani seguì la cariatide al di là di una porta in noce massiccio. La donna ricomparve un istante dopo. Si sedette al suo tavolo e riprese il lavoro che aveva interrotto, come se Manin, che era in piedi davanti a lei, non esistesse.

«Mi dica pure, commissario», disse affabile, quasi appiccicoso, l'avvocato Bellemo.

Aldani non se lo aspettava così anziano. Colpa di Bassan, il giovane commercialista al quale aveva associato col pensiero l'avvocato. Si sentì a disagio. Lo studio, poco luminoso e arredato con mobili scuri e massicci del primo Novecento, era opprimente. «Che tipo di affari curava per conto di Mirco Albrizzi?»

«Mi occupavo soprattutto della parte contrattualistica. Esaminavo tutti i documenti e gli atti per verificare che fossero inattaccabili dal punto di vista legale. Tutto sommato un'attività di routine.»

«Collaborava con Amedeo Bassan, quindi.»

«Io? Be', certo. Al giorno d'oggi qualsiasi transazione commerciale o finanziaria non può prescindere dal parere di un avvocato. Viviamo in un mondo complicato, commissario.»

«Capisco.»

Per tre volte Manin tentò di attaccare discorso con la donna, ma la cariatide era un muro di gomma. Rinunciò e prese a camminare piano da un capo all'altro del salone, sbirciando qua e là. Sentiva lo sguardo astioso della donna che lo seguiva da dietro le carte.

Sul salone si aprivano sei porte. Delle due centrali una dava sulle scale, proprio di fronte al tavolo della segretaria, l'altra, alle sue spalle, su un corridoio. Lo studio di Bellemo era dietro una porta chiusa verso il lato in penombra. La stanza di fronte era adibita a biblioteca. Manin entrò senza un particolare motivo, ma una rapida occhiata ai pesanti tomi giuridici, che piegavano gli scaffali della vecchia libreria, lo convinse a tornare nel salone.

La donna, che non lo aveva perso di vista un secondo, si alzò seguita dallo zucchero filato che aveva in testa, e andò a chiudere la porta della biblioteca. In perfetto ma eloquente silenzio.

«E Albrizzi aveva spesso contenziosi?»

«Se si riferisce a cause legali, direi nella media. Come le dicevo, commissario, viviamo in un mondo complicato, e una certa conflittualità è nella norma. Perché me lo chiede?»

«Sto cercando di capire il motivo per cui Albrizzi si è suicidato, e problemi legali, magari uniti a problemi finanziari, potrebbero chiarire la situazione...»

«Guardi, commissario, che è fuori strada. Sono anni che conosco Mirco, e le assicuro che non c'era causa che lo spaventasse. Ci voleva ben altro per preoccuparlo.»

«Ad esempio?»

«È un modo di dire. Era uno che non guardava in faccia nessuno e non si scoraggiava certo di fronte a qualche difficoltà.»

«Mi sta dicendo che era in difficoltà?»

Bellemo non rispose subito. Da dietro la scrivania fissò Aldani con insistenza. Poi si alzò. «Commissario, parliamoci chiaro, nel mondo della finanza è normale che si alternino momenti floridi e di liquidità a momenti, diciamo così, meno brillanti. Non per questo, però, uno si suicida. Creda a me, non so perché Mirco si sia ucciso, ma di sicuro non per questioni finanziarie.»

All'altro capo del salone una porta aperta, da cui proveniva il ticchettare su una tastiera, attirò l'attenzione di Manin. Un giovane stava lavorando dietro una scrivania antica e si interruppe non appena lui comparve sulla soglia.

«Salve», disse Manin.

«Buongiorno», contraccambiò il giovane abbozzando un sorriso. Aveva i capelli corti e una barba ben curata che gli incorniciava il viso.

«Davvero un bello studio. Dev'essere piacevole lavorare qui.»

«Infatti. Ha bisogno di qualcosa?» disse frettoloso.

«No, grazie. Sto aspettando che il commissario Aldani finisca di parlare con l'avvocato Bellemo. Sa, il suicidio di Mirco Albrizzi...»

«Lei è un poliziotto?»

«Sì. Albrizzi era cliente dello studio, vero?» proseguì Manin.

«Be', sì, ma lo seguiva di persona l'avvocato...»

«Dottor Ponzoni!» La voce della segretaria dietro le spalle fece sussultare Manin.

«Sì?» rispose l'uomo.

«Può portarmi la pratica Signorini? Dovrebbe essere in archivio.»

Il giovane si alzò di malavoglia. «Mi scusi», sussurrò sfiorando Manin.

Aldani cambiò tattica. «Ha visto Albrizzi di recente?»

«Sì, venerdì dell'altra settimana. È venuto qui in studio.»

«Il 20 aprile?»

«Aspetti...» consultò svelto un'agenda. «Sì.»

«A che ora?»

«Undici e mezzo.»

«Il motivo dell'incontro?»

«Doveva firmare un'intimazione di sfratto per un inquilino moroso.»

«Quanto si è trattenuto?»

«Non più di un quarto d'ora.»

«Come lo ha trovato?»

«Come al solito. Anzi, mi sembrava in gran forma.»

«Non le sembrava preoccupato?»

«Per nulla.»

«È sicuro? Non era forse preoccupato per BancaVeneta?»

L'espressione dell'avvocato virò dalla giovialità collaborativa all'astiosità circospetta. «Commissario, a cosa si riferisce di preciso?»

«Che BancaVeneta non passi un buon momento lo sanno tutti. Che lei sia uno dei consiglieri, non è un mistero. E BancaVeneta è una creatura di Mirco Albrizzi. Giusto?»

Bellemo era immobile, ma le rughe del viso, che vibrarono appena, tradirono l'irritazione. Da scafato professionista qual era, riuscì però a controllarsi. E partì con l'arringa: «Vede, commissario, BancaVeneta è sì nata da un'intuizione del compianto Mirco, ma è stato possibile attuarla soltanto grazie all'appoggio di un gruppo di imprenditori veneti di grande lungimiranza. Che io faccia parte del consiglio di amministrazione, poi, è un fatto del tutto accidentale, dovuto proprio all'amicizia che mi legava a Mirco. Diciamo che un consigliere avvocato e, qui mi consenta un pizzico di orgoglio professionale, un avvocato di lungo corso e di discreta perizia, può sempre tornare utile».

«Immagino. Non ha confermato, però.»

«Che cosa?»

«Che BancaVeneta è in crisi.»

«Le faccio notare una cosa, commissario: il fatto che i giornali scrivano di problemi finanziari di BancaVeneta non implica che la notizia sia fondata. I giornalisti sono sempre alla ricerca della balena da infiocinare, e BancaVeneta, per l'originalità della sua storia e l'inusualità della sua compagine azionaria, ben si presta a fare notizia sulle prime pagine. Purtroppo, e lei dovrebbe ben saperlo questo, l'abilità dei cronisti nel creare i casi giornalistici non va di pari passo con la loro preparazione economico-finanziaria, peraltro indispensabile in un materia così complessa.»

Le ultime parole dell'improvvisata arringa aleggiarono per qualche secondo nella grande stanza, trasformata in un'aula di tribunale, per poi adagiarsi piano, cullate dai rumori provenienti dal campo.

«Avvocato, se ho ben capito, lei mi sta dicendo che BancaVeneta non ha problemi finanziari e che la morte di Albrizzi non ne ha niente a che vedere. Esatto?»

«Esatto, commissario. Esatto.»

La cariatide li accompagnò alla porta.

Prima di andare, Aldani la squadrò severo. «Dica all'avvocato di passare entro stasera in Questura per la sottoscrizione del verbale di sommarie informazioni.»

«In Questura?»

«Sì, in Questura. Deve firmare il verbale in qualità di persona informata sui fatti. Se lo ricordi. Non credo debba rammentarle che è molto importante.»

«Certo», rispose la donna che per un istante aveva perso la sua glacialità.

Uscirono con sollievo dall'opprimente palazzo. Si immersero nel sole di quella splendida giornata di maggio. Il caldo stava allentando la morsa. Aggregandosi alla ressa ciarliera dei passanti che fluiva in direzione dell'Accademia, si infilarono in una calle stretta. Stavano scambiando impressioni sulla visita allo studio dell'avvocato Bellemo, quando una voce dietro di loro chiamò.

«Commissario!» Si arrestarono in mezzo alla calle, bloccando il traffico.

«Il dottor Ponzoni, vero?» disse sicuro Manin, tendendo la mano verso il giovane con la barba. «Prima non siamo riusciti a presentarci. Sono l'ispettore Manin, e questo è il commissario Aldani della Squadra mobile della Questura di Venezia.»

Il giovane strinse entrambe le mani e restò immobile in mezzo alla calle, difendendosi alla meglio dagli spintoni della gente che cercava di evitare quell'ostacolo imprevisto.

«Togliamoci di qui», disse Aldani, indicando uno slargo poco lontano. Sulla sinistra, fuori della calca, si allungava un rio terà, uno di quei vecchi canali interrati abbastanza frequenti a Venezia che spesso si riconoscono proprio per l'anomala larghezza e il percorso irregolare.

«È un avvocato dello studio Bellemo?» chiese Aldani.

«Sì, cioè no... non ancora, sono un praticante. Un paio di mesi e potrò dare l'esame», rispose Ponzoni che aveva ancora il fiatone.

«Capisco. La solita trafila di fotocopie e portaborse, vero?» buttò lì Aldani, tanto per rompere il ghiaccio.

«Be', sa com'è, non c'è molto da scegliere oggigiorno, tocca accontentarsi. Anche se a volte...»

«Sì?»

«A volte ti viene voglia di tirargli dietro i faldoni e tutto.»

Aldani sorrise. «Immagino volesse parlarci.»

L'uomo esitò.

«Andiamo, Ponzoni, non avrà fatto quella corsa per venire a salutarci», lo pungolò Manin.

«Mirco Albrizzi è venuto allo studio un paio di settimane fa», disse infine il giovane espirando rumorosamente.

Aldani guardò Manin. «Questo lo sappiamo. Ce lo ha già detto l'avvocato Bellemo.»

«Ma forse non vi ha detto del litigio.»

«Sai, Manin, sto cominciando proprio a rompermi i coglioni di questa storia.» Aldani aveva appena finito di mettere al corrente l'ispettore del colloquio col direttore dell'agenzia, dell'ipotesi di Colucci e della telefonata al medico legale. Ipotesi originale, quella del capitano, ma intrigante. Quasi quasi gli dispiaceva non averci pensato lui.

L'ispettore non disse nulla. Quando Aldani cominciava a porconàr, era meglio lasciarlo sfogare.

«Da un semplice suicidio che sembrava all'inizio, nel giro di tre giorni ne è uscito un putiferio. È saltato fuori un altro cadavere, e i quattro della banda sembra facciano di tutto per sviare l'attenzione sul loro ultimo incontro col morto. Ci hanno litigato di brutto, altroché! E poi la storia della banca... Talmente grossa che la Guardia di Finanza da Roma ha spedito un capitano a indagare. E il questore che mi sta alle costole, poi... Pover'uomo, lui non ha colpe, fa quel che può. Io, però, ne ho le palle piene. Non dovrei nemmeno essere qui, ma a finire il trasloco!»

Silenzio. I due continuarono a camminare tra la gente, finché non sbucarono nell'ampio campo Santo Stefano che si allungava verso il ponte dell'Accademia.

«Sai che facciamo?» esordì Aldani all'improvviso, mentre osservava distratto la merce che i vucumprà avevano steso sui teli, un occhio ai clienti, l'altro al palo che li avrebbe subito informati, con un incomprensibile eloquio, dell'arrivo dei ghebi, i vigili urbani. Una lotta titanica, e quasi senza speranza, quella dei ghebi veneziani.

«Domattina li convochiamo tutti in Questura.» Aldani rispose da se medesimo alla propria retorica domanda.

«Tutti chi, dottore?»

«La banda dei quattro.»

«Nel suo ufficio?»

«Sì.»

«Insieme?»

«Certo.»

«E se non vogliono?»

«Mica glielo diciamo che ci sono anche gli altri.»

«Ah, non glielo diciamo. E se si parlano prima tra loro?»

«Correremo questo rischio. Vedrai che verranno lo stesso. Desterebbero sospetti, altrimenti, e in questo momento è l'ultima cosa che desiderano, immagino.»

«Dottore, ma sarà regolare?»

«Una chiacchierata. Niente di ufficiale.»

«Non è un interrogatorio?»

«No, Manin. Una visita di cortesia. Ora li chiamo. I numeri, ce li hai?»

Manin annuì dubbioso, mentre tirava fuori il tablet.

Dal campiello Vidal, che si affaccia sul Canal Grande, parte la volta in legno del ponte dell'Accademia. Nato provvisorio nel 1933 e costruito in poco più di un mese per sostituire l'orribile e pericolante ponte austriaco, ancora non trova un degno erede. Negli ultimi decenni è stato irrobustito con l'acciaio, ma il minimalismo e la semplicità del progetto del solito Eugenio Miozzi sono ancora senza rivali. Il Comune aveva bandito un timido concorso per il restauro. Andato deserto, il municipio aveva pensato bene di affidare direttamente l'incarico a un'azienda privata, ma per fortuna il Ministero aveva bocciato quella che sarebbe stata soltanto una brutta copia del Calatrava. Aldani pensò al detto veneziano «Provvisorio come il ponte dell'Accademia», e gli scappò un sorriso.

Non c'era traccia del motoscafo. Ne approfittò per fare le telefonate.

Quando arrivò la lancia, Aldani aveva già chiamato tutti. Tutti avevano abbozzato, accettando l'invito. Era evidente che non ne avevano alcuna voglia, ma preferivano ostentare collaborazione totale in attesa che la tempesta si placasse.

Non era il Toni, e a pilotare non c'era Vitiello. Poco male. Salirono al volo e partirono alla volta della Questura. Non avevano ancora raggiunto Rialto, che il cellulare di Aldani squillò.

«Pronto?»

«Aldani, sono De Girolami.»

«Stavo per chiamarla, signor questore.» Bugia stellare.

«Cosa diavolo mi combina, Aldani?»

«Prego?»

«Come le viene in mente di convocare il senatore Albrizzi?»

«Ah, si riferisce a quello? L'ha chiamata, immagino...» Che rapidità!

«Ovviamente. Le avevo detto di usare prudenza e discrezione. Invece, lei cosa fa?»

«Ho solo bisogno di acquisire ulteriori informazioni sul caso, tutto qui. Non è un interrogatorio.»

«Lo spero bene! Prudenza, mi raccomando, lo sa che è un'indagine delicata. Mi dica: com'è andata con la Guardia di Finanza?»

«Bene.»

«Bene?»

«Sì.»

«Tutto qui?»

«Collaborazione totale. Direi che il capitano Colucci non potrà certo lamentarsi della cooperazione ricevuta dalla Questura di Venezia.»

«Bene, Aldani, molto bene. Mi compiaccio. Ora la devo salutare.»

«Arrivederci, signor questore.»

«Un'ultima cosa...»

«Sì?»

«Se le venisse in mente qualche altra idea balzana, mi consulti. Magari prima.»

«Sì, signor questore.»

Aldani pensò alla faccia di De Girolami, quando avesse saputo che aveva convocato l'intera banda dei quattro, non soltanto il senatore. Senza contare che aveva sorvolato sulla questione dei milioni volatilizzati. E nemmeno di BancaVeneta lo aveva messo al corrente. Tanto, prima o dopo lo avrebbe saputo, e poi, una cosa alla volta: inutile dare troppa pena al questore che aveva di certo cose più importanti cui pensare.

Aveva appena messo piede sul pontile della Questura che il cellulare squillò di nuovo. «Pronto?»

«Sono il governatore Gaffin. Parlo col commissario Aldani?»

«Sì, buonasera», rispose con la massima freddezza di cui fu capace.

«Poiché in ufficio non riuscivo mai a trovarla, mi sono permesso di farmi dare il suo cellulare dal questore.»

«Lo immaginavo.»

«Spero di non disturbarla.»

«Non si preoccupi, mi dica.» Untuoso, pensò Aldani.

«Ecco, mi chiedevo se potessi in qualche modo collaborare alle indagini sulla scomparsa del povero Mirco.»

Aldani non rispose subito. «In che modo pensava di collaborare?»

«Vede, commissario, so che sta indagando sui legami tra Mirco e BancaVeneta, e io potrei facilitarle le cose facendola parlare con le persone che potranno fornirle nel modo più rapido e preciso le informazioni che cerca. Come lei saprà, sono molto legato a quella banca. Io non credo che il suicidio di Mirco abbia a che vedere con BancaVeneta, ma se questo potesse aiutarla, lo farei volentieri.»

«La ringrazio della sua disponibilità, ne terrò conto, se necessario. D'altra parte, lei capisce, le difficoltà di BancaVeneta e il pericolo di un crack imminente, fatti che potrebbero aver spinto Albrizzi al gesto estremo, mi suggeriscono di procedere con i piedi di piombo. Oltretutto, ancora non sappiamo in che direzione andrà l'indagine.»

Silenzio.

«Cosa le fa ritenere che BancaVeneta sia in difficoltà?» La voce si era irrigidita.

«Governatore, mi sono informato, e tutti concordano sul rischio di crack per eccesso di sofferenze.»

«Sofferenze. Commissario, le banche sono istituzioni finanziarie molto complesse, non è mica così semplice farle fallire, sa?» Rise. Di un riso tirato, secondo Aldani. «Non basta certo qualche debito non riscosso a metterle in difficoltà. Ci mancherebbe!»

«Io di finanza, in effetti, ci capisco poco. Qualche verifica in proposito, però, ritengo opportuno effettuarla. Ne conviene?»

«Ne convengo, commissario. Bene, tenga comunque presente la mia offerta di collaborazione. Se ha bisogno, di qualsiasi cosa, mi chiami. Ora il mio numero ce l'ha. Buonasera.»

Come cazzo faceva Gaffin a sapere di BancaVeneta? Nemmeno al questore ne aveva parlato. Forse il buon avvocato Bellemo?

«Manin, mi faresti un favore?»

«Dica, dottore.»

«Mi andresti a prendere un caffè doppio al bar interno?»

«Subito, dottore.» Manin si avviò. «E se fosse chiuso?»

«Provvedi col distributore al piano terra. Cercherò di sopravvivere.»

Una decina di minuti dopo, Manin fu di ritorno con un bicchierino di plastica stracolmo. Il bar era chiuso. Cazzo.

Un tocco lieve alla porta, e Manin entrò senza attendere risposta.

«Che c'è?» Aldani era irritato, stava ancora rimuginando sulle complicazioni del caso Albrizzi, e soprattutto sulle parole di Gaffin. Quell'uomo aveva la capacità di farlo uscire dai gangheri al solo vederlo o sentirlo. I politici non gli erano mai stati simpatici, ma Gaffin proprio non lo tollerava.

«Dottore, una questione di cui vorrei parlarle.»

«Sì?»

«Non so più che fare...»

Aldani squadrò Manin che aveva ancora la mano sulla maniglia. A volte non veniva al dunque, quel ragazzo.

Manin sostenne lo sguardo in silenzio, poi sembrò decidersi. «Venga, entri», disse rivolto al corridoio.

Preceduta da un nitido picchiettare di tacchi sul pavimento, la donna si presentò sulla soglia. Una persona minuta, sulla quarantina, capelli corvini non troppo lunghi, vestita con sobrietà. Bella, giudicò Aldani, che si alzò in piedi avvicinandosi a Manin con una leggera aria di rimprovero. «Allora?»

«È colpa mia, commissario, ho così insistito con l'ispettore Manin che alla fine ha ceduto.» La donna parlava un perfetto italiano, anche se con una forte inflessione inglese. Non americana o altro, proprio inglese, di questo Aldani era certo. «Mi chiamo Esther Clarke e sto cercando mio marito.»

«Si spieghi meglio», disse Aldani lanciando un'occhiataccia a Manin che se ne stava sempre sulla porta.

«Mio marito è scomparso.»

«Qui a Venezia?»

«Sì. Io sono inglese, mio marito è italiano e originario di qui. È venuto a Venezia qualche settimana fa, ma da molti giorni non ho più sue notizie. Sono preoccupata.»

«Come si chiama suo marito?»

«Thomas Wilson.»

«Scusi un momento, signora Clarke. Manin, la signora ha già fatto la denuncia?»

«Sì, dottore.»

«E hai controllato...»

«Sì, dottore, non risulta nulla nel registro dei cadaveri non identificati.»

«Manin...»

«Mi scusi», disse l'ispettore guardando Aldani, ma rivolgendosi alla donna.

«Signora Clarke, perché ritiene che suo marito sia scomparso? Non potrebbe essersi preso... una vacanza?» chiese Aldani.

«Capisco cosa vuole insinuare, commissario, ma le garantisco che mio marito non è quel tipo di persona.»

«Non intendevo... D'accordo, d'accordo. Si sieda, e cominciamo dall'inizio. Purtroppo le posso dedicare soltanto una decina di minuti.»

La donna prese posto su una delle due sedie.

«Manin? Che aspetti? Siediti anche tu, forza!»

«Dunque, vediamo se ho capito bene...» Aldani si preparò a riepilogare. «Suo marito è arrivato a Venezia il 12 aprile, e lo ha sentito per telefono ogni giorno. Giusto?»

«Sì», rispose la donna.

«E dal 24 aprile non ha più avuto sue notizie, mentre il cellulare risulta inattivo. Giusto?»

«È così.»

«Le ha detto cosa veniva a fare a Venezia?»

«No, lui è sempre riservato sulle questioni che riguardano la sua famiglia.»

«Pensa che fosse a Venezia per questioni di famiglia?»

«Sì.»

«Ma lui non è stato esplicito su questo punto.»

«No.»

«Mi perdoni, signora Clarke, ma non le sembra un po' strano tutto ciò?»

«Non lo sarebbe, se conoscesse Thomas. Lui è fatto così. La sua vita passata, prima del trasferimento in Inghilterra, non è oggetto di dialogo. È una condizione che ho accettato molto tempo fa, e mi sta bene così. Thomas è una persona meravigliosa, basta evitare certi argomenti.»

Dopo un istante di silenzio, Aldani riprese: «Signora Clarke, faccia uno sforzo, mi dia qualcosa di nuovo, altrimenti non possiamo aiutarla. Ad esempio, il cognome di suo marito, Wilson, è quello di famiglia?»

«No, dovrebbe essere della madre.»

«E non conosce quello del padre?»

«No.»

«Suo marito ha fratelli?»

«Sì, credo di sì.»

«Può essere più precisa?»

«No, è una sensazione.»

«Sensazione?»

La donna annuì severa.

«È a conoscenza di altri parenti?»

«No. Cioè, forse. A Londra di certo aveva qualcuno, che ogni tanto andava a trovare.»

«Dunque?»

«Dunque niente, non so altro. Fa parte del patto di cui le dicevo.»

«D'accordo. Ma perché ha detto “andava”?»

«Perché da molti mesi non lo fa più, e non mi chieda il motivo, perché non lo so.»

«D'accordo, il patto...» Aldani cercò di mantenersi calmo. Si chiese come fosse riuscito a infilarsi in quella situazione assurda, con tutte le cose che aveva da fare.

«Commissario?» sussurrò la donna.

Aldani si riscosse. «Mi dica, signora Clarke, prima della partenza suo marito le è sembrato turbato?»

«Non più del solito.»

«Le ha detto dove avrebbe alloggiato a Venezia?»

«No.»

«Chissà perché, lo immaginavo.» Aldani non voleva essere ironico, ma la donna lo guardò male. Gettò uno sguardo a Manin, che fino a quel momento se ne era rimasto attento sulla sedia, in silenzio. Gli fece un cenno impercettibile con la testa, quasi a dire: «Che si fa?» Infine, decise che poteva bastare. «Signora Clarke, non credo di avere altre domande. Abbiamo il suo telefono e il nome del suo albergo. Le faremo sapere se ci sono novità.»

Aldani si alzò in piedi, imitato da Manin.

«Cosa farete in concreto?» chiese la donna senza accennare ad alzarsi. Tempra dura.

«In concreto? L'ispettore Manin controllerà i registri di arrivo, magari scopriamo dove alloggia, e verificherà le chiamate partite dal cellulare di suo marito. Vedremo di capire chi ha contattato da quando è arrivato a Venezia. Infine, dirameremo una sua foto e una sua descrizione a tutte le strutture ricettive di Venezia e della terraferma. Per ora di più non possiamo fare.»

«Grazie», disse la donna alzandosi.

«Naturalmente, se suo marito dovesse farsi vivo, ci contatti.»

«Certo.»

Aldani sembrò sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma si limitò a stringere la mano della donna. «Manin, accompagna la signora.»

Il commissario trascorse il resto del pomeriggio a smaltire scartoffie arretrate. Avrebbe potuto andarsene a casa, ma cercava ogni scusa possibile per trattenersi. A casa c'erano i cartoni che lo attendevano, e in quel modo riusciva a mettere la sordina a una specie di rimorso latente e fastidioso. Alla fine, si decise e si avviò.

Tappa obbligata la tavola calda di Dino, doveva pur mangiare qualcosa.

 

Michele Catozzi - Acqua morta. Un'indagine del commissario Aldani
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