Prologo

 

Venezia, 13 novembre 1981.

 

L'autunno a Venezia è diverso. Diverso perché le brume adriatiche si sfilacciano nelle acque opache della laguna e la pioggia minuta si mischia con la caligine che pare sorgere dalla schiuma. Per quei due ragazzi, invece, era un insperabile alleato.

Non avevano più di sedici, diciassette anni, se ne stavano avvinghiati su una panchina defilata dei giardini di Sant'Elena, poco lontano dai padiglioni abbandonati della Biennale. L'ora non era ancora buia, ma la nebbia li nascondeva a occhi indiscreti. Le mani inesperte si infilavano avide sotto i cappotti, sollevavano maglie e camicie, carezzando la pelle febbricitante.

Fu così che non si accorsero dell'ombra che si avventò sul ragazzo, lo sollevò di peso e lo scaraventò sull'erba ingiallita e chiazzata di fango. Cominciò a colpirlo con calci e pugni sulla faccia, allo stomaco, al pube. Una gragnuola sferrata con sistematica cattiveria e accompagnata da un urlo: «Lei... è... mia!»

La ragazza era rimasta seduta sulla panchina, la bocca spalancata, i capelli scarmigliati, le vesti in disordine, incapace di urlare. Gli occhi tradivano sorpresa mischiata a terrore. Quando il ragazzo a terra smise di divincolarsi, gli occhi di lei si fecero vacui e il corpo si afflosciò sulla panchina.

 

Venezia, 15 novembre 1981

Dal Gazzettino di Venezia:

 

MORTO IL RAGAZZO AGGREDITO A SANT'ELENA ANCORA SOTTO SHOCK LA RAGAZZA, FORSE VIOLENTATA, CHE NON RICORDA NULLA

 

Gli inquirenti brancolano nel buio, chiedono aiuto ai cittadini che hanno visto o sentito qualcosa.

Paolo Visentin, diciassette anni, brutalmente picchiato due giorni fa mentre si trovava con la fidanzata nei giardini di Sant'Elena, è spirato ieri mattina all'ospedale SS. Giovanni e Paolo, dopo aver trascorso una nottata tra la vita e la morte. L.A., sedici anni, la ragazza che presumibilmente si trovava con lui al momento dell'aggressione, non è ancora in grado di riferire cosa sia successo. [...] Nella conferenza stampa di ieri sera il questore Antonio Adinolfi ha dichiarato solennemente che la vile aggressione non resterà impunita. Ci auguriamo tutti che le sue parole non siano soltanto una vuota formula di rito.

 

Venezia, 22 settembre 1982.

Giacomo Zennari, commissario della Squadra mobile presso la Questura di Venezia, sorseggiava caffè osservando pensoso il fascicolo appoggiato sulla scrivania. Il cartoncino bristol gonfio di fogli aveva un'aria molto vissuta. Era spiegazzato, lacerato in alcuni punti, macchiato qua e là, come se fosse stato consultato tutti i giorni per mesi. E così era stato. Zennari aveva preso a cuore il caso dell'aggressione di Sant'Elena. Odiava la violenza e in particolare non tollerava quella contro gli inermi. E poi c'era la ragazza, che aveva l'età di sua figlia minore. Provava rabbia e dolore per la morte del fidanzato, ma lo stupro lo mandava fuori di testa.

Quasi un anno di indagini, e in mano non avevano nulla. Pochi i fatti accertati.

I due adolescenti si incontravano regolarmente da poche settimane. Quel giorno si erano dati appuntamento in piazza San Marco, per poi recarsi a Sant'Elena. Attorno alle sedici e trenta la violenza. Nessun indizio sul numero degli aggressori. Nessun dubbio che la ragazza fosse stata stuprata, le tracce di un rapporto sessuale non consenziente erano chiare. Se fosse accaduto prima o dopo il pestaggio del fidanzato, non era dato sapere.

Verso le diciotto, davanti all'ingresso dell'Arsenale, la ragazza era stata notata da un marinaio che aveva chiamato i soccorsi. Dal giorno dell'aggressione era ricoverata all'ospedale SS. Giovanni e Paolo. Non parlava con nessuno, nemmeno con i genitori o con i due fratelli. Si era chiusa in se stessa, e i medici non erano ottimisti, soprattutto perché altre volte aveva mostrato instabilità mentali. Da alcuni anni era seguita infatti da uno psichiatra. Diagnosi: gravissimo shock post-traumatico aggravato da psicolabilità pregressa. Per l'appunto. Dare un nome al problema, però, non aveva aiutato.

Mesi di interrogatori: famiglia, amici, parenti, compagni di scuola, insegnanti... Nulla.

Ormai più nessuno si ricordava del fatto, i giornali avevano ben altro di cui occuparsi, come il massacro di Sabra e Shatila in Libano di pochi giorni prima, o le indagini sull'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Così il questore Adinolfi aveva chiesto al giudice istuttore di archiviare il caso.

Zennari mandò giù l'ultimo sorso di caffè ormai freddo e aprì ancora una volta il fascicolo che conosceva quasi a memoria. Sfogliò con attenzione le prime pagine, come se non le avesse mai lette. Infine, lo richiuse. Alzò di scatto la cornetta del telefono, e nel farlo rovesciò la tazzina del caffè, vuota, sull'incartamento. Una goccia di liquido scuro si allargò sul cartoncino, lasciando una macchia indelebile che il fazzoletto contribuì soltanto a slabbrare. Chiamò il piantone. Forse aveva ragione il signor questore a voler chiudere le indagini.

 

Londra, 12 settembre 2010.

Quando il Saint Patrick Psychiatric Hospital lo chiamò al cellulare, era pomeriggio inoltrato, e Thomas Wilson stava facendo il solito jogging sul lungo Tamigi, grondando sudore per via di quel caldo afoso così innaturale per la stagione e per il luogo.

«Signor Wilson?» Voce di donna molto professionale.

«Sì?»

«Sono Martha Jackson, del Saint Patrick.»

«È successo qualcosa a Laura?»

«Signor Wilson, le saremmo grati, se potesse venire qui. Subito.» Decisa, ma non sbrigativa.

«Sarò lì tra mezz'ora.»

Chiuse il telefono pensando al peggio, anche se fu sollevato di interrompere quella specie di sauna all'aperto.

La ghiaia sottile della piazzola davanti all'ingresso del Saint Patrick crocchiava sotto le Nike Air. Corse verso la porta a vetri, salutò con un cenno Annie e Lola, le due ragazze di turno alla reception, e si diresse con sicurezza al reparto. Dire che lì era di casa sarebbe stato riduttivo.

Davanti alla porta della stanza di Laura stazionava il dottor Fitzgerald con due infermiere che, non appena lo videro, si dileguarono. La faccia tonda e rubizza del dottore, sempre gioviale e sorridente, era deformata da un'espressione indecifrabile. Salutò con un impercettibile movimento del capo. Wilson ebbe la certezza che fosse successo qualcosa di grave, quando si rese conto che Fitzgerald non aveva accennato a un sorriso.

«Sua sorella si è spenta un'ora fa.»

La frase restò sospesa nell'aria asettica del corridoio.

«Mi dispiace molto, signor Wilson», aggiunse il dottore, posandogli una mano sulla spalla.

«Come è morta?» riuscì soltanto a dire.

«Per esserne certi dovremo aspettare l'autopsia, ma credo si tratti di arresto cardiaco.»

Wilson era sorpreso. Laura aveva tentato più volte di suicidarsi, e nelle ultime settimane l'aveva vista più infelice del solito. Temeva il peggio, ma non si sarebbe aspettato che il cuore cedesse.

«Ha sofferto?»

«Non credo.»

«Posso vederla?»

Il dottor Fitzgerald fece un passo di lato, scostandosi dalla porta.

 

Londra, 24 settembre 2010.

Laura venne tumulata in un prato del Saint Mary's Catholic Cemetery, a Kensal Green. La cerimonia era stata breve. Meglio così.

Il prete, un uomo stempiato e dal ventre prominente che sembrava voler strappare i bottoni della tunica nera, sudava in gran copia. Gocce gli stillavano sulle guance, luccicando al sole del mezzogiorno. Aveva fatto del suo meglio, ma era evidente che non conosceva Laura, forse aveva sostituito all'ultimo minuto il cappellano del Saint Patrick. Era riuscito pure a sbagliare il nome di sua sorella, Louise l'aveva chiamata. Nessuno dei presenti aveva fatto cenno di essersene accorto. Che importava, in fondo.

I presenti? L'unico parente era lui, non aveva voluto che sua moglie venisse al funerale. Anzi, sua moglie non era nemmeno al corrente della morte di Laura. Poi aveva riconosciuto un paio di impiegate dell'ospedale, forse spedite lì d'ufficio. Altre due donne, invece, erano accompagnate da un infermiere che qualche volta aveva notato parlare con Laura. Infine, mezza dozzina di vecchie che probabilmente bazzicavano tutti i giorni il cimitero assistendo alle cerimonie che capitavano loro a tiro. Sembravano le più colpite. Partecipi come moderne prefiche.

Terminata la breve processione per le condoglianze di rito, Thomas si avviò senza fretta verso l'uscita.

«Signor Wilson?»

La voce del dottor Fitzgerald lo fece trasalire. Non lo aveva scorto alla cerimonia.

«Mi scusi, non sono riuscito ad arrivare prima.» Fitzgerald si era negli anni affezionato a sua sorella, quasi come a una figlia. Aveva gli occhi lucidi e appariva davvero dispiaciuto. «Tenga, credo che questa le appartenga», disse porgendo una vecchia busta.

«Che cos'è?» chiese infine Thomas, dopo averla rigirata a lungo tra le dita.

«L'abbiamo trovata nella stanza. Forse le è sfuggita, quando ha radunato le cose di Laura. Era nascosta, se così si può dire, in un cassetto, incastrata sul fondo.

«È aperta», constatò Thomas.

«Purtroppo, non c'è scritto nulla sulla busta, così, quando l'inserviente me l'ha consegnata, stupidamente l'ho aperta per capire a chi fosse indirizzata. Avrei dovuto immaginare che fosse per lei. Appena ho letto il suo nome...»

«Capisco. Grazie, dottore.»

«Ora devo andare. Le faccio di nuovo le mie condoglianze. Addio, signor Wilson.»

Thomas rimase solo, in mezzo all'erba, con in mano la busta e nessuna voglia di leggerne il contenuto.

 

Michele Catozzi - Acqua morta. Un'indagine del commissario Aldani
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