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Lunedì, 30 aprile 2012.
Il cadavere affiorò dall'acqua morta di un canale secondario con la bassa marea. Prima la schiena, infagottata in una giacca di lino che un manto di alghe traslucide spennellavano di verde, poi la testa, liscia e splendente di capelli che aderivano ai lati, lasciando intravedere un buco nella scatola cranica.
L'alba era ancora nell'aria e l'aurora gettava lampi rosati sulla superficie irregolare della laguna, sottraendo alla penombra e alla foschia le isole minori, le bricole ai margini dei canali profondi, qualche barca lontana. Le sagome dei tetti e dei campanili di Venezia si stagliavano scure sullo sfondo striato di rosso e arancione. Tutto preannunciava un'altra caldissima giornata. Nonostante fosse la fine di aprile, le temperature erano da luglio pieno. I meteorologi non riuscivano a spiegarsi quell'anomalia climatica e finivano per dare la colpa al riscaldamento globale, tanto per cambiare.
Orfeo Casarin, facchino alla stazione di Santa Lucia, nel tempo libero caparossolaro, cioè raccoglitore di cozze, vongole e affini, rigorosamente abusivo, col suo ferro da cape longhe, stava perlustrando la melma per individuare il monticello coi due buchi in cima che tradiva la presenza del pregiato mollusco. Non pioveva da settimane e un forte odore di laguna, misto di salmastro e putredine, impregnava l'aria.
L'intimo silenzio della distesa marcescente fu disturbato dallo sferragliare del treno che a qualche centinaio di metri decelerava lungo il ponte della Libertà prima di entrare in stazione. L'uomo sollevò d'istinto la testa, e il suo sguardo si imbatté in quella strana cosa. Scoasse, pensò dapprima, un sacchetto della spazzatura, ce n'erano tanti che galleggiavano e andavano ad arenarsi nelle acque basse dei ghebi o sulle rive delle barene. Non del tutto convinto, si diresse verso la cosa affondando nella fanghiglia, accompagnato dal risucchio schioccante degli stivaloni che gli arrivavano all'inguine.
La sequela di bestemmie spaventò un nugolo di gabbiani che sonnecchiavano a pochi metri fra i cespugli rachitici della barena.
Gli avevano telefonato verso le sei di mattina. Un morto ripescato in laguna. Bel modo di cominciare una giornata di ferie.
Nicola Aldani si era alzato di malavoglia, facendo lo slalom tra i cartoni semivuoti e le pile di roba sul pavimento della camera. Al centro troneggiava un materasso. Niente letto. Si era lavato e vestito in fretta, mettendosi gli stessi indumenti che la sera prima aveva appoggiato su una sedia, una delle poche sopravvissute nell'intero appartamento. Aspettando che salisse il caffè, appoggiato a uno stipite, scrutò il soggiorno ingombro di cose. Anche lì, cartoni semivuoti di varie dimensioni.
Quelli dei traslochi sarebbero passati mercoledì 2 maggio alle otto di mattina. Era lunedì 30 aprile. Gli restavano due giorni soltanto per finire di sistemare la roba negli scatoloni e concludere quel trasloco che si trascinava ormai da più di due mesi. L'idea era di approfittare del ponte del Primo maggio per chiudere la questione. Quel morto proprio non ci voleva. Rischiava di mandare tutto all'aria. Ci sarebbero voluti giorni, poi, prima di ottenere un altro appuntamento dai traslocatori, sempre super impegnati, come se la gente non avesse altro da fare che cambiare casa.
Una cosa era certa, anzi, certissima: Anna se lo sarebbe mangiato vivo...
Scansò il pensiero andando in cucina a versarsi il caffè. Con la tazzina che tintinnava, salì la scala di legno che portava al sottotetto e da lì, attraverso un angusto abbaino, uscì sull'altana. Scomodo. Anna, infatti, per evitare incidenti, usava una grande tazza cilindrica, ma Aldani non sarebbe mai riuscito a bere il caffè in una scuela da caffellatte.
Fu investito dal profumo intenso del glicine nel pieno della fioritura. Il fusto saliva dalla corte tre piani più in basso e si attorcigliava come soltanto il glicine sa fare attorno ai sostegni che qualche lungimirante, molti anni prima, aveva fissato alla pedana creando un rozzo pergolato.
A Venezia, l'altana era una semplice piattaforma di legno adagiata sui tetti, uno spicchio di superficie rubata alle penombre umide delle calli ed esposta al vento e al sole senza ostacoli o impedimenti. Quella di Aldani era affollata di piante aromatiche: rosmarino, salvia, timo, lavanda, origano, maggiorana... la passione di Anna, anche perché richiedevano poca cura.
Sedette su una delle due sedie a sorseggiare il caffè, lasciando che lo sguardo spaziasse sopra i tetti di Venezia, ancora lucidi per l'umidità notturna. Da due settimane la città era assediata da un'afa innaturale con temperature africane. Anche maggio stava per iniziare all'insegna del caldo torrido.
Il brontolio del motoscafo di servizio nel rio sottostante gli ricordò perché fosse sveglio così presto. Posò la tazzina sul vecchio tavolo di vimini. Prima di andarsene lanciò un'ultima occhiata. Nel nuovo appartamento di Mestre, più grande, c'era un balcone, ma l'altana era tutta un'altra cosa.
Guardò l'orologio, le sei e venti. Troppo presto, Anna l'avrebbe avvertita più tardi. Rientrò in casa, infilò la giacca e uscì con l'intenzione di sbrigare quanto prima quella faccenda del morto. Con un po' di fortuna, magari...
Imboccò di volata le strette scale facendo attenzione ai gradini irregolari. Quando giunse al secondo piano, una porta si spalancò.
«Bongiorno, sior Nicola.» Era Rosetta, la vecchia del piano di sotto. Dall'età indefinibile, certo non aveva meno di settant'anni, un cespo di fili argentati al posto dei capelli, viveva sola, circondata dai suoi gatti, da quando era morto il marito, parecchi anni prima.
«Buongiorno, signora Rosetta.»
«Xe sucesso na roba grave?»
«No, non si preoccupi.»
«Però, xe strano che lei esca così presto.»
«Turni, signora. Una seccatura.»
«Però, di solito non vengono a prenderla a casa.»
«A volte capita, signora. Mi scusi, ma devo scappare...»
«Certo, certo. E el me diga, Nicola, come va con il trasloco?»
«Siamo a buon punto, signora Rosetta.»
«El ga dito cussì anca la settimana scorsa, e quella prima.»
«Ha ragione, signora Rosetta, però ora devo proprio andare. Arrivederci...» disse Aldani, scendendo tre scalini per volta.
«Me racomando, Nicola...»
L'eco lo inseguì finché, sollevato, si richiuse alle spalle il portone e uscì nel campo. Trovò il motoscafo ad attenderlo nel vicino canale. Il motore al minimo rombava sommesso, facendo gorgogliare l'acqua sporca, e i vapori di scarico si condensavano nell'aria ancora fresca. Dalla telefonata era passata meno di mezz'ora.
«Buongiorno, dotto'» la voce allegra e squillante dell'agente Vitiello in piedi sulla riva, la mano che correva rapida alla visiera, echeggiò nel campiello. A quell'ora non c'era anima viva. «Alzataccia, eh?»
Aldani annuì, grugnendo qualcosa.
«Come dice, dotto'?» La marcata cadenza laziale di Vitiello (non romanesca, ma laziale, come sottolineava sempre), inestinguibile nonostante la decennale immersione nell'avvolgente favella lagunare, in quel luogo suonava irreale.
«Ancora in circolazione, il vecchio Toni?» ripeté Aldani indicando l'imbarcazione che dondolava piano nell'acqua. Era una vecchia lancia con ampia cabina posteriore e posto di guida esterno, piena di colate rugginose e larghe striature scure orizzontali che risaltavano sulla verniciatura bianca ormai rovinata dalla salsedine. «La sezione Mare non aveva niente di meglio da darci?»
Vitiello alzò le spalle con eloquenza. «Sa com'è, dotto', approfittano di queste giornate tranquille per dare una ripassata alle barche.»
«Tranquille?»
«Già, 'sta cosa del morto... Comunque, dotto', non si preoccupi, guardi che il Toni lo conosco bene: è bruttarello, ma, quando c'è da darci dentro, fa la sua figura.»
«Va bene, Vitiello, andiamo», tagliò corto Aldani salendo a bordo.
«Ma non era in ferie, dotto'? Come mai hanno chiamato lei?» chiese l'agente salendo a sua volta.
«Grandesi in questo momento è su qualche spiaggia caraibica, e Vallone ha dovuto andare al capezzale del padre in ospedale. Io mi sono preso qualche giorno, ma ero reperibile. Ti basta come spiegazione?»
«Passiamo prima in Questura, dotto'?» glissò l'agente piazzandosi davanti al timone.
«No, togliamoci questo peso. Vai.»
Vitiello non si fece pregare, sfiorò la manetta e, una volta staccata la barca dalla riva, la spinse a fondo. Il motore ruggì e il grosso motoscafo si impennò, mentre la chiglia tagliava in due le acque del canale.
«Vitiello!» urlò Aldani, dopo la seconda virata a fil di riva.
«Sì, dotto'?» disse l'agente voltandosi.
«Ti spiacerebbe rallentare? Fallo almeno per il mio stomaco.»
«Certo, dotto'.»
«E guarda avanti, cazzo!»
«Agli ordini, dotto'!»
La violenta decelerazione fece barcollare Aldani che dovette appoggiarsi al parabrezza. Una volta ripreso l'equilibrio, fulminò Vitiello che sembrò non cogliere.
Aldani abitava nel sestiere di Cannaregio dalle parti del Ghetto Novissimo, così, in due minuti, superarono i confini settentrionali della città sbucando in aperta laguna. Il motoscafo virò a sinistra, imboccando a velocità ridotta il canale delle fondamente Nove. Dietro di sé una scia giallastra in cui mulinavano nugoli di alghe verdi e marroni. Aldani si godeva l'aria fresca che gli scompigliava i capelli, con le mani infilate nelle tasche della giacca.
«Vitiello?» sussurrò a un certo punto.
«Sì, dotto'?» rispose l'agente, stavolta senza voltarsi.
«Pensi che arriveremo per l'ora di pranzo?»
Vitiello ci pensò su un momento elaborando la risposta. «Mi aveva detto di rallentare...»
«Siamo in laguna, Vitiello.»
«Agli ordini, dotto'!»
Fu soltanto grazie al maniglione che Aldani non finì lungo disteso.
Il morto era stato ritrovato a ovest della città. Seguirono il canale principale accompagnati dallo stridio dei gabbiani e dal gracchiare schizoide della radio di bordo. Poi la barca imboccò il canale delle Sacche, che costeggia la parte nord-ovest della città curvando verso sud. Fino a pochi anni prima era zona di cantieri e rimessaggi. Adesso qualche carcassa arrugginita di vecchi vaporetti in disarmo si ammucchiava lungo le rive e i terrapieni, con gli antichi schemi di verniciatura che resistevano caparbi alla corrosione.
Quando furono a un centinaio di metri dal ponte della Libertà, Vitiello virò a destra, sfiorò un paio di bricole incrostate e imboccò il canale di San Secondo, che fiancheggia il ponte fino a San Giuliano, sulla terraferma di Mestre.
L'umidità ristagnava nell'aria, e alcune zone della laguna erano nascoste dalla foschia. A più riprese la sirena di una nave risuonò cupa in lontananza. Era una nave grossa, di certo una petroliera, valutò Aldani, di quelle che ogni giorno solcavano il canale dei Petroli, la lunga via d'acqua che da porto Marghera incide nel profondo la laguna fino al porto di Malamocco, verso il mare aperto.
All'altezza dell'isolotto di San Secondo, un vecchio fortino dove la vegetazione stava avendo la meglio sulle rovine dell'avamposto che un tempo custodiva temibili cannoni, imboccarono un canale secondario allontanandosi dal ponte. Qui Vitiello fu costretto a rallentare fin quasi ad arrestare la barca per non rischiare di incagliarsi. Altri cento metri e furono sul luogo del ritrovamento. Tre imbarcazioni dondolavano alla debole corrente del canale, a debita distanza dalle secche della barena: una volante lagunare, un motoscafo di servizio e un'idroambulanza.
Due poliziotti e due operatori del 118 stazionavano nei pressi di un ghebo poco distante. Dietro di loro qualcosa sporgeva dall'acqua. Altri due agenti perlustravano i dintorni in cerca di reperti utili. Tutti indossavano stivaloni d'ordinanza.
«Che aspettate a toglierlo di lì? Che la marea se lo porti via?» urlò Aldani seccato.
Uno dei poliziotti si staccò dal gruppo e si avvicinò affannandosi nella melma. Era l'ispettore capo Zurlini. «Buongiorno, dottore. Pensavamo dovesse vederlo il magistrato di turno...»
«Sì, e gli prestiamo pure la muta anfibia, al magistrato. Forza, Zurlini, fallo caricare sull'ambulanza e, appena arriva il medico legale, fallo portare in cella mortuaria.» Aldani estrasse il telefono. Poi ci ripensò. «Zurlini! Metti qualcosa per segnare la posizione esatta del cadavere!»
Zurlini allargò le braccia con sguardo interrogativo.
«Non so, prendi un rampino da un motoscafo!»
Aldani riprese il telefono, ma esitò. «Zurlini! Sei capace di prendere la posizione GPS col tuo cellulare?»
«Sì, dottore!»
«E bravo Zurlini. Vada per quello.» Aldani, infine, chiamò la Questura, compiaciuto di quella geniale idea.
«Manin, chi è il magistrato di turno?»
«Un momento, dottore. Ecco: Canziani Ernesto.»
«Allora, avvertilo che è inutile che venga qui.»
«Qui dove, dottore?»
«In mezzo al fango.»
«Ah.»
«E digli che, se vuole, può andare direttamente all'obitorio.» Chiuse la comunicazione. «Zurlini!» gridò di nuovo.
«Sì, dottore?» L'ispettore si era allontanato soltanto di pochi passi.
«Aveva documenti addosso?»
«Sì.»
«Fa' un po' vedere.»
Zurlini tornò indietro. Quando fu a distanza di tiro, lanciò una busta di plastica che Aldani afferrò al volo. Estrasse un elegante portafogli di pelle nera da cui sfilò con cautela una patente fradicia, di quelle vecchio stile in cartoncino telato rosa.
«Albrizzi Mirco», lesse a voce alta. «Quell'Albrizzi?» chiese a Zurlini, che allargò le braccia. «Chi ha scoperto il cadavere?» chiese ancora, rimettendo a posto documento e portafogli.
«Un certo Casarin con due suoi amici.»
«E dove sono?»
«Laggiù», e indicò tre uomini con la schiena piegata che poco lontano rimestavano nella fanghiglia con un ferro. Dietro di loro, a qualche decina di metri, un barchino dondolava nella debole corrente. «Stanno raccogliendo cape longhe.»
«Lo vedo cosa stanno facendo. Falli smettere. Tra mezz'ora li voglio in Questura per la verbalizzazione.»
Aldani, che non era mai sceso dal motoscafo, si girò verso Vitiello e gli fece cenno di andare, ma poi si voltò di scatto. «Zurlini!»
«Sì, dottore?»
«Digli anche che la prossima volta li sbatto dentro!»
Zurlini allargò di nuovo le braccia con sguardo interrogativo.
«La raccolta delle cape longhe è vietata, dovresti saperlo. Andiamo, Vitiello.»
Il motoscafo cominciò a muoversi.
«Zurlini!» gridò di nuovo Aldani.
«Sì, dottore?»
«E piantala di fare così!» disse, allargando le braccia.
«Quanti anni aveva?» domandò l'uomo dai capelli grigi che gli sedeva di fronte. Stava tentando di allineare sulla scrivania di Aldani l'ultima foto del cadavere che in quel momento giaceva in attesa dell'autopsia sul tavolo dell'obitorio. L'operazione di allineamento gli riusciva difficile per via dello strato ineguale di carte che ricopriva la scrivania.
«Cinquantuno», rispose cupo Aldani, scompigliando sovrappensiero le foto. Aveva la sua stessa età.
«Brutta fine», commentò l'uomo, ricominciando ad allinearle con metodo.
«Già.»
Lo sguardo del commissario vagava distratto sulle foto che tappezzavano la scrivania. Il suo ufficio, al secondo piano della Questura di Venezia, era essenziale: un grande tavolo perennemente ingombro di carte che dava le spalle alla finestra, due sedie un po' scomode, scaffali e armadi sulle altre pareti.
Dai vetri socchiusi l'aria ormai calda invadeva con prepotenza la stanza portandosi dietro gli odori della laguna. Non aveva ancora acceso il condizionatore, lo faceva soltanto quando non ne poteva più. Il clacson infuriato di un autobus soverchiò il brusio del traffico sul ponte della Libertà.
La sede di Santa Chiara, operativa da una quindicina di anni, non si trovava proprio in centro storico, ma occupava l'omonimo ex monastero, un grande stabile di forma quadrata con un ampio cortile interno, incastrato fra il tratto finale del ponte lagunare verso piazzale Roma, il rio della Scomenzera che si allunga verso il porto e l'ultima parte del Canal Grande, quasi di fronte alla stazione ferroviaria, che sfocia in laguna.
Quella sede aveva il vantaggio del doppio ingresso, lato terra e lato mare, estrema sintesi della natura veneziana, ma Aldani preferiva di gran lunga il suo vecchio ufficio a palazzo Ziani, nel sestiere di Castello, sede del commissariato di San Marco. Quando era passato alla Squadra mobile, terza sezione, Omicidi, reati sessuali e reati contro la persona, era stato costretto a trasferirsi a Santa Chiara. Aveva cercato di evitarlo in ogni modo, ma alla fine aveva dovuto cedere.
A Santa Chiara prevaleva il trambusto del traffico automobilistico e lo stridore dei treni che frenavano in stazione accompagnati dai queruli annunci degli altoparlanti. Ogni tanto il rombo di un motoscafo o di un vaporetto sul Canal Grande o del motore imballato di una volante lagunare che rientrava dal servizio di pattuglia per ormeggiare all'imbarcadero. Troppo poco per sentirsi a Venezia.
«Che ne pensi?» chiese Aldani al suo interlocutore.
«Be', la ricognizione cadaverica inizierà tra poco, e poi il corpo è rimasto in acqua per giorni... Ci vorrà tempo per un referto completo.»
«Luigi...»
«Be', la causa del decesso sembrerebbe un colpo d'arma da fuoco in bocca che gli ha trapassato il cervello. Il proiettile, quasi di sicuro un piccolo calibro, è uscito dall'osso parietale.»
«Suicidio?»
«Probabile. La traiettoria del colpo va dal basso verso l'alto, direi che è compatibile con un suicidio.»
«Quando?»
«Arduo. Per ora azzarderei una settimana, dieci giorni.»
«Non puoi essere più preciso?»
«Mi dispiace, per questo dovrai attendere il referto.»
Aldani fissò un punto imprecisato della parete. Luigi Borsato, medico legale di lungo corso, era persona che non amava fare ipotesi campate in aria. Difficile tirargli fuori altro.
«Allora, oggi è lunedì 30 aprile, per cui l'uomo potrebbe essere morto tra venerdì 20 e lunedì 23 aprile. Dico bene?» disse Aldani.
«Aggiungi un paio di giorni, per sicurezza.»
«Bell'affare», mormorò deluso, rimettendosi a fissare le foto.
«Nicola, se non c'è altro, io...»
«Sì, scusa. E grazie. Chiama, quando hai novità», concluse senza alzare lo sguardo. Non si accorse nemmeno quando la porta si richiuse.
Aldani sfogliava distratto alcune carte. Il cellulare languiva in un angolo. Non si decideva a chiamare Anna per avvertirla del contrattempo. Più passavano le ore e più si rendeva conto che non sarebbe riuscito a rispettare l'impegno. Avrebbe dovuto avvertire i traslocatori. Chissà se lavoravano anche durante il ponte del Primo maggio. Magari poteva lasciare un messaggio in segreteria.
La porta si spalancò, e l'ispettore Manin entrò come una folata di vento liberatoria. «Eccomi, dottore.»
Aldani sollevò la testa dalle carte.
«Scusi il ritardo, ma ho voluto raccogliere qualche informazione su Albrizzi.»
«Andiamo, la Scientifica sarà lì già da un pezzo!» disse Aldani, alzandosi. Ma la curiosità ebbe la meglio, e non si mosse. «Allora, che mi dici di lui?»
Manin estrasse dalla giacca un piccolo tablet. Inutile dire che si trattava di uno strumento fuori ordinanza. Il Ministero era tanto se passava il cellulare di servizio e un notes vecchia scuola, figurarsi un gadget tecnologico come quello. Aldani, si destreggiava, alla bisogna, ma non amava quegli oggetti.
«Dunque», attaccò Manin, «il morto abitava dalle parti di Cannaregio. Era sposato da una decina d'anni con una certa Vania Corò...»
Pausa.
«Allora?» lo sollecitò Aldani.
«Le dice niente questo nome, dottore?»
«No. Dovrebbe?»
«Be', sì.»
«Vai avanti. Illuminami.»
«Vania Corò. Magazzini Corò.»
«Ah!»
L'ispettore fece una faccia risentita.
«Continua, Manin.»
«Dunque, Vania Corò: stiamo cercando di rintracciarla per il riconoscimento, ma questo ponte festivo non aiuta. Niente figli, erano separati da due anni. Pare che Albrizzi non avesse relazioni fisse, ma questo è più un pettegolezzo. Dottore, immagino avrà letto anche lei le cronache rosa sul Gazzettino.»
«Cronache rosa?»
«Sì, i continui flirt con attrici, miss e starlette varie. Era di pubblico dominio. Il buon Albrizzi godeva di una certa fama di “tomberdefam”.»
Aldani si sforzò di comprendere quell'ultima cosa detta dall'ispettore. Poi si illuminò. «Ah, ho capito! Però, Manin, il tuo francese fa proprio schifo!»
«Autodidatta.»
«Che lavoro faceva di preciso Albrizzi?»
«Si occupava di finanza, soprattutto.»
«Questo lo sapevo anch'io.»
«Possedeva una holding nella quale aveva fatto confluire tutte le sue attività: speculazioni di borsa, compravendite di titoli, gestione portafogli, partecipazioni societarie... roba del genere insomma.»
«E gli rendeva?»
«Sembra proprio di sì. O almeno non ho trovato notizie che affermassero il contrario.»
«Se se la passava così bene, allora perché si è suicidato?»
«Non ha tutti i torti. Ah, dottore, un'altra cosa: Mirco Albrizzi era nipote del senatore Nereo Albrizzi, ex DC, ex PPI, ex CCD, ex CDU, ex UDC e ora confluito nel gruppo misto. Uno molto ammanicato, come si suol dire.»
«Di quello lì ho già sentito parlare.»
Il telefono sulla scrivania trillò. Aldani esitò, poi si risolse a rispondere: «Sì?»
«Aldani, sono De Girolami.»
«Buongiorno, signor questore, mi dica.»
«Come stanno andando le indagini sul caso Albrizzi?»
«Indagini, signore?»
«Sì, sì, le indagini. Avete individuato le cause della morte?»
«Be', il corpo è stato ripescato poche ore fa... Ho appena parlato con il medico legale, che non si è sbottonato molto, deve ancora fare l'autopsia...»
«Le cause, Aldani, le cause!»
«Il dottor Borsato pensa potrebbe trattarsi di suicidio, ma è troppo presto per...»
«Ecco, suicidio. Che fatto increscioso! Una grave perdita per la città. Riferirò al senatore Albrizzi. Mi ha chiamato un'altra volta, poco fa, per avere notizie. Purtroppo non potrà essere a Venezia prima di mercoledì.»
«Non è a Roma?»
«È all'estero per motivi personali.»
«Capisco.»
«Ascolti bene, Aldani, non credo sia necessario che le spieghi la delicatezza di questa vicenda. Mirco Albrizzi era una figura notabile di questa città. Porti a termine le sue indagini con la rapidità e l'efficienza che la contraddistinguono, ma agisca con discrezione. Sì, molta discrezione. Non voglio che si diffondano voci incontrollate sul caso.»
Quella stima improvvisa da parte del questore era sospetta. Aldani subodorò una fregatura. E poi, il «caso» Albrizzi? Non aveva nemmeno cominciato a indagare che già c'era un caso? Aldani optò per un profilo basso, quello meno rischioso: «Capisco, signore».
«Bene, Aldani, molto bene. Mi tenga aggiornato costantemente sugli sviluppi del caso. Alle diciassette e trenta c'è la conferenza stampa e...»
«C'è un problema, però», lo interruppe, non senza una punta di piacere.
«Problema? Quale problema?»
«Siamo in pieno ponte del Primo maggio: rintracciare i possibili testimoni sarà molto difficile. Poi, col personale sotto organico che ci ritroviamo e le ferie, ecco... ho paura che i tempi si dilateranno un po'.»
«Aldani, non voglio sentire ragioni. Usi tutti i mezzi che riterrà opportuno, richiami il personale dalle ferie, se necessario. Le do carta bianca, ma mi tolga le castagne dal fuoco!»
Ecco, pensò Aldani, l'ha detto. Comunque, avere carta bianca dal questore non era cosa da poco. «Tutti i mezzi?» rincarò.
«Tutti. Ora la devo salutare. Ci risentiamo più tardi, Aldani. E buon lavoro.»
«Grazie, signor questore.»
«Ah, Aldani...»
«Sì?»
«Cerchi di essere puntuale.»
«Prego, signore?»
«Alla conferenza stampa. Cosa immaginava? Che ci andassi da solo?»
Aldani restò in silenzio per qualche istante, poi ripose la cornetta sbuffando. Guardò Manin che se ne stava in piedi senza dire nulla. «È la terza stamane. Anche se non è a Roma, quello stronzo di senatore sta facendo il diavolo a quattro per la morte del nipote. Prevedo grosse seccature.» Pausa. «Con ogni mezzo ha detto il questore. Carta bianca...»
«Che si fa, dottore? Andiamo a casa del morto?»
«Aspetta. Vado io, tu raggiungimi dopo. Prima scopri chi è il commercialista di Albrizzi. O chi ci può dare informazioni sulla sua situazione finanziaria. Se è vero che si è ammazzato, allora o è impazzito o non doveva passarsela troppo bene come sembrava.»
Manin annuì.
«E continua a cercare quella Corò, la moglie.»
«Ex moglie, dottore.»
«Sì, sì, ex. Voglio parlarci al più presto.»
«E il senatore? Cerchiamo anche lui?»
«Non serve. Quello, vedrai, arriverà da solo. Il difficile sarà toglierselo di torno. Piuttosto...»
«Sì, dottore?»
«Scopri dov'è il suo ufficio.»
«Del commercialista?»
«Del morto! Hai detto che ha una holding?»
«Sì. Si chiama...» Manin consultò il tablet. «Polifilo Holding Srl.»
«Ecco, avrà pure una sede, questa Polifilo. Tocca farci una visita, subito.»
«Sì, dottore.»
«E poi bisogna scavare un po' nella vita privata di Albrizzi. Vedi chi fosse la sua fiamma del momento.»
«Giusto. Magari l'ha mollato, e lui si è ucciso per la disperazione.»
«Manin, era una battuta, vero?»
«Veramente, no.»
Aldani scosse la testa.
«È tutto, dottore?»
«Non ti basta?»
«Appunto, mi ci vorrà un po' di tempo.»
«Lo so, ma noi sai che facciamo, Manin? Il questore ha detto “con ogni mezzo”. E sia: tu adesso ti prendi tutti gli uomini che ti servono. Comincia con Zurlini, che già sta lavorando al caso da stamane all'alba.» Ecco, aveva usato quella parola: «caso» Albrizzi...
Manin stava per ribattere, ma Aldani lo fermò con la mano. «Lo so, Grandesi e Vallone non ci sono, e domani è il Primo maggio. Chiama San Marco, senti chi c'è e vedi di farti dare una mano. Senti anche la Digos. Ordini del questore. E, se qualcuno rompe le palle, mi fai telefonare. Tutto chiaro, Manin?»
«Chiarissimo, dottore.»
«Bene, ora datti una mossa, organizza il lavoro e poi raggiungimi a casa del morto.»
«Agli ordini, dottore!» disse Manin calcando la voce.
«Che fai, sfotti?»
«Non mi permetterei mai!»
«Sarà meglio che vada», concluse Aldani uscendo dal suo ufficio.
Qualche minuto dopo, era sul pontile dell'imbarcadero pronto a salire sul motoscafo che lo attendeva.
«Dove andiamo, dotto'?» chiese allegro Vitiello.
Aldani necessitava di un caffè come Dio comanda. Uno dei problemi di Santa Chiara era proprio quello: il caffè del distributore automatico faceva schifo, e quello del bar interno, dal prezzo «politico», non era da meno. E il fatto che il gestore cambiasse quasi ogni anno certo non aiutava.
«Da Bepi.»
«Certo, dotto'!»
«Commissario», lo accolse l'uomo dietro il bancone sollevando una mano in un cenno di saluto, l'altra era impegnata a strofinare il ripiano con uno straccio bisunto per togliere i cerchi dei bicchieri e lo zucchero sparso da clienti maldestri.
«Ciao, Bepi. Un caffè, che ne ho bisogno.»
«Quel casin de Albrizzi, eh?» disse Bepi ammiccando.
«Già. E tu come lo sai?»
Bepi allargò le braccia. «Come xe che la va col trasloco, dotor?»
Aldani scosse la testa. Bepi non insistette.
Il bar di Bepi era un avamposto di venezianità in una città svenduta al turismo. Una tale bettola che a un turista bastava affacciarsi alla porta e annusare il tanfo di vino e di fumo per farsi passare la voglia di entrare. Un locale ruspante, come ne erano rimasti pochi a Venezia, passato indenne attraverso decenni di assalti all'arma bianca da parte di orde di turisti. Dall'ufficio non erano due passi, ma Aldani ci andava comunque ogni volta che si stancava dell'orrido caffè della Questura.
I soliti sfaccendati giocavano a tressette in un angolo della sala, quasi sbiaditi nel fumo che si alzava dalle dita ingiallite e dai portacenere stracolmi. Da quelle parti il divieto di fumo era un concetto assai vago. Le carte schiaffeggiavano il tavolo e i mozziconi di frasi in dialetto che giungevano fino ad Aldani risultavano quasi incomprensibili. Le ombre di vino servite con regolarità facevano la loro parte.
Il bancone in acciaio era opaco da tanto era consumato. Dietro, sulle mensole della parete a specchio, si allineavano le bottiglie dei liquori più improbabili, buoni forse soltanto a correggere i caffè. I tavoli e le sedie erano in metallo e fòrmica gialla tanto di moda cinquant'anni prima. Uniche concessioni alla modernizzazione la macchinetta del Totocalcio e quella del Superenalotto.
Forse era il momento giusto per telefonare ad Anna. Estrasse il cellulare dalla tasca. Esitò a lungo. Infine, decise che poteva anche chiamare dopo. Compose invece il numero di Manin. Occupato.
Bevve un sorso di caffè. Riprovò. Occupato.
Un altro sorso. Riprovò.
«Sì, dottore?»
«Non mi hai detto dove cazzo abitava il morto!»
Mirco Albrizzi dimorava in un palazzo nobiliare che si affacciava sul Canal Grande, non molto distante dalla stazione e vicino alla chiesa di San Geremia, sestiere di Cannaregio.
Il motoscafo giunse sul posto solcando veloce il trafficatissimo Canalasso, come i veneziani chiamano con affetto il Canal Grande, una delle tre grandi vie d'acqua del centro storico che godono dell'appellativo di «canale», insieme a quelli di Cannaregio e della Giudecca.
Vitiello, nella foga, superò, e di molto, la meta. Quando Aldani glielo fece notare, l'agente invertì la manetta e decelerò di colpo, col motore imballato del Toni che lanciava stridii preoccupanti, lasciandosi dietro mulinelli d'acqua dai colori cangianti, dall'ocra fango al verdaccio alga. Per effettuare l'azzardata manovra tagliò la strada al vaporetto dell'ACTV stracarico di turisti, che si stava dirigendo verso il pontile di San Marcuola solcando il canale appena sopra la linea di galleggiamento. La sirena del vaporetto lacerò l'aria tre volte in rapida sequenza, unico modo per il pilota di manifestare disapprovazione. Nella sua angusta cabina rialzata al centro del vaporetto in quel momento stava di certo ripassando il suo personale repertorio di bestemmie, ma anche i rari passeggeri autoctoni non erano da meno e si distinguevano dalla massa multicolore dei foresti per il gesticolare scomposto diretto alla lancia della Polizia. Sul frastuono delle imprecazioni, dei motori diesel fuori giri e dello sciabordio delle acque, si stagliò la voce baritonale del marinaio addetto alla passerella, che stazionava accanto alla ringhiera mobile, pronto a farla scorrere dopo l'attracco. Fu con l'intonazione di una romanza d'opera lirica che lanciò quel suo: «Ma va in mona de to mare!» imprecazione tanto offensiva nel significato letterale quanto colloquialmente innocua. A Venezia, quasi interiettiva.
Aldani, però, un poco si vergognò.
«Mi scusi, dotto'», sussurrò Vitiello senza voltarsi.
«Almeno potevi mettere la sirena!»
«Ha ragione, dotto'.»
Il motoscafo accostò al palazzo, dove non c'erano pontili. In passato il portale d'acqua costituiva l'ingresso principale delle dimore veneziane, ora era quasi ovunque in disuso, e l'assenza di paline e pontili non lasciava dubbi sull'impossibilità di accedere all'androne via canale. Il portale era chiuso da un cancello rugginoso che difendeva un portone di legno sfasciato nella parte inferiore. L'acqua dell'alta marea aveva marcito le assi lasciando squarci che sembravano fatti apposta per le pantegane. Il bugnato in pietra d'Istria era segnato da fasce scure di diverse sfumature, che indicavano i differenti livelli raggiunti dall'alta marea, mentre nella parte più bassa dimoravano alghe sfilacciate di un verde intenso.
Palazzo Albrizzi era un'austera costruzione secentesca della scuola del Longhena, dalla tipica struttura della «casa magazzino», il fontego, a quattro o cinque livelli, cristallizzatasi nei secoli: ampio androne con ingresso d'acqua sul canale principale; ingresso di terra che dava sul cortile interno e vani laterali adibiti a magazzino; mezzanino, spesso usato per gli uffici; quindi due piani nobili (di solito era uno), asciutti e ventilati, che si sviluppavano attorno al portego centrale; infine, secondo mezzanino, quasi un sottotetto, usato per ospitare la servitù e, non a caso, gelido d'inverno e torrido d'estate. Il portego in realtà era un grande lussuoso salone, non avendo oramai più nulla del porticato aperto delle origini.
Sulla facciata si leggeva con facilità la struttura interna, ma c'era un problema: il palazzo mancava di tutta la parte sinistra, e il portale d'acqua risultava scentrato. Le prime colonne delle quadrifore dei piani nobili erano addirittura tagliate a metà. Forse il committente non era riuscito ad acquistare il terreno adiacente, e invano l'architetto aveva chiuso due finestre dei piani nobili per tentare di riequilibrare il prospetto frontale. La sensazione era di un'opera non finita.
Su tutto aleggiava l'incombente sfacelo della costruzione, che appariva trascurata, piena di crepe, di pietre spaccate, di ferri rugginosi, di imposte squinternate. Il velo nero del tempo ricopriva i marmi e le pietre pregiate. La decadenza era la cifra distintiva di palazzo Albrizzi.
«Vitiello, fammi scendere al ponte delle Guglie. Vado a piedi.»
Il pilota annuì. Manovrando con accortezza si infilò nell'adiacente canale di Cannaregio, come sempre trafficato di imbarcazioni d'ogni tipo che andavano e venivano dalla laguna aperta. Sulla sinistra, la facciata lato acqua della chiesa di San Geremia dominava la fondamenta su cui, poco più in là, incombeva la mole imponente di palazzo Labia, sede Rai. La fondamenta proseguiva poi fino al ponte delle Guglie.
La riva era affollata di mototopi da carico, anche in seconda fila, per cui era impossibile attraccare vicino al ponte. Vitiello allargò le braccia senza voltarsi.
«Accosta a quel barcone azzurro laggiù», disse Aldani.
Vitiello obbedì.
Aldani, con il motoscafo ancora in movimento, saltò sul mototopo sotto gli occhi attoniti dei due sudatissimi facchini che stavano scaricando cassette di frutta. Una bestemmia sembrava già stesse per uscir loro di bocca, quando parvero intuire che l'uomo appartenesse all'indefinita categoria sbirresca e non fecero parola.
Con un ultimo salto Aldani planò sui masegni. Si incamminò piano, voleva evitare che in quella torrida giornata gli si stampasse sulla camicia una bella chiazza di sudore. Dal ponte, che lasciò sulla destra, scorse poco distante una lancia di servizio della Polizia che dondolava al vivace moto ondoso del canale. Dovevano essere i colleghi della Scientifica.
Sbucò sotto il sole cocente che arroventava il selciato di campo San Geremia e fu tentato di fermarsi in uno dei tanti bar. Ma i locali per turisti lo irritavano alquanto, e rinunciò.
Il vasto spiazzo era dominato dalla chiesa e da una delle facciate di palazzo Labia. Si diresse verso l'ingresso di terra di palazzo Albrizzi, che si trovava defilato in una calle laterale, dove un ramo del campo si stringeva a imbuto e diventava campiello. Quando salutò l'agente, che stazionava davanti al portone aperto immerso nel refrigerio ombroso della calle, si rese conto che camminare piano non aveva prodotto i risultati sperati: era fradicio di sudore.
L'androne di palazzo Albrizzi offriva un'umida frescura che risollevò un poco Aldani dal fastidio che lo stava prendendo; mal sopportava il caldo, soprattutto se fuori stagione. Anche all'interno l'impressione di decadenza era palpabile. L'odore di muffa era più che accettabile. Valutò che il locale non fosse tra quelli sfortunati che nella cattiva stagione diventano preda dell'acqua alta, quel rigurgito di laguna che il mare aperto spinge fin dentro le abitazioni e i negozi e che, al ritirarsi, lascia un velo di fango maleodorante. La città era assuefatta all'acqua alta, ci conviveva da tanto tempo, e tra sirene, passerelle e periodici rialzi dei selciati i veneziani non ci facevano più caso.
Aldani percorse senza fretta le due rampe dell'ampio scalone, dai gradoni molto consumati al centro, che salivano languide al primo piano nobile. Le pareti erano decorate con sobrie cornici e rilievi floreali in stucco chiaro. Una scala di tutto rispetto, insomma.
Un giovane agente in tuta bianca ci dava dentro con polvere di argentoratum e pennelli sul tavolo al centro del grande salone. Aperta sul pavimento, una valigetta metallica con l'armamentario della Scientifica. Inondato di luce che filtrava dalle finestre affacciate sul Canal Grande, il salone era quasi privo di mobilia, escludendo appunto il tavolo e qualche malandata sedia appoggiata ai muri. Per Aldani risaliva tutto, senza distinzione, al Settecento, il massimo di precisione consentito dalle sue conoscenze antiquarie. Le pareti erano tutta una decorazione, uno stucco, uno specchio, un tripudio di colori pastello e di vetri. Anche il soffitto era decorato e ondeggiava sotto il sole riflesso in mille lame di luce dall'acqua del canale sempre agitata. E le centinaia di vetri colorati dell'enorme lampadario centrale, uscito da qualche antica manifattura di Murano, nonostante fosse soffocato dalla polvere, moltiplicavano l'effetto.
«Ciao, Rossato, come va?» esclamò Aldani amichevole.
«Buongiorno, dottore. Se vuol sapere se preferivo stare in ferie, allora potrebbe andare molto meglio. Se, invece, si riferisce alla scena del crimine, direi che siamo in alto mare.»
«Perché pensi che questa sia la scena di un crimine?»
«Perché lo ha detto il dottor Doria.»
«Ah. E chi c'è con te, oltre a Doria?»
«Manzano e l'ispettore Abbate.»
«E dove sono tutti?»
Rossato, che era di nuovo intento a spennellare, indicò il soffitto con il pollice della mano libera. Aldani ruminò un saluto e salì altre due rampe. Lì gli scalini erano meno consumati.
Il secondo piano nobile era la copia del sottostante, ma a differenza di quello, un semplice atrio, dimesso e poco invitante, questo era disseminato di tavoli, tavolini, sedie, poltrone, tappeti, specchiere dorate, abat-jour, e il lampadario centrale, gemello dell'altro, sembrava pulito di recente. C'erano anche uno stereo e un grande schermo piatto. Era evidente che Albrizzi lì ci viveva. E la mobilia antica, all'occhio profano di Aldani, sembrava di gran valore.
Un uomo corpulento stava parlando con un mingherlino dalla faccia intelligente.
«Ciao Doria. Abbate...»
«Oh, Aldani...» La voce di Doria era profonda.
«Buongiorno, dottore.» L'ispettore Abbate salutò con un cenno della testa.
In poche falcate Doria gli fu accanto porgendo la mano. Il pavimento del salone, un terrazzo veneziano a grana fine con prevalenza di ocra e rossi, ben conservato e privo di crepe, oscillò elasticamente. L'effetto era quello di un piccolo terremoto. Niente di strano, la flessibilità del terrazzo veneziano è proprio ciò che lo rende così longevo.
«Hanno beccato anche te?» chiese Doria, mentre continuava a scuotere con vigore la mano di Aldani.
Questi alzò le spalle. «Che mi dici? Rossato mi ha parlato di una scena del crimine...»
«Precauzione. L'Albrizzi è un... era un personaggio un po' troppo ingombrante. Mi sento sotto osservazione e non vorrei che, di qui a pochi giorni, qualcuno mi rompesse le palle.»
«In effetti, si stanno agitando molto per questa storia.»
«Appunto.»
«Se ha ragione Borsato, si tratta di suicidio.»
«Me lo auguro, così chiudiamo in fretta la questione e ce ne torniamo in ferie.»
«Parole sante. Ora, dimmi...»
Doria non si fece pregare: «Questo palazzo è un labirinto. Ci sono quattro piani, due saloni, diciotto tra stanze da letto e salottini, un paio di cucine e bagni ricavati un po' ovunque. Sembra, però, che alla fine la vittima vivesse tra questo salone, la camera da letto, con annesso bagno, lo studio e la cucina». Doria indicò le tre porte che si aprivano sul salone, a sinistra guardando verso il canale. Sul lato destro non c'erano vani, soltanto finestre, visto che il palazzo era monco. «Al piano di sopra ci sono molte stanze vuote, alcune sono usate dal personale di servizio.»
«Personale?»
«Due anziani, Antonio e Maria Gardin, marito e moglie, da decenni al servizio della famiglia. Lei fa da cameriera e ogni tanto anche da cuoca. Lui dà una mano alla moglie e fa qualche lavoretto, cercando di tenere in piedi il palazzo che cade a pezzi. Una specie di tuttofare.»
«Vivono qui?»
«No, abitano comunque vicino, in campo San Marcuola. Ogni tanto, si fermavano a dormire, soprattutto quando Albrizzi era fuori Venezia. Hanno una stanza di sopra.»
«Erano qui stamattina?»
«No, abbiamo forzato il portone d'ingresso.»
«Come li avete rintracciati?»
«Rubrica del telefono.»
«Ah, e dove sono adesso?»
«Di sopra, nella loro stanza. Ci puoi parlare, se vuoi. È la seconda a destra. Abbiamo già fatto i rilievi.»
«Grazie, Doria.»
«Ah, Aldani...»
«Sì?»
«Nel bagno di Albrizzi abbiamo trovato due flaconi di Noan. Vuoti.»
«Che roba è?»
«Uno psicofarmaco. Si usa contro l'ansia e l'insonnia.»
«Pensi abbia tentato di ammazzarsi con quello?»
«Non penso nulla, però è una cosa strana.»
«Già. Ora vado di sopra.»
«Aldani...»
«Che c'è?»
«Complimenti, ho saputo che hai vinto il concorso per commissario capo. Mi hanno detto che stavolta la commissione era tosta.»
«In effetti, mi son dovuto fare un bel mazzo...»
«Te lo ricordi, ai tempi del questore Santucci?»
«Già, ha rischiato di finire sui giornali, il buon dottor Santucci. C'è anche, però, chi in pochi anni è diventato primo dirigente...»
«Il nostro caro Schiavon.»
«Dai, però, come capo della Mobile non è male.»
«Un politicante che...»
«Ok, ok, vado di sopra.»
Le due rampe per l'ultimo piano erano strette e disadorne. D'altra parte al piano della servitù all'epoca non accedevano mai i nobili. Dunque, perché darsi troppa pena?
Un agente biancovestito stava fotografando qualcosa nel corridoio.
«Tu devi essere Manzano. Sono il commissario Aldani, della Mobile.»
«Buongiorno, dottore, la conosco di fama.»
«Fama? Va' là, Manzano. Come va quassù?»
«Sembra tutto in ordine. Molte stanze sono vuote. Altre sembrano dei depositi di mobili. Poi ci sono una cucina di servizio, la stanza dei domestici, un paio di disbrighi. Nulla fuori di posto che faccia pensare a quanto è successo.»
«Grazie, Manzano, continua pure», disse Aldani, dirigendosi verso una porta chiusa. Bussò piano ed entrò senza aspettare risposta.
Maria e Antonio Gardin sedevano in silenzio accanto a un piccolo tavolo vicino alla finestra. La stanza era linda e in ordine. Schizzarono in piedi all'unisono.
«Buongiorno. State pure comodi, signori, sono il commissario Aldani della Questura.»
I due vecchi rimasero in piedi.
«Sedete, prego», insistette, con garbo. Obbedirono infine.
«So che stanotte non avete dormito qui.»
«Eravamo a casa nostra, commissario.» Fu la donna a rompere il ghiaccio.
«E negli ultimi giorni?»
«El parón ci ha detto di non venire a palazzo. Dovevamo tornare dopo le feste, dopodomani.»
Aldani notò che la donna aveva fatto riferimento al «padrone», buffo retaggio d'altri tempi. «E quando ve l'ha detto?»
Maria sembrò fare un calcolo mentale. «Mi pare poco prima delle feste. Una settimana fa.»
«Venerdì 20 aprile. Sono dieci giorni», precisò il marito.
La moglie gli lanciò un'occhiata tagliente.
«E capitava spesso che il... che Mirco Albrizzi vi lasciasse liberi per così lungo tempo?»
«No, capitava durante le feste», rispose la donna.
«E quando che el voleva star da solo con qualche putanela!» aggiunse il marito.
«Toni!»
«Ma xe cussì, Maria!»
«E parla italian, che se no el comissario no el capisse!»
«Signora Gardin, nonostante il cognome foresto, sono veneziano da molte generazioni.»
«Davvero? Dall'accento non sembra.»
«Torniamo a noi. Cosa ha detto di preciso Albrizzi?»
«Che potevamo stare a casa e tornare il 2 maggio», disse il marito prendendo le redini del dialogo.
«Soltanto questo?»
«Sì, ma era chiaro che voleva stare da solo. Lo conosciamo da tanti anni, ormai, eravamo a servizio dei suoi genitori. Brava gente. Dei veri siori.»
«Perché, Mirco non era un “signore”?»
«Commissario, mio marito non ha detto questo!»
«Maria, lasciami parlare», disse Antonio con un gesto perentorio della mano. «Sì, el sior Giovanni, il padre, era proprio una persona per bene, un vero gentiluomo. E la povera signora Margaret... Ma Mirco era di tutt'altra pasta.»
«Si spieghi meglio.»
«Non aveva amore per questo palazzo, tanto per cominciare. Appartiene agli Albrizzi da secoli, ma a lui importava poco. Commissario, non ha visto in che condizioni è?»
«Forse non aveva i soldi per restaurarlo.»
Antonio grugnì. «Soldi. Ne aveva eccome, di soldi, ma per questa casa non ne trovava mai. E comunque si vede, quando uno è disamorato delle cose di famiglia.»
«Dunque, se ho capito bene, Mirco Albrizzi vi ha spedito in ferie per avere campo libero con una donna, scusate se semplifico, e questo succedeva spesso. Giusto?»
I coniugi annuirono. «Da quando si è separato, soprattutto», aggiunse l'uomo.
«Perché, accadeva anche prima?»
«Sì, è per quello che la moglie non ne voleva più sapere.»
«Ah, dunque, anche quest'ultima volta, secondo voi, aveva intenzione di trascorrere qualche giorno in compagnia di una donna. Giusto?»
«Sì, commissario.»
«E non avete idea di chi possa essere questa donna?»
«No», risposero in coro.
«Come mai?»
«Le incrociavamo di rado», spiegò Maria. «Di solito intuivo che erano passate per casa da quello che trovavo in giro. Mi capisce, commissario?» aggiunse con aria complice.
Aldani annuì pensoso. «Dunque, non aveva una relazione fissa?»
Stavolta i coniugi esitarono.
«Forse...» disse Antonio.
«Sì, forse», aggiunse Maria.
Aldani stava cominciando a spazientirsi. «Ma... insomma, avete detto che Mirco era un donnaiolo impenitente, ma anche che forse aveva una relazione fissa. Potreste spiegarvi?»
«Be', c'era quella moretta...» disse Maria rivolta al marito.
«Sì, una moretta che negli ultimi tempi incontravamo spesso.»
Aldani sospirò. Si era pentito di aver perso le staffe. «Una ragazza coi capelli scuri che frequentava la casa. Un po' pochino.»
«No, commissario, intendevo dire moretta nel senso che era nera», precisò l'uomo.
«Di colore?»
«Ecco.»
«E come si chiama?»
«Elen. Si chiama così. Mi ricordo perché ho una nipotina che si chiama Elena», disse Maria.
«Non credo che interessi al commissario.»
«E il cognome?»
«Non ricordo. È un cognome foresto, strano, insomma un cognome un fià da cabibi...» rispose il marito.
«Toni!»
«Non si preoccupi, signora, ho capito cosa intendeva suo marito. Avete idea di dove abiti?»
«No.»
«Va bene.» Aldani rimase in silenzio per qualche secondo. «Forse saprete che è molto probabile che Mirco Albrizzi si sia suicidato.»
«Già. Povero parón...» disse mesta Maria.
«Ripeto, è l'ipotesi più probabile. Voi che cosa ne pensate? Negli ultimi tempi lo avete trovato strano o depresso? Aveva problemi finanziari?»
«No, no, ghe lo go dito, commissario, i schei no ghe mancava certo», disse l'uomo.
«Era come sempre. Forse un po' pensieroso. Oddio, commissario, non è che ci facessimo delle gran chiacchierate col parón. È soltanto un'impressione», aggiunse la donna.
«D'accordo. Quando lo avete visto l'ultima volta? Quel venerdì?»
«Sì. Era appena andata via la signora Corò», disse lei.
«È stata qui?»
«Sì.»
«Come mai? Erano separati.»
«Boh, alle volte capitava qui. Commissario, erano ancora in affari insieme, e ogni tanto ne discutevano.»
«A che ora è arrivata?»
«Saranno state le cinque.»
«Di cosa hanno parlato?»
«Commissario, io ho servito il caffè e poi mi sono ritirata in cucina.»
«Maria, si sentiva fin di sotto che litigavano!»
La moglie fulminò il marito. «A ripensarci, dopo un po' hanno cominciato ad alzare la voce, ma io non origlio mica, commissario!»
«Certo, certo, ma, se urlavano, magari qualcosa avrà sentito. Senza volerlo, s'intende.»
«Be', sì, qualcosa... Mi pare parlassero di soldi. Oddio, discutevano sempre di soldi e di affari, e alzavano anche la voce. Ma stavolta...»
«Stavolta?»
«Stavolta era diverso, la signora sembrava proprio arrabbiata...»
«Incazzatissima, commissario», si intromise il marito.
«Ma se stavi trafficando nell'androne, cossa ti vol aver sentìo, ti!»
«Signora, lasci parlare suo marito.»
«Sì. Incassada nera, ecco!»
«E perché?»
«Ah, questo non lo so, commissario.»
«Signora Maria? Lei era più vicina, no?»
Maria fece spallucce. «Ce l'aveva col parón per qualcosa che aveva detto, e lei ha reagito urlando che non gli faceva paura. Ecco.»
«Tutto qui?»
«Sì. Ho sistemato la cucina e poi sono salita di sopra. Dopo poco, la signora se n'è andata. El parón ne ga ciamà e ne ga dito che potevamo prenderci un po' di giorni e tornare dopo il ponte.»
«Commissario, non era un invito. Era un ordine. Capisce, no?» aggiunse Toni ammiccando.
«Sì, Antonio, capisco», sussurrò Aldani sfinito. Una goccia di sudore gli colò lungo la tempia. «Va bene, è già qualcosa. Direi che per ora abbiamo finito. Più tardi vi farò accompagnare in Questura per la verbalizzazione. Nel frattempo, se vi ricordate qualche altro particolare, io mi trattengo ancora per un po'.»
Squillò il cellulare. Aldani salutò e uscì dalla stanza. «Sì?»
«Allora», esordì Manin senza tanti preamboli, «il commercialista del morto era un certo Bassan Amedeo, studio in campo San Bartolomeo 2984. Ho mandato subito Zurlini sul posto a controllare.»
«Bene.»
«Pensi che l'ho saputo da...»
«Non importa, Manin. Cosa mi dici della moglie?»
«L'ex moglie», precisò Manin, «abita in campo San Polo. Ho mandato un agente a parlare con la domestica.»
«Bene. Poi?»
«La Polifilo Holding ha sede vicino a San Marco, in campo San Moisè. Al telefono non risponde nessuno. Che facciamo?»
«Per entrare ci vorrebbe un decreto del piemme.»
«Ci vorrà tempo.»
«Già. Sentirò Canziani.»
«Una cosa interessante, dottore: ho fatto due chiacchiere col mio amico Bustelli. Ha presente?»
«No, non ho presente.»
«Seconda sezione, Prostituzione e criminalità diffusa extracomunitaria.»
«Allora?»
«Mi ha raccontato che una volta, sarà stato a novembre, hanno pizzicato Albrizzi in un appartamento di Rialto durante una normale attività di prevenzione e contrasto della prostituzione. Era in compagnia, diciamo intima, di una escort, roba d'alta classe, dottore.»
«Una volta si diceva d'alto bordo. Puttana d'alto bordo, per la precisione.»
«Altri tempi.»
«Già... Dicevi di Albrizzi. È stato fermato?»
«No, no. In realtà, non stava facendo nulla di illegale. Lo hanno lasciato subito andare. Bustelli, però, se lo ricorda benissimo. Secondo lui era di casa, in quel posto. Dottore, a Bustelli gli ho chiesto di darci una mano, credo sia il collega giusto per scoprire qualcosa sulla vita privata di Albrizzi.»
«Bravo, Manin, ottima idea.»
«Grazie, dottore. Ora che faccio? Vengo lì?»
«Sì, e alla svelta... Aspetta!»
«Sì, dottore?»
«Abbiamo una traccia. Forse il morto aveva una relazione con una donna. Conosciamo soltanto il nome, Elen, e che è di colore. Dillo a Bustelli.»
«Bene, dottore. C'è altro?»
«No. Fiondati qui, quando hai finito.»
Venti minuti dopo, Manin era davanti ad Aldani, il quale aggiornò l'ispettore sulla situazione del palazzo e sulla chiacchierata avuta con i coniugi Gardin.
«Un bel tipo, questo Albrizzi», disse infine Manin.
«Già. Andiamo.»
«Dove?»
«Ti faccio visitare il palazzo, così ti fai un'idea. Doria e i suoi ragazzi ormai hanno finito.»
«Bene.»
«Ah, dimenticavo, poi andiamo alla sede della Polifilo. Canziani mi ha dato l'ok preventivo.»
Aldani e Manin uscirono nel sole accecante di campo San Geremia. La differenza di temperatura era notevole. Invece di rifare la strada da cui era arrivato, Aldani deviò sulla destra verso il portale della chiesa. Entrarono nella penombra silenziosa accolti dai sentori di incenso di una messa da poco celebrata, per uscirne quasi subito da un ingresso laterale.
Sbucarono di nuovo in pieno sole, investiti dall'aria salmastra e da quell'inimitabile rumore di fondo fatto di motori borbottanti o sguaiati, di colpi di sirena, di acque solcate e spumeggianti, di gomene in tensione, di bricole scricchiolanti, di barchini che schiaffeggiano la superficie irrequieta dei canali, di remi che vogano ritmati, di acque che sbattono incessanti le fondamente e le rive. Il rumore di Venezia.
Davanti ai due poliziotti il canale di Cannaregio confluiva maestoso nel Canal Grande.
Aldani estrasse il cellulare e compose un numero. «Vitiello? Metti in moto, ti aspettiamo all'inizio del canale. Sì, all'ingresso della chiesa.»
Il commissario restò in silenzio a osservare le acque trafficate. Le onde provocate dalle imbarcazioni si frangevano tra loro con angolazioni e intensità diverse, creando un effetto mare mosso ipnotico e conturbante. Era un lunedì di ponte, e tanti erano in ferie, ma Venezia non si fermava mai, perché i turisti non si fermavano mai.
Il Toni si fece annunciare da un rombo possente e da barconi ondeggianti lungo le rive. Vitiello se la stava proprio spassando.
Tutti e tre in piedi. Vitiello, sulla sinistra, gomito appoggiato al parabrezza, con una mano teneva il volante in legno per governare il vecchio Toni. Manin, sulla destra, anche lui gomito sporgente. Aldani, al centro, entrambe le braccia sul parabrezza. Occhiali da sole, sguardo strafottente, sembravano giusto tre papponi in libera uscita. Se non fosse stato per la divisa di Vitiello...
Nessuno aveva voglia di aprir bocca. La brezza fresca e lo spettacolo dei palazzi in piena luce sulle rive parlavano da soli. I poliziotti si godevano il raro momento di tranquillità.
Vitiello era su di giri e, visto che il commissario non protestava, aveva pian piano aumentato la velocità. Il motoscafo solcava le acque agitate di un Canal Grande affollato di gondole cariche di turisti, lasciandosi alle spalle una scia bianca tutto sommato pulita. Turisti stranieri, per certo, era evidente da come vestivano. Aveva schivato un paio di gondole, a bordo le solite coppie attempate dalle facce giulive. All'arrivo dell'onda prodotta dal passaggio del motoscafo li vedevi ondeggiare preoccupatissimi con la mano che annaspava a cercare un appiglio. Almeno incrementavano l'economia cittadina, e in tempi di vacche magre andava bene anche così.
All'altezza del traghetto di Santa Sofia, la lancia incrociò un gondolon pieno di passeggeri che stava traversando il canale dirigendosi verso l'approdo della Pescaria. Vitiello tentò di rallentare, ma l'onda fece ballare quella gondola particolare, più larga e lunga del normale, priva del dolfìn, il caratteristico fero da prua, e condotta da due gondolieri invece di uno. Molti dei passeggeri, quasi tutti veneziani, era evidente, stavano in piedi e dovettero sorreggersi l'un l'altro per non cadere in acqua.
Aldani scosse la testa, ma non disse nulla. Non aveva voglia di discutere e lasciò che Vitiello conducesse il motoscafo a modo suo. Al diavolo le gondole!
«Lei cosa ne pensa, dottore?» chiese Manin, indicando col braccio il Fontego dei Tedeschi che si stagliava imponente sulla sinistra appena prima del ponte di Rialto. Il fontego originale del Tredicesimo secolo era andato bruciato a inizio Cinquecento e subito ricostruito dal grande architetto fra' Giocondo, che aveva ideato una fabbrica a pianta quadrata con cortile centrale di estrema razionalità.
«Cosa penso di cosa?» chiese Aldani distratto.
«Di questa storia del fontego e del centro commerciale. Il parere del Ministero è atteso a giorni.»
Manin si riferiva a una polemica che si protraeva da mesi. Il fontego era stato acquistato da Benetton, che aveva firmato un accordo col Comune di Venezia per trasformarlo in un centro commerciale. Il progetto di restauro era firmato da un architetto di grido, archistar li chiamavano, un tal olandese Rem Koolhaas, e prevedeva due scale mobili nel cortile interno, terrazza panoramica sul tetto con vista ponte di Rialto, sopraelevazione per ottenere un ulteriore piano, megapontone galleggiante sul Canal Grande, il tutto accompagnato da demolizioni e sventramenti. In cambio di sei miseri milioni il Comune aveva garantito l'approvazione del progetto a scatola chiusa.
Aldani non rispose, ma scosse la testa con eloquenza.
Quando giunsero all'altezza della Corte d'Appello Penale, che occupava palazzo Grimani, Vitiello virò a sinistra imboccando il rio di San Luca. Fu costretto a decelerare, perché il canale era stretto. Proseguì nel rio dei Barcaroli e poi in quello di San Moisè, lasciando dietro di sé una teoria di barche e barconi che oscillavano su e giù sbattendo con forza lungo le rive.
Giunsero infine al ponte di San Moisè, ma il solito assembramento di gondole in attesa di turisti coi portafogli gonfi, davanti al molo dell'hotel Bauer, impediva a Vitiello di accostare. Tentò di attirare l'attenzione dei gondolieri con cenni eloquenti e gentili esortazioni, ma con scarsi risultati.
«Vitiello, dagli una svegliata, a questi», disse Aldani, scocciato.
L'agente accennò a un sorriso e allungò la mano sulla sirena. Un paio di colpi furono sufficienti a creare scompiglio tra i gondolieri, che si spostarono di malavoglia protestando senza troppa convinzione con qualche: «Xe maniera, questa!» e «Dove gavìo d'andar!» Ma anche con: «Andé remengo», o il solito: «Andè in mona de vostra mare», quest'ultimi improperi, però, appena intuibili dai labiali e dal gesticolare. I poliziotti è sempre meglio tenerseli buoni.
Vitiello accostò il motoscafo alla riva. Aldani e Manin misero piede in campo San Moisè giusto in tempo per vedersi caracollare incontro un portiere, inappuntabile nella sua divisa d'ordinanza, uscito trafelato dall'aria condizionata dell'albergo. Il campo era dominato dall'austera facciata del Bauer, propaggine datata 1939 dell'albergo vero e proprio ospitato in un palazzo seicentesco che dà sul Canal Grande qualche centinaio di metri più in là. Con quelle modernissime quadrifore e finestrelle squadrate, è il capolavoro di Giuseppe Berti, un misconosciuto architetto che aveva saputo interpretare le forme razionalistiche imperanti nel ventennio calandole alla perfezione, fatto raro, nel contesto veneziano.
«C'è qualche problema?» chiese il portiere con un tono che non piacque affatto ad Aldani.
«Non ancora», rispose, infastidito.
«Non riguarda l'albergo, vero?» insistette impassibile il portiere, di certo preoccupato che quella intrusione poliziesca potesse turbare la quiete della propria selezionata clientela.
«No, ma non escludo di interrogare i vostri clienti come potenziali testimoni. Immagino abbiate una saletta riservata che faccia al caso.»
«Testimoni? E di cosa?»
«Dichiari le sue generalità, prego.»
Il portiere restò basito. «Carraro Mario, nato a Venezia, il 13 luglio 1963», disse infine incespicando sulle parole.
«Bravo, Carraro, ora torna dentro e lasciaci lavorare, d'accordo?»
Manin si voltò verso il motoscafo, come se si fosse di colpo ricordato di qualcosa, trattenendo a stento un sorriso.
«Mi scusi, dottore...» Il portiere, uso al deferente rispetto verso le gerarchie, era passato subito al generico titolo accademico, pur ignorando chi si trovasse davanti. «Non volevo...» tentò di dire mentre gocce di sudore gli scendevano lungo le tempie, forse per l'afa, forse no.
Aldani, però, stava già traversando il campo con passo spedito, seguito da Manin che cercava di fendere la fiumana sudata proveniente dalle strettoie di salizada San Moisè da una parte e dal ponte sul rio dall'altra. San Moisè si trova lungo la direttrice che da San Marco conduce al ponte dell'Accademia, una sorta di percorso obbligato, soprattutto per i forzati delle visite mordi e fuggi.
Due campanelli anonimi incassati nell'intonaco scrostato, a lato di un portoncino in legno rovinato dalla salsedine. Il numero pitturato sul muro, rosso incerto su bianco d'ordinanza bordato di nero, il tipico nizioleto veneziano, corrispondeva all'indirizzo: quella doveva essere la sede della Polifilo Holding.
Aldani e Manin si scambiarono un'occhiata perplessa. Scampanellarono a lungo, senza risultato, ma era prevedibile.
«Come entriamo?» chiese, infine, Manin.
Aldani non rispose, ma estrasse dalla tasca un mazzo di tre chiavi una diversa dall'altra. Una skeleton a singolo dente da interni, una Silca standard dorata e una a doppia mappa. Mostrò l'etichetta: Polifilo.
«Ah», disse Manin.
«Stavano nell'ufficio di Albrizzi, proprio sulla scrivania.»
«Meglio, così non dobbiamo chiamare il fabbro, che poi l'economato ci massacra.»
Aldani aprì senza difficoltà il portoncino con la chiave standard. Un tanfo di muffa li investì. La stretta scala saliva nella penombra, rischiarata appena da una finestrella che si affacciava sull'ammezzato. Al primo piano, trovarono una porta sgangherata che si aprì, non senza sforzo, con la chiave skeleton. All'interno i locali erano vuoti e, a giudicare dalla polvere sul pavimento, dovevano esserlo da molto tempo. Aldani tornò sul pianerottolo brandendo verso Manin la terza chiave, quella a doppia mappa tipica delle blindature. I due uomini salirono l'ultima rampa di scale e si trovarono davanti a una porta, non proprio di ultima generazione, ma dall'aspetto fin troppo solido.
«Altro che fabbro, qui ci volevano gli artificieri!» esclamò Aldani, infilando la grossa chiave nell'apposita fessura.
Accesero le luci ed esplorarono il piccolo appartamento: anticamera con scrivania spartana, un bagno, un archivio (vuoto), un ufficio di rappresentanza con scrivania in legno pregiato, qualche mobile a parete e una cassaforte in un angolo.
Gli uffici erano arredati con sobrietà, ma sembravano abbandonati. Anzi, era come se non ci avesse mai lavorato nessuno. Soltanto una scrivania, che poteva essere quella di Albrizzi, appariva più vissuta. Sul piano c'erano alcuni fogli sparsi con i tipici scarabocchi di quando si parla al telefono o si fa una riunione.
«Che ne pensi?» chiese, infine, Aldani.
«Non mi sorprende, dottore.»
«Perché?»
«Stamane ho chiesto informazioni al Centro per l'Impiego, e ho scoperto che la Polifilo Holding non ha dipendenti.»
«Ah, ora si spiega. Un contenitore vuoto?»
«Così sembrerebbe.»
«Questi ci dicono poco», disse Aldani, spostando i fogli sulla scrivania su cui spiccavano gli eleganti arabeschi tracciati a penna biro nera.
«Forse la cassaforte...» suggerì Manin.
«Nel mazzo non ci sono chiavi di casseforti, e comunque non conosciamo la combinazione. Credo che il fabbro dovremo proprio chiamarlo. Occupatene tu. Io sento la Scientifica.»
«Sono già le due. Intanto che aspettiamo Doria e il fabbro, tu vuoi mangiare qualcosa?»
Manin annuì.
«Sei sicuro? Non c'è molto da scegliere, da queste parti», insistette Aldani.
«Dottore, se non mangio qualcosa, schiatto. E poi conosco un posto vicino. Fanno solo tramezzini, però merita. Si fidi.»
«E va bene», Aldani cedette al subdolo Manin. «Chiedi a Vitiello cosa vuole.»
Scesero nel campo, e Manin si diresse sotto il sole cocente verso il motoscafo. Vitiello, seduto all'ombra del Bauer, teneva d'occhio l'imbarcazione, godendosi gli sguardi truci dei gondolieri cui aveva invaso il campo.
Il locale era davvero molto vicino. Un buco, in verità: tutto lo spazio era preso da un bancone che traboccava di tramezzini, rigorosamente rettangolari. Non come si usa in altre città, con quei triangoli col ripieno che tracima dal monte centrale, rischiando a ogni morso di schizzar fuori, che per mangiare devi fare le acrobazie. Sobri tramezzini rettangolari, di pane bianco, soprattutto, ma non soltanto.
Aldani, in effetti, adorava i tramezzini, ma quella sua passione faceva a pugni con le indicazioni del medico, il quale, oltretutto, non faceva che rimarcare che a una certa età non ci si possono più permettere certe cose.
Fu, perciò, con sincero rimorso che Aldani prese la sofferta decisione e ingollò tre pezzi al tonno nelle differenti varianti: tonno e cipolline, tonno e capperi, tonno e olive. Non pago, si fece scaldare uno speciale tramezzino con pane nero, senape, würstel e speck. Non c'azzeccava granché col tonno, ma andava giù che era un piacere.
Manin non fu da meno e si gustò con una certa lascivia i suoi tramezzini, abbinamenti più tradizionali come prosciutto e funghi o prosciutto e carciofini. Aldani si sentì un po' meno in colpa.
Tracannarono acqua minerale, ma, dopo aver a lungo sopportato la vista degli altri avventori che buttavano giù un birrino dietro l'altro, si lanciarono uno sguardo d'intesa e misero da parte l'acqua. Peccato per peccato...
Il fabbro e la Scientifica arrivarono quasi insieme. Doria era con lo stesso gruppo che la mattina aveva rivoltato da cima a fondo palazzo Albrizzi.
«Turno doppio?» chiese Aldani sorridendo.
«Polillo non ne era contento.»
«La solita storia degli straordinari?»
«Già.»
«Qui ve la cavate rapidi, così il tuo dirigente si tranquillizza. Son quattro stanze in croce, e anche mezze vuote.»
La prima cosa che fecero furono i rilievi sulla cassaforte.
Il fabbro sembrava la versione umana di Automatix, il personaggio dei fumetti che aveva bottega nel villaggio gallo di Asterix e che litigava senza tregua col pescivendolo Ordinalfabetix. Grosso, capelli lunghi biondi con relativi baffoni (probabili ascendenze asburgiche), se ne stava in piedi davanti alla cassaforte osservandola in silenzio. Accanto a lui un giovane svogliato, capigliatura similare, che sembrava capitato lì per caso. Doveva essere l'assistente, o l'apprendista, come si usa oggi per pagare meno contributi. Sembrava Menabotte, il nipote smidollato del capo del villaggio gallico.
«Osso duro, eh?» buttò lì Aldani con noncuranza.
«Scherza, commissario?» disse Automatix colpito nell'orgoglio, mentre un fremito gli scuoteva i folti capelli. «È soltanto una vecchia Conforti TS 600, serratura a chiave e combinazione meccanica: tanto fumo e poco arrosto. Dentro non ci metterei nemmeno le cartelle delle tasse.» La battuta pronta e il cipiglio «ghe penso mi» dimostrava che l'osso duro era il fabbro. «Mi dia mezz'ora.»
Automatix si mise all'opera. Per prima cosa si fece passare da Menabotte un trapano per neutralizzare la serratura a chiave. Cambiava spesso le punte, argomentando con Menabotte il perché e il percome.
«No ti capissi niente, òstrega!» esclamò a un certo punto. A quanto pareva l'apprendista non aveva appreso abbastanza.
Aldani, che stava parlando con Manin, sollevò lo sguardo.
«Mio figlio, commissario. Gli ho spiegato che per fare questo lavoro ci vuole amore, passione, ma lui, niente.»
Aldani annuì, comprensivo. In effetti, non ce lo vedeva Menabotte a fare il fabbro. Un pensiero fugace andò ai propri figli, ancora troppo piccoli per dare problemi del genere. Prima o poi, però, avrebbe dovuto affrontare la cosa... Che passione avrebbe potuto trasmettere loro? Aveva senso che il figlio di un poliziotto facesse il poliziotto? A volte accadeva. Spesso accadeva il contrario.
Qualche minuto dopo, la serratura fu annientata. Poi Automatix si occupò della combinazione e si fece passare uno stetoscopio per auscultare i click. Dopo numerosi tentativi rinunciò sibilando una bestemmia. «Commissario, qui bisogna trapanare. Ci vorrà un po'», disse di malavoglia e cominciò a elencare al figlio l'occorrente.
Quaranta minuti dopo, Automatix apriva con gesto plateale la cassaforte. «Ecco qua!» disse sotto gli sguardi attenti di tutti i poliziotti.
Il piccolo forziere, però, era vuoto. Anzi, non proprio: c'era soltanto una busta, subito presa in consegna dall'agente Rossato. La aprirono con tutte le cautele del caso. Dentro solamente un foglio con poche righe vergate a mano in una scrittura molto chiara.
Aldani si avvicinò per leggere dalle mani dell'agente. Recitò a voce alta a beneficio dei colleghi:
Non ce la faccio più.
Troppe cose andate male.
Troppe responsabilità.
Troppi sbagli.
La chiudo qui.
Helen, perdonami.
Mirco
Aldani, Manin e Doria si guardarono negli occhi. Non c'era molto da dire. Se non che Helen si scriveva, dunque, con l'acca...
Automatix e figlio, calato il sipario sulla loro opera, raccolsero in silenzio gli strumenti sparsi sul pavimento. «Noialtri andarìssimo, anca», disse infine l'uomo, senza peraltro aspettarsi risposta. E se ne andarono.
«Stavo per chiamarla, dottore.» L'ispettore Zurlini agganciò Aldani appena sceso dal motoscafo. L'imbarcadero della Questura era in pieno sole, e alle tre del pomeriggio l'afa che incombeva sulla città stava dando il meglio di sé.
«Allora?»
«Sono stato in campo San Bartolomeo dal commercialista di Albrizzi, Bassan Amedeo.»
«Che ha detto?»
«Lui, nulla.»
«Reticente?»
«Ma no, dottore! Bassan non c'era, ho parlato con la segretaria.»
«Zurlini, vieni al punto!»
«Mi ha spiegato che Bassan è in ferie da qualche parte, all'estero. Le ho detto di avvertirlo subito, e così ha fatto. La segretaria mi ha richiamato dopo dieci minuti: ha detto che sarebbe salito sul primo volo che gli riusciva di prendere.»
«Ma dove diavolo è?»
«Antille, mi pare.»
«Ah!» Aldani, con un sospiro di sollievo, si infilò nella penombra della Questura dall'ingresso lato canale.
«Dottore! Un'altra cosa...»
«Sì?»
«Ho chiesto alla segretaria se conoscesse l'avvocato di Albrizzi. Sì, insomma, se avesse un legale di fiducia.»
«Buona idea. E lo conosceva?»
«Sì, Bellemo Giuseppe. Ha lo studio in campo Sant'Angelo.»
«Ci sei stato?»
«Di persona. Era chiuso per il ponte. Riaprono il due.»
«Bravo, Zurlini, continua così», disse infilando le scale.
«Dottore!»
«Che c'è ancora?»
«Visto che mi sembrava importante, ho richiamato la segretaria di Bassan per chiederle se aveva il cellulare di Bellemo.»
«E ce l'aveva?» sospirò Aldani.
«Sì. Sono riuscito a parlarci. Credo lo sapesse già, da come ha reagito. Del morto, intendo.»
«Dunque?»
«Il Bellemo ha confermato che lo studio riapre mercoledì e che lui è fuori Venezia, ma per il due dovrebbe esserci di sicuro.»
«Bravo, Zurlini, bravo, però...»
«Sì?»
«La prossima volta dimmi tutto in un colpo solo, te ne sarei grato.»
Manin, che aveva assistito a tutta la conversazione, si fece sfuggire un sorriso.
Aldani lo incenerì. «E tu, vedi un po' a che punto sono gli altri. Io vado in ufficio a fare qualche telefonata.»
«Sì, dottore!»
Aldani salì senza fretta le scale. In realtà, le telefonate erano una sola: Anna. Non poteva rimandare oltre. Giunto in ufficio, spalancò la finestra per togliere l'odore di chiuso, nonostante il caldo entrasse a fiotti. Tergiversò per diversi minuti con cartelle e fascicoli, spostandoli da una parte all'altra della scrivania, e infine si decise. Afferrò il cellulare e compose un numero.
«Ciao, come va?»
«Bene.»
«I bambini?»
«Bene.»
Il dialogo si presentava arduo.
«Hai qualcosa da dirmi?»
«Sono in ufficio.»
«Lo avevo immaginato.»
«Un caso imprevisto.» Che stronzata! Come se ci fossero casi previsti. «Un morto in laguna.»
«E in Questura non c'era nessun altro, naturalmente.»
Aldani non sapeva cosa rispondere. Cercò di cambiare argomento. «Domani forse riesco a finire di inscatolare...»
Silenzio.
«Se la cosa non si complica...» mise le mani avanti. «È un tizio importante. Il morto, dico. Sembra si sia suicidato. Se è così, me la cavo presto. Fidati.»
«Sono mesi che mi fido. Comincio a essere stanca.»
«Lo so, porta ancora un po' di pazienza.»
«Sì, pazienza. Va bene. Ora devo andare, i bambini stanno smontando il bagno. Ci sentiamo stasera.»
«A dopo.»
Peggio di come immaginava.
Il caffè del distributore che gli aveva portato Taddei era come al solito imbevibile. Forse la colpa era del bicchiere di plastica che privava il caffè di tutto il suo fascino. Tuttavia, Aldani non aveva voglia di scendere fino al bar interno, così se ne stava lì, perso nei suoi pensieri, a osservarne la superficie oleosa, indeciso se buttar giù l'ultimo sorso.
Bussarono alla porta. La testa di Taddei si sporse all'interno: «Dottore, il questore la sta cercando. Il suo telefono sembra staccato».
Aldani si ricordò di aver sollevato di proposito la cornetta una decina di minuti prima. «Devo averlo messo giù male. Fatto, ora è a posto. Cosa vuole il questore?» Domanda inutile.
«Non lo so, non ci ho parlato. Il centralino mi ha detto soltanto di controllare se era in ufficio e di dirle di andare subito da De Girolami.»
«D'accordo, ci vado immediatamente. Grazie, Taddei, ma... scusa, perché non mi hanno chiamato al cellulare?»
«Perché non era raggiungibile, dottore.»
«Ah», commentò Aldani, contemplando con fastidio il cellulare scarico.
L'ufficio del questore aveva un non so che di stantio. Tutto l'arredamento arrivava dritto dritto dagli anni Cinquanta, se non da prima. Era chiaro che aveva seguito gli spostamenti della Questura, dalla sede originaria del dopoguerra a palazzo Ziani, poi a Santa Chiara, quindi di nuovo a palazzo Ziani, con una parentesi anche nella sede provvisoria di via Nicolosi a Marghera in attesa dei lavori di ristrutturazione di Santa Chiara. E non aveva dubbi che quei mobili avrebbero seguito l'ufficio del questore anche nella nuova e definitiva sede della Favorita, all'inizio del Terraglio, la Statale che collega Mestre a Treviso - soldi permettendo, visto che della nuova sede si favoleggiava ormai da tanti anni, ma nemmeno un palo era stato ancora piantato.
Quando Aldani entrò, il questore De Girolami si alzò dalla scrivania per andare ad accoglierlo con calore, e presentarlo all'ospite seduto sulla sedia di fronte. Aldani era sul chi vive: il personaggio che si era alzato per stringergli la mano gli era noto.
«Aldani, immagino conoscerà il governatore Olindo Gaffin...»
«Non ci siamo mai incontrati di persona.»
«Il questore mi ha già parlato molto bene di lei», attaccò Gaffin.
Un campanello cominciò a suonare nella testa di Aldani. «Il dottor De Girolami avrà esagerato.»
«So che il caso Abrizzi è nelle sue mani.»
«Le indagini sulla morte di Mirco Albrizzi sono affidate a me, in effetti.» Aldani cercò di smorzare qualsiasi enfasi su quella faccenda. Venisse al dunque, almeno...
«Non faccia il modesto, Aldani», lo esortò il questore con un sorriso. Poi si fece serio. «Il governatore Gaffin, quale presidente della Regione, è qui in rappresentanza delle istituzioni cittadine tutte, per assicurarsi che il caso Albrizzi venga affrontato con il massimo della discrezione...»
Ecco, di nuovo la discrezione.
«...che la tragica scomparsa di un uomo che rivestiva un ruolo così importante nella vita cittadina richiede.»
Gaffin riprese la parola: «Il dottor De Girolami, con la sintesi che lo contraddistingue, è riuscito a rendere alla perfezione il problema. Immagino che lei, commissario, saprà che Mirco Albrizzi non era un semplice imprenditore, ma una vera e propria colonna dell'economia cittadina. Non soltanto», Gaffin fece una pausa ad arte, «grazie alle numerose iniziative di project in cui sono coinvolte società che fanno... facevano capo a lui, le amministrazioni cittadine, dal Comune alla Provincia alla Regione, hanno potuto godere di innumerevoli fonti di finanziamento di cui i beneficiari ultimi sono i cittadini». Nuova pausa. «Capisce, Aldani?»
«Mi sono perso al project», rispose asciutto.
«Via, Aldani, non faccia finta di non capire.» Il questore era infastidito.
Gaffin, da scafato politico, fu più paziente. «Mi riferisco alla pratica del project financing, con cui le amministrazioni possono realizzare opere pubbliche grazie ai soldi dei privati, ai quali naturalmente vengono riservati alcuni diritti sulle opere. Opere che altrimenti, soprattutto in questi tempi di ristrettezze, non vedrebbero mai la luce.»
«Ho capito.» Aldani era sempre più arroccato in difesa.
«Bene. Ciò che vorrei evitare, come istituzione intendo, è che questo increscioso incidente possa danneggiare i progetti in corso. Sono molto dispiaciuto per la scomparsa di Albrizzi, che mi onoro di aver avuto come amico personale, ma in questo momento gli interessi dei cittadini sono una priorità per me, e per le istituzioni che qui in via informale rappresento.»
Un silenzio imbarazzante calò nella stanza. Aldani non sapeva bene cosa dire. Cosa volesse Gaffin era chiaro, ma, qualsiasi cosa avesse detto, sarebbe stata inopportuna, per cui se ne restò in silenzio finché il questore non prese la parola.
«Bene, Aldani, se non ci sono domande, può congedarsi. Resta inteso che mi terrà informato sugli sviluppi del caso Albrizzi, in modo che, se le circostanze lo dovessero richiedere, deciderò di persona se e come coinvolgere le istituzioni cittadine. D'accordo?»
«Sì, signor questore.» Volare basso...
«Allora, può andare. Ci vediamo alla conferenza stampa.»
Aldani e Gaffin si scambiarono una stretta di mano indecifrabile. Di sicuro, non amichevole.
La sala dove si tenevano gli incontri era gremita. In prima fila, Aldani riconobbe i cronisti di nera di tutti i più importanti organi di informazione. Non soltanto i giornali che si pubblicavano a Venezia, ma anche i quotidiani nazionali, oltre alle tivù locali e nazionali e a molte testate online.
Agli estremi del tavolo le solite piante verdi d'ordinanza che avevano il compito di rendere la sala più accogliente, una dura impresa. Il questore sedeva al centro, il capo della Squadra mobile, Gianni Schiavon, alla sua destra, e Aldani alla sinistra. In fondo al tavolo, l'ispettore Rosati delle Relazioni esterne aveva l'ingrato compito di smistare le domande dei giornalisti. I tre poliziotti si erano visti poco prima e avevano concordato il copione da seguire. Aldani aveva invano sperato che gli capitasse un ruolo da comprimario. In attesa del fischio d'inizio sbirciava il foglio che Rosati aveva appena consegnato al questore col lungo elenco delle testate presenti. La morte di Mirco Albrizzi, il caso Albrizzi, faceva notizia.
L'aria condizionata nella sala era sparata al massimo. Era quasi freddo, ciononostante gocce di sudore gli scendevano lungo la nuca ed era costretto a passare la mano in continuazione per asciugarsi alla bell'e meglio.
Il questore e il capo della Mobile riuscirono nell'impresa: parlare per cinque minuti a testa senza dire nulla. Eppure i giornalisti registravano, filmavano, prendevano appunti.
Poi venne il turno di Aldani, al quale toccava il porco compito di metterci la sostanza, e lui non era uomo da giri di parole, purtroppo. Andò diretto al punto: «Il corpo di Mirco Albrizzi è rimasto in acqua per molti giorni, per cui è difficile stabilire con precisione il momento della morte. Presenta una ferita d'arma da fuoco di piccolo calibro alla testa che potrebbe anche essere compatibile con l'ipotesi del suicidio. Abbiamo poi rinvenuto una lettera dell'Albrizzi che sembrerebbe scritta di suo pugno. Non posso parlare del contenuto, ma confermerebbe l'ipotesi del suicidio. Anche in questo caso servono le perizie grafologiche per avere certezze. Le indagini sono, comunque, in pieno svolgimento e...»
Il questore posò sul tavolo la mano sinistra col palmo aperto, interrompendo Aldani: «Bene, se avete domande, potete procedere».
Una selva di mani si sollevò all'istante. Rosati si appuntò rapido alcuni nomi su un foglio, poi diede la parola al primo.
«Nicola Morin, Gazzettino. Vorrei chiedere al commissario Aldani se l'ipotesi del suicidio è confermata oppure se state indagando in altre direzioni.»
Aldani fu costretto a riprendere subito la parola. «È un'ipotesi probabile, molto probabile, ma è ovvio che non abbiamo ancora certezze. È troppo presto, dobbiamo attendere l'esito dell'autopsia.»
«Se quell'ipotesi non fosse valida, resterebbe quella dell'omicidio», insistette Morin.
«Nessuno qui ha parlato di omicidio», si intromise il questore. «L'ipotesi al vaglio, come diceva il dottor Aldani, è quella del suicidio, e la lettera rinvenuta non fa che avvalorare tale ipotesi. È evidente che le indagini sono appena iniziate, ma che si tratti di suicidio credo ci siano pochi dubbi.» E fece un cenno all'uomo delle Relazioni esterne.
«Bazzani, Rai 3», disse Rosati indicando un omino defilato.
«Albrizzi è stato trovato in laguna. Commissario Aldani, non le pare perlomeno strano che un uomo che si suicida sparandosi in testa finisca in laguna?»
A quella domanda, che forse molti avrebbero voluto fare, la platea si congelò. Tutti attendevano in silenzio la risposta. Non volevano perdersi una parola.
Visto che stavolta il questore se ne stava zitto, e pure Schiavon, ma questo era normale, Aldani pensò bene di peggiorare la situazione. «In effetti, stiamo verificando come mai il corpo sia stato rinvenuto in laguna, invece che, azzardo un'ipotesi, a casa sua. Faccio, però, notare che ci potrebbero essere decine di spiegazioni per questa presunta anomalia...»
«Ad esempio?» incalzò Bazzani.
«Be'... Magari si è sparato lungo un rio ed è caduto in acqua. Ma non è questa la sede per...»
«Per l'appunto, signori», interruppe infine De Girolami, «non è questa la sede per voli di fantasia. Le indagini proseguono e vi terremo aggiornati su tutti gli sviluppi. Sappiamo che la città ha a cuore questa triste vicenda e faremo il possibile, nei limiti che ci sono imposti dalla legge, affinché i cittadini siano tenuti al corrente dei fatti.» Il questore si alzò dalla sedia, imitato da Schiavon. Entrambi lanciarono un'occhiata tagliente ad Aldani, che si alzò a sua volta.
A Rosati non restò che fare da parafulmine. «Bene, signori...» tentò di dire e fu travolto da una bordata di urla.
I tre poliziotti stavano già sparendo dietro una porta.
«Aldani, non le devo certo insegnare io il mestiere!» esclamò il questore, dopo che ebbe congedato uno Schiavon un po' perplesso. «Lo sa che con i giornalisti basta una mezza parola in più e quelli capiscono fischi per fiaschi. Suicidio, Aldani, suicidio! Non c'è spazio per altre ipotesi. Il biglietto, poi... Via, Aldani, che altro vuole sia successo? Non penserà mica che qualcuno abbia ucciso Albrizzi e poi inscenato il suicidio?»
«Signor questore, io non penso niente, mi attengo ai fatti, come mi è stato insegnato, e i fatti sono che non abbiamo certezze...»
«Ecco, lo vede! Lei manca di senso pratico, Aldani. Senso pratico! Ora la saluto. E ricordi quello che ci siamo detti prima.»
Aldani guardò strano il questore. Doveva avere una faccia proprio buffa, perché quello, che già se ne stava andando, si fermò. «L'incontro col governatore, ricorda?» disse squadrandolo.
«Ah, sì, ma certo, signor questore, la terrò al corrente di tutto, non si preoccupi.»
«Bene, Aldani, molto bene.»
Il commissario si decise a scendere al bar interno a prendere un caffè.
CHIUSO PER FERIE, recitava la scritta, una cosa coloratissima e illeggibile, fatta al computer da qualche imbecille che di sicuro andava molto fiero di quella porcheria.
Tornò nel suo ufficio maledicendo il ponte.
Manin si materializzò sulla porta.
«Hai notizie per me?» chiese Aldani.
«Sono riuscito a parlare con Vania Corò. Mi ha confermato che tornerà stanotte e domattina presto sarà all'obitorio per il riconoscimento ufficiale della salma del marito. Dell'ex marito.»
«Ti puoi occupare tu delle formalità?»
«Certo, dottore.»
«Notizie da Bustelli?»
«No, ancora nessuna traccia di quella Helen. Comunque, Bustelli lavora anche domani. Si era preso un giorno, ma l'ho convinto a darmi una mano. Dottore, siamo in debito con lui.»
«Ci sdebiteremo, Manin, non ti preoccupare. Intanto cerchiamo di uscire vivi da questa faccenda. Sta prendendo una brutta piega, il caso Albrizzi...»
«In che senso, dottore?»
«Torno ora dalla conferenza stampa...»
«Com'è andata?»
Aldani esitò. «Un disastro.»
Manin tacque.
«Il questore stava per mangiarmi vivo.» Raccontò cos'era successo.
«I giornalisti sono delle brutte bestie, dottore», commentò Manin.
«È per quello che alle conferenze stampa lascio volentieri che ci vada Schiavon. Stavolta, però, il questore ha insistito perché ci fossi anch'io. Credo se ne sia pentito!» Poi tacque a sua volta, immergendosi in pensieri altri...
«Dottore?»
«Sì?»
«Io me ne andrei a casa.»
«Scusa, vai pure, per oggi può bastare. Di più non credo riusciremo a fare. Un paio di telefonate, e poi me ne vado a casa anch'io. A lavorare.»
«Il trasloco?»
«Già. Magari qualche scatolone riesco a riempirlo stasera.»
«A che punto è, dottore?»
Lo sguardo laconico di Aldani convinse Manin a desistere. «A domani», disse l'ispettore infilando la porta.
«Ciao, Anna, come va?»
«Né più né meno come prima.»
«Qui le cose si stanno complicando.»
«Non avevo dubbi.»
«Non dire così. Non dipende da me, lo sai.»
«Sì, lo so, comunque non avevo dubbi che finiva così. Hai avvertito i facchini?»
«No, non sapevo come, e comunque ancora non è detto. Magari riesco a finire.»
«E se non ci riesci?»
«Certo che un po' di ottimismo ogni tanto non guasterebbe, cazzo!»
«È inutile che te la prendi con me.»
«Non me la stavo prendendo con te!»
«Vedo che sei nervoso, Nicola, è meglio se ci sentiamo domani.»
«Non sono nervoso.»
«Sì che lo sei.»
«D'accordo. Sono nervoso. Ora passami i bambini, per favore.»
«Stanno dormendo.»
«Ma non sono nemmeno le otto!»
«Vanno a letto presto, lo sai.»
«No che non lo so!»
«Insomma, Nicola, non ho voglia di discutere. Se vuoi salutarli, passa domattina presto, che poi andiamo a trovare i nonni.»
«Domattina non ce la faccio. Il caso Albrizzi richiede la mia presenza.»
«Il caso Albrizzi?»
«Quello trovato morto in laguna.»
«Ah, sì, ne hanno parlato al TG3.»
«Davvero? Che rapidità.»
«Ti ho visto.»
«Dove?»
«In tivù, cretino!» Anna accennò a una risata.
«Non c'è niente da ridere!»
«Invece sì, sembravi proprio un salame!»
«Non è stata una gran conferenza stampa, in effetti.»
«Scommetto che hai fatto una figuraccia.»
«In effetti... Sai che i giornalisti non sono il mio forte.»
«In effetti...»
«...proprio una figura di merda», concluse Aldani scoppiando a ridere.
Anche Anna rise di gusto. Ci misero un po' a calmarsi.
«Anna?» sussurrò Aldani.
«Sì?»
«Ti amo.»
«Anch'io, stronzo.»
La camminata dalla Questura fino a casa lo aveva spossato. Nel pomeriggio una densa cappa di umidità aveva avvolto Venezia rendendo il caldo ancora più insopportabile, e camminare sui masegni su cui il sole aveva infierito era stata una vera tortura.
Aldani se ne stava seduto in altana, nell'aria immobile satura di glicine, incapace di qualsiasi attività fisica. Di riempire scatoloni non se ne parlava nemmeno.
Aveva fame, ma non aveva voglia di prepararsi da mangiare. Alla fine l'appetito prevalse.
La tavola calda si trovava in un calle a dieci minuti da casa sua. Era un locale vecchia maniera, gestito da due anziani coniugi. L'insegna stessa, TAVOLA CALDA, la diceva lunga sulla vetustà dell'ambiente.
«Buona sera, commissario.»
«Ciao, Dino. Sei solo, stasera?»
«Maria non si sentiva bene, troppo caldo. È andata a riposarsi.»
«Vedo che i clienti non mancano.»
«Per fortuna, commissario, con la crisi che c'è non mi lamento proprio.»
«Tuo figlio è dentro?»
«Macché, quel mona el xe in giro anca sta sera!»
«Devi avere pazienza.»
«Speravo di passargli l'attività, ma è tutta fatica sprecata, commissario. Lei per fortuna non ha ancora di questi problemi. A proposito, come stanno sua moglie e i bambini?»
«Stanno bene. Si sono già trasferiti a Mestre.»
«Me l'aveva detto, infatti. E lei?»
«Lasciamo perdere, Dino. È una storia troppo complicata. Senti, ce li hai quei tuoi folpeti?»
«Ma certo. Cinque minuti, commissario, soltanto cinque minuti!»