Sono cresciuto a Rozzano, cap 20089

 

Sono cresciuto a Rozzano, cap 20089, un paese piccolo ma neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano, costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio, in direzione Pavia.

Buccinasco, Corsico, Assago, Rozzano: posti da cui vengono un sacco di rapper, posti da cronaca nera. Le sparatorie, la rissa col morto, le baby gang, le infiltrazioni mafiose.

Poco meno di 43.000 abitanti a Rozzano, stretti a ridosso della tangenziale Ovest. Il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali. È vero? È falso?

Che altro?

Vergognati, a Rozzano c’è gente perbene.

Stai attento a quello che scrivi, ricordati che noi viviamo ancora qui.

Rozzano, Rozzangeles, non so se ce l’avete presente: si riconosce anche da lontano. Nel 1990 le hanno piazzato in mezzo, tipo segnaposto del Monopoli, la gigantesca torre della Telecom. Una costruzione altissima, 187 metri, che svetta isolata più alta di tutto il resto e che di notte sparisce: di lei restano soltanto le luci – alcune fisse, altre intermittenti – e sembra una specie di ufo che si vede a decine di chilometri di distanza.

La torre di Rozzano, il posto da cui vengo io.

Guarda, la torre: siamo quasi arrivati.

Rozzano è Milano, ma non è Milano.

È tutta fatta di grandi palazzoni di case popolari dai colori spenti. Tanti, tantissimi, uno dopo l’altro. Ocra, grigio, verde, giallo pallido, i colori delle case in cui sono cresciuto. Appartamenti prodotti in serie – due, tre o quattro locali – disposti in colonne, una di fianco all’altra, a formare i condomini compatti dell’ALER, Azienda Lombarda Edilizia Residenziale. Otto piani, oppure tre o quattro per le palazzine più basse. Case alveare, un appartamento schiacciato sull’altro. Una famiglia addosso all’altra, a formare gli organismi marchiati dalla via e dal numero civico.

Le strade che si snodano tra i vari condomini di Rozzano hanno quasi tutte nomi di piante e di fiori – via Garofani, via Verbene, via Rododendri – un po’ secondo la stessa logica per cui le favelas di Rio sono tutte colorate e da lontano sembrano un luna park.

Affitti bassi, le case costano poco, in qualche caso pochissimo, dipende dal reddito. Quando siamo rimasti da soli, mia madre pagava poco più di cinquantamila lire al mese. Ma molti l’affitto non lo pagano da anni o hanno sfondato, sono abusivi.

A Rozzano tanta gente ha origini meridionali, ma Rozzano non è Sud. È una specie di Sud senza il calore del Sud. È Sud sradicato e reimpiantato in fretta. Un concentrato delle difficoltà delle piccole periferie della Calabria, della Sicilia, della Puglia, della Campania, innestato in mezzo al freddo e alla nebbia della Pianura Padana, in mezzo ai suoi ritmi, ai suoi standard. È Sud raffreddato, senza mare, senza famiglia, senza più tradizioni. È la sua forza impetuosa e animale virata al negativo, affamata, ingabbiata in quei palazzi in serie senza mondo intorno.

Rozzano è Sud sequestrato, incattivito, in cattività.

A Rozzano si litiga sempre, si può anche ammazzare, si viene ammazzati.

È già successo, succederà ancora.

Un tizio discute in cortile con due conoscenti. Debiti di droga, diranno poi. Si allontana, va via. Passa da casa, recupera la pistola che tiene nascosta dentro l’armadio, torna al parchetto in mezzo ai palazzi e spara. Sono le dieci di sera. Muoiono in quattro in via Biancospini.

Muore un pensionato di crepacuore.

Muore una bambina di neanche tre anni, colpita al collo per sbaglio.

Si chiamava Seby, Sebastiana.

Era la figlia dei nostri vicini.

Rozzano è attraversata dall’acqua: fiumiciattoli più simili a canali di scolo, presenze selvatiche, per alcuni inquietanti. Depositi di sporcizia e rifiuti, lungo le cui sponde è facile vedere rane, topi, nutrie e spazzatura. Qualche tempo fa da uno di questi corsi d’acqua è riemerso un cadavere. Un clochard, hanno scritto i giornali, un cittadino bulgaro di cinquantotto anni. Dopo due giorni un altro: una donna giovane, molto magra, trovata incastrata tra i rami e le foglie. Una tossicodipendente scivolata nell’acqua?

Rozzano è antica, esisteva già al tempo dei Romani, ma la Rozzano che si vede oggi è stata costruita soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Tirata su dal nulla, in mezzo ai campi e alle risaie.

Me lo dicevano i miei nonni: guarda lì, quando siamo arrivati era tutto verde.

Ancora oggi a Rozzano di verde ce n’è tanto, ma i prati e gli alberi di Rozzano sono invisibili o meglio superflui. Non contano niente. Non li vede nessuno. Il centro della scena è occupato dai grandi blocchi condominiali, dai cortili con le auto parcheggiate, le casette delle portinerie ormai in disuso, le aiuole con pochi ciuffi d’erba, i box. Fanno eccezione alcune piccole zone, quelle dei condomini privati. Microscopici regni del benessere, discontinuità abitate da gente che in giro non si fa vedere, molto meno rumorosa e ingombrante dei rozzanesi dell’ALER.

Una specie di élite che vive ritirata, protetta, che paga un affitto più alto.

Da piccolo immagino queste persone felici, altere, superbe – sono sicuro che per loro le cose vanno diversamente. Vorrei abitare lì anch’io: perché non sono nato in via Guido Rossa, a Valleambrosia, a Cassino Scanasio? Perché non sono anch’io come Loris, Dario, come Valentina?

Il cuore pulsante di Rozzano però non sta in queste eccezioni, in queste oasi di privilegiati. Lo spirito di Rozzano sta tutto inscatolato nelle case delle famiglie che si accontentano e di quelle che invece non lo fanno, e vanno contro la legge. Delle signore al supermercato in vestaglia, dei ragazzini lampadati coi capelli rinsecchiti dal gel che impennano col motorino, delle adolescenti con la tuta aderente già truccatissime al mattino alle sette con i neomelodici sparati negli auricolari, delle grida che riempiono i cortili e salgono su su, fino alla cima dei condomini che a me mettono angoscia ma alle rondini evidentemente no. In cima ai palazzi, sotto al tetto, vengono a farci il nido.

Rozzano serviva, è stata usata.

Pressione migratoria.

Quartiere dormitorio, dimenticatoio.

A Rozzano, negli anni, scolano tutto il disagio possibile.

Si fa a gara a chi sta peggio.

Il vicino ti dà il cattivo esempio.

Famiglie troppo simili tra loro, a Rozzano, che hanno creato una subcultura specifica fatta di codici di cui poco si sa all’esterno. Nel posto in cui sono cresciuto le cose sono chiare: i maschi sono fatti in un modo – motorino, calcio, figa –, le femmine in un altro. Si sta da una parte oppure dall’altra. Ogni tentennamento, ogni tentativo di sconfinamento viene immediatamente riconosciuto e sanzionato. Pubblicamente, in strada, ovunque. Perché il codice è pervasivo e condiviso, si vuole stare al sicuro.

Servono certezze, non c’è spazio per le sfumature.

Tutti i rozzanesi che fanno fortuna – Michele Alboreto, Alberto Brandi, Arturo Di Napoli, Riccardo Morandotti, Antonio Sabato, Mauro Suma – sono maschi, sportivi o giornalisti sportivi. Unica eccezione: Biagio Antonacci, amico d’infanzia dei miei. È andato al loro matrimonio e in ospedale quando sono nato. Compare anche in qualche foto dell’album di nozze, il grosso libro foderato di stoffa e pelle marrone che mia madre ha tenuto per anni sepolto nell’armadio, sotto pile di vestiti e lenzuola. È tutto sfasciato, non sta più insieme, uno squarcio enorme taglia a metà il cartone ricoperto di pelle finta e tessuto: gliel’ho tirato addosso, mi ha detto una volta, il giorno che l’ho sbattuto fuori di casa.

Il centro di Rozzano è per tutti viale Lombardia: una strada qualunque ma per noi il centro di tutto, su cui si affacciano banche, parrucchieri e negozi. Oggi presa d’assalto dai cinesi, che l’hanno riempita di ristoranti, manicure, tutto-a-un-euro, e dagli arabi, coi loro kebab e le macellerie. Una strada lungo la quale durante il giorno camminano veloci le casalinghe e lenti i pensionati, e che al mattino presto e al pomeriggio dopo le quattro si riempie di bambini con lo zaino e la merenda in mano.

Bambini accompagnati dalle mamme coi piercing, i tatuaggi e la sigaretta che, mentre tengono lo sguardo incollato allo smartphone, urlano di tutto.

E smettila di rompere il cazzo, non mi fare girare i coglioni.

Le vedi anche sul tram: ragazze di diciotto, diciannove anni, già un paio di figli a testa, sui quali si accaniscono per ogni scemenza con pizzichi e sberle. Intervallano il regime da addestratrici del circo con discorsi nei quali i bambini vengono trattati da adulti: gli chiedono consigli, pareri, lezioni di vita. Parlano con loro di soldi, di spese impreviste, di come arrivare alla fine del mese. Poi ricominciano le furiose tirate d’orecchie e le manate, a cui seguono, scomposte, nevrotiche, coccole e parole dolcissime. Sul tram i bambini vengono mandati in perlustrazione per segnalare in anticipo l’arrivo del controllore, ma per il resto devono rigorosamente rimanere seduti.

Ehi, stronzo, se ti muovi ancora ti faccio vedere io.

Poco lontano da viale Lombardia si apre la piazza del comune, dedicata a Giovanni Foglia, il sindaco storico. Uno spazio spoglio, circolare, incorniciato da costruzioni basse che sembrano delle capanne di cemento. La sede dell’anagrafe, del catasto, dell’ufficio elettorale. Fino a un certo punto lì c’era la biblioteca, poi l’hanno spostata alla Cascina Grande, a Rozzano Vecchio – sì, “vecchio”, al maschile, si dice così. Rozzano è maschio, finisce per o.

La falce e il martello, a Rozzano ci sono anche i comunisti.

I miei nonni usano la parola comunista come un insulto: lì ci vanno i comunisti, quello è un comunista, se la fa coi comunisti. I comunisti si ritrovano nei circoli sotto i portici a parlare di politica. Passandoci accanto si vedono le pagine ingiallite dei quotidiani nelle bacheche, si sentono i commenti rauchi e nervosi dei pensionati ubriachi che urlano e scatarrano, rivendicando cose che da piccolo non capisco e trovo repellenti tanto quanto i loro baffi rinsecchiti dalla nicotina e bagnati dal vino. Sempre su di giri, i vecchi si danno di gomito se passo con mia madre o mia nonna.

Nonna, andiamo via.

Aumentiamo il passo.

A Rozzano ci sono i comunisti, ma non solo loro. Per un certo periodo, verso la metà degli anni Novanta, Rozzano viene presa d’assalto dai rappresentati di Forza Italia. Vengono le signore candidate nelle liste comunali, anche dei paesi vicini, in pelliccia e tacchi a spillo. Si presentano proprio nella piazza del comune oppure al mercato del sabato o del martedì, in mezzo alle mamme e alle nonne che escono dal Pam o dal Gigante con le code di cavallo mezze disfatte e tenute in piedi da elastici slabbrati o da mollette color evidenziatore. Vengono a proporre programmi, a far proselitismo, lasciano gadget col simbolo del partito, penne, spille, cappellini, agendine.

Signora le posso lasciare un volantino?

Ha già deciso per chi votare?

Non ho tempo.

Non mi interessa.

Qualcuno ne approfitta: dite a Berlusconi che venga a darci una mano, che qua siamo nella merda.

Rozzano oggi è anche il Fiordaliso, il centro commerciale che nei decenni è cresciuto a dismisura. Lo hanno ampliato, adeguandolo ai modelli dei centri commerciali americani. Non più un’unica costruzione con supermercato e negozi, ma una serie di costruzioni diverse: i fast food, il cinema multisala, i capannoni degli articoli sportivi e del fai da te. Arriva un po’ di mondo a Rozzano: una specie di paese a parte, una frazione dello shopping e dell’intrattenimento che rende Rozzano un po’ meno isolata.

Rozzano poi è anche l’Humanitas, l’ospedale all’avanguardia nato al confine con Milano 3, il paese costruito da Berlusconi. Vengono da tutta Italia per curarsi lì. Gente comune ma anche personaggi famosi. Ai rozzanesi però non piace. Dicono che all’Humanitas ti fanno morire. Meglio andare a curarsi altrove.

Meglio andare a Milano.

Rozzano è la parrocchia Sant’Angelo e il castello di Cassino Scanasio, i cavalcavia e la tangenziale, la nuova piazza dedicata ad Alboreto e i campetti da calcio delle parrocchie, la ASL di via dei Glicini, dove mi hanno trapanato e scavato nei denti senza mai usare l’anestesia – Signora lo tenga fermo, è questione di un minuto.

Ma Rozzano da sempre per me è soprattutto tre strade, tre vie: via Giacinti, via Verbene e via Dalie. Casa di mia madre e le case dei nonni. Tre punti segnati, tre rifugi, tre tane non sempre sicure: la storia mia e della mia famiglia, visibile a mo’ di costellazione, tipo una mappa sovrapposta dall’alto.

Rozzano mi odia.

Rozzano l’ho odiata.

Perché sono nato lì? Io che leggo, scrivo, disegno. Io che sono il più amato dai professori.

Perché proprio a me?

Io con voi analfabeti, io non c’entro niente.

Eppure a Rozzano ci sei nato e cresciuto.

Rassegnati: sei uno di noi.

Vivo a Rozzano ma lo voglio nascondere. Non voglio che la gente sappia com’è davvero casa mia. Non voglio che nessuno veda questo palazzo con l’intonaco che viene giù a pezzi e la gente spaventosa affacciata ai balconi. Non voglio che sappiano che io abito qui.

Quando da Milano qualcuno mi riaccompagna a casa in macchina, io mi faccio sempre lasciare lontano dal mio cortile. Dico per tempo a chi sta guidando, amico, amante o conoscente che sia: va benissimo qua, grazie, lasciami pure al benzinaio o alla rotonda. Ma sei sicuro? Guarda che non c’è problema, ti accompagno al portone. No, no, qua è un casino entrare nei cortili, stanno facendo i lavori. Va benissimo qui fuori, grazie.

Stanno facendo i lavori: lavori in corso trecentosessantacinque giorni all’anno nel mio cortile. Tutti gli anni, in ogni stagione. Neanche col buio, di sera, li lascio avvicinare. Perché Rozzano è la mia carta d’identità fatta di strade e palazzi, la rappresentazione materiale della mia paura di essere scoperto e giudicato in quanto poveraccio, figlio di poveracci, di operai che non hanno studiato, di gente se va bene con la terza media.

Cerco di tenerlo nascosto perché so che, nonostante i miei sforzi, Rozzano mi raggiungerà sempre e mi riporterà a casa. Un buco nero fagocitante, la divinità impietosa che riacchiappa i suoi figli insolenti, che si va a riprendere le sue schegge più ingenue, quelle che provano ad andarsene, a combinare qualcosa. Il richiamo che mi riporterà in basso. Una voragine gelosa e inarginabile che mi ha marchiato affinché l’appartenenza fosse ben visibile a tutti.

Inutile che ti nascondi, non serve a niente.

Dove credi andare?

Sei uno di noi.

Ancora oggi io ho paura che Rozzano rivendichi il suo dominio, che si riprenda ciò che le spetta. Che sbuchi fuori all’improvviso da qualche parte, dai documenti, dai miei tratti del viso marcati, dalla sciatteria nel vestire e che mi costringa quindi a tornare di nuovo al confino, tra le sue vie coi nomi dei fiori.

Come ho dovuto fare qua, ora, scrivendo.

Ho Rozzano incastrata nel nome, se parlo di me devo parlare di lei.

Me ne sono andato, ma è ancora tutta qui.

Ho i suoi palazzi affastellati nel petto, i miei piedi continuano a camminare per le sue strade. Sono i suoi garage, le sue edicole, i suoi parchi silenziosi e sospesi. Le sue urla in napoletano e in pugliese, le parolacce, le risate scomposte. L’ombra della torre Telecom mi raggiunge fin qua, al centro di Milano.

L’unico cap che ricordo, di tutte le case che ho cambiato negli anni, è il 20089.

Resterò per sempre in via Giacinti 10, al capolinea del 15.

Con la paura che arrivino i maschi.