Siamo pronti
Siamo pronti.
Finalmente inizio la cura.
Una pastiglia al giorno.
Non farà effetto subito, ci vorranno un paio di settimane, mi ha detto l’infettivologo. Altro tempo, ancora in attesa.
La febbre in effetti dopo qualche giorno va via, ma io sto di nuovo male. Subito dopo la diagnosi per un po’ mi era sembrato che andasse meglio. Torno in allarme.
Sì, ho l’HIV, così ha detto il test, ma non è per il virus che sto come sto. Ho qualcos’altro, lo so, me lo sento: non è l’HIV che mi ha fatto venire la febbre. Anzi, forse io non ho l’HIV, non l’ho mai avuto, gli esami mentono, si sono sbagliati. Falso positivo. Può capitare, i medici dicono di aver fatto anche la verifica, il test Western Blot, ma tutto quello che so a riguardo è un risultato su un foglio di carta.
Nessun’altra garanzia.
Perché mi dovrei fidare?
Sono debole ma non solo. Ho i ricordi offuscati. Dimentico le cose.
Non mi vengono le parole delle canzoni.
I go through all this
Before you wake up
So I can feel happier
To be – ?
Cammino per tornare a casa dopo essere sceso a comprare il cibo ai gatti. Canto per non sentire la fatica. Non ricordo come finisce il ritornello. Eppure il testo lo conoscevo bene. Non l’ho proprio dimenticato: non ricordo un paio di parole. Due, solo due. È grave? Provo con altre canzoni, tutte quelle della mia adolescenza: Carmen Consoli, Cristina Donà, PJ Harvey, Alanis Morissette, Madonna, Björk – Ah, ascolti musica da lesbica, mi risuona in testa la voce di un tipo con cui sono uscito a diciannove anni –, le so, me le ricordo, ma ogni tanto ho dei vuoti. Oppure non sono convinto che quella strofa finisca proprio così. Sono canzoni che non ascolto da tanto. È normale?
No che non è normale. Sto perdendo la memoria, l’HIV intacca anche il cervello, ho letto. O quello succede solo quando si va in AIDS? È la demenza collegata al virus? La febbre era solo il primo campanello d’allarme. Ora il male si è espanso e sta mostrando di cosa è capace.
Non è il virus, il virus non c’entra. Io me ne sto andando, ma nessuno se ne accorge. Mi rimpicciolisco, non ho fame, mangio controvoglia. Poi, senza neanche accorgermene, ingrasso, inizio a prendere peso, mi sformo come un pensionato. Non mi muovo più. Rovino, sfondo il divano col mio corpo fisso lì dodici ore al giorno. Con lo yoga ho smesso ormai da mesi. L’ultima volta che ho provato a rimettermi sul tappetino mi sono dovuto interrompere dopo tre saluti al sole. Mi cedevano le gambe, la forza di gravità, il richiamo irresistibile del pavimento: ho pensato che ogni movimento potesse essere l’ultimo prima del collasso.
Il pensiero che tutto sta per finire mi scava, mi svuota.
Ora sì che crollo davvero.
Resto in attesa che arrivi un segno.
E infatti arriva.
Scendo per fare la spesa e, girando l’angolo per infilarmi in viale Piave, sento qualcosa alla gamba destra. È più pesante, l’anca fa un movimento strano. Il piede appoggia in modo sospetto.
Sto zoppicando?
Amplifico la percezione, sto sempre a sentire cosa succede al piede e alla gamba, non li perdo mai di vista, devo tenermi pronto. Ho qualcosa di neurologico. Se gli esami del sangue erano a posto, dev’essere per forza il cervello. È per questo che dimentico le canzoni e sento la gamba che mi abbandona.
Le sensazioni anomale due giorni dopo si spostano, migrano, arrivano al polso e alla mano destra. Poi tutto il braccio, fino alla spalla. Le avverto quando tengo in mano le cose, quando a tavola sollevo la forchetta, quando sposto i barattoli del sale e dello zucchero.
Sento il braccio che sta perdendo forza, presto cadrà a peso morto.
È la sclerosi multipla, come la vedova di Pavarotti?
Il male immaginario delle capricciose, delle donne bambine, direbbe la dottoressa omeopatica radiata dall’albo. La via che il corpo trova per reclamare attenzioni.
Torno su internet, controllo i sintomi per capire se decidere di averla davvero o aspettare che si aggiunga dell’altro. Immagino come sarà sentirmela diagnosticare e conviverci. Magari finirò sulla sedia a rotelle – tuta e ciabatte, coperta scozzese sulle gambe – che è comunque meglio che morire tra poco.
Leggo e mi preparo, poi la svolta, una nuova intuizione.
Finalmente la peggiore di tutte.
Scopro le testimonianze dei malati di SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, leggo di come hanno capito di avere la malattia del motoneurone, quella che progressivamente, nel giro di pochissimi anni, ti paralizza completamente. I racconti dei parenti rimasti: figli che raccontano il calvario delle loro mamme o dei loro papà, mogli che spiegano come si sono accorte che il marito aveva qualcosa che non andava.
Mio padre ci ha lasciati l’anno scorso.
Mia madre ha lottato fino alla fine.
Io ho perso così mio fratello, gli ultimi tre anni li abbiamo passati accanto al suo letto.
Inizia sempre da un arto, da un braccio, da una mano o una gamba, e da lì si prende tutto.
Ecco cosa mi sta succedendo.
Ho la SLA, la malattia di Welby, di Hawking, di Luca Coscioni. La malattia neurodegenerativa che è venuta a molti calciatori: dicono sia per lo sforzo fisico, per altri invece c’entrano gli integratori alimentari, le sostanze dopanti. Nel mio caso è stato lo yoga? I ritmi da ginnasta, da atleta agonistico – due, tre ore al giorno, salti avanti e indietro, Sirsasana, la posizione sulla testa, pressione eccessiva sul sistema nervoso centrale – mi hanno tradito?
In genere si manifesta più tardi, sessant’anni, settanta, ma le eccezioni ci sono. E io le trovo. Sempre grazie a internet. Ragazzi e ragazze di venticinque, trent’anni che si sono ammalati di SLA precoce. Interviste, raccolte fondi, gare di solidarietà.
Quanto si vive?
Due, tre anni.
Qualcuno arriva anche a cinque o sei.
Le giornate degli ultimi anni che mi restano: non mi muoverò più, starò sdraiato a letto ma, anche se immobile, potrò continuare a leggere e a scrivere. Esistono macchine sofisticatissime che ti permettono di comunicare attraverso i movimenti oculari – le passa la mutua? Se costano troppo farò una colletta su Facebook. Controllo il prezzo su internet, mi informo sulla pensione di invalidità, sull’assistenza a domicilio di cui avrò bisogno. Immagino la mia voce diventare quella del sintetizzatore vocale, che ripeterà le parole che io comporrò muovendo lo sguardo – puntatore oculare, una lettera alla volta. Guardo i video dei malati, leggo le loro storie, ascolto i loro appelli affinché le istituzioni facciano di più per loro e le famiglie che li assistono. Mi informo di nascosto, poi cancello la cronologia: Marius non lo deve sapere che dovrà asciugarmi la bava e gli occhi, che mi servirà l’aspiratore della saliva e del muco per non soffocare.
Dovremo andare a vivere a Rozzano?
Per forza, come facciamo qua a casa da soli.
Allestiranno il mio letto con tutti i macchinari da mia madre, in sala magari, che è la stanza più grande che ha. E lì si alterneranno, lei, Marius, mia sorella, mia nonna. Faranno i turni quando arriverò ad aver bisogno di assistenza ventiquattro ore su ventiquattro.
Marius forse continuerà a vivere a Milano, qua a casa nostra. Da mia madre lo spazio è troppo poco. O chissà: magari prenderà una stanza in un appartamento in condivisione, per spendere meno. Un flash, una fitta: e Mirtilla e Purè? Mia madre ha Sissi e Raya, le sue due cagnoline, non li potrò portare con me. Staranno con Marius nella stanza a Milano? Li potrò vedere solo in foto, in videochiamata?
E ancora – devo pensare a tutto – nella fase terminale i malati di SLA hanno bisogno della ventilazione automatica. Molti la rifiutano, preferiscono andarsene prima. Non accettano l’ennesima umiliazione, il fastidio, il dolore, l’invasione del corpo. Io, decido: non la rifiuterò. Mi basterà poter leggere e scrivere. Certo non romanzi. Ma poesie, piccole prose. Anche solo qualche frase. Tanto mi sono sempre stufato delle pagine fitte: procedo a scatti, ho il passo puntiforme. Per leggere invece esistono gli audiolibri. Non potrò più muovermi? Tanto finora ho vissuto più nella mente che fuori, nel mondo. Secondo me sono la persona giusta per farlo.
Mi peserà meno che ad altri.
Faccio i test per capire a che punto è la mia malattia: molti scoprono di avere la SLA perché non riescono più ad abbottonarsi la camicia, ad allacciarsi le scarpe o a girare le chiavi nella serratura. Inizio a ripetere tutti i giorni, continuamente, questi movimenti rivelatori – sono loro che me lo diranno, che confermeranno i miei dubbi che ormai più che dubbi sono dati di fatto, pura realtà –, mi metto davanti allo specchio dell’armadio in camera da letto o del bagno ed eseguo il test di Mingazzini per valutare la perdita di forza muscolare.
Occhi chiusi, piedi ben piantati a terra, allungo le braccia in avanti.
Trenta secondi e li riapro.
Il braccio destro cede?
Non ancora.
La malattia è solo all’inizio.
Provo coi palmi verso l’alto e poi verso il basso, provo in tutte le varianti possibili per vedere se cambia qualcosa. Altre prove, altri test, non bastano mai: alcuni li trovo su internet, altri me li invento. Picchietto le dita della mano destra tra loro per verificare se ho ancora coordinazione.
Pollice e indice, pollice e medio, pollice e anulare, pollice e mignolo.
E di nuovo, sette, otto, dieci, venti volte.
In un senso e nell’altro.
Sempre più veloce.
Pollice e indice, pollice e medio, pollice e anulare, pollice e mignolo.
Con Marius una sera andiamo al ristorante cinese nella via a fianco alla nostra e io tutto il tempo non posso far altro che pensare che le bacchette sono la mia prova del nove: se non riuscirò a usarle come al solito è perché qualcosa non va davvero. È perché la malattia ha iniziato a diffondersi nel mio sistema nervoso.
Le afferro, provo a tirare su dei pezzi di tofu.
Ci riesco, ma le sensazioni alla mano, al polso e al braccio sono sempre lì.
Devo appoggiare il gomito per non sentire il peso dell’arto, devo appoggiarlo per paura che crolli, collassi giù, paralizzato.
A Marius non parlo di quello che ho capito di avere, mi limito a dirgli che sono sempre stanco. Lui tanto fa finta di niente, non si preoccupa quasi mai del male in arrivo. Interagisce con le cose solo nella loro variante ufficiale, segue il percorso più lineare. Evita le complicazioni, le dietrologie.
Hai l’HIV, ti curi e starai bene.
Fine.
Questione risolta.
Semplice, diretto, ottuso, spietato?
È per questo che non vede quello che sta succedendo. È per questo che resta con me anche se ormai sono uno schifo, anche se faccio la doccia se va bene ogni tre giorni e sto sempre in pigiama, con tutti i muscoli di un tempo ora coperti di grasso. Se fosse per lui dovrei continuare a fare tutto come al solito: vuole che rispettiamo il turno per lavare i piatti – uno li fa a pranzo, l’altro alla sera – anche se io non mi reggo in piedi. Cucino io quando arriva l’ora di cena, anche se farlo per me significa affrontare una prova di resistenza.
Fa bene a non trattarti da malato, mi dice qualcuno.
Ma io sono malato.
Non riesco più a fare niente.
Al mattino, quando suona la sveglia, ho paura di rivederlo, di parlargli, di sentire la sua voce di nuovo: ho paura di non essere all’altezza di questa sceneggiata che continua a ritenermi destinato alla vita, ho paura di non riuscire più a fingere. Come al solito mi chiederà di fargli il caffè. Me lo chiede dal letto, senza neanche alzarsi. Scende solo quando il caffè è pronto: è una specie di rito, a volte lo trovo dolcissimo, altre asfissiante.
Voglio continuare a fargli il caffè, ma inizia a essere fuori dalla mia portata. Continuo a farglielo anche se devo versare l’acqua e lo zucchero il più velocemente possibile, per poter tornare subito sotto le coperte, dove stringo i gatti e affondo la testa dentro al cuscino. Lo racconto al telefono a Eugenia, la mia amica insegnante di yoga – Scusa ma non se lo può fare lui il caffè? – e, mentre lo faccio, la voce mi si torce, la gola pronta alle lacrime.
No, voglio continuare a farglielo io.
Finché gli preparo il caffè significa che non è ancora tutto finito.
La mia amica al telefono taglia corto, non è abituata a sentirmi così. Ho eliminato qualsiasi premura o decenza.
Dai, fammi sapere, dice.
Mette giù.
Era in imbarazzo.
L’ho spaventata?
Io la paura non la avverto più.
Ormai mi manca il rapporto figura-sfondo, la paura ha ricoperto tutto, sono assuefatto.
Ci sarò ancora o no, vivrò un mese o forse un anno.
Vado avanti lo stesso, finché ci riesco.
Ogni tanto mi viene da piangere, e lo faccio. Piango in bagno, in strada, sui mezzi. Non importa se mi vedono tutti. Piango pensando a Marius, a quello che gli sto facendo, al dolore che sto per causargli. Piango pensando ai gatti – li tratteranno bene come li tratto io? Piango pensando a quando ero libero di buttare via il tempo facendo prove su prove, esperimenti, iniziare una cosa e mollarla dopo due giorni, o un’ora, pensandomi eterno. Piango all’idea che non ho via d’uscita, che sto perdendo il controllo della mente e del corpo, piango ma piangere non mi fa stare meglio: non è liberatorio. L’angoscia è un insetto gigante che vomita la sua bava vischiosa. Avvolge tutto, la testa, la bocca, il respiro, i miei passi, la speranza di poter arrivare all’estate, di esserci ancora alla fine dell’anno. Ingloba tutto, mi inghiotte. A ondate, sfruttando gli spasmi, tento di risalire, ma ogni movimento peggiora le cose.
Faccio un ultimo tentativo, riscrivo al mio infettivologo.
Ciao, con la cura tutto ok, niente effetti collaterali, ma continuo a sentirmi male, ogni giorno mi sembra di stare peggio.
Un’ora dopo arriva la risposta.
Tutti i tuoi valori sono a posto, dagli ultimi esami risulta solo un po’ di carenza di vitamina D. È molto comune nei pazienti con infezione da HIV. Escludo qualsiasi causa organica: i sintomi che riferisci mi fanno sospettare un possibile stato ansioso-depressivo, per cui ritengo che un supporto psicologico, ed eventualmente psichiatrico, possa essere utile a superare questa fase.
Non mi crede.
Pensa che io sia in paranoia per la diagnosi. Ma non è così, io l’ho accettato: ho l’HIV, non è un problema. E se non stessi come sto, ve lo dimostrerei.
Sono inaffidabile, quello che dico io non conta: tutti mi proiettano addosso il loro terrore, mi interpretano alla luce della loro paura.
Hai l’HIV e devi essere devastato.
Sei sieropositivo, è per questo che non sei più lucido.
Cambio obiettivo.
Scrivo al mio medico di base.
Vorrei fare degli esami.
Altri esami, nuovi, ulteriori – qualunque cosa.
Facciamoli tutti.
Una volta scoperto dell’HIV ci si è fermati, senza pensare più ad altro.
Si sono accontentati.
D’altronde i medici vanno capiti: uno non è che può avere tutti i mali del mondo.