Come stai?
Come stai?
Moscio, fiacco, come quando hai l’influenza.
A chiunque me lo chieda ripropongo i soliti tre o quattro aggettivi. Imprecisi, vaghi, impotenti.
Basta, ho deciso: vado dal medico.
Prendo la metro, direzione Sesto, raggiungo il mio nuovo dottore nel suo studio tra viale Monza e via Padova. Aspetto sulla sedia anni Settanta grigio infeltrito: sta visitando una ragazza africana che non parla bene l’italiano. Ha un problema ginecologico. Le sta prenotando lui una visita dallo specialista.
Capisci quello che dico?
C’è posto per domani, va bene?
Sai come ci si arriva?
La ragazza raccoglie le sue cose ed esce.
Avanti, chi è il prossimo?
Come entro nella stanza, il mio nuovo dottore mi dice che non sono idratato. Mi fa sedere sul lettino, mi guarda gli occhi, la pelle: vedi che labbra secche che hai? Bevi abbastanza? Zenzero, curcuma, fatti delle tisane.
Ho la febbre da una settimana, nessun altro sintomo.
Niente raffreddore, niente mal di gola.
Il corpo deve guarire da solo, mi dice, non ti do l’antibiotico.
Mi dà degli integratori, un multivitaminico, l’echinacea, i probiotici per l’intestino. Vado a comprarli in farmacia. Con questi sicuro andrà meglio. Quando torno a casa, li fotografo pure. Fermo in una foto l’immagine di questi quattro, cinque flaconcini davanti alla finestra della cucina. In fila, uno dopo l’altro, circondati da una luce bianchissima – è di buon auspicio, metto un filtro per aumentare l’effetto.
Una terapia naturale, mi guarirà.
Falso, non cambia niente.
La febbre rimane.
37.3, 37.4.
Non esplode, ma neanche si spegne.
Resta lì, dalla mattina alla sera.
Misuro la febbre, hai misurato la febbre? Letto, divano, poi ancora letto. Mia madre che chiama: non glielo voglio dire che la febbre non si è ancora abbassata. Che è sempre qua, tale e quale a prima. Non è un’influenza, ormai devo ammetterlo, non è un’influenza normale.
Inizio a cercare su internet i sintomi, le cause. Che malattia mi è venuta?
Esco di casa solo il minimo indispensabile. Mi trascino in palestra a fare lezione e al supermercato quando proprio non posso farne a meno. Il resto del tempo sto sul divano e cerco ipotesi online. Devo capire, devo sapere cosa mi sta succedendo.
Febbricola, si chiama così, imparo che ha un nome speciale la febbre bassa e persistente. Cerco su Google: febbre che non passa, febbre bassa costante. In continuazione. Leggo dai siti, dai forum, dai consulti online coi dottori. Febbricola, febbriciattola, febbre a 37 da due settimane. Ci sono persone a cui viene questa febbre che non va più via, è una specie di sindrome. Leggo le testimonianze di quelli che l’hanno avuta o ne soffrono ancora: febbre di origine sconosciuta, Fever of Unknown Origin, F.U.O. Ci sono casi anche molto più gravi, gente a cui dopo è venuto di tutto.
Ho paura, inizio ad avere paura davvero.
Un ascesso nascosto, un’infezione, la tiroide, un tumore?
11 gennaio 2016, torno dall’università e mi viene la febbre.
Sono tornato a piedi anche se già in aula non mi sentivo bene. L’università è a dieci minuti da casa, non ho preso la metro – me ne sono pentito. È ora di pranzo, dovrei mangiare ma non ho fame. Al corso di Filosofia politica che ho appena iniziato a seguire la professoressa ha raccontato dello scontro tra i Melii e gli Ateniesi per illustrare la tesi secondo cui le considerazioni rilevanti in politica sono solo quelle basate sui rapporti di forza.
Provo a riguardare gli appunti ma mi bruciano gli occhi. Non riesco. Ho la febbre, non passerà più. Smetto di andare all’università. Non ci vado il giorno dopo, non seguo più il corso. Non vado il giorno dopo e non ci andrò più.
Non mi laureerò più.
Lunedì 11 gennaio: l’8 era il compleanno di Marius, il mio ragazzo. Viviamo insieme da quasi tre anni. Io, lui, Mirtilla e Purè, i due devon rex che ho preso insieme a Marco, il mio ex (io li avrei chiamati Rosaspina e Léon, il mio ex Poverina e Purtroppo, abbiamo trovato un compromesso).
Sabato sera per festeggiare il compleanno di Marius siamo andati a ballare con dei suoi amici. Anzi, prima a bere in un paio di posti qua in zona e poi in discoteca. Non stavo male, forse un po’ fiacco. Niente di che. Mi è già capitato. Al locale un suo amico, nei bagni, dopo avermi guardato mi ha detto ridendo: non hai un’aria sana, sembri sieropositivo. Lo sembri più tu, gli ho risposto io. I sieropositivi che conosco io sono più simili a te – ovvero troie –, i sieropositivi che conosco io sono troie, come te.
È che io ho sempre avuto un’aria sbattuta: sin da piccolo mi sento dire che sembro malato.
Hai le occhiaie, come sei pallido, prendi un po’ di sole.
Ma mangi?
Del compleanno di Marius ho anche un video: in uno dei pub in cui siamo stati prima di andare a ballare mi sono ripreso mentre infilo in bocca della pellicola di plastica trasparente appallottolata. Ero ubriaco. Ho caricato su Instagram la sequenza al contrario, in rewind: sembra che la mia bocca risucchi un grosso fiore di vetro accartocciato. La massa lucida da gonfia diventa stretta, mi dilata a dismisura le labbra. Entra tutta, scompare. Gli occhi spalancati, la pelle arrossata, il flash del telefonino sparato in faccia.
Passano altri due giorni.
Torno dal mio nuovo dottore.
Non c’è nessuno: ha appena aperto lo studio, pochi pazienti. Approfitto della sua disponibilità, del suo bisogno di piacere alla gente.
Entro, mi siedo.
Allora come va?
Ho ancora la febbre. Bassa, ma c’è.
Lui minimizza, pensa che mi trascuri: un’influenza, è la stagione.
Stai prendendo gli integratori? Magari è mononucleosi. Solitamente dà febbricola e sudorazione notturna, e tu le hai entrambe. Bisogna fare gli esami del sangue, senza aspettare. Ho bisogno di vedere gli esami per capire che tipo di infezione c’è. Se virale, come penso, o batterica.
Mi faccio accompagnare il giorno dopo da un mio amico, Alessandro. Ci siamo conosciuti all’università. Lui si è laureato in Storia dell’arte e sta iniziando a lavorare nelle case d’aste. Ha una fissa per i cassoni rinascimentali, quelli per la dote nuziale. È di Bergamo, vive lì col suo ragazzo. Viene apposta per accompagnarmi in ospedale: si ferma a dormire da me la sera prima e al mattino presto andiamo al Policlinico, in centro, via Sforza, proprio dietro alla Statale, l’università a cui sono iscritto.
Usciamo verso le sette. Non è molta strada ma io faccio fatica a camminare. Mi pesa ogni passo del tragitto da casa mia, in Porta Venezia, all’ospedale. Non dico niente, prima o poi finirà. Sicuro, ma come?
Ci fermiamo in un bar.
Ho addosso il mio solito cappotto marrone imbottito: me l’ha regalato Marius l’anno scorso perché non avevo nulla di abbastanza caldo per l’inverno. Da quando stiamo insieme ho smesso quasi del tutto di comprarmi vestiti: uso i suoi. Mi piacciono, e poi lui fa lo stylist: da quando sto con lui mi vesto meglio. Non ho più quell’aspetto un po’ topo da biblioteca, un po’ amico di Heidi. Tutto è di entrambi, non ho più un mio armadio: ci siamo fusi anche attraverso i vestiti.
Nel bar aspetto che Alessandro finisca. Mangia una brioche, beve un cappuccino di soia. Io devo rimanere a stomaco vuoto per i prelievi. Paga e usciamo. Passi, autobus, poche parole – ecco siamo arrivati.
In ospedale, davanti alle casse per pagare il ticket, la confusione mi accende, riprendo vita: per distrarmi dalla noia mi faccio un selfie e lo posto su Instagram. In mezzo ai monitor della sala d’attesa sembro un inviato del telegiornale.
Ascolto i discorsi della gente che mi sta intorno.
Mi perdo tra i pezzi di frasi e le ripetizioni delle cassiere.
Ha la tessera sanitaria?
Scusi ha raccolto le urine?
Signora a che mese di gravidanza è?
Sono 27 euro e 80.
Un quarto d’ora, mezz’ora, finalmente arriva il mio turno.
Mi infilo da solo nel corridoio sul quale si affacciano le stanze e gli ambulatori. Mi capita un infermiere, maschio, sbrigativo, radio accesa. Mentre mi sto sedendo, parla con le colleghe. Ridono, scherzano, che io stia bene o male a questi non gliene frega niente. Il mondo va avanti anche se io sono in pericolo – Non fare la vittima. Ma è vero: per ogni malato la sua condizione è un evento assoluto. L’enigma che dovrebbe fermare il corso del tempo, la vita degli altri. La malattia recinta, scinde, confina chi ne è portatore in una sfera a parte – egoista, impaurita –, lo riporta nell’io-me primordiale che non vede altro che se stesso.
Velocemente, senza rivolgermi la parola, l’infermiere mi lega il laccio emostatico. Distolgo lo sguardo per non collegare la sensazione dell’ago che buca la pelle ed entra nel braccio all’immagine della mia carne trafitta e del sangue che viene portato via dal mio corpo.
Non ho paura, solo non voglio associare le due cose. Non voglio guardare mentre succede.
L’infermiere, sempre senza dire niente, sfila l’ago dal braccio. Accettalo: non hai diritto a nient’altro che a questa ripetizione meccanica. Il modo in cui si fanno le cose, il protocollo: abbiamo finito, arrivederci, a chi tocca?
Non mi ha medicato bene: mentre torno da Alessandro – è rimasto seduto davanti alle casse –, da sotto il batuffolo fissato con lo scotch di carta parte una goccia di sangue che mi attraversa l’interno dell’avambraccio e si allunga giù, fino al polso. La fotografo, è bella: una linea rosso scuro che man mano si schiarisce, perde densità e lascia intravedere il colore della pelle.
Celebro con questa foto la fine della mattinata.
Ora bisogna solo aspettare.
Mi pulisco, prendo qualcosa alle macchinette. Un tè caldo, pieno di zucchero. Una merendina qualsiasi, non ho nessuno slancio verso la scelta. Le mie manie salutistiche non valgono più. Hanno fallito.
Torno a casa e mi metto a letto.
Dormo un paio d’ore.
Mi sveglio, misuro la febbre.
Niente di nuovo.
Il mercurio conferma.
Sta succedendo davvero.