Ti lascio la busta all’ingresso

 

Ti lascio la busta all’ingresso.

Dentro ti metto le provette in cui travasare le urine.

Fai i prelievi, poi raggiungimi pure in ambulatorio.

Gli esami per iniziare la terapia: ricette su ricette, un numero impressionante di prescrizioni. Torno in ospedale qualche giorno dopo: gli infermieri risucchiano dal mio corpo una quantità di sangue che non pensavo avrei mai visto così, tutta insieme, riunita e portata via dal posto in cui dovrebbe stare. Dodici fiale in tutto. Le conto una a una, mentre vengono riempite e appoggiate nel vassoio di acciaio. Visualizzo il mio corpo prosciugato, un reticolo di vene già secche, mentre mi alzo dalla poltrona su cui l’ago si è preso quel che doveva.

Ovatta, disinfettante, srotolo la manica della felpa.

Vado giù, svengo?

Ma no, niente, nessun calo di pressione, neanche un vago giramento di testa. Di quanto sangue possiamo fare a meno?

E ora una bella colazione, dice l’infermiere mentre recupero il giubbotto e lo zaino.

Esco dalla stanza dei prelievi e vado al bar dell’ospedale. Meno male che non è venuta mia madre stamattina, mi avrebbe costretto a mangiare tutte le brioche scongelate della vetrinetta di fianco alla cassa. Prima che iniziassi a star male ero vegano: ora non più, da qualche giorno latte e uova ho ripreso a mangiarli. Che senso avrebbe continuare ora che per vivere ho bisogno di farmaci che sicuramente sono testati sugli animali?

Rinunciare agli ideali, fare i conti con la realtà.

D’ora in poi, tutto diverso.

Alla seconda visita viene con me anche Marius.

Non gli ho trasmesso il virus, l’infettivologo ci spiega che non è così assurdo. Gli sono già capitati casi del genere: più spesso coppie eterosessuali, ma anche in quelle omosessuali può succedere. Nella trasmissione le variabili in gioco sono tante. Conta la quantità di virus che la persona ha nel sangue, ma anche la propensione del partner a essere contagiato. Alcune persone sono meno soggette all’infezione. Ci sono predisposizioni biologiche che diminuiscono nella popolazione man mano che si risale dall’Equatore, dice, motivo per cui in Africa il contagio è sempre stato particolarmente facilitato.

Marius è nato in Romania, ha i capelli quasi biondi e la pelle chiara: con l’HIV in un attimo tutto diventa allegorico, faccenda da predestinati. Sto con lui perché così doveva essere: era per natura protetto dal male, è il prescelto – chiaro, danubiano, ortodosso, immortale –, così mi racconto, assecondando la vocazione dell’HIV a essere più simbolo che malattia, più metafora che condizione fisica.

Al mio infettivologo, in uno slancio verbale, preciso che non ho mai avuto molto a che fare con gli ospedali – sono qua in via del tutto eccezionale, salute di ferro –, non sono mai stato ricoverato. Niente, neanche un’operazione, l’appendicite, un osso rotto.

Lui sorride.

Mi sa che ti ci dovrai abituare.

In realtà non ho grossi problemi con gli ospedali, anzi un po’ mi affascinano. Sono pieni di angoscia e paure, ma anche di vite che ricominciano. Luoghi per gli ammalati ma anche per i guariti pronti a tornare nel mondo. E i neonati. Durante l’adolescenza li ho associati soprattutto alla gravidanza. Le corse notturne con i parenti, l’attesa durante il travaglio, il senso di essere uniti, tutti insieme – una famiglia.

Non sono a disagio coi controlli e le visite, Marius invece gli ospedali li odia, non capisce come io possa avere sentimenti non ostili.

Viene con me al Sacco solo un paio di volte.

Ai controlli ci torno quasi sempre da solo.

Dopo la prima visita riprendo a usare internet per appagare i miei dubbi. Devo sapere in anticipo, voglio essere il paziente modello. Leggo pareri e testimonianze, cerco informazioni sulle aspettative di vita delle persone sieropositive, sugli effetti collaterali della terapia che inizierò a breve e che dovrò assumere d’ora in avanti. Per sempre. Oggi con l’HIV si convive, ok, ma resterò lo stesso di adesso? Il virus e i farmaci altereranno il mio aspetto? Ingrasserò, dimagrirò, mi verrà una faccia diversa?

In rete tutto si sovrappone, le risposte alimentano altre domande: le informazioni aggiornate si confondono con quelle del passato. L’HIV e i farmaci che dovrò assumere per tenerlo a bada hanno i loro segni, marchiano il corpo. Alterano il metabolismo, provocano la sindrome metabolica, causano la lipodistrofia, la distribuzione irregolare del grasso corporeo, che svuota le guance ma gonfia la pancia e i fianchi e provoca la gobba di bufalo, l’accumulo di adipe sotto la nuca, alla base del collo.

Diventerò scheletrico ma con l’addome e le mammelle ipertrofiche?

Vivo ma deforme, salvo ma inguardabile.

Per sopravvivere dovrò accettare tutto questo?

Cos’altro?

Sarò costretto a ricorrere alla chirurgia estetica, a riempirmi gli zigomi come le tipe della tv, a fare la liposuzione, ad aspirare il grasso che dalla faccia e dagli arti, dalle braccia e dalle gambe, sarà migrato dove non avrebbe dovuto?

Ma no, oggi non è più così – trovo scritto da qualche parte. I farmaci di oggi non sono più gli allucinanti cocktail dei decenni passati, ormai non si deve più ricorrere al micidiale AZT, la lipodistrofia è un effetto collaterale superato, le persone sieropositive non le riconosci più a colpo d’occhio. È difficile capire cosa c’è di vero e cosa invece è solo il retaggio degli anni Ottanta e Novanta, nel dubbio, mi consigliano gli utenti anonimi dei forum, tu chiedi sempre al tuo infettivologo. Lascia perdere quello che trovi scritto su internet.

Ascolto, sono d’accordo.

Ma non ci riesco, è più forte di me.

Anche perché ormai ho smesso di fare qualsiasi cosa: non lavoro più, non leggo, non scrivo, non medito, non faccio foto, non sto più su Facebook, esco di casa solo quando sono costretto. E l’attenzione è inevitabile: va sempre lì.

I malati di HIV non muoiono più ma restano comunque soggetti a problemi circolatori e cardiaci, sono più a rischio di tumori e altre patologie legate all’invecchiamento precoce. Però sono anche più controllati della maggior parte delle persone – chi fa esami e controlli tre, quattro volte all’anno? – e così, spesso, queste malattie vengono individuate tempestivamente.

Non morirò nell’immediato, dunque, ma mi verrà il cancro tra poco?

A breve il cuore cederà?

Ora ho trent’anni, l’aspettativa di vita è di? Trentacinque, quaranta? Arriverò ai sessantacinque, settanta – dai, non sono mica pochi, certo neanche tanti. Mi sarebbe piaciuto arrivare ai novanta – diventare centenario –, non sono mai stato uno di quelli che no, per carità, così vecchio mai, e ora invece mi devo accontentare di queste stime. Di sfiorarla e basta, la terza età.

Calcolo in continuazione gli anni a cui posso sperare di arrivare, percorro mentalmente la distanza che mi separa dalla fine. Quando scopri di avere l’HIV l’idea della morte irrompe in ogni caso, anche oggi, anche se ovunque senti dire che la medicina ha fatto progressi enormi, che basta curarsi e si fa una vita normale. Una morte non più imminente, ma che entra in gioco lo stesso come la presenza che deve essere scongiurata con esami, controlli, farmaci, stile di vita.

È per lei che devo fare tutto quello che mi aspetta.

È lì dietro l’angolo, d’ora in poi sempre pronta.