L’ho preso da lui
L’ho preso da lui.
Sicuramente l’ho preso da Marius.
Quando ci siamo conosciuti dopo due settimane abbiamo smesso di usare il preservativo, senza fare il test prima. Senza parlarne, accordarci, mettere in chiaro le cose.
Imbarazzo e fondamentalismo romantico insieme.
Abbiamo iniziato a stare insieme e me non sembrava vero: come faccio a piacergli? Lui è bellissimo, non ha trovato di meglio? Sono un ripiego, un passatempo in attesa di altro? Ero così felice che pensavo sarebbe successo presto qualcosa di brutto: un incidente, una malattia, una morte improvvisa. A uno o all’altro, oppure, perché no, insieme.
La felicità è un affronto, richiede un bilanciamento.
Pensavo che l’inizio della nostra storia fosse il preambolo di una disgrazia.
Ero così felice che ho evitato qualunque perturbazione. Più o meno consciamente: lasciare tutto com’è. Lui è stato con più ragazzi di me – o è solo che ne parlava di più? –, sapevo che sarebbe potuto succedere. Una parte di me l’ha messo in conto, ma ho fatto finta di niente. Non sapevo – né so – se ci è sempre stato attento, se gli è mai capitato di fare sesso da ubriaco, se ha sempre avuto il controllo della situazione. Non lo so, non gliel’ho mai chiesto. Ho sorvolato, mi sono affidato a non so neanche io cosa.
So che lui ha iniziato a chattare a quindici anni. È andato con bel po’ di gente quando viveva giù in Umbria e poi, soprattutto, quando si è trasferito a Milano. Tutti più grandi di lui, trentacinquenni, quarantenni. I suoi amici qua a Milano, maschi e femmine non c’è differenza, hanno anche loro vent’anni e fanno lo stesso: scopano con sconosciuti in continuazione e lo raccontano ridendo, vantandosene. Lo mettono in scena, sui social, lo esibiscono, si chiamano troia a vicenda. Lo usano per rappresentarsi, si costruiscono un personaggio.
Ginger una sera in discoteca è andata con tre tipi conosciuti lì nel locale, tutti molto più grandi di lei. Uno dopo l’altro, nei bagni e fuori nel parco della Triennale, tra i cespugli, senza usare il preservativo. Aveva pure il ciclo. Miguel va con almeno tre, quattro ragazzi nuovi a settimana: li conosce nei locali o in chat, uno l’ha portato a scopare di notte nella filiale della banca in cui lavora. Gilda e Rachele dopo una serata sono tornate a casa con due tizi e l’hanno fatto nella stessa stanza. Un’orgia su binari paralleli.
Ne parlano liberamente su Facebook, mischiano realtà e finzione. Postano le foto dei letti al mattino dopo, del lubrificante, dei cazzi di gomma. Sesso e non solo: condividono i meme sugli psicofarmaci e le malattie mentali che fingono di avere, usano nomi in codice e soprannomi per la cocaina e le droghe sintetiche. Si fanno bloccare sui social per i resoconti dettagliati degli incontri organizzati su Grindr e Tinder, insultano i ragazzi con cui sono usciti, li sputtanano postando gli screenshot delle conversazioni in chat.
Cinismo e bestemmie, più forte è meglio è.
Si fa a gara a chi attira di più l’attenzione.
Io sono disinibito solo finché si tratta degli altri. Di me non parlo. Non sono mai riuscito a condividere la mia vita sessuale: i miei amici per questo a un certo punto hanno preso a chiamarmi Vergine delle rocce. Anche se non parlarne non significa non farlo, non averlo fatto.
Vivere il sesso con leggerezza: perché non ci riesco? Il sesso occasionale c’è stato, l’ho cercato, l’ho fatto, ma sempre occultato, nascosto – mai argomento di conversazione. Mi dà fastidio la disinvoltura che io non ho? Se fossi stato come loro, libero, disinibito, esibizionista, mi sarei preso più cura di me? Mi sarei protetto meglio?
Con Marius la questione test l’ho rimandata, fra me e me, giorno dopo giorno, e alla fine non gliene ho più parlato. Ho accantonato il problema senza averlo neanche deciso. Ho sempre pensato che l’amore mi avrebbe difeso, che fosse la miglior forma di protezione. Pensavo che dall’amore non potesse venire niente di male. Sortilegio, conversione alchemica: al male eventuale l’amore cambia di segno. Lo ingloba, lo riassume in sé, ammaestrandolo, rendendolo parte del cerchio magico.
Sicuramente è andata così: era sieropositivo e non lo sapeva.
Ha fatto finta di niente, come me.
Tutti colpevoli, nessuna colpa.
Ma va bene. Da qualche parte dentro di me ho deciso che avrei rischiato: ne valeva la pena, sia quel che sia. Vorrà dire che è il prezzo che devi pagare per stare con lui.
Doveva succedere affinché lo trovassi.
Quando ricevo la diagnosi, il medico del San Raffaele mi domanda se voglio prenotare direttamente da loro la prima visita. Hanno il centro di malattie infettive in un’altra sede, vicino a piazzale Loreto. Meglio, pure più vicino. È la prima cosa da fare: vedere un infettivologo e capire l’entità dei danni al sistema immunitario.
Gli dico di sì.
Va bene, prenotiamo.
Il medico chiama subito, lì di fronte a me.
Annuisce. Ah, d’accordo.
Più di un mese d’attesa.
Se preferisce può prenotare la sua prima visita da un’altra parte, dice. Può anche pensare di farla privatamente, veda lei.
E dove? Un ospedale a caso?
Ci posso pensare un momento? Lui intanto me la fissa lo stesso, il protocollo vuole così. I sieropositivi devono essere monitorati, tracciati, devono essere messi subito in terapia anche per evitare che diffondano il virus. Mine vaganti, minacce sociali: la mia nuova condizione ha anche un risvolto legale.
Cascina Gobba-Porta Venezia: io e Marius torniamo a casa.
Mentre siamo in metro, scrivo ai miei amici nella chat di gruppo.
Confermo la diagnosi: Gianfranco, Simona, Silvia, Camilla, Alessandro, Elena e Stella mi mandano cuori. Ho scritto nella chat in cui ci siamo tutti ma mi rispondono uno a uno in privato.
Oh forza Pam, siamo con te.
Mi chiamano Pam, Pamela, come la protagonista del romanzo di Richardson. Ma il riferimento è un altro: al liceo firmavo i disegni che facevo con le mie iniziali e qualcuno a un certo punto mi ha fatto notare l’assonanza col nome del personaggio di Pamela Anderson in Baywatch. C.J., J.B., Jonathan in arte Pamela. Pamela Anderson la mia ava, la mia figura totemica.
Non so cosa dire.
Non mi sembra vero.
Dai che andrà tutto bene.
Mi dispiace, posso fare qualcosa?
A qualcuno rispondo, a qualcun altro no.
Rimando – ora lo faccio, penso, poi mi dimentico.
Come farò a vivere col pensiero di non essere più integro, neutro, puro, tela, pagina bianca? Come farò ad andare avanti un giorno dopo l’altro sentendo dentro questa cosa che non ci dovrebbe essere, col senso di essere tutt’uno con quest’incognita – bomba a orologeria? – che sarebbe da eliminare ma non si può – Mi spiace, ci devi convivere tutta la vita – con la sensazione di essere fallato, guasto, rovinato per sempre?
Arrivato a casa mi addormento sul divano con Purè, poi mi sveglio e decido di chiamare mia madre. Prima di farlo le scrivo: possiamo sentirci?
Non risponde.
Cinque minuti.
Mi chiama lei.
Mentre il telefono squilla vado in camera, da solo. Faccio avanti e indietro sul tappeto, dalla porta alla finestra, dalla finestra alla porta.
Allora?
Eh niente, ho ritirato gli esami.
Quindi?
Il test dell’HIV è positivo.
Come positivo?
Sì, vabbè ma non ti preoccupare. Oggi non è più come una volta – frase di rito –, basta curarsi.
Mia madre zitta, non parla più. Anche se non la vedo ho davanti la sua faccia che si piega sotto l’effetto del pianto.
Oh, che fai? Guarda che ormai si tiene sotto controllo. Diventa una malattia cronica. È un po’ come avere il diabete.
Un po’ come avere il diabete: ripeto le cose che ho letto in giro. Io non lo so ancora com’è avere l’HIV. Recupero le informazioni più rassicuranti che la mia memoria a breve termine sa offrirmi e le lancio in fretta addosso a mia madre per riportarla alla normalità, per annullare la sua reazione. L’importante è stare tranquilli – io, lei, noi, tutti. Non siamo abituati a condividere le emozioni. E non solo quelle.
Non ho ricordi di mia madre che m’abbraccia da piccolo.
Di recente sì – negli ultimi anni, da quando non vivo più con lei –, ma da piccolo no.
La mamma era sempre arrabbiata, preoccupata, a casa sua.
Ognuno restituisce quello che ha ricevuto.
Restiamo uno di fronte all’altra, a distanza. In mezzo, questa notizia che io ancora non vedo davvero e che lei invece intende in un modo che io rifiuto: non sono mai vittima, non più. Mamma, sono come te: ho imparato a essere forte, a risolvere tutto, anche a costo di diventare impermeabile. Crolla la diga ma io resto piantato dritto, mi basta sapere che non devo morire immediatamente, che ho margine, tempo, distanza.
Mia madre ricomincia a parlare con la voce che non si tiene più insieme.
Lo chiamo Jonathan, è figlio mio e decido io.
Mio figlio è sieropositivo, mio figlio malato per sempre.
Tina, la Tina, la mia mamma bambina riprende a parlare, ci prova. Si asciuga il naso, fa assorbire al fazzoletto le lacrime.
Ma adesso per tutta la vita dovrai prendere farmaci, andare in giro per ospedali…
Eh vabbè, dico, meglio questo che altro.
Non saprò mai quanto ha pianto, di giorno, di sera, la mattina prima di andare al lavoro, chi l’ha consolata – mia sorella, suo marito, mia zia? –, lo immagino, l’ho immaginato. Non saprò mai davvero come e se l’ha risolta, in che modo ha fatto i conti con la mia diagnosi. Tutto nella mia famiglia è sempre successo a distanza. Sono un pioniere della realtà virtuale. Quando alla fine degli anni Novanta sono arrivate le chat io ero già pronto. L’assenza di contatto diretto è il mio habitat naturale, la mia condizione di possibilità. So attraversare le cose che vi fanno più paura perché non mi lascio toccare davvero da niente?
Vabbè, sei stato fortunato – qualcuno mi dirà poi –, hai Marius, hai avuto lui.
Dopo la mia diagnosi il mio ragazzo, è vero, è sereno. Almeno all’apparenza.
Più che altro sembra non pensarci.
Lui è piuttosto bravo a far sprofondare i problemi dove non si vedono più, li affossa nella mente e li affronta solo quando è inevitabile. Anche se a volte poi c’è il rischio che sia troppo tardi. Riaffiorano ingigantiti. Io invece sono schiavo dell’ansia: ho sempre bisogno di sapere, di predisporre una serie di soluzioni, devo risolvere tutto. Una collisione di complessi in senso junghiano, mi ha detto una volta una psicanalista. Ci scegliamo per compensarci, in modo sano o disfunzionale, ci si incastra usando le ferite originarie.
Eppure anche io ho fatto finta di niente, no?
Non è che in realtà siamo uguali?
Ora che si sa di me, Marius deve fare il test ma non sembra angosciato.
Si può sapere se gliel’ho trasmesso io? Si riesce a capire?
Mi lascerà?
Non so se sperare che ce l’abbia anche lui o no. Al bivio tra egoismo e altruismo faccio i conti col mito dell’amore incondizionato.
Il tuo compagno è preoccupato?, mi scrive il mio medico. È diventato anche il medico di Marius, visto che pure era lui senza.
Boh, non mi sembra, ma dubito che il test possa essere negativo. Cioè: mai dire mai, ma sono tre anni che abbiamo rapporti non protetti.
Ti preparo l’impegnativa, dice. Il test dell’HIV in realtà in molti posti te lo fanno anche senza ricetta, ma gli richiedo anche un po’ di esami generali già che ci siamo.
Intanto io devo risolvere la questione della prima visita.
Un mese d’attesa è troppo, non posso aspettare tutto quel tempo. Devo parlare subito con un infettivologo, prima inizio con la terapia e meglio è. Voglio liberarmi di questa febbre, continua ad alzarsi soprattutto di sera. Lo dico ai miei amici: racconto dell’attesa, della possibilità di cercare altrove. Un altro centro, un altro ospedale, per accorciare i tempi. Alessandro mi scrive: posso fare un tentativo con Serena. Una sua compagna di liceo è specializzanda in Infettivologia al Sacco, uno degli ospedali migliori per l’HIV a Milano. La sento subito, dice, provo a capire se si può fare qualcosa.
Mi scrive su WhatsApp nel giro di dieci minuti.
Ci ha parlato.
Hanno posto.
Mi danno appuntamento per il giorno dopo.
Ore 12. Padiglione 56.
Piano –1.
Ambulatorio D.