Carica di borse, finalmente sprofondai in una poltrona della caffetteria Costa mentre Lara ordinava il caffè. La guardai mentre faceva la fila al bancone. Grazie al cielo aveva optato per un taglio non troppo drastico, così adesso sfoggiava un caschetto artificiosamente spettinato che le incorniciava il viso delicato. Aveva deciso di mettersi subito i vestiti nuovi: un maglione largo dalla scollatura ampia che le lasciava scoperta una spalla, e dei jeans aderenti color foglia di tè con un paio di ballerine argentate. Quella mise era perfetta per la sua figura esile. Ma all’improvviso sembrava molto più grande. Una giovane donna.

Per un momento desiderai vederla ancora nel suo pigiama di Hello Kitty, con gli occhiali blu – di nuovo la mia bambina. Ma non potevo impedirle di spiccare il volo, e non volevo farlo. Dovevo accogliere a braccia aperte questa splendida donna, per quanto mi mancasse la mia bambina.

«Stai benissimo, Lara, sul serio», dissi mentre si sedeva accanto a me.

«Lo pensi davvero?», rispose a bassa voce.

«Certo! È tutto a posto?»

«Sì, è solo che… Non so». Alzò le spalle. «Oggi è stato perfetto, le cose vanno così bene. È diverso qui. Riesco a essere me stessa, a non preoccuparmi troppo di quello che pensa la gente. Sono semplicemente… felice».

«Ma questa è un’ottima cosa, giusto?»

«È solo che quando le cose vanno benissimo ho sempre paura che succeda qualcosa».

Capivo perfettamente cosa intendeva. Una persona come Lara, che aveva passato i primi anni della sua vita a camminare sul ghiaccio e lo aveva visto rompersi molte volte, aveva difficoltà ad accettare la felicità. La capivo, anche se non riuscivo a comprendere fino in fondo questo modo di vedere le cose, perché ero una persona ottimista e tendevo a non soffermarmi troppo sulla possibilità che ci fosse una catastrofe ad attendermi dietro l’angolo. Nella mia famiglia eravamo tutti così. Ma del resto noi non avevamo subìto tutto quello che aveva passato Lara da bambina, quando era ancora così vulnerabile.

«Nella vita succede sempre qualcosa», cominciai, cercando le parole giuste. «Cose buone o cose cattive. Le situazioni cambiano, sempre, non rimangono mai uguali. E per quanto questo possa essere inquietante, significa anche che quando una situazione è disastrosa c’è sempre una buona possibilità che migliori».

Lei annuì. «Come in Sposa delle tenebre, quando sembra che Ophelia sia l’unica persona che possa fermare la maledizione lanciata contro se sessa, ma può fermarla solo sacrificando se stessa, e a che serve spezzare una maledizione quando sei già morto? E poi viene fuori che Damien prende su di sé la maledizione e si offre di essere sacrificato. E poi in effetti è così, ma non può morire perché è immortale, e quindi è tutto risolto», disse tutta entusiasta, e d’un tratto era di nuovo la mia piccola topina da biblioteca.

«Sì, qualcosa del genere», dissi, il cuore che traboccava di tenerezza. «Lara?»

«Sì?». Mi guardò, gli occhi spalancati – alla sua età la sua felicità dipendeva in gran parte da me e dalle mie scelte, e a volte mi sentivo schiacciata dal peso di quella responsabilità.

“Vorresti rimanere a Glen Avich?”. Quelle parole stavano quasi per uscire, ma le bloccai.

Sì, mamma e io avevamo anche parlato di un salto nel buio – ma questo era troppo, e troppo presto. Avevo paura di lanciarmi e non riuscire a toccare terra.

“Oggi ho portato Lara a fare shopping a Aberdeen”.

“È stato bello?”

“Bellissimo. Adesso sembra diversa. Cresciuta”.

“Scioccante ma inevitabile? Grazie al cielo ce ne vuole ancora prima che il piccolo Leo diventi un adolescente!”.

“Sì. Adesso dorme con Pingu da una parte e un Transformer dall’altra”.

“Che dolce. Notte, Margherita, sogni d’oro. PS: manca ancora parecchio a venerdì”.

“Notte, Torcuil. Sì, cinque giorni sembrano davvero tanti”.

“In effetti cinque giorni sono davvero tanti, lascia fare a me. Vediamo cosa posso fare”. 

Sì, i nostri messaggi della buonanotte si erano un po’ evoluti.

 

 

Capitolo 26

 

Fioritura

 

Lara

Cara Kitty!

Ho le lenti a contatto!

Non posso crederci di esserci riuscita.

E le ho tolte e rimesse ben due volte! L’ottico mi ha fatto vedere come fare. Non riesco a smettere di sorridere!

Dopo mamma mi ha portata da Topshop a scegliere dei vestiti e poi da Debenhams a comprare dei trucchi. Ho preso degli ombretti luccicanti, viola, verde e blu, e lo smalto azzurro. Ero scioccata perché qualunque cosa chiedessi mamma rispondeva sempre di sì. Sembrava così felice. Forse perché era felice. E poi le ho fatto comprare una casacca rossa e con quella addosso era davvero fantastica.

Ecco, spero che Torcuil la veda vestita così – ma non gliel’ho detto, naturalmente. Mi avrebbe uccisa.

Comunque, siamo state benissimo. Io adoro i negozi, adoro le luci e tutte le cose carine allineate sugli scaffali. Stavo guardando dei vestiti eleganti, quanto ho visto una ragazza bionda, con i capelli sistemati e un bel trucco sugli enormi occhi azzurri. Ho pensato: “Wow, che carina”.

E poi mi sono resa conto che era il mio riflesso nello specchio.

Non potevo crederci.

Vorrei tanto che mi vedessero Polly e Tanya. No, in realtà no. A loro non devo dimostrare proprio nulla e non m’importa.

La persona che vorrei davvero che mi vedesse così è Mal.

Poi siamo andate a prenderci un cappuccino e mi sono sentita un po’ strana. Ero felice. Sono felice. È un sentimento strano a cui non sono abituata. È come se non potessi prevedere da dove arriverà il prossimo colpo, ma me lo aspettassi sempre. Mamma però mi ha parlato e sapeva esattamente cosa dirmi per calmarmi.

Forse non devo aspettarmi nessun colpo. Forse la felicità è arrivata e non se ne andrà più.

A proposito! Una cosa che non è affatto marginale, anzi è importantissima, ma per l’eccitazione della giornata ho dimenticato di scrivertela. Ieri ho passato un paio d’ore con Inary, deve consegnare il suo libro tra due settimane e me l’ha fatto vedere! Ho visto un vero libro prima ancora che venga pubblicato!

Ho stampato alcune pagine della mia fan fiction di Sposa delle Tenebre con un bel lettering, le ho rilegate con un nastro blu di quelli rimasti dai sacchettini delle bomboniere e le ho date a Inary. Non vedo l’ora di sentire cosa ne pensa, ma sono anche un po’ nervosa. E se non le piacessero?

Voglio scrivere di più. Sto pensando di scrivere delle storie che siano solo mie, non solo fan fiction. Forse avranno come protagonista un ragazzo dagli occhi grigi.

No, non sto pensando a Damien.

Sto pensando a Mal.

 

 

Capitolo 27

 

Pane e rose

 

Margherita

Stavo preparando per il bar i baci di dama – dei biscottini che si sciolgono in bocca ripieni di crema al cioccolato –, quando qualcuno bussò alla porta. Era Torcuil, e la sua vista mi fece cantare il cuore. Provai a far finta di nulla, ma il mio sorriso mi tradì. 

«Che cosa ci fai qui?», dissi, come se non sperassi che fosse lì per me. «Perché non sei al lavoro? Oggi hai marinato?»

«Avevo delle cose da fare qui», rispose lui ridendo. Con l’Associazione per la storia di Glen Avich. Sei impegnata?», chiese, guardandomi le mani sporche di farina.

«No, certo che no! Voglio dire adesso sì, ma tra venti minuti avrò finito. Entra pure».

«Che cosa stai preparando?»

«Dei biscotti. Si chiamano baci, baci di dama».

Silenzio imbarazzato.

“Okay. Adesso di’ qualcosa, qualsiasi cosa”.

«Che cosa fai di bello con questa associazione storica?», mi affrettai a chiedere, facendo dietrofront nella cucina di mia madre.

«Be’, ecco, c’è un soldato di Glen Avich. È morto a Ypres nel 1916 e non si sapeva dove fosse sepolto. Il nipote ci ha chiesto aiuto per rintracciare le spoglie e noi ci siamo riusciti. Si trovano in Belgio e stiamo cercando di riportarle qui. Sto aiutando la famiglia con i documenti».

«Che cosa triste. Sono contenta che lo abbiate trovato e possa tornare a casa».

«Sì, è molto triste. Aveva solo diciott’anni. È morto di polmonite».

«Povero ragazzo», dissi, pensando a sua madre, e rimanemmo in silenzio per un momento.

«Posso averne uno?», chiese alla fine Torcuil. «Un bacio, intendo?».

“Oh, cielo.”

«Ti darò un sacchettino quando saranno pronti», dissi bruscamente, per celare l’imbarazzo, e corsi al lavandino a lavarmi le mani. «Dài, andiamo a fare una passeggiata!», gli gridai dall’altra stanza, infilandomi la giacca.

«Ma non stavi…». Indicò i biscotti lasciati a metà sul tavolo.

«Ho bisogno di un po’ di aria fresca. Oh, aspetta, ma tu non devi andare all’associazione?»

«No. Veramente devo andarci stasera. Sono tornato a casa prima. Per vedere te».

«Oh, davvero?», dissi, come se fosse l’ultima cosa a cui avessi pensato.

Continuavamo a sfiorarci mentre camminavamo lungo la sponda del lago. Eravamo seduti sui sassi della riva, davanti alle acque calme, quando finalmente lui mi prese la mano.

Ero spaventata. Non so perché, ma sentivo che stava per succedere qualcosa.

Così spaventata che cominciai a tremare.

«Stai bene?», sussurrò lui.

Riuscii soltanto ad annuire.

«C’è una cosa che voglio dirti», cominciò mentre eravamo seduti a guardare il lago, la mia testa poggiata sulla sua spalla.

Mi sollevai di scatto. «Oh, mio dio. Sei sposato e hai sei figli».

Lui rise. Era una battuta, ma mi sentivo davvero in ansia. Il cuore mi martellava. Che cosa stava per dire?

«Ricordi quando ti ho parlato della mia ex? La donna che stavo per sposare?».

Annuii. Per un attimo pensai che stesse per dirmi che era tornata nella sua vita. Devo aver fatto una faccia scioccata e ansiosa, perché lui mi prese le mani nelle sue. «Ehi, no, non c’è niente di brutto. Niente di cui preoccuparsi. Volevo solo dirti chi era».

«Okay».

«Si chiama Isabel, e sì, è quella Isabel, la moglie di mio fratello».

La mia bocca era un cerchio perfetto. Isabel. La donna di cui mi aveva parlato e che non avevo mai visto.

Quindi Lara aveva ragione – c’era davvero una donna in soffitta, se così si poteva dire. Una signora Rochester.

«La moglie di tuo fratello?», ripetei.

«Sì… Bella trama per un romanzo, vero?». Fece un sorriso triste. «La vita può essere proprio come un film o un romanzo. A parte il lieto fine, ovviamente».

«Be’, a volte nella vita invece c’è un lieto fine, credo».

«Be’, in realtà un lieto fine c’è stato. Ma per loro, non per me».

«Ma lei a quanto pare non è molto felice» dissi, e subito me ne pentii. Non volevo sembrargli crudele.

«Immagino di no. Comunque, adesso lei appartiene al passato. Io le voglio bene come a una sorella», disse, e studiai il suo viso mentre lo diceva. Ero sicura che stesse dicendo la verità; lo vidi nei suoi occhi. «Ma volevo dirtelo».

Per un momento mi chiesi se dovessi spingerlo a raccontarmi altro, o se questa rivelazione fosse stata già abbastanza difficile per lui. Ma proseguì di sua iniziativa.

«A quel tempo non capii che cosa stava per succedere. A essere sinceri, non penso che lo abbia capito neppure Angus. Lui era sempre stato il mio fratellino, sai? Isabel quasi non faceva neppure caso a lui. Poi, un Natale, tornò a casa da un tour – e si sa, lui è quello affascinante della famiglia, ha un tale carisma…».

Certo, Angus faceva un lavoro affascinante. Ma se sei innamorato, il carisma di un’altra persona non ha nessun effetto su di te. Dentro di me pensavo che se Isabel aveva voltato le spalle a Torcuil in quel modo, per prima cosa non lo aveva amato così intensamente. Ma non dissi nulla. Non era il caso di mettermi a giudicare. E comunque io non potevo essere imparziale.

«È stato come se Izzy lo vedesse per la prima volta…». Allora era questo il suo diminutivo. Izzy. Mi sentii un po’ male. Per la gelosia. Che cosa assurda provare gelosia per il passato di Torcuil. Che cosa assurda in generale provare gelosia. «Anche se si conoscevano da tutta la vita. Lo vidi con i miei occhi, che si stavano innamorando». Spalancò le braccia e ancora una volta vidi quanto tutto questo lo facesse soffrire.

«Angus ripartì all’inizio delle vacanze. Mi disse che non sarebbe tornato, che non poteva sopportare di farmi questo. Che lo aveva detto anche a Izzy, che gli dispiaceva, che dispiaceva a entrambi. Che ci augurava tanta felicità e sperava che potessimo ricostruire tutto. Che non era successo niente tra loro. Almeno non fisicamente».

Ma i tradimenti del cuore facevano altrettanto male, pensai. Se non di più.

«Sapevo che le cose tra me e Izzy non avrebbero mai potuto essere come prima. Ne ero sicuro. E quando le parlai… Be’, potevo leggerglielo negli occhi. Era innamorata di lui. E io non potevo sopportare di farli soffrire. Non potevo certo costringerli a separarsi. Si sposarono soltanto qualche mese dopo, e come sai stanno ancora insieme. La malattia di Isabel è iniziata un paio di anni fa». Notai che, ora che parlava della moglie di suo fratello, aveva ripreso a chiamarla Isabel – non era più la sua Izzy. «Questa cosa la sta distruggendo, e insieme a lei sta distruggendo mio fratello. Ora ha smesso del tutto di uscire di casa, e non può sopportare la visita di nessuno, a parte me e una donna che la aiuta quando Angus non c’è. Nessun altro. Ho il cuore spezzato per lei, e per Angus. Proprio non riesco a credere che sia arrivata a questo punto…».

«Mi dispiace tanto, Torcuil. Mi dispiace che ti abbia fatto soffrire e mi dispiace che non stia bene».

«È un mistero, vero? Il funzionamento del cervello umano. Non ho idea di cosa le stia accadendo. Deve avere dentro di sé una specie di… lato oscuro che io non avevo mai visto».

«Ma tu eri attratto da lei».

«Sì…». Mi guardò. «Che vuoi dire?»

«Be’, sembra che anche tu abbia le tue tenebre. Da quello che mi hai raccontato a proposito di tua madre. Forse eri attratto da lei perché lei poteva capirti. Perché eravate simili. Non so». Sorrisi. «Scusa».

«No, penso che in realtà potresti avere ragione».

Rimanemmo seduti in silenzio per qualche minuto.

«E tu?», disse lui alla fine.

«Io cosa?»

«Hai un po’ di tenebre dentro di te?».

Sorrisi. «No. Neppure un granello».

«Sei fortunata», disse, e cominciò a osservare il terreno. Il buio stava calando sulle acque mentre il giorno volgeva lentamente al crepuscolo. Rimasi lì a contemplare la bellezza del lago, godendomi il silenzio e la vista di quell’acqua dolce e profumata.

«Per te», disse alla fine Torcuil, porgendomi un sassolino bianco scelto tra i tanti grigi sparsi intorno a noi. «In ricordo di questo momento».

«Grazie», dissi seria, e mi infilai in tasca il sassolino bianco.

Ero quasi a casa, quando sentii vibrare il telefono. Era un messaggio di Torcuil.

“Ero a pezzi, un milione di pezzetti. Tu li hai raccolti tutti e li hai rimessi insieme. Di tutti quei pezzetti, te ne ho dato uno da conservare. Un sassolino bianco dalla riva del lago. Di tutti quei pezzetti di me, questo appartiene a te, e a te soltanto”.

Lessi il messaggio più e più volte, colpita dalla profondità e dall’intensità di quelle parole. Poi ne arrivò un altro, e io mi preparai, ma diceva semplicemente: “Mi sono dimenticato di dirti che Angus suona nella sala del municipio domani alle 8, sei libera?”.

“Certo”, risposi semplicemente.

Entrai in casa e posai il sassolino bianco sulla mensola del caminetto, sopra i biglietti da visita che mi aveva fatto Lara e tra le lucine gialle.

Continuai a ripetere nella mente le parole del messaggio di Torcuil, finché mi addormentai, cullata dal dolce respiro di mio figlio.

 

 

Capitolo 28

 

Fiutai il pericolo, ma proseguii

 

Torcuil

Il talento di mio fratello riesce sempre a sorprendermi, anche se l’ho sentito un milione di volte, anche se sono cresciuto ascoltandolo suonare. Il suo violino parla, canta e piange, e tutta la sala è in silenzio, in estasi. Margherita non è ancora arrivata. Continuo a tenere d’occhio la porta, sperando che faccia il suo ingresso da un momento all’altro… E finalmente entra, tutta vestita di rosso come un fiore esotico. Ha i capelli sciolti – non mi ero accorto di quanto fossero lunghi, le arrivano quasi alla vita, una cascata di nero. Improvvisamente la mia vita mi sembrava un mare di colori sbiaditi – il grigio del lago e le pietre di Ramsay Hall, il grigio della mia mente – ma lei è arrivata come una fiammella, a incendiare tutto.

La musica continua e nessuno si muove mentre lei entra, ma a me sembra che tutto dovrebbe bloccarsi e tacere in questo istante, tutto dovrebbe andare in fiamme, perché è così che mi sento. Il fuoco che lei ha acceso in me quando abbiamo cenato insieme a Aberdeen, e sulla riva del lago, sta di nuovo bruciando, persino più intensamente.

Incrocia il mio sguardo e sorride, e io abbasso gli occhi. Viene a sedersi accanto a me e il suo profumo – qualcosa di floreale e profondo, qualcosa che mi fa pensare alla notte in un posto caldo, – mi avvolge. Lei chiude gli occhi mentre l’archetto di Angus danza sulle corde, e la vedo sciogliersi al suono di quella musica. Devo trattenermi dal prenderle la mano – troppi occhi ci stanno guardando – e tutti i miei muscoli si paralizzano nello sforzo di non sfiorarla.

Terminato il concerto, c’è una quantità pazzesca di persone che vogliono salutarmi. Succede nei piccoli paesi, specie se non ti fai vedere in giro tanto spesso. Alla fine riesco a districarmi e a raggiungere mio fratello, che sta parlando con i musicisti del gruppo, il violino ancora in mano. Anche se abita a venti minuti da me, è sempre in viaggio e non ci vediamo spesso come vorremmo. Quello che è successo anni fa con Izzy non ha lasciato nessuna traccia nella nostra relazione – non per me, almeno. Non nutro rancore, ma so che lui si sente in colpa nei miei confronti. Anche se non dovrebbe. Lui non voleva distruggere la mia felicità, non avrebbe mai voluto che accadesse.

«È stato meraviglioso, Angus», dico, guardandolo dritto negli occhi. Angus sembra uscito da un libro di storia – è un vichingo, con i capelli biondi ramati, gli occhi color ghiaccio e il naso dritto e fiero.

«Ah, non so. Comunque grazie».

Mio fratello non accetta mai un complimento.

«Questa è Margherita…».

«Ciao, come va?». Si scambiano saluti e convenevoli, mentre il mio sguardo passa dall’uno all’altra e mi chiedo se mio fratello abbia capito.

Mi chiedo se abbia capito che mi sto innamorando.

Merda.

Mi sto innamorando.

«…quindi non sto qui molto spesso…».

«…è il bar di mia madre, sì…».

Angus e Margherita stanno conversando, ma non ho idea di che cosa si stiano dicendo. Non riesco a seguire. Ascolto me stesso dire a mio fratello: «Ci vediamo domani», e mi ritrovo fuori dalla sala del municipio sotto un cielo pieno di stelle.

«Allora, grazie per essere venuta», riesco a farfugliare.

«È stato bello. Davvero bellissimo. Non ascoltavo musica dal vivo da una vita, e non avevo mai sentito la musica scozzese, non credo, a parte la colonna sonora di Rob Roy, e quello era un film piuttosto tragico, vero? Ma del resto io adoro le storie strappalacrime…».

Aspetta un attimo. Sta sproloquiando. È nervosa!

Non sono l’unico a essere nervoso!

Che sollievo.

«Sei a piedi?», le chiedo.

«Sì. Voglio dire, abito troppo vicino per pensare di prendere la macchina…».

«Ma troppo lontano per camminare da sola di notte».

Lei ride. «Non è ancora notte. Non sono nemmeno le dieci. Controlla sul tuo orologio di Peppa Pig».

«Ne ho comprato uno nuovo, vedi? Questo non è rosa e non ci sono maialini sopra». Le mostro il mio nuovo orologio da adulto, sentendomi un idiota. «A ogni modo, permettimi di accompagnarti a casa».

«Sì, meglio non rischiare. Non si sa mai cosa potrebbe succedere, con tutta la criminalità che c’è a Glen Avich». 

«Quella serie televisiva un po’ cruda – come si chiamava? The Wire? – non era ambientata a Glen Avich?»

«Sì, in queste pericolose boscaglie».

«Ecco. E anche quell’altra serie, 24, però con Malchie McNally al posto di Jack Bauer». 

«Dei terroristi minacciano di rapire la signora Gordon…».

«Che in realtà è un agente segreto».

«Ma Malchie la porta via sul suo furgoncino della posta e riesce a fuggire».

Mentre camminiamo non smettiamo di chiacchierare. Di musica, di cibo, del fatto che in Scozia ci sono dei giorni d’estate incredibilmente belli, seguiti da tre giorni in cui non smette di piovere… Per tutto il tempo cerco di guardare il suo profilo senza farmi scoprire. La faccenda è estremamente complessa e per niente facile da gestire. Se solo esistesse un manuale… 

«Bene. Ciao, allora. Grazie per la bella serata».

Oh. Siamo davanti a casa sua. Oh, no. Adesso deve andare via.

Come faccio a fermarla?

«Oh, di nulla. Ciao, allora», dico, e poi un altro piccolo «Ciao».

Ma poi lei si volta e senza dire una parola mi prende per mano. Mi porta lontano dalle case e le strade, attraverso il ponte e nel bosco.

 

 

Capitolo 29

 

Tra le sue braccia

 

Margherita

E così accadde. Mi ritrovai tra le sue braccia.

Dev’essere stata la musica. Ha sempre degli strani effetti su di me. Mi scorreva nelle vene e non riuscivo a fermarla. Ero piena di gioia e paura mescolate insieme, e non mi importava più di nulla. Eravamo lì da soli al riparo dei boschi, e la notte era così silenziosa, come se fossimo le ultime due persone rimaste sulla terra. Da un albero distante arrivò il bubbolio di un gufo.

Lo baciai, gli occhi chiusi e il cuore spalancato, e fu perfetto – non c’era speranza che potessi fermarmi – e poi, tutt’a un tratto, lui mi respinse.

Dolcemente, ma mi respinse.

«Scusami, non posso farlo», bisbigliò.

Quando sentii che si stava allontanando, mi venne da piangere. 

Rimasi impietrita, come se il mio cuore si stesse ghiacciando per poi frantumarsi in centinaia di pezzi. Perché? Perché mi stava respingendo? Non era possibile che avessi frainteso quello che stava succedendo tra noi.

«No. Certo. Certo, scusa», farfugliai.

«Non capisci…».

«Certo che sì. Capisco perfettamente». Ero mortificata mentre le lacrime cominciavano a bagnarmi le guance. Oh, che vergogna. Come era possibile che fossi passata d’un tratto dalla gioia all’umiliazione?

E soprattutto, che cosa stavo facendo?

Cosa ci facevo lì di notte, in quel luogo, lontano dai miei bambini, a baciare qualcuno che non era mio marito?

«No, non capisci».

«Sì! Sì che capisco! Mi dispiace. Davvero, è tutto a posto. Adesso me ne torno a casa e…».

«Devi lasciarmi spiegare. Non voglio farlo perché…». Scosse la testa.

«Perché è sbagliato, lo so!».

«No. Al contrario, perché è giusto. Margherita, quando io e te siamo insieme, io mi sento… vivo. Come non mi sentivo da anni. Ho già sofferto troppo. Se facciamo questo adesso, e poi te ne vai, non potrei sopportarlo. Lo farò solo se mi prometti che non te ne andrai. Me lo puoi promettere?».

Rimasi di sasso, la bocca spalancata.

«Se adesso ti bacio, se ti porto a casa con me, se rimani con me stanotte, puoi promettermi che domani mattina non te ne andrai via?».

Lentamente, scossi la testa.

Non potevo. La mia vita era completamente scombussolata, e non potevo fare promesse. A nessuno. Neppure a me stessa.

Non potevo prendere nelle mie mani il cuore di quest’uomo così generoso e poi lasciarlo cadere.

«Proprio come pensavo».

«Farei meglio ad andare», bisbigliai affranta.

«Lascia che ti accompagni a casa…».

«No. No, è tutto a posto. Posso tornare da sola, davvero».

Le lacrime mi scorrevano ancora sul viso mentre mi allontanavo da lui, e poi una mano si chiuse intorno alla mia e mi tirò verso di sé. Senza una parola, Torcuil mi abbracciò, come se non volesse per nulla al mondo che me ne andassi. Io mi accoccolai contro di lui.

«Non posso prometterti quello che mi hai chiesto», dissi. Volevo, sì, ma come avrei potuto?

«Lo so. Ma non puoi impedirmi di sperare».

 

 

 

Capitolo 30

 

Solo il vento sa

 

Lara

Cara Kitty.

Sono stata baciata.

Il mio primo bacio.

A parte quando quel ragazzo al campo scuola ha cercato di sbaciucchiarmi quando avevamo sette anni – invece ha sbattuto contro il mio naso e poi ci ha riprovato e io l’ho colpito con un frisbee. Sì, lo so che ho quasi quindici anni, ed è strano che non mi sia mai successo prima eccetera eccetera. Non so perché, non ne ho idea. Da quando ho iniziato il liceo mi sono presa una cotta solo per Ian, e lui non mi ha mai guardata, figuriamoci se potevo sperare qualcosa.

Ma ora nella mia vita c’è Mal.

Con Mal è tutto diverso.

Tutto acquista senso nel mio cuore. Tutto acquista senso nella mia vita.

Eravamo accanto all’acqua, vicinissimi l’uno all’altra. Lui sembrava così triste.

«Ho freddo. Mi abbracci?», mi ha chiesto. E io l’ho fatto: gli ho avvolto le braccia intorno al collo e l’ho tenuto stretto, cercando di riscaldarlo. Siamo rimasti così per un po’, e lo sentivo tremare.

«Tu non vuoi che torni là, vero?».

Là dove? Di qualunque posto si trattasse, non sembrava bello.

«No. Mai. Resterai con me».

E poi le sue labbra hanno cercato le mie, e mi ha baciata.

Le labbra di Mal erano morbidissime e fredde, ma le sue mani erano ruvide. Non che lui sia rude, per niente – è così gentile, e dolce, e perfetto. Voglio dire, la sua pelle era ruvida, come quella di chi fa un lavoro manuale.

Penso che in quell’esatto momento sarei potuta morire.

Per fortuna non indossavo gli occhiali. È stato molto meglio, così ha potuto toccarmi il viso senza farli cadere o lasciare impronte sulle lenti, rischiando di trasformare una cosa bellissima in una scena davvero imbarazzante.

La mia cotta per Ian adesso mi sembra così infantile: questa invece è una cosa seria.

Però non so se stiamo proprio insieme. Non sono sicura che lui sia davvero il mio ragazzo, ma vorrei che lo fosse.

Ci siamo baciati un po’, e poi ha detto che doveva andare, che non poteva rimanere a lungo. Aveva i brividi e sembrava un po’ malato. Forse si è preso un’influenza. Se è così, adesso me la sarò presa anch’io, ma non mi importa. Che cos’è un raffreddore quando sei stata appena baciata da un ragazzo così perfetto?

Sembra quasi che sia uscito da un sogno.

Oh… Non so se questo pensiero mi piace. Perché i sogni finiscono quando ti svegli, e io da questo non voglio svegliarmi, mai e poi mai.

 

 

Capitolo 31

 

Salto nel buio

 

Margherita

Torcuil mi lasciò sulla soglia di casa con un ultimo straziante abbraccio e un bacio che fu troppo veloce, troppo frettoloso.

Barcollavo. Non riuscivo a trovare pace mentre camminavo in casa di mia madre in silenzio, attenta a non far troppo rumore. Leo era rimasto da Nonnina, mentre Lara dormiva nella nostra casetta. Avrei voluto accendere tutte le luci in cucina e iniziare a cucinare per sfogarmi un po’, ma non potevo certo svegliare tutti.

Mi passai le dita sulle labbra – le sentivo ancora morbide e tremanti, ed era una tortura.

Ero troppo vecchia per tutto questo. Alla mia età avrei dovuto essere tranquilla e sistemata, e invece eccomi qua: avevo lasciato mio marito, e smaniavo per un altro, con due figli il cui benessere dipendeva da me. Guardai il cielo dalla finestra – era pieno di stelle, non c’era una nuvola in vista, il che era una cosa rara a Glen Avich. La bellezza del cielo mi fece venire di nuovo le lacrime agli occhi, e mi odiai per questo. Mi ero trasformata in una delle protagoniste dei romanzi di Lara, sempre sull’orlo del pianto o di uno svenimento. Non era da me. Dovevo riprendermi e darmi una regolata – e poi mi suonò il telefono, con uno squillo incredibilmente alto nel silenzio della notte, e sobbalzai. Rovistai nella borsa per cercarlo e lo spensi subito, ma ebbi una stretta al cuore quando vidi il nome di Ash lampeggiare sullo schermo.

Non potevo crederci. Non mi chiamava da settimane. Perché proprio adesso? Aveva forse una sorta di radar e sapeva che mi ero avvicinata a un altro?

Mentre quel pensiero prendeva forma nella mia mente, realizzai finalmente la portata di ciò che era successo. “Ho baciato Torcuil”. Avevo baciato un uomo che non era Ash.

Non avevo mai pensato di poter fare una cosa del genere, mai. Non rispecchiava l’educazione che avevo ricevuto, né i progetti che avevo fatto per la mia vita.

E invece era successo. Ed era stato qualcosa di magico, e perfetto.

Del resto, Ash e io da quanto tempo non ci baciavamo più, a parte un bacetto sulla guancia a Natale e per i compleanni? Eravamo sempre troppo impegnati, o troppo stanchi, o semplicemente non ci pensavamo proprio.

Quindi adesso il mio telefono era spento; Ash non poteva raggiungermi. Ma poi mi sentii terribilmente in colpa. Forse aveva bisogno di me. Aveva il numero di mia madre, naturalmente, ma lo avrebbe usato?

E in ogni caso, prima o poi avrei dovuto parlargli. Non potevo semplicemente cancellarlo. Avrei potuto richiamarlo subito, ora che il mio senso di colpa era al culmine. Mi meritavo di essere riportata alla realtà. Andai dietro la casetta e riaccesi il telefono. Mentre l’apparecchio tornava in vita, mi stupii di quanta poca voglia avessi di parlare con mio marito.

Non avevo nessuna voglia di sentire la sua voce.

Non avevo nessuna voglia di tornare all’insicurezza, alla solitudine e alle recriminazioni – che erano gli effetti che lui aveva sempre su di me.

Ma non potevo semplicemente ignorare la sua telefonata.

Mi feci forza, il cuore che martellava mentre premevo l’icona verde.

“Ciao, risponde Ash Ward. Al momento non sono disponibile, ma lasciate un messaggio e vi richiamerò. Grazie”.

Per un attimo fui tentata di mettere giù. Ma resistetti all’impulso.

«Sono io. Ho perso la tua chiamata, mi spiace. Stiamo tutti bene… Spero che tu stia bene. Okay. Ci sentiamo presto».

Mi trascinai dentro e mi tolsi la casacca rossa – un pensiero mi attraversò la mente, il ricordo di un film che avevo visto su una donna costretta a indossare una lettera scarlatta. Entrai in bagno e mi guardai allo specchio.

Sembravo diversa. Non erano solo gli occhi cerchiati di rosso e le labbra un po’ gonfie dopo i suoi baci; era qualcosa nei miei occhi.

Non sapevo bene cosa.

Mi portai di nuovo le dita alle labbra, ricordando il bacio di Torcuil. E poi un bip sonoro mi fece sobbalzare. Avevo dimenticato di spegnere di nuovo il telefono e il bagno era l’unica stanza della casetta dove funzionava. Era un messaggio di Ash.

“Scusa, avevo il telefono in tasca. Ti ho chiamata per sbaglio”.

 

 

Capitolo 32

 

Il ponte

 

Margherita

Passai i giorni successivi in uno stato confusionale. Portai Leo al parco giochi, preparai dei dolci per il bar, cercai di tenermi occupata. Erano successe così tante cose che dovevo assimilarle tutte.

Continuavo a pensare a Torcuil.

E alla telefonata fatta per sbaglio.

Per una volta il parco giochi era vuoto, così decisi che potevo provare a fare una telefonata ad Anna. Guardai l’orologio – era mattina presto in Colorado, quindi magari avrebbe avuto un attimo per parlare.

«Anna? Sono io», dissi, come sempre.

«Ciao, tesoro. Come vanno le cose lassù?»

«Tutto bene. Sì. Tutto bene», mentii.

«È successo qualcosa. Dimmi tutto».

«Stai diventando peggio di mamma! Davvero!».

«Sì, okay. Spara».

«Io, ecco… Non so come spiegare…».

«Sei andata a letto con Torcuil? Oh, mio dio!».

«Io che? No! Certo che no! Come… Cosa… Anna!». Mi sentii offesa.

«Be’, sei separata! E ormai già da un bel po’!».

«Sei mesi non sono un bel po’. Non per me, almeno».

«Sì, okay. Allora dimmi cosa è successo».

«Non siamo andati a letto insieme. Devo dire che hai davvero una fantasia malata».

«Ecco, tutta colpa di Jane Austen. Ti è caduto a terra il guanto, lui lo ha raccolto, le vostre dita si sono sfiorate e ora tu sei tutta un tremito!».

«Smettila di prendermi in giro. Ci siamo baciati».

«Oh, che cosa romantica!».

«Anna. Sono una donna sposata. E madre di due figli».

«Sei separata. E puoi anche essere la madre di due figli, ma hai trentotto anni, quindi sei troppo giovane per negarti un’altra relazione».

«Non è una relazione! È un bacio!».

«È iniziato con un bacio… È iniziato con un baaacio…», cominciò a cantare. Avrei potuto strangolarla.

«Anna!».

«Scusa, Margherita, devo andare a svegliare e preparare i bambini; oggi andiamo a fare l’ennesima escursione. Giuro che tra un po’ mi si staccano i piedi. Nella famiglia di Paul sono pazzi. Ogni giorno ci portano in giro per le montagne – sembra che mi stia allenando per entrare nelle forze speciali. Ti richiamo appena riesco così potrai raccontarmi tutto».

«Penso che non ci sia nient’altro da dire».

«Stai scherzando? Voglio sapere del bacio! È stato fantastico? O terribile? O così così?»

«È stato… È stato meraviglioso».

«Oh, mio dio! Oh, mio dio! Quando me lo farai conoscere? Okay, lo so che è troppo presto, ma…».

«È decisamente troppo presto. E comunque ha detto che non vuole che succeda mai più».

«Ah. E perché? Questo è… Questo è… Oh! Come è possibile che non sia interessato? È forse cieco?».

Sorrisi a quella dimostrazione di affetto.

«No, non è così. È che prima di impegnarsi vuole essere sicuro che io lo voglia davvero».

«Ma è stato solo un bacio… Voglio dire, parla già di impegnarsi? Non è un po’ esagerato?»

«Lui non la vede così. In passato è rimasto ferito e non vuole che accada di nuovo. Vuole essere sicuro di potersi fidare di me».

«Quindi ha deciso di troncare tutto? A meno che tu non ti impegni?»

«Be’… mi ha baciata, e poi… mi ha baciata di nuovo. Quindi in realtà non so cosa stia succedendo. Lui è… Lui è molto gentile. Non so spiegarlo». Mi intenerii pensando a lui. «È come se non aprisse facilmente il suo cuore, e se lo fa… Be’, non vuole essere ferito un’altra volta».

«Quindi che cosa farai?»

«Be’, gli ho detto che per il momento non posso fargli nessuna promessa. E davvero non posso. Sono confusa e… non so. Non lo so».

In quel momento una mamma si sedette accanto a me sulla panchina, mentre i suoi due bambini correvano nel parco giochi. «Devo andare. Ci sentiamo presto».

«Ciao, Margherita. E congratulazioni», aggiunse senza alcun motivo. 

“Congratulazioni per cosa, pazza che non sei altro?”, le scrissi subito. Il mio telefono emise un bip in risposta, ed ero pronta a vedere che cosa mi avesse scritto Anna… Invece era Torcuil. Sentii il calore salirmi alle guance e non riuscivo in nessun modo a nascondere la confusione, così mi alzai e mi allontanai un po’ dalla panchina.

“Stai bene?”.

“Sì, un po’ confusa ma sto bene. Tu?”.

“Vorrei prendere la macchina e venire da te a chiarire le cose, ma non posso, sono a Edimburgo”.

Questo mi confortò un po’. Che volesse ancora vedermi.

Ma io non dovevo vederlo.

Oh, adesso stavo andando di nuovo in confusione.

“È tutto a posto. Ci vediamo venerdì”, gli risposi, e il mio telefono vibrò di nuovo.

“Ho detto congratulazioni perché hai ricominciato a vivere. Anna”.

Ah sì? Davvero?

Perché invece mi sembrava solo di essermi incasinata. Aspettai per un po’ che arrivasse un messaggio da Torcuil, e quando capii che non ne sarebbero arrivati altri non seppi bene se sentirmi sollevata o delusa.

 

 

Capitolo 33

 

In fiamme

 

Torcuil

Quello che le ho detto non ha alcun senso.

Che ho bisogno di una promessa, e che senza promessa, non potrei innamorarmi.

Perché mi sono già innamorato.

Perché l’amore non arriva solo a certe condizioni. Dire “Ti amerò soltanto se non mi lascerai” significa per prima cosa che non è amore. 

Si può solo amare comunque, qualunque cosa accada.

Amare è dimenticare ogni paura.

È un salto nel buio.

Come posso aver ingannato me stesso fino a questo punto? Come posso avere ingannato me stesso al punto da aver bisogno di una promessa per gettarmi nel fuoco, se invece già ardo tra le fiamme?

 

 

 

Capitolo 34

 

Il mondo di Lara

 

Margherita

Mi sentii sollevata quando finalmente scese la notte. Avevo passato tutta la serata a preparare nocciolini e paste di meliga per il bar, e adesso Leo si stava addormentando e Lara stava leggendo nella sua stanza. Avevo detto a mamma e Michael che ero stanca e sarei andata a letto presto. Mamma naturalmente mi aveva scrutato in volto attentamente, e parecchie volte durante il giorno l’avevo sorpresa a guardarmi. Sospettava che stesse succedendo qualcosa, ma mi domandai se sapesse che si trattava di Torcuil. Non ero pronta a parlarne. Ero terrorizzata da quello che avrebbe detto se avesse saputo che eravamo diventati così intimi.

Ero stesa sul letto accanto a Leo, cercando di leggere ma in realtà persa nei miei pensieri, quando Lara entrò in punta di piedi, attenta a non svegliare suo fratello. C’era qualcosa nel suo viso che mi sorprese. Sembrava preoccupata. Come sempre succedeva con qualsiasi cosa riguardasse Lara, mi venne l’ansia. Per Lara mi preoccupavo molto più che per Leo, anche se li amavo entrambi allo stesso modo.

«Ti va una camomilla?», sussurrò.

«Sarebbe meraviglioso», mormorai, accarezzando i capelli di Leo.

Lara andò a preparare un po’ di camomilla nella cucina di mia madre e tornò con due tazze bollenti e un piattino di paste che avevamo sfornato quel pomeriggio. La seguii nella sua stanza. Ci sedemmo a gambe incrociate sul letto, stringendo tra le mani le nostre tazze calde. Mi faceva bene riprendere quel piccolo rituale, era come un faro nella tempesta dei miei pensieri.

«Che bello», sussurrai.

«Ho messo il miele nella tua camomilla», disse lei. Stavamo tergiversando in attesa di qualcosa, lo sentivo. Sapevo che Lara si stava preparando a parlarmi.

«Mamma?».

Eccoci. «Sì?»

«Non c’era neanche oggi».

«Mal?».

Annuì. «Sì. Ormai sono giorni che non lo vedo. Ci incontravamo quasi ogni giorno e…».

«Ogni giorno, Lara?», chiesi, cominciando ad allarmarmi. Non mi ero resa conto che le cose fossero così serie. Tra me e me mi rimproverai di non avere indagato di più su Mal.

«Ho detto quasi tutti i giorni».

«Giusto». Mi trattenni dal dire altro. Aveva bisogno del mio supporto, non del terzo grado. «Domani ci sarà, ne sono sicura…».

«Lo spero».

«…E mi piacerebbe conoscere questo ragazzo».

«Mamma!». Le sue guance si tinsero di rosa e posò la tazza sul comodino.

«Be’, solo quando sarai pronta, okay? Se vi vedete ogni giorno e lui è così importante per te… Hai solo quattordici anni, Lara. Ho bisogno di vederlo almeno una volta».

«Va bene! Gli chiederò se una volta può venire a prendermi a casa, così potrai salutarlo, okay?»

«Okay».

Pausa.

«È di Glen Avich? O è qui solo per l’estate, come noi?».

Niente terzo grado, eh? Ma non riuscii proprio a trattenermi.

Lara prese di nuovo la tazza e si adagiò sui cuscini.

«Abita qui», rispose.

Trattenni il fiato, nella speranza che la mia domanda non l’avesse spinta a chiudersi a riccio. Sorseggiammo la nostra tisana in silenzio, finché finalmente parlò.

«Sai, l’ultima volta che ci siamo incontrati ha detto una cosa».

«Che cosa ha detto?» 

«Che non sapeva quanto tempo sarebbe potuto rimanere. Ho pensato che volesse soltanto dire che doveva andare a casa presto, ma ora non ne sono più così sicura».

«Non ti ha spiegato meglio?».

Scosse la testa.

«Forse si sta trasferendo altrove?»

«Forse».

«Non puoi semplicemente chiederglielo?», dissi indicando il suo cellulare sulla scrivania.

«Non ha un telefono. Ci puoi credere?», rispose Lara, gli occhi spalancati dietro gli occhiali.

«Sul serio? Dev’essere l’unica persona sul pianeta che è rimasta senza telefono».

«Sì… Non si interessa molto alle cose moderne. Non sapeva cosa fosse un iPod quando gli ho mostrato il mio».

«Be’, Glen Avich è un pochino arretrata rispetto a Londra, ma non così arretrata. A me sembra che il tuo amico sia un po’ un tecnofobo».

«Ama i libri», disse, e le si illuminò il viso.

«Oh, bene».

Lara annuì. «Sì, è molo simile a me. Non ha molti amici».

Quel commento buttato lì mi fece venire una stretta al cuore. «Semplicemente non hai ancora trovato le persone giuste».

«Non so nemmeno se esistano le persone giuste per me», rispose lei, addentando una pasta. «Nonnina vuole presentarmi un paio di ragazzi della Kinnear High School, ma non so. Mmm, questo dolce è celestiale… A ogni modo, spero solo che Mal ci sia domani».

«Sono sicura che lo rivedrai presto. Vi incontrate al ponte, no?», dissi in tono noncurante. Avevo bisogno di capire se andava in qualche posto isolato con questo ragazzo. Sapevo che era una ragazza sveglia e non avrebbe fatto niente di stupido o pericoloso, ma volevo esserne certa.

«Sì. E dalle parti del lago».

«Lara…».

«So che cosa stai pensando. E davvero non hai ragione di preoccuparti. Mamma, ora mi metto a scrivere un po’ prima di andare a dormire».

Il tempo delle confidenze era finito. Ma avevo un’ultima domanda.

«Lara, mi stavo chiedendo… Sai il suo cognome?»

«Così puoi fare delle ricerche su di lui?». Un sorriso le danzò sulle labbra.

«Niente affatto. Che cosa te lo fa pensare?», risi, appoggiando le tazze e i piattini sul vassoio.

«Non so il suo cognome. Non gliel’ho mai chiesto».

«Il fascino dell’uomo misterioso», la presi in giro. Decisi che avrei chiesto a mamma e Michael se sapevano qualcosa di questo enigmatico ragazzo.

«Mamma, smettila!».

«Scusa. Comunque, io vado a guardarmi un po’ di televisione con Nonnina e Michael». Avevo rinunciato ad andare a letto presto; ero troppo agitata. «Vieni anche tu, se vuoi un po’ di compagnia», dissi, e le spazzai via dolcemente una briciola dalla guancia, lasciando indugiare le dita per un momento sul suo amato viso.

Mancavano tre settimane all’inizio della scuola. Presto la nostra “estate farfalla” sarebbe finita. Ma non avevo il coraggio di dirlo ad alta voce, perché questo pensiero avrebbe messo in agitazione Lara, e anche me.

Nessuno di noi era ansioso di ritornare.

Rimanemmo a guardare la TV a casa di mia madre fino a tardi, ma Lara non venne. Dalla finestra vidi la luce della sua stanza rimanere accesa per un po’, poi diventò tutto buio. Era andata a letto.

«Mamma, sai quando ti ho detto che Lara ha fatto amicizia con un ragazzo? Be’, a quanto pare si vedono quasi ogni giorno», dissi.

«Sì, mi hai accennato qualcosa».

«Ma è davvero soltanto un amico?», esordì Michael pensieroso. «Ne sei sicura?».

Mamma rise. «Non ti agitare, Michael».

«Non mi sto agitando. Sto solo dicendo che quando mia figlia aveva quindici anni, i ragazzi dovevo allontanarli con il mattarello».

«Immagino che fossero terrorizzati». Mamma rise di nuovo e non potei fare a meno di unirmi a lei. «Gli lanciavi addosso i biscotti?»

«Guarda che un biscotto può far male, se prendi bene la mira», rispose lui scherzando. Ancora una volta constatai quanto fossero in armonia tra loro mia madre e Michael, come fossero profondamente a proprio agio in compagnia l’uno dell’altra. E ancora una volta, insieme alla gioia che provavo per mamma, avvertii un vago senso di tristezza nel vedere davanti ai miei occhi quello che avevo tentato di costruire con Ash, fallendo miseramente.

«Mi ha detto che è soltanto un amico», dissi. «Ma sono sicura che tra loro ci sia del tenero».

«Be’, è una buona cosa. Sono contenta per Lara», disse mia madre.

«Anch’io, ma voglio conoscerlo. Non mi piace non sapere chi sia. Voglio dire, se fossimo a Londra non le lascerei mai frequentare qualcuno di cui non so assolutamente nulla…».

«Certo, ma qui è diverso. Tutti si conoscono e spesso ci sono legami di parentela anche con gente dei paesi vicini. I giovani non hanno molte possibilità di fare cose in segreto», disse mia madre. «Mal è il diminutivo di Malcolm?»

«Forse. Lara dice che di sicuro vive qui a Glen Avich».

«Io personalmente non conosco nessun ragazzo con quel nome… Tu, Michael?». Lui scosse la testa. «Ma forse conosco qualcuno che potrebbe aiutarci. Chiederò a Peggy. Conosce ogni singola anima che vive da queste parti».

«Inclusi cani, gatti, angeli custodi e antenati», si intromise Michael. «È una specie di Google umano per tutta la zona di Aberdeen».

«Buona idea. Devo passare al suo negozio a prendere delle cose. Glielo chiederò io stessa».

Mentre mi preparavo per andare a letto, mi resi conto che da qualche ora avevo smesso di pensare a quanto era successo con Torcuil – un pensiero che mi aveva ossessionata fin dal giorno prima. Era una vera liberazione, ma mentre mi addormentavo finii per ripercorrere nella mente il nostro bacio più e più volte, nonostante il senso di colpa. Mi ritrovai a contare le ore che mancavano per rivederlo, desiderando che i giorni passassero in fretta. Ma nessuno, nessuno avrebbe mai dovuto saperlo. Sarebbe stato un segreto da custodire.

La mattina dopo, uscii insieme a Leo con la scusa di fare delle commissioni, ma ero a caccia di qualche informazione in più su Mal. Era una bellissima giornata e Leo saltellava allegramente accanto a me. Ci fermammo al negozio di Peggy, che fortunatamente era vuoto – non ci sarebbero state orecchie curiose ad ascoltare quello che stavo per chiederle. Non volevo rivelarle la vera ragione della mia curiosità per paura di scatenare qualche pettegolezzo su Lara, così fui molto vaga.

«Sai, mi stavo domandando…», cominciai, mentre aiutavo Peggy a infilare la mia spesa in un sacchetto di tela. «Ho incontrato un po’ di persone da quando sono arrivata, ma non riesco a individuare la famiglia di questo ragazzo… Si chiama Mal. Forse è il diminutivo di Malcolm». Non specificai come lo avessi incontrato, e Peggy non me lo chiese.

«Oh, sì. Potrebbe essere Mal MacLennan», disse, e io sorrisi dentro di me, ricordando che Michael l’aveva chiamata la Google della zona di Aberdeen. «Un ragazzo delizioso. Non vive qui, però. Abita a Glasgow. Tornano al paese ogni estate. Stanno dalla nonna del ragazzo, Morag MacLennan, due case più avanti. Conosci la ragazzetta, Ruby, quella con i ricciolini?»

«Oh, sì. Leo ha giocato con lei diverse volte».

«Bene, Ruby è la nipote più giovane di Morag, quindi Mal praticamente è suo zio».

«Okay». Tutti quegli intricati legami di parentela tra gli abitanti di Glen Avich mi facevano venire il mal di testa. «Sai se è ancora qui per l’estate o è già tornato a Glasgow?»

«No, i MacLennan non sono proprio venuti quest’estate…».

Ah. Falsa pista.

«…Morag mi ha detto che sarebbero andati a trovare la figlia più grande in Arizona e sarebbero rimasti lì tutta l’estate. Che peccato, le mancano molto. Ma ci sono sempre le vacanze di ottobre…». Peggy continuava chiacchierare mentre la mia mente vagava.

«Non conosci per caso un altro Mal? O Malcolm?»

«Ne conosco alcuni, ma sono tutti della mia età. Malcolm è un nome un po’ fuori moda, non trovi? Ormai la gente non chiama più i figli Malcolm. Pensa che la nipote di una mia amica ha chiamato il figlio Wingo. Sul serio! Quel povero ragazzo dovrà convivere con quel nome per il resto della vita».

«Forse è un turista?». Cercai di farle dimenticare Wingo e riportare la conversazione su Mal.

«Forse. Chiedo in giro se vuoi. I turisti comunque finiscono sempre al Welly – hai presente? Il negozio di articoli per escursionismo. È del fratello di Inary. Cioè Logan. Quindi hai capito? Io sono la sua prozia…». Mi ero persa, poteva leggermelo in faccia. Rise. «Non preoccuparti, cara! Forse Logan conosce il tuo Mal. Comunque chiederò a Eilidh».

«Grazie, Peggy». Mi affrettai ad andare prima che cominciasse a esaminare qualche altro albero genealogico.

«Non ti preoccupare, cara». Intorno ai suoi occhi comparvero delle piccole rughe, mentre sorrideva calorosamente. Per un secondo temetti che mi avrebbe chiesto dove avessi incontrato Mal, ma non lo fece, e io gliene fui grata. Forse aveva indovinato tutto, chissà. Una cosa era sicura: se non lo conosceva lei, non lo conosceva nessun altro, e se non fosse riuscita a rintracciarlo, allora questo Mal era un prodotto della fervida immaginazione di Lara. Oppure lui le aveva dato un nome falso, scherzai tra me e me, e un attimo dopo quel pensiero mi terrorizzò. Speravo con tutto il cuore di incontrare presto quel ragazzo e scacciare tutte le mie paure.

Mentre tornavo al bar, mi domandai se forse non fosse il caso di parlarne con Inary. Magari lei sapeva qualcosa e poteva chiedere a suo fratello. Ma non ero certa che fosse la cosa giusta. Dopotutto, nonostante la differenza di età, lei e Lara erano amiche, e mi sembrava sleale nei confronti di mia figlia, come se facessi qualcosa alle sue spalle.

«Vuoi andare al parco giochi?», chiesi a Leo. Com’era facile accontentarlo, questo cucciolo di tre anni che aveva solo bisogno di coccole e di aria fresca. Anni luce dalle complicazioni e i tormenti di una ragazzina di quasi quindici anni. E di una donna di trentotto, se è per questo.

«Sì». Leo saltellava e mi tirava la mano.

Seduta su una panchina del parco giochi nel sole mattutino, mentre una leggera brezza mi accarezzava la pelle, decisi che avrei aspettato di vedere cosa succedeva, e nel frattempo avrei monitorato attentamente i movimenti di Lara. Non avrei mai voluto che la mia bellissima e sensibile figlia rimanesse ferita. Anche se sapevo che succede a tutte le donne, prima o poi, e sarebbe arrivato anche il suo turno. Speravo soltanto che non accadesse troppo presto, prima che imparasse a proteggere almeno un po’ il suo cuore.

Quanto a me, ero smarrita. Non riuscivo a decidere nulla, perché non mi fidavo del mio cuore confuso e non sapevo se sarebbe stato in grado di fare la scelta giusta.

 

 

Capitolo 35

 

Gelo

 

Lara

Cara Kitty,

sono molto preoccupata. Sono tre giorni ormai che non vedo Mal. Ho cercato dappertutto: al lago, sul ponte, nella casa sull’albero, ma non c’è da nessuna parte. Ho parlato a mamma di lui, anche se ero decisa a tenermi tutto per me – a proposito, non le ho detto che a volte andiamo nella casa sull’albero, per paura che ci sorprenda quando è a Ramsay Hall… (Solo per puro caso, direbbe lei). Sono troppo preoccupata per riuscire a gestire questa cosa da sola. Lei mi ha rassicurata un po’, ma adesso vuole sapere qualcosa di più su Mal.

E io non posso dirle altro perché anch’io so molto poco di lui.

Anzi, a dir la verità, non so proprio niente di lui. Eppure in un certo senso mi sembra di conoscerlo da sempre.

Sono appena tornata da un’altra lunga, lunghissima passeggiata in cerca di lui. Sono davvero depressa.

Mi manca così tanto.

E c’è dell’altro. Non voglio tornare a Londra.

L’estate sta finendo. Nessuno di noi osa dirlo ad alta voce, ma questo pensiero aleggia nell’aria. Ieri ho sentito mamma dire a nonna che quando torniamo dovremo andare da John Lewis perché probabilmente la giacca della divisa scolastica mi andrà piccola. Solo il pensiero di tornare in quella scuola… Forse dovrei parlarne con mamma? Forse le piacerebbe rimanere qui?

Come la mettiamo però con papà?

Ieri sera mi ha telefonato, per la prima volta da quando siamo qui. Gli ho chiesto perché non aveva mai chiamato prima – dovevo chiederglielo, non ho potuto farne a meno. Lui ha risposto che lo avevo chiamato sempre prima io, quindi non ha mai avuto davvero la possibilità di farlo. Non so se credergli, ma comunque l’importante è che alla fine mi abbia chiamata. Mi ha detto che non vede l’ora di riabbracciare me e Leo. Ci ha messo un mese per rendersene conto, il che è un po’ strano, ma va bene lo stesso. Ha detto che è passato tanto tempo e gli manchiamo. Gli ho chiesto perché non telefona mai a mamma. Lui ha risposto che mamma non vuole parlargli. Se avesse voluto, innanzitutto non lo avrebbe lasciato.

Sono sicura che è lui che la racconta così, ma in realtà hanno deciso di comune accordo di prendersi un periodo di pausa. Mio padre si dimentica che ho quattordici anni, non dieci, e vedo e capisco molto più di quanto creda.

Adesso sono davvero confusa. Voglio vedere papà e non voglio farlo star male. Ma sono molto più felice qui. Odio il pensiero di tornare alla mia vecchia scuola e affrontare quelle persone. Non ho controllato i social per tutta l’estate. Forse hanno postato altre stupide vignette su di me. Sono terrorizzata.

E poi mamma sembra così felice. Il suo viso è splendente, se capisci cosa intendo.

Sembra così diversa rispetto a quando stavamo a Londra. Lì era sempre di corsa e arrabbiata, ed era come se avesse un peso enorme sulle spalle. Era come… affievolita. Sì, era come se la sua luce si fosse affievolita.

Qui invece brilla radiosa.

Detto questo, negli ultimi giorni mi è sembrata un po’ strana. Penso di sapere perché: l’estate sta per finire e lei è preoccupata. Le ho riferito ciò che mi aveva detto papà, che gli manchiamo e vuole che torniamo. Lei non ha commentato nulla, è diventata soltanto molto pallida. Penso che neppure lei voglia tornare.

È un vero casino.

Insomma, Kitty, la morale è: voglio rivedere Mal. Per adesso è l’unica cosa che so per certo.

 

 

Capitolo 36

 

Da nessuna parte

 

Lara

Cara Kitty,

sono a letto e non voglio vedere nessuno.

Lui è sparito.

Siamo andati alla casa sull’albero, e sembrava ci fossimo soltanto noi due al mondo. Il vento era fortissimo e lo sentivo ululare fuori dalla finestrella. La casa sull’albero scricchiolava un po’, ma io ero troppo felice e non m’importava di questo, né di nient’altro. Ci siamo seduti vicinissimi e lui mi ha stretto la mano. Faceva sempre questa cosa, Mal – mi stringeva la mano. Come se avesse paura che me ne andassi e volesse a tutti i costi trattenermi.

«Quando ero piccolo, io e i miei fratelli dormivamo in uno stanzone con una grande finestra», ha detto. Quando il vento soffiava forte, faceva degli strani rumori intorno ai vetri, come un sibilo. Io avevo paura, così mia madre veniva a cantarmi una canzone. Cantava una canzone che parlava di un uccellino che volava nel vento e poi tornava a casa sano e salvo».

«Quando ero piccola mia madre non c’era. È morta», ho detto io di getto. Così, come se nulla fosse.

Non so nemmeno come mi sia venuto in mente di dire una cosa del genere. Non parlo mai della mia famiglia. Intendo, la mia famiglia biologica. È troppo doloroso. Ma stavolta l’ho fatto. Non ho idea del perché. È solo che avevo fiducia in lui. Tanto da confidargli i miei segreti.

«Ma non hai detto che sei venuta qui con tua madre?»

«È la mia madre adottiva, mi ha adottata quando avevo sei anni. Mia madre biologica è morta quando ne avevo due. Mio padre si è preso cura di me per un po’, ma non ha fatto esattamente un gran lavoro».

Persone con cui ho parlato di queste cose:

1. Mia madre;

2. mio padre;

3. Sheridan.

Nessun altro al mondo, nessuno. Non potevo credere che ora ne stessi parlando con Mal.

«Mi dispiace», ha detto, e io odio quando la gente mi compatisce, ma con lui non avevo questa sensazione. Così è venuto fuori tutto.

«Mi hanno data in affidamento. Per un sacco di tempo non sono stata adottata perché si sperava che mio padre risolvesse i suoi problemi, ma non ci è mai riuscito. Ci ha provato, ma non abbastanza. Vivere con lui è stato orribile. Dovevo starmene sempre zitta perché se facevo rumore – anche il mio passo era troppo rumoroso per lui – si infuriava e urlava e mi picchiava in un modo che non lasciava segni, così che nessuno lo scoprisse. Mi diceva di non dirlo a nessuno, altrimenti mi avrebbero spedita in una casa famiglia davvero tremenda, perché è lì che vai se fai rumore e ti comporti male. Dovevo cavarmela da sola. Mangiavo solo biscotti perché non c’era nient’altro in casa e avevo paura ad andare da sola nei negozi. Poi, un giorno, mio padre si addormentò mentre fumava e la casa andò a fuoco, così mi portarono di nuovo via…».

A questo punto la voce ha cominciato a tremarmi. Mal mi ha preso tra le braccia e mi ha stretta forte. Eravamo vicini come due cuccioli in una scatola. Mi sentivo al sicuro tra le sue braccia, così ho proseguito.

«Adesso comunque è tutto finito, e non lo rivedrò mai più. Lo hanno trovato morto nella vasca. Lo so perché ho origliato, mentre mamma lo diceva al telefono a Nonnina. È stato allora che mi hanno dato la foto di mia madre – mia madre biologica, intendo – e per un certo periodo sono andata in confusione perché non riuscivo a ricordarla e continuavo a pensare che tutte le sue foto erano andate perse…».

A quel punto ho sentito qualcosa che mi bagnava il viso e ho pensato che la pioggia si fosse infiltrata nella casetta, così ho alzato lo sguardo per vedere se ci fosse qualche falla nel tetto, ma non ce n’erano: ero io che piangevo. All’improvviso stavo singhiozzando e mi sentivo così in imbarazzo. Ma sembrava che a Mal non importasse. Senza dire nulla, mi ha stretta forte forte. Ho alzato gli occhi, l’ho guardato e ho visto che stava piangendo anche lui.

«Mia dolce Lara», ha detto. Mi ha baciato la fronte e le guance, il naso e le labbra. «Sei così coraggiosa. Sei sopravvissuta. Non tutti ci riescono, mia cara Lara. Non tutti sopravvivono. Ma tu ce l’hai fatta».

E poi, con delicatezza, mi ha liberata dal suo abbraccio. Si è alzato e ha detto: «Mi dispiace, devo andare».

C’era qualcosa nei suoi occhi che mi ha terrorizzata. Qualcosa di ineluttabile.

«Ti vedrò domani?».

Lui scosse lentamente la testa. Le lacrime continuavano a rigargli il viso ed è stato terribile! Non avevo mai visto piangere un ragazzo.

«Non sono sicuro di poter tornare», ha detto, e la sua voce era come un’eco, tanto era forte il vento. Mi sono alzata di scatto e mi sembrava quasi di non riuscire a stare in piedi, tanto ero sconvolta.

«Ma perché? È per quello che ho detto? È perché adesso pensi che io sia strana?»

«No. No. È perché penso di non poter resistere».

«Cosa? Che cosa vuoi dire?»

«Mi dispiace, Lara», ha detto. E poi: «Mia dolce Lara».

Mi ha dato le spalle e se n’è andato dalla casa sull’albero. Forse è stata colpa del vento, ma non l’ho sentito scendere giù per la scaletta di corda. Forse è stata colpa delle mie lacrime, ma non l’ho visto camminare sull’erba.

Era sparito, come se non fosse mai stato lì.

Sembra impossibile che sia successo solo ieri. Non ho dormito tutta la notte, e poi a colazione non ce la facevo a sentire tutte quelle domande, a vedere mamma e Nonnina che si agitavano intorno a me come se fossi malata. Non ero malata, ma soltanto triste. E arrabbiata.

Perché Mal non c’è da nessuna parte.

Non posso credere che se ne sia andato così, senza una parola. Mi ha baciata e poi se n’è andato.

Come fanno tutti, nella mia vita. Come la mia vera mamma.

Tutti se ne vanno.

Mamma continuava a dirmi che non mangio abbastanza e a chiedermi se per caso volessi un muffin anziché i cereali, o un French Toast o qualcos’altro, e allora io non ci ho visto più. Le ho detto una cosa che non le avevo mai detto, mai.

Le ho detto che sarebbe stata meglio senza di me, e che comunque lei non era la mia vera madre.

Poi sono subito uscita, perché non ce la facevo a guardarla in faccia dopo quello che avevo detto. Ho sentito Leo che mi chiamava e mi è sembrato di aver deluso tutti. Non c’è da meravigliarsi che anche Mal mi abbia abbandonata.

Sono corsa fuori e sono andata dappertutto. Ho fatto più volte il giro del paese, sperando di rivederlo, e poi sono andata al lago fino a St Colman’s Way e a Ramsay Hall. Ho cercato in tutta la proprietà e nella casa sull’albero, ma di Mal non c’era traccia.

Stavolta non potevo stare semplicemente a guardare. Non posso lasciare che la vita mi dia ancora un altro schiaffo. Devo trovarlo.

Ricordo ogni singola conversazione che abbiamo avuto, ogni parola – sono sicura che da qualche parte tra i miei ricordi di lui c’è un segno, un indizio che potrebbe farmi capire cosa può essere successo, e dove può essere andato. Non ha mai parlato di altri luoghi a parte questo. Non ha mai parlato di un altro posto che non fosse Glen Avich… E poi mi sono ricordata.

“Vado su Ailsa con la mia barca. Mi porto un po’ di cibo e un libro e passo ore lì a leggere in solitudine. Ci siamo solo io e il lago”.

Adesso so cosa fare.

 

 

Capitolo 37

 

Liberazione

 

Margherita

Ero seduta sul pavimento, a lucidare l’intricato intaglio di un armadio, quando Torcuil fece irruzione nella stanza, gridando il mio nome. Non potevo crederci quando mi afferrò il braccio e mi fece alzare, ed ero pronta a protestare – ma poi vidi la sua faccia. «Cosa…?».

«Dobbiamo andare, subito. Si tratta di Lara» disse, e uscì a grandi passi, prendendomi la mano e trascinandomi con lui.

«Lara? Che sta succedendo?»

«È sul lago. È in pericolo», disse semplicemente, mentre usciva dalla biblioteca e giù in corridoio fino in cucina e in giardino, con me alle calcagna. 

Sembrava che le gambe dovessero cedermi da un momento all’altro e tremavo tutta, ma continuai a correre. Non avevo idea di che cosa stesse succedendo – l’unica cosa che la mia mente riusciva a capire era che Lara era in pericolo e io dovevo andare da lei. Corsi insieme a Torcuil più veloce che potevo. Senza fermarmi, presi il telefono dalla tasca dei jeans e chiamai Lara – ma suonava a vuoto.

«Guarda», sussurrò Torcuil. Seguii il suo sguardo e vidi un lampo di azzurro che danzava sulle acque plumbee – una barca abbandonata. Quasi mi cedettero le ginocchia e sentii la nausea salirmi in gola.

«Lara ha preso quella barca?», chiesi. Ma lui come diavolo faceva a conoscere la risposta? Come poteva sapere che cosa stava succedendo? E perché mi aveva trascinata lì? Non rispose e lo guardai – aveva gli occhi chiusi e sembrava concentrato ad ascoltare. Ad ascoltare qualcosa che io non potevo sentire.

«Ailsa», disse d’un tratto. «Dobbiamo andare su Ailsa. Vieni, ho una barca», aggiunse, e mi prese per il braccio. Mi portò lungo la spiaggia fino a qualche metro più giù, dove c’era una barchetta verde ormeggiata a un palo.

«Forse dovresti aspettare qui», mi disse all’improvviso, bloccandomi.

«Ascolta, non so cosa stia succedendo, ma se mia figlia è laggiù, io vengo», dissi, liberandomi dalla sua presa ed entrando nell’acqua fredda. Lui mi seguì e mi tenne la mano; quando salimmo a bordo, la barca oscillò vistosamente, e Torcuil liberò subito i remi.

«Lara!», cominciai a chiamare a squarciagola, inginocchiandomi sul fondo di legno e reggendomi ai bordi della barca. «Lara!».

«Lara!», mi fece eco Torcuil, e la chiamammo, più e più volte.

«Cosa sta succedendo? Ti prego, dimmelo. Ti prego, Torcuil, dimmelo!».

«È difficile da spiegare. Me l’ha detto qualcuno. Qualcuno mi ha detto che Lara è in pericolo. Ha detto che è su Ailsa».

«Chi te lo ha detto?», gridai, le lacrime che mi bagnavano il viso. 

«È troppo complicato da spiegare adesso. Fidati di me e basta, okay?»

«Okay. Va bene».

Continuai a gridare il nome di mia figlia tra le lacrime, il lago vasto e scuro davanti a me. Ricordai i silenzi di Lara, le ombre cupe sul suo viso, e dentro di me tremai. E poi quelle parole terribili che mi aveva rivolto! Frugai nella tasca dei jeans in cerca del telefono. Avrei chiamato mia madre, e lei mi avrebbe detto che Lara era con lei, sana e salva. Ma non lo trovai, e non avevo il tempo di cercarlo.

«Senti, ora penserai che sono pazzo… Ma per favore, fidati di me», mi implorò. «Ti prego. Abbi fiducia in me, solo stavolta. Poi ti spiegherò…».

E d’un tratto i miei occhi videro qualcosa, un panno blu tutto spiegazzato che galleggiava accanto alla barca. Un grido mi si bloccò in gola – ero paralizzata, sconvolta. Era la felpa blu di Lara, quella che avevamo comprato insieme al nostro arrivo.

«Oh, mio dio, Torcuil! Guarda!».

Mi coprii il volto con le mani, stravolta. Torcuil ricominciò a chiamarla.

E se l’avessi vista? E se avessi visto il suo corpo galleggiare sull’acqua?

Non poteva essere.

Non era possibile che stesse succedendo davvero.

Quando trovai il coraggio togliermi le mani dal viso e guardare di nuovo, la barca aveva incontrato una piccola distesa di giunchi. Ailsa era avvolta nella nebbia, i contorni dei suoi alberi neri a malapena visibili.

«Lara!», chiamai con tutte le forze, più e più volte. Mi faceva male la gola e mi tremava la voce, ma continuai a urlare il nome di mia figlia.

E poi nella nebbia si udì una vocina.

«Mamma! Sono qui!».

Mia figlia mi stava chiamando.

Mia figlia era viva.

Dovetti frenare l’impulso di buttarmi in acqua e raggiungere Ailsa a nuoto. Torcuil stava remando più in fretta possibile, il sudore che gli bagnava la fronte.

«Arriviamo! Tesoro, siamo qui!».

Finalmente Torcuil scese dalla barca e andò a riva, porgendomi la mano con un gesto rapido. Presi la sua mano, ma scesi così velocemente che inciampai e finii quasi faccia a terra. Torcuil accorse a sorreggermi – e prima ancora che me ne rendessi conto, Lara era tra le mie braccia, bagnata fradicia, tremante e come straniata. La strinsi forte, la mente affollata da un milione di domande, ma non riuscii a emettere nessun suono se non un debole pianto di sollievo.

«Lara. Oh, grazie a dio», disse Torcuil, abbracciandoci entrambe.

Quando Lara alzò gli occhi, rimasi scioccata da ciò che vidi.

Era pallida e sembrava spaventata, ma stava sorridendo.

Per un momento, un momento terribile, pensai che avesse perso la testa.

Le presi il viso tra le mani e la guardai dritto negli occhi. «Lara?».

«Mal se n’è davvero andato, adesso», sussurrò. «Ma è tutto a posto».

Mal? Era lì con lei? Il terrore mi assalì. «Che cosa è successo?», riuscii a chiedere, la voce che stentava a uscirmi dalla gola serrata.

«Volevo trovarlo. Ho pensato che poteva essere qui. Sono caduta in acqua e lui mi ha sentito gridare. Mi ha salvata».

Che cosa le aveva fatto Mal? Scrutai di nuovo il suo viso. «Ti ha fatto del male, Lara?»

«No! Assolutamente no!», protestò lei. «Mi ha salvata! Se non fosse stato per lui, adesso sarei morta».

«Allora dov’è adesso?», chiesi lentamente. Mi tremava la voce. «Se ti ha salvata mentre stavi annegando, dov’è adesso?»

«Te l’ho detto, se n’è andato. Doveva farlo».

«Andato dove?»

«Margherita, per adesso basta. Si sta congelando», mi interruppe Torcuil, cingendomi le spalle in un gesto protettivo. «Portiamola al caldo. Dopo potrai farle tutte le domande che vorrai».

Ci stringemmo sulla barca remando lungo il lago silenzioso, un milione di dubbi, domande e paure che mi turbinavano nella mente. Lara era accoccolata contro di me, esausta. La lasciai stare.

Un’ora dopo, era nello studio di Torcuil seduta davanti al fuoco, con una maglietta enorme che lui le aveva prestato e una coperta sulle spalle. Avevamo deciso di non tornare subito a casa, ma di fermarci prima a Ramsay Hall, per non allarmare Leo, mia madre e Michael.

«Lara, la tua storia non ha senso. Come ha fatto Mal a sentirti gridare? Era sull’isola? E poi ti ha lasciata lì fradicia ed è sparito?»

«Margherita…», iniziò Torcuil.

«No. Torcuil, no. Ho bisogno di capire!».

«Posso aiutarti io a capire…».

«Voglio che sia Lara a dirmelo, okay? Dopo parleremo anche di te», sbottai, pensando a quello che mi aveva detto – che qualcuno lo aveva avvisato che Lara era in pericolo. E poi fui assalita dal senso di colpa. Torcuil mi aveva portato da mia figlia. Senza di lui, non avrei mai saputo che Lara era lì. «Senti, mi dispiace. È solo che sono davvero confusa…».

«Lo capisco. Credimi, lo capisco».

«Mamma, va bene. Ora ti spiego».

«Sì. Sì, Lara, dimmelo. Dimmi cosa è successo», la implorai quasi.

«Mal era sparito da giorni. Te l’ho detto, ti ricordi?». Annuii. «Volevo vederlo. Mi sono ricordata che mi aveva detto che adora andare sull’isola di Ailsa, quindi ho pensato di prendere la barchetta… Sai, quella ormeggiata vicino alle casette, quella che non usa mai nessuno… E ci sono andata». Si guardò le mani – i palmi erano arrossati nei punti in cui aveva stretto i remi. «Stavo per attraccare sull’isola quando la barca si è quasi rovesciata, e sono caduta. Pensavo che sarei morta…». Rabbrividii. Quanto eravamo stati vicino all’abisso. «L’acqua era così fredda e io ero così spaventata… E poi qualcuno mi ha trascinato a riva. Era Mal. Ha detto che mi aveva sentita gridare, che era tornato per me, ma adesso doveva andarsene. Mi ha detto di non essere triste. Che nessuno vive per sempre».

Ero sconvolta. «Oh, mio dio. Pensi che si sia buttato nel lago? Ed è per questo che non c’era? Dobbiamo chiamare subito la polizia…».

«No, mamma, non si è buttato nel lago. È scomparso. Davanti ai miei occhi. Un attimo dopo non c’era più».

«Ma questo non è possibile!».

«Margherita…».

«Torcuil, fammi parlare…».

«Margherita, lascia che Lara si riposi e si riprenda. Basta con le domande per il momento».

Gli lanciai un’occhiataccia. C’era qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che non riuscivo a decifrare. Qualcosa che mi fece tacere.

«Adesso devo andare alla cerimonia di commemorazione. Be’, prima devo cambiarmi, immagino», disse guardandosi i jeans fradici. «Non starò via molto, solo un paio d’ore. Ve la caverete senza di me?»

«Sì. Non c’è problema, davvero», risposi, guardando Lara. Lei sorrideva serena – era così strano che fosse serena, persino sorridente, dopo tutto quello che era successo. I capelli le ricadevano morbidi e leggeri sulle spalle, e aveva le guance rosse per il calore del fuoco.

«Sei sicura?»

«Sì, certo», ripetei. «Hai lavorato tanto per questo momento. È importante che tu vada».

«Quale commemorazione?»

«Per un soldato di Glen Avich morto durante la Prima guerra mondiale. Finalmente, tre giorni fa, è stato riportato a casa. Aspetta, te lo mostro». Torcuil rovistò tra una pila di documenti poggiati sul tavolino, finché tirò fuori una copia del «Glen Avich News». La aprì alla seconda pagina e Lara e io ci avvicinammo per guardare.

C’era una foto in bianco e nero di un ragazzo con i capelli neri e gli occhi chiari, in uniforme, in posa solenne. Sembrava così giovane.

«La sua casa di famiglia non è lontana da quella di tua madre, Margherita. Non è morto in battaglia, ma di polmonite. Aveva diciott’anni. Malcolm Farquhar…», continuò Torcuil. Ma un piccolo, impercettibile sussulto attirò la mia attenzione.

Era Lara, di nuovo pallida, gli occhi spalancati, le mani sulla bocca. Non dimenticherò mai quello che disse dopo.

«Mamma… è Mal».

Ovviamente ne parlammo. Le dissi che si trattava di una somiglianza, che probabilmente il suo Mal era in qualche modo imparentato con la famiglia Farquhar e forse era per questo che avevano anche lo stesso nome.

Ma Torcuil rimase in silenzio. Continuava a guardare Lara come se la vedesse per la prima volta.

 

 

Capitolo 38

 

Oltre il velo

 

Lara

Cara Kitty, 

adesso se n’è andato davvero. Ma in un certo senso no.

Ha detto che non mi lascerà mai. Che starà sempre con me.

Me l’ha detto sull’isola di Ailsa, appena dopo avermi salvato la vita. Allora, adesso ti racconto.

Sapevo come arrivare sull’isola, perché avevo visto diverse volte una barchetta che beccheggiava sull’acqua, legata a un palo e lasciata lì da qualcuno che sembrava non usarla mai. Ho camminato nell’acqua che mi arrivava alle ginocchia, sono salita sulla barca e ho liberato gli ormeggi. Ho cominciato a remare – Ailsa si stagliava in lontananza, anche se a stento riuscivo a distinguerla per via della nebbia. Non sembrava così lontana, ma ero spaventata. Non so neppure nuotare; a stento riesco a stare a galla. Ma dovevo assolutamente trovarlo. So che tu puoi capirmi, perché mi conosci meglio di chiunque altro e sai cosa c’è nel mio cuore.

Ci ho messo un’eternità per percorrere quella breve distanza. I remi erano pesantissimi e non sapevo bene come usarli, quindi mi ci è voluto un po’ anche per capire come remare dritto. Avevo paura che qualcuno dalla spiaggia potesse vedermi e fermarmi, ma non c’era nessuno.

Finalmente Ailsa era così vicina che avrei potuto toccare la riva. Ma non riuscivo ad avvicinarmi abbastanza con la barca – c’erano così tanti giunchi nell’acqua, ed era impossibile capire quanto fosse profonda. Mi sono alzata e ho provato a saltare giù, ma la barca si è inclinata e io ho perso l’equilibrio. Sono finita sui giunchi e così ho pensato che fosse tutto a posto, e invece sono sprofondata. Non riuscivo a respirare, era tutto nero – ho cercato di tirare la testa fuori dall’acqua, ma ero così spaventata che non riuscivo a controllare il mio corpo. L’acqua ghiacciata mi è entrata in bocca, nei polmoni, e ho pensato che sarei morta. D’un tratto era tutto silenzioso e calmo, e non ho visto più niente, solo buio.

Ho pensato che le ultime parole che avevo detto a mia madre erano state: “Tu non sei la mia vera madre”, e questo mi ha rattristata moltissimo.

Era così triste morire senza poterle dire che non era vero.

E poi qualcuno mi ha afferrata. Qualcuno mi ha trascinata a riva senza nessuno sforzo, come se fossi leggera come una piuma. Mi sono ritrovata distesa sulla schiena, a sputare acqua e a tremare. Quando ho aperto gli occhi, il mio salvatore era piegato su di me.

Era Mal.

«Scusa», ha detto. «Mi dispiace che me ne sia dovuto andare. Ma non avevo scelta».

«Ma sei tornato! Mi hai salvata…», sono riuscita a farfugliare tra i respiri affannosi.

«Ti ho sentita gridare. Così sono venuto da te un’ultima volta. Ma non tornerò ancora».

«Perché?»

«Perché non posso. Per me è ora di andare. Non essere triste. Nessuno vive per sempre, Lara. Siamo tutti in viaggio, e qui termina il mio, finalmente».

«Ma io non voglio che tu te ne vada».

«Starò sempre con te, Lara. Adesso ascoltami, devi ricordarti questo…».

Si è chinato su di me e il suo fiato era caldo sul mio orecchio. Ha bisbigliato tre parole. E poi proprio lì, davanti ai miei occhi, si è dissolto lentamente, diventando sempre più evanescente, finché è svanito del tutto.

E poi ho visto la sua fotografia sul giornale di Torcuil. Anche se è impossibile, adesso ho capito.

Sembra che l’impossibile sia accaduto davvero. E spiega tutto.

Mia madre dice che è soltanto una somiglianza, che da queste parti sono tuti imparentati, e non è raro vedere persone con i lineamenti molto simili. Ha detto che è evidente che quel Malcolm Farquhar che è morto è un antenato del mio Mal, ed è per questo che si assomigliano così tanto e portano lo stesso nome.

Penso che per lei sia più facile credere questo.

Ma io so che non è vero.

Adesso ricordo tutto quello che mi diceva Mal – che non vedeva nessuno, che soffriva il freddo e la solitudine.

Ricordo che ha detto che doveva andare, che nessuno vive per sempre.

Ricordo quanto mi era sembrato fragile e pallido quando mi ha detto addio. Come è scomparso davanti ai miei occhi.

Ma ricordo anche che mi ha sorriso. Che era sereno.

Non ho nessuna spiegazione per quello che ho visto.

So che Mal mi ha salvato la vita.

So che Mal mi ha dato il mio primo bacio.

So che ha detto che lui mi ama, e porterò con me queste parole finché vivrò.

Non importa se non mi credono. Neppure io ci crederei, se fossi in loro.

Non mi importa nulla di ciò che credono o non credono, perché io so chi era Mal e so che cosa ho visto.

È un mistero, è un mistero come sia successo tutto questo, come Mal sia venuto da me e perché – perché l’ho visto solo io e nessun altro.

È un mistero che custodisco nel mio cuore.

È il mio segreto.

* * *

Torcuil è venuto a trovarmi a casa di Nonnina. Mi ha portato un mazzolino di ranuncoli che ha raccolto al lago. Erano tutti al bar – io ero contenta di questo perché volevo parlare con Torcuil da sola.

«Come è stata la cerimonia?», gli ho chiesto.

«Bellissima. C’era gente che piangeva…».

«In realtà non c’era motivo di piangere», gli ho detto. «Adesso è in pace. Me lo ha detto lui stesso».

Torcuil non ha risposto nulla, si è limitato ad annuire. Poi ha iniziato a chiacchierare di altre cose. Abbiamo preso insieme del tè e un po’ di torta, e abbiamo parlato a lungo di varie cose, un po’ di tutto. Per tutto il tempo ho avuto una strana sensazione, come se stesse cercando di dirmi qualcosa e non sapesse bene da dove iniziare.

Anch’io avevo delle domande, ma non sapevo come fargliele. Mamma si è lasciata sfuggire che Torcuil sapeva che ero in pericolo, sapeva che ero al lago, e sull’isola di Ailsa. Poi ha cambiato versione. Ha detto che loro due stavano camminando sulla riva del lago, quando Torcuil ha visto la barca.

Ho cercato di chiederglielo, ma semplicemente non riuscivo a trovare le parole. E poi Torcuil ha detto che doveva andare. Ci siamo salutati e lui era già fuori dalla porta; stavo per chiuderla, quando l’ha bloccata con la mano.

«Lara».

«Sì?»

«Io ti credo».

Questo mi ha detto: “Io ti credo”.

 

 

Capitolo 39

 

Il momento in cui guardai altrove

 

Margherita

«Come sta?»

«Sta bene. Almeno credo. Oh, mamma», dissi sconfortata. «È stato tutto uno sbaglio».

«Cosa è stato uno sbaglio?». Mia madre sorrise, mettendomi davanti una tazza di caffè forte. Eravamo nella cucina del bar, a fare una pausa mentre Michael la sostituiva al bancone. «Perché mi sembra che le cose stiano andando piuttosto bene».

«Mamma, Lara è finita nel lago!».

«Lara ha preso una barca per attraversare il lago. Questo è tutto. Non è la prima persona in visita a Glen Avich che lo fa, e non sarà l’ultima. Fortunatamente c’eravate anche tu e Torcuil…». Abbassai gli occhi. Non le avevo detto che cosa era successo davvero, del fatto che Torcuil sapesse che Lara era lì, o del mistero che circondava Mal. «E Lara stava bene. Sta bene. Ciò che le è successo non è colpa tua. Ha fatto una cosa sciocca; quale adolescente non fa qualcosa di sciocco prima o poi?»

«Forse. Ma avrei dovuto essere lì».

«Ha quasi quindici anni. Non puoi starle accanto a tutte le ore del giorno. Non stiamo parlando di Leo».

«Si vedeva con un ragazzo nel bosco, e io non l’ho mai fermata!».

«Nel bosco?». Mia madre rise. «Cos’è, Cappuccetto Rosso? Semplicemente si incontrava con il suo amico fuori dal paese perché qui non c’è nessun posto dove due adolescenti possano avere un po’ di privacy. Ogni volta che esci di casa sei destinato a incontrare tua nonna, tua zia, il tuo insegnante e una folla assortita di parenti! Non siamo certo a Londra!».

«Sì, però…».

«Okay, ascolta, mettiamola così. Dimmi se questo ti ricorda qualcosa. Hai quindici anni, sei in vacanza con la famiglia, incontri un ragazzo del posto e cominci a vederlo ogni giorno in segreto, all’insaputa dei tuoi genitori».

«Che cosa dovrebbe ricordarmi?».

Lei rise. «Il nome Peter ti fa venire in mente qualcosa?».

Se non fossi stata così turbata, avrei sorriso.

«Ah, Peter. Sì». Mi asciugai le lacrime. 

E bevvi un lungo, confortante sorso di caffè.

«Eravamo in quel campeggio nel Devon, quello in cui andavamo spesso…».

«Sì, sì, mi ricordo. Ma è diverso. Io ero… Mamma, io ero una bambina felice. Tu e papà eravate sempre presenti, io non sono stata mai… mai…».

«Lo so. Lara ha sofferto più di tutti, quindi ha bisogno di essere tenuta d’occhio un po’ di più. Però non puoi rinchiuderla sotto una campana di vetro. Io avrei tanto voluto farlo con te e le tue sorelle, anche se non eravate state adottate! Avrei adorato stare con voi tutto il tempo, e sapere esattamente dove eravate e cosa stavate facendo, e con chi. Non ho mai smesso di desiderarlo, in realtà. Persino adesso, mi piacerebbe avere te e le tue sorelle riunite qui, nella mia cucina, come quando eravate piccole. Tutte e tre – tu, Anna e Laura –, tutte intorno a me, al sicuro a casa, anche se ormai avete trenta o quarant’anni! Ma le madri devono lasciare andare i propri figli, poco a poco, fino a quando possono reggersi in piedi da soli e prendere le loro decisioni. Lo stesso vale per Lara. Deve imparare a sbrigarsela da sola; deve combattere le sue battaglie».

«Questa non era una battaglia. Questo era un ragazzo».

«Margherita, ascolta», disse, d’un tratto seria.

Alzai la testa.

«Devi aver fiducia in lei. Devi credere in lei. È forte. Come sua madre».

«Ha detto che non sono sua madre», sussurrai, e sentii una stretta al cuore. Questa era l’unica cosa che non potevo sopportare: mia figlia che mi respingeva. Non avrei mai potuto accettarlo, mai e poi mai.

«È stato un momento di rabbia. Tutte le volte che ha chiamato sua madre, è te che chiamava. La donna che l’ha cresciuta».

«Grazie, mamma…».

«È la verità. Bevi il tuo caffè, tesoruccio mio».

Obbediente, presi un altro sorso dell’espresso di mia madre e le diedi il bacio della buonanotte.

«A proposito», continuò lei, «non pensare che non abbia notato che cosa è successo con Torcuil».

Non ero sorpresa, ma chinai la testa sentendolo pronunciare ad alta voce. «Lo so. Lo so, però…». Ero pronta a giustificarmi, ma mia madre mi bloccò.

«Non ti vedevo così felice da anni, Margherita».

«Che cosa?»

«Da quando sei qui. Con Lara che si è rilassata un po’, e con questa cosa che è iniziata con Torcuil, anche se non ho idea di quanto sia seria…».

«Sono separata solo da sei mesi».

«Ma sei stata infelice per anni».

Chinai di nuovo la testa. Aveva ragione. «Non l’hai mai detto. Cioè, non me ne hai mai parlato prima…».

«Che cosa avrei dovuto dirti? Tutta la situazione era come… Come un dente di leone. Hai presente? Basta un soffio e vola via. Non volevo dire niente, non potevo. Dovevo lasciar fare a te…».

Abbassai gli occhi. «Quindi non pensi che abbia commesso un errore? A lasciarmi trascinare in questa cosa con Torcuil, intendo».

Lei sospirò. «Penso che tu abbia bisogno di far chiarezza nella tua mente. E poi con Ash. E poi con Torcuil. Ma no, non penso che tu abbia commesso un errore. Ho sempre saputo quanto eri infelice con Ash, da tanto tempo. Anna mi informava, lo sai, quando tu non mi dicevi le cose».

«Pensi che abbia commesso un errore a sposare Ash, vero?»

«Oh, Margherita! Continui a chiedermi se hai commesso degli errori. Sono tua madre, e ti conosco meglio di chiunque altro, ma non sono un oracolo! Se non avessi sposato Ash, non avresti adottato Lara e non sarebbe arrivato Leo. Chissà cosa sarebbe successo. Ma ora vi siete separati. Siete separati da mesi e non sembra che tornerete presto insieme, non è vero? Chi può dire che cosa sia un errore e che cosa non lo sia, se ti porta là dove sei destinata ad andare?»

«Suppongo che tu sia…».

In quel momento sentii una voce che mi chiamava e mi bloccai di scatto.

Conoscevo quella voce.

«Margherita!».

Ash entrò in cucina, sporcando di fango il pavimento immacolato di linoleum, la pioggia che gli gocciolava dai capelli, dalla giacca, dai pantaloni, formando una piccola, triste pozza sul pavimento. Teneva per mano Leo, che sembrava confuso e vagamente preoccupato.

«Sono arrivato più in fretta che ho potuto. Dov’è? Dov’è mia figlia?».

 

 

Capitolo 40

 

Riparare e distruggere

 

Margherita

«Sta per piovere e ci bagneremo di nuovo», si lamentò Ash mentre ci incamminavamo verso St Colman’s Well.

«Sì, ma al momento non c’è nessun altro posto dove possiamo discutere in privato, e ho bisogno di parlarti prima che tu veda Lara».

«Quello ti sembra un posto privato?»

«Non ci sarà nessuno lì».

La verità era che non me la sentivo di affrontare una discussione tra le mura di casa, le parole pesanti come macigni che sarebbero piombate su di noi.

«Sì. Hai ragione, dobbiamo parlare…».

«Senz’altro», dissi, cercando di sembrare decisa, ma una punta di insicurezza riecheggiò nella mia voce. E mi odiai per questo.

Mi sedetti su una delle panchine dei St Colman’s Gardens. Ai nostri piedi potevamo vedere tutta Glen Avich, con le sue casette addossate alle montagne. Ash si sedette accanto a me.

«Margherita. È stato uno sbaglio…».

Stava ripetendo le parole che io stessa avevo detto a mia madre, e trovai la cosa inquietante.

«Che cosa è stato uno sbaglio?»

«Separarci. Non ha senso stare lontani. Davvero nessun senso…».

«Sembra che ti sia dimenticato quello che è successo, Ash. Tu non c’eri mai. Ignoravi i bambini. Dicevi che saremmo stati meglio senza di loro…».

«Mi sbagliavo».

«Davvero? Perché invece sembrava che ne fossi convinto».

«Sono stato uno stupido. Mi mancate tantissimo».

«Che cosa? Ma se sono settimane che neppure telefoni, Ash!».

«Ero arrabbiato! Ero molto arrabbiato e amareggiato. E noi due non facevamo altro che litigare, Margherita, non ce la facevo più. Ma quando Lara mi ha chiamato e mi ha raccontato quello che è successo, mi sono reso conto di quanto sia stato stupido ed egoista».

“Questo è vero”, pensai, ma non glielo dissi.

«Lara ti ha detto che è caduta nel lago?»

«Sì. Me l’ha detto. Ma non me la prenderò con te per non averla tenuta d’occhio». Non averla tenuta d’occhio?! «Non mi sogno di darti la colpa neppure per un momento…». Allora perché, quando lo guardavo negli occhi, mi sentivo sotto interrogatorio? «Ma questo semplicemente ti dimostra che i bambini hanno bisogno di due genitori. Hanno bisogno di un ambiente sicuro».

«Questo è un ambiente sicuro. E sì, hanno bisogno di due genitori, e tu non c’eri mai! Non ti sei neppure interessato quando Lara è finita nei guai a scuola!».

«Tutto questo appartiene al passato, te l’ho detto. Abbiamo bisogno di ricominciare, tu e io. La nostra famiglia se lo merita».

«Ash…».

«Ti prego, ritorna. Vieni a Londra e lascia che torni a casa».

Mi girava la testa. Era tutto troppo improvviso. Scattai in piedi, e lui fece lo stesso.

«Io…».

«Sono passato da mia madre mentre venivo qui», aggiunse subito. «Le ho detto che stavo venendo a trovarti e a riportarti a casa. Che se voleva che scegliessi tra loro e te, avrei scelto te».

«Le hai detto proprio questo?»

«Sì», rispose lui, annuendo con la testa con tanta forza che il suo ciuffo biondo fece su e giù.

Quello era il gesto definitivo di Ash. Il suo viso sembrava così… familiare. Conoscevo i suoi lineamenti, i suoi gesti, come il palmo della mia mano.

Una parte di me si intenerì.

«Ti sei ribellato a tua madre?»

«Sì, l’ho fatto. Per te. Per noi. Perché Lara e Leo possano avere una vera famiglia. Fammi tornare. A casa nostra».

«Non lo so, Ash. Non lo so».

«Siamo sposati da tanto tempo. Abbiamo due figli. Butteresti via tutto in questo modo? Non lo vedi, Margherita? Non vedi che la nostra famiglia si merita un’altra possibilità?».

Fui travolta da un’ondata di senso di colpa, così forte che mi venne la nausea e non seppi più cosa dire.

«Per favore, Margherita. Per favore, ascoltami. Il mio posto è con te, e con i bambini. Mi dispiace così tanto per come mi sono comportato. Voglio che le cose cambino. Dammi… Dacci un’altra possibilità. Torna a casa».

«Sono stata così felice qui…».

«Qui?», disse lui, come se fosse impossibile crederlo.

«Sì. Qui. Non abbiamo mai parlato della possibilità di rimanere, ma penso che questo pensiero sia sempre stato in fondo ai nostri cuori. Cioè, nel mio e in quello di Lara. Entrambe adoriamo stare a Glen Avich».

«Margherita…».

«Ascolta, Ash, ho bisogno di pensare. Ho bisogno di rifletterci. È stato così difficile…».

«Certo. Certo. Ritorna e ne parleremo a casa…».

Con mia immensa vergogna, scoppiai in lacrime. Ash mi prese tra le braccia, e sentii il suo profumo, il profumo dell’uomo con cui ero stata sposata per anni, e il padre dei miei figli.

E mi spaccai letteralmente in due.

Una persona era la Margherita di oggi, con tutto quello che Ash le aveva fatto – il rifiuto dei bambini, la freddezza, l’agghiacciante indifferenza degli ultimi anni.

E l’altra era la donna che ero stata una volta, la venticinquenne che lo amava immensamente. La ragazza che aveva così tante aspettative per il suo matrimonio.

La seconda Margherita vinse, mi sciolsi in lacrime contro la spalla di Ash e rimasi a lungo così.

Ash era trionfante quando ritornammo al bar La piazza. Io ero in uno stato di confusione, i pensieri che si confondevano e si combattevano, lacerandomi dentro.

Avevamo deciso che saremmo tornati a Londra, ma che lui avrebbe aspettato a trasferirsi da noi. Non ero ancora pronta. Nessuno di noi lo era.

«Lo diremo a Lara», dissi a mia madre, stancamente. Strano, pensai. Avremmo dovuto essere felici del fatto che la nostra famiglia si stesse finalmente ricomponendo. Ma mia madre e Michael avevano un’espressione cupa, e Leo non si era ancora ripreso dalla sorpresa di rivedere suo padre all’improvviso dopo tanto tempo. Quanto a me, mi sentivo svuotata, incapace di provare qualsiasi cosa.

«Vieni con noi?», chiese Ash a Leo, porgendogli la mano. 

Ma Leo scosse la testa e si nascose dietro le gambe di mia madre. «Ha solo bisogno di un po’ di tempo», commentò Ash bonariamente.

E così andammo a parlare con Lara. Ero terrorizzata. A ogni passo diventavo più ansiosa, finché andai in panico. Prima di entrare in casa di mia madre, bloccai Ash.

«Forse è meglio se le parlo prima io…».

«Perché?»

«Per chiederle cosa ne pensa. Per prepararla…».

«Ma non possiamo lasciare che sia nostra figlia a decidere del nostro matrimonio». Alzò le spalle.

«Non è una decisione che riguarda solo il nostro matrimonio. Riguarda tutta la famiglia…».

«Spetta a noi prendere la decisione migliore per loro! Sono solo bambini!».

«Lo so, ma… per loro è stata un’estate meravigliosa. E non prenderanno bene la notizia del ritorno. Di certo non Lara».

«Come lo sai?»

«Me lo ha detto».

«Be’, ha detto anche a me qualcosa del genere, ma ha solo quattrodici anni. Non può…».

«Ti ha detto proprio questo? Glielo hai chiesto?»

«No, non gliel’ho chiesto. Me l’ha detto lei. Ieri, quando mi ha telefonato per raccontarmi dell’incidente. Non ho dato troppo peso alla cosa. Le ho detto che volevo che voi tutti tornaste a casa. Lei ha risposto che adora stare qui e odia la sua scuola, sai, la solita roba da adolescente. Non ci farei troppo caso». 

«Ma come posso ignorare una cosa del genere?»

«È solo una bambina!».

Abbassai gli occhi.

«Margherita…». Posò la mano sulla mia. «Pensavo avessimo preso una decisione. Lo sai che devi tornare. In fondo al tuo cuore lo sai benissimo. La tua vita è con me. La tua casa è a Londra».

«Abbiamo avuto un periodo così difficile, tu e io…».

«Sì, e mi dispiace tantissimo. Te l’ho detto, sono stato uno stupido. Ma la questione è sempre la stessa: vuoi davvero buttare tutto all’aria? La nostra famiglia? Il nostro matrimonio?».

E poi mi sentii rispondere. Dalla testa, non dal cuore.

«Okay, va bene. Diciamoglielo».

«Andrà tutto bene», disse lui, e mi abbracciò di nuovo.

Ma la ragazza venticinquenne, con i suoi sogni e le sue speranze, era svanita, ed era tornato il peso delle responsabilità, il bisogno disperato di fare le scelte giuste per il bene dei miei figli. E il suo abbraccio – quelle braccia che per me avrebbero dovuto essere familiari, come quelle di mia madre, come quelle dei miei figli – mi sembrò l’abbraccio di un estraneo.

Mi dissi che avevo preso la decisione migliore per tutti, e me lo ripetei più e più volte, ignorando le proteste del mio cuore.

 

 

Capitolo 41

 

Il luogo che chiamiamo casa

 

Margherita

«Lara!», chiamò Ash, ed entrò in casa di mia madre.

«Papà?». Lara apparve in corridoio. Sembrava così piccola, così minuta con gli occhiali e la felpa enorme.

«Ciao, tesoro», disse lui, e spalancò le braccia. Lara si fece strada lentamente verso di lui, incontro al suo abbraccio.

«Che cosa ci fai qui?»

«Sono venuto a riportarvi a casa, tesoro. Dopo che mi hai telefonato ieri, ho preso subito la macchina e…».

«Che hai detto?»

«Lara…», cominciai. 

«Mamma? Torniamo davvero a casa?», disse in un sussurro.

«Sì. Tua madre e io cercheremo di sistemare le cose. Anzi, le sistemeremo sicuramente», disse Ash con voce tranquilla e pacata. Penso che volesse sembrare allegro, ma gli venne fuori un tono teso, come se si aspettasse di essere attaccato da un momento all’altro.

E infatti fu così.

«Ma io non voglio tornare. Non voglio. Ti ho detto che volevo rimanere a Glen Avich, papà! Hai detto che ne avremmo parlato… Hai detto…».

«Infatti ne stiamo parlando!», rispose Ash. «E ti stiamo dicendo che ce ne torniamo a casa».

«Io voglio stare qui! Voglio stare con Nonnina. Sono felice qui. Prima non sapevo neanche cosa significasse essere felici. Voglio rimanere! Mamma!».

«Lara…». Le misi una mano sulla spalla per convincerla a venire in salotto, ma lei si liberò di scatto. Stava tremando, tanto era sconvolta.

«Hai detto che ne avremmo parlato, e adesso mi stai semplicemente dicendo che…».

«Lara. Torniamo tutti a Londra». Riuscivo a percepire la tensione nella voce di Ash ed ero pronta a intervenire in difesa di Lara.

«Ash, perché non vai a fare una passeggiata, così Lara e io ne parliamo un attimo?»

«Io dovrei andare a fare una passeggiata? Non dovrei essere presente mentre si decide del nostro futuro?»

«Non voglio tornare!», gridò Lara, e io la guardai con improvviso terrore. Stava per esplodere? Avrebbe dato sfogo a tutta la sua rabbia?

La vidi afferrare una cornice dalla mensola del camino, i suoi tratti delicati deformati dal dolore…

«Lara!».

Per un secondo pensai che avrebbe lanciato la fotografia addosso a suo padre. Ma poi la rimise giù, lentamente, come se stesse facendo uno sforzo enorme. Mi guardò dritta negli occhi.

«Io rimango qui», disse calma, nonostante tremasse dalla testa ai piedi. E poi uscì di casa.

«Dove stai andando?», gridai.

«Da Inary», rispose bruscamente, e sbatté la porta.

«Vado a riprenderla». Ash fece per rincorrerla, ma io lo fermai.

«Lasciala andare».

«Cosa? Lasciarla andare dove? Di nuovo in quel maledetto lago, così può caderci dentro?»

«Non dire sciocchezze. Sta andando a trovare la sua amica, tutto qui».

«Va bene, va bene. Okay».

Stava cercando di mantenere la calma, ma era evidente che fosse furioso. Aveva le guance paonazze.

Tornammo al bar e incrociai lo sguardo di mamma mentre Ash e Leo stavano giocando nell’angolo riservato ai bambini. Aveva una strana espressione. Come se fosse dispiaciuta per me.

«Dov’è Lara?»

«Da Inary».

«Okay». Aveva un tono asciutto e notai che era molto pallida.

«Non l’ha presa molto bene».

«Margherita…».

«Mamma, ti prego. Sono già abbastanza confusa», sbottai, sfregandomi la fronte.

«Volevo soltanto dirti… Non prendere decisioni avventate…».

«Sto cercando di tenere insieme la mia famiglia. Questo è tutto», la interruppi. Non volevo sentire nulla.

«E che mi dici di te?»

«In che senso?», chiesi, brusca. All’improvviso mi vibrò il telefono. Sobbalzai, sperando fosse Lara, ma era Torcuil.

“Lara è qui. Non preoccuparti, adesso le parlo e la faccio calmare, poi la riporto giù in macchina”.

Allora non era da Inary? Perché era andata da Torcuil?

Mi sentii sprofondare. Così adesso Torcuil sapeva che stavamo per tornare a casa. Sapeva che Ash era qui.

Che disastro. Che terribile, terribile disastro.

Stavo deludendo tutti, spezzando il cuore di tutti. E per che cosa?

«Chi ti ha scritto?», chiese Ash dall’angolo dei bambini.

«Il mio capo», dissi, e in parte era vero. Mia madre scomparve nel retro, le labbra serrate. «Lara è da lui».

«Da lui? Chi è questo tizio? Che cosa sappiamo di lui?».

“Cosa sai tu di tutti noi?”, avrei voluto rispondergli. Ma mi trattenni.

«Non preoccuparti. Lara è al sicuro lì», dissi.

E lo ero anch’io.

Mi sentivo sempre al sicuro lì, a Ramsay Hall.

“Mi dispiace”, scrissi a Torcuil, ma non ricevetti risposta.

«Allora, sei contento che papà sia tornato?»

«Sì», gridò Leo a squarciagola, avvinghiato a lui. Aveva superato lo shock e adesso si godeva le attenzioni di suo padre.

Mi sentivo lacerata da un ribollire di emozioni contrastanti – sensazioni così forti, che erano quasi fisiche. Dovevo tenere insieme la famiglia, dovevo tener conto dei desideri di Lara, dovevo dare una possibilità a mio marito, dovevo permettere a Leo di stare vicino a suo padre, dovevo fare ciò che era giusto… Ma giusto per chi?

Ero davvero fiera di Lara che era riuscita a non cedere alla rabbia. Davvero fiera di lei quando non si era lasciata sopraffare dall’enormità delle sue emozioni. E mi sentivo in colpa perché volevo portarla lontano da lì, ma soprattutto mi sentivo in colpa per aver distrutto la nostra famiglia – in colpa per tutto… Che cosa dovevo fare? Sentii le lacrime calde premere per uscire e mi sforzai di respingerle. E poi il telefono fece di nuovo bip.

“Rimane qui per pranzo, se per te va bene”.

“Sì. Grazie. Posso venire a trovarti?”.

Trattenni il fiato in attesa della risposta.

“Non penso sia una buona idea. Riporterò io a casa Lara. Tu rimani al tuo posto, accanto a Leo e a tuo marito”.

Rimasi seduta lì in preda allo sconforto. Domandandomi come mai, se stavo prendendo la decisione giusta, tutto mi sembrava così incredibilmente sbagliato.

 

 

Capitolo 42

 

E d’un tratto aprii gli occhi

 

Lara

Cara Kitty,

è terribile. C’è qui mio padre, e devo dire che sono stata felice di vederlo, anche se mi sembrava tutto così strano. Ma adesso vuole riportarci a casa e io non voglio tornare a Londra. Non posso lasciare Glen Avich. Non posso lasciare questa stanza dove mi sento così a casa. Non posso tornare alla mia vecchia scuola ed essere di nuovo per tutti “quella strana”.

Io rimango qui.

Se Nonnina mi vuole, rimango.

Non possono costringermi a tornare.

Così non ci ho visto più e ho sentito di nuovo questa rabbia che mi saliva, ma – non ci crederai – l’ho controllata! Sono riuscita a controllarmi! Non potevo crederci. Ero davvero fiera di me, ma la notizia che saremmo tornati a Londra era troppo terribile. Sono corsa via perché non volevo vedere nessuno di loro, né mamma né papà. Avevo intenzione di andare a casa di Inary, e invece i miei piedi hanno deciso per me e sono andata a trovare Torcuil. Forse perché Torcuil mi capisce riguardo a Mal, e quindi mi capirebbe anche riguardo al resto, non so. Non so perché sono andata da lui, ma l’ho fatto.

Ho corso lungo la riva del lago, e anche solo la vista di Loch Avich mi spezzava il cuore. Non voglio lasciare il lago. Non voglio lasciare Ailsa e i ricordi di Mal. Ogni passo che ho fatto qui è stato un battito del mio cuore, ogni battito una canzone d’amore per Glen Avich.

Non posso farci nulla, Kitty.

Ho cambiato così tanti posti da piccola, ed è vero che mia madre mi ha dato finalmente una casa stabile a Londra, ma per qualche motivo è la prima volta che mi sento davvero a casa.

Torcuil è rimasto sorpreso quando sono comparsa alla sua porta da sola e in lacrime, ma mi ha lasciata entrare lo stesso. Mi ha preparato una tazza di tè e mi ha portata nel suo studio.

Nel camino ardeva un bel fuoco. A Londra non abbiamo un vero fuoco. L’unica volta che ho visto delle fiamme vere è stato nel parco, al falò della notte di Guy Fawkes, da un chilometro di distanza. Se torno a Londra non ci sarà più niente di tutto questo, non potremo più stare seduti davanti al camino, a guardare il fuoco. Niente più lago, niente fuoco, niente ponte, niente più bar La piazza, niente più colline e brughiere e cieli cangianti. Niente Nonnina, niente più Michael, niente più Inary, niente più Torcuil.

Non ci sarebbe più nulla.

«Allora. Dimmi cosa è successo», ha esordito. Quando batte le palpebre in quel modo, mi ricorda un po’ un gufo.

«Ecco, io… Torcuil. Ascolta. C’è una domanda che devo farti». Ho fatto un respiro profondo. «Chi ti ha detto che ero sul lago? Chi ti ha detto che ero in pericolo?»

«Uno spirito. Uno spirito che vive in questa casa».

“Uno spirito. Oh”.

«Okay, va bene». Avevo bisogno di tempo per assimilare la cosa. «Se l’avessi detto solo la settimana scorsa, avrei pensato che fossi pazzo. Ma dopo quello che è successo con Mal…».

Lui alzò le spalle. «Io vedo i fantasmi. Parlo con loro. Tu sai che a volte può accadere, perché è successo anche a te».

«Sì. È vero».

«Devi promettermi di non parlarne mai con nessuno, Lara. Nessuno della mia famiglia ne parla mai, se non con le persone di cui ci fidiamo davvero».

«Nessuno della tua famiglia? Intendi dire che ci sono altre persone come te?»

«Sì. Per esempio Inary».

«Inary?». Sul serio? Kitty, sono rimasta scioccata.

«Sì».

«Quindi per te è una cosa di famiglia, okay. Ma per me no, almeno non penso. Allora perché l’ho visto?»

«Non lo so. Forse voi due vi siete cercati».

«Mia madre lo sa? Di te?»

«No. Avevo intenzione di dirglielo. Ma ormai ha fatto la sua scelta». 

Chinai la testa, in imbarazzo.

«È tutto una pazzia. Non ha senso. Sono anni che mia madre e mio padre a stento si parlano! Non lo vedevamo mai. Lui si comportava malissimo con lei. Non ha senso adesso che lei voglia tornare».

«Forse non vuole tornare da tuo padre. Forse vuole solo tornare a Londra».

«Era infelice lì. Sì, c’era la zia Anna, ma a parte lei… Ero talmente abituata a vederla infelice che mi ero dimenticata com’era una volta. Me lo sono ricordato solo quando siamo venuti qui e l’ho vista rinascere. Ha ricominciato a cucinare… con il cuore, sai cosa intendo? Con passione. Persino il suo viso è cambiato. Non dovrebbe tornare, e neppure io. Odio la mia scuola…».

«Ci sono molte scuole a Londra. Puoi cambiare».

«Voglio rimanere qui. Voglio stare vicino a Nonnina e a Michael. È così bello qui, e… tranquillo. Magico. Vorrei che rimanessimo qui a cavalcare Stoirin e Sheherazade. Vorrei che rimanessimo qui con te».

«Anch’io vorrei che voi tutti rimaneste qui con me, Lara. Ma tua madre ha deciso diversamente».

Siamo rimasti in silenzio per un momento. Le fiamme danzavano e crepitavano e mi sentii morire dentro.

«Ho detto che rimarrò qui. Se Nonnina mi vuole».

«Oh, Lara. Tua nonna non vorrebbe mai vederti lontana da tua madre, lo sai. A tua madre si spezzerebbe il cuore. Tua nonna non sarà mai d’accordo».

«Pensavo che tu fossi dalla mia parte!».

«È così. Ma spetta ai tuoi genitori prendere le decisioni. Non a me. Senti, ho promesso a tua madre che ti avrei preparato qualcosa per pranzo. Che ne dici di un panino?»

«Non ho fame».

«Ma io sì. E non puoi startene seduta qui a guardarmi mentre mangio».

«Allora okay», dissi.

Torcuil scomparve in cucina e tornò con un piatto pieno di panini. Ne presi un morso.

«Che cos’è?»

«Un panino agli anelletti di pasta. Mia madre ce lo preparava sempre quando stavamo male o avevamo qualche problema. Cibo di conforto». 

Conforto? Io avrei usato un’altra parola. Mi sforzai di ingurgitare il panino agli anelletti di pasta, per non urtare i suoi sentimenti.

«Puoi sempre tornare. Due volte all’anno, più o meno…», disse, ma sembrava più affranto di me, se possibile.

«Non me ne vado».

«E ogni volta che torni puoi venire qui da Stoirin».

«Non me ne vado».

«Lara…».

«Pensavo che le piacessi». Mi ha guardato con gli occhi così tristi che sarei potuta scoppiare a piangere, e poi ha abbassato lo sguardo sul suo panino lasciato a metà.

«Anch’io pensavo di piacerle».

Mi è dispiaciuto così tanto per lui.

«Allora, lo spirito che ti ha detto dov’ero. Dove si trova adesso? È qui?»

«Oh, sì. Lei è seduta proprio accanto a te».

Un boccone mi si bloccò in gola rifiutandosi di scendere.

«Ah, sì?»

Lui annuì.

«Davvero?»

«Sì, te l’ho detto».

«Perché non posso vederlo, mentre invece potevo vedere Mal?»

«Non ne ho idea».

«Può sentirmi se parlo?»

«Sì».

«Non me ne vado da nessuna parte, mi senti? Rimango qui. Rimango qui a Glen Avich, qualsiasi cosa decidano loro. E… e grazie».

Stavo varcando la porta della cucina per uscire in giardino, quando all’improvviso la pianta di fucsia intorno alla porta ha cominciato a tremolare, anche se l’aria era immobile. Poi mi ha avvolta in una pioggia di fiori.

Torcuil ha sorriso senza dire nulla.

Non abbiamo parlato in macchina durante il breve tragitto verso casa. Un fiore mi è caduto dai capelli sul grembo. L’ho preso e l’ho custodito nella mia mano.

 

 

Capitolo 43

 

Troppo vasto è il mare per nuotare (1)

 

Margherita

Ash prese una camera al Green Hat, l’albergo del paese. Naturalmente non potevo ospitarlo nella nostra casetta, e mia madre si inventò qualche scusa sul fatto che non avesse una camera pronta. Non lo voleva in casa. Lo lasciai al Green Hat e mi avviai verso casa più in fretta che potevo, sperando di incrociare Torcuil quando avrebbe riaccompagnato Lara. Volevo spiegargli tutto.

Ebbi fortuna; la sua macchina stava giusto imboccando il viale di casa quando arrivai. Lara sembrava arrabbiata mentre scendeva dalla macchina ed entrava in casa a grandi passi – avrei voluto fermarla, ma Torcuil stava per andarsene.

«Torcuil!», chiamai, e senza aspettare il suo permesso, mi infilai in macchina accanto a lui.

«Torcuil, ti prego, lasciami spiegare…».

«Che c’è da dire? Te ne stai andando. Non c’è altro da aggiungere», disse senza guardarmi.

«Lo sapevi che sarei tornata a Londra. Non ti ho mai detto che sarei rimasta…».

«No, è vero. Sono io che ci ho sperato. È stata colpa mia».

«È il padre dei miei figli…», sussurrai.

Un istante. Lui aprì la bocca, ma non riuscì a dire nulla.

«Mi dispiace».

«Lo vedi, adesso, Margherita? Lo vedi che ho avuto ragione a non lasciarmi andare quella sera?». L’amarezza nella sua voce era una lama che mi trapassava il cuore.

«Mi dispiace», riuscii soltanto a dire un’altra volta, mentre il mio cuore sanguinava.

«Lo capisco. Lo capisco davvero, Margherita», disse lui dolcemente, e quell’improvvisa dolcezza peggiorò le cose. Sentii le lacrime calde scorrermi lungo il viso, e non mi curai neppure di nasconderle. «Bene, ti manderò la paga arretrata. Fai buon viaggio», disse, e si allungò ad aprirmi lo sportello.

Io non volevo andare da nessuna parte.

Volevo stare in quella macchina con lui, non uscire ad affrontare quello che mi attendeva. La rabbia di Lara. La delusione di mamma, le mancanze di Ash. La confusione di Leo.

Ma scesi dalla macchina ed entrai in casa. Entrai per andare incontro alla mia famiglia, ma con la sensazione di essere completamente distaccata dal mio corpo, come se la vera Margherita se ne fosse andata per sempre lasciando solo un guscio vuoto.

«Anna, sono io».

«Ehi… che succede? Hai una voce tremenda!».

«Mamma te lo ha detto?». Mi strinsi un braccio attorno alla vita – ero seduta sul selciato sul retro della nostra casetta, le ginocchia contro il mento; c’era un vento gelido e avevo le mani ghiacciate.

«Dirmi cosa? Stai bene? Stanno tutti bene? Lara! Mi stai facendo preoccupare!».

«Scusa», dissi, mortificata. «Stanno tutti bene, non ti preoccupare. Solo che Ash è qui…».

«Ah, sì?»

«Sì. Quando ha saputo che cosa è successo a Lara, ha preso la macchina ed è venuto». Anna sapeva dell’incidente di Lara, anche se naturalmente non le avevo parlato della strana premonizione di Torcuil.

«Okay… Quindi è lì. E che cosa ti ha detto? Che cosa sta succedendo tra voi due?»

«Ha detto che ci rivuole a casa. Ha detto che gli dispiace. Sembra davvero dispiaciuto…». Stavo cercando di convincere Anna o me stessa? «A ogni modo, abbiamo deciso di riprovarci. Di tornare a Londra adesso e… Sì, ecco, di riprovarci». Alzai le spalle. Avvertivo il muro di pietra duro e freddo contro la schiena e un dolce profumo di torba che riempiva l’aria, come sempre in quelle serate gelide.

«Ottimo… Non è così? Perché non mi pari molto felice».

«Io… Non lo so. Mi sembra la cosa giusta da fare».

«E Torcuil?»

«Torcuil… non l’ha presa bene». Fui colta da un’ondata di sgomento e mi sentii sprofondare.

«Non mi meraviglio. E Ash sa di… Voglio dire, quello che è successo?»

«Certo che no! Non mi perdonerebbe mai. Comunque è stato un errore».

«Ah, sì?».

Stava ripetendo le stesse cose che aveva detto mia madre. E questo mi preoccupò. Certo che era stato un errore – non avrei permesso a nessuno di instillarmi dubbi su questo.

«Comunque non importa! È per Lara che sono preoccupata. È sconvolta. Non vuole tornare a casa. Ricordi che ti ho detto dei biglietti da visita, e del fatto ha cercato in tutti i modi di farmelo capire… Ma le nostre vite sono a Londra. Non possiamo rimanere qui».

«Perché no?»

«Perché… Perché il nostro posto è con Ash!».

Silenzio.

«Anna?»

«Sì, sono qui».

«Che cosa pensi?»

«Penso che ti sosterrò qualunque cosa tu decida».

«Non sembri molto felice del mio ritorno», dissi in tono piccato e un po’ infantile.

«Vorrei tantissimo riavervi qui. Ma preferirei sapervi felici anche se lontani. Non è detto che a Londra sarai infelice. Ma Lara lo sarà. E anche se non si può sapere, ci sono molte probabilità che sarai infelice con Ash».

«Devo rimettere insieme la mia famiglia, Anna».

«Come ho detto, ti sosterrò qualunque cosa tu decida».

«Okay».

«Fammi solo sapere quando torni; sarò a casa tra due giorni, quindi posso fare un po’ di spesa». 

Un’immagine: pane e latte nel frigo. La mia cucina. La mia casa. Vuota e silenziosa al nostro rientro; un mucchietto di posta sul tavolo della cucina, poggiato lì da Anna. Giorni, settimane e mesi a fare la vita che facevo prima di venire qui.

«Grazie. Lo farò», risposi, impedendomi di dire altro, di pensare altro.

 

 

Capitolo 44

 

Troppo vasto è il mare per nuotare (2)

 

Torcuil

Pensavo che non avrei mai potuto provare per nessuno quello che ho provato per Izzy. Anche dopo che i miei sentimenti per lei si sono trasformati nell’amore che si prova per una sorella, pensavo che nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto.

Finché è arrivata Margherita.

Ho cercato di non innamorarmi di lei. Ma non ci sono riuscito.

Quanto è stato stupido da parte mia rischiare di nuovo così tanto e riprovare ad amare.

Avevo costruito nel mio cuore un minuscolo nido per accogliere la felicità, e ho osato sperare di poterlo riempire. L’ho lasciata entrare nella mia vita e nel mio cuore – lei, e anche i suoi figli. Lara, una ragazza speciale e meravigliosa, e il piccolo Leo.

E ora ho una voragine nel mio cuore.

Vorrei non averla mai amata.

Vorrei non aver mai sperato.

Vorrei non averla mai incontrata.

E adesso dovrò pagare per l’errore che ho commesso – questo errore terribile, davvero terribile.

Il gradino di casa è ricoperto di fiori di fucsia.

E così mi restano solo i fantasmi. 

 

 

Capitolo 45

 

Ogni silenzio ha una fine

 

Margherita

Seduta sul letto, mi guardavo intorno pensando a tutte le cose che avrei dovuto mettere in valigia. Ash aveva portato Leo a fare una passeggiata in paese.

Questa vita, questo breve scorcio di vita che si era materializzato come un fazzoletto rosso estratto dal cilindro di un mago, doveva essere ripiegato e portato via, rimesso al suo posto. O addirittura scomparire.

Cercai di immaginare che aspetto avrebbe avuto la casetta quando ce ne saremmo andati. La vidi vuota, la lucine spente, i letti sfatti e coperti perché non si inumidissero, le tende tirate.

La nostra casetta, la casa della nostra estate, sarebbe tornata a essere vuota – senza l’esuberanza di Lara, senza l’allegria di Leo, senza di me.

E pensai alla nostra casa di Londra. Provai a immaginarmi mentre disfacevo le valigie, riprendevo possesso della casa, vi riversavo dentro di nuovo tutte le mie energie e le mie cose. Cercai di immaginare Lara nella sua stanza con i fiori alle pareti, e Leo sul parquet in veranda, a giocare con il camion dei pompieri che aveva comprato al negozio di Peggy. Avrebbe fatto ancora caldo. Avremmo tirato fuori i vestiti estivi – quelli veri, non i vestiti per l’estate scozzese. Non ci sarebbe stato vento; il cielo sarebbe stato azzurro.

Cercai di immaginarmi tutto questo, e non ci riuscii. La mia mente era come bloccata, e non riuscivo a vedere altro che le colline fuori dalla finestra, silenziose ed eterne sotto un cielo nuvoloso.

Mi alzai e andai verso il camino, dove il sassolino bianco che mi aveva dato Torcuil era posato sopra il mucchio di biglietti da visita che mi aveva fatto Lara. Mi infilai in tasca quel sassolino – non volevo separarmene, mai.

E poi guardai di nuovo i biglietti, la promessa di quelle lettere blu sullo sfondo bianco.

MARGHERITA WARD

CATERING E DOLCI

RICETTE ITALIANE E MOLTO ALTRO

C/O BAR LA PIAZZA

GLEN AVICH

All’improvviso, sentii delle voci alterate provenienti dal cortile. Lara. Mamma. Corsi fuori, allarmata.

«Io rimango qui. Se tu mi vuoi, io rimango!», stava urlando.

Mia madre era turbata. «Tesoruccio mio, ti prego calmati…».

«Non mi vuoi, Nonnina? Non mi vuoi con te?». Stava piangendo.

«Certo che sì, ma tua madre…».

«Non m’importa! Non ci ritorno da quella gente stupida, in quella stupida scuola!».

«Lara…». Nel mio cuore si spalancò un abisso. Leo e io non avremmo mai potuto separarci da lei. Noi tre non avremmo mai potuto separarci.

«Che sta succedendo qui?». Ash era entrato dalla portafinestra.

«Lara! Non piangere!». Leo le stava aggrappato alle gambe.

Lara lo guardò con il viso rigato di lacrime. «Non ci vengo con voi! Ecco cosa sta succedendo».

E poi Ash venne in nostro soccorso. Ci salvò tutti. Lara, me, Torcuil.

Fu lui a sistemare le cose.

Disse qualcosa a Lara.

Qualcosa che rese finalmente tutto chiaro per me.

«Santo cielo, Lara! Da quando ti abbiamo adottata non ci hai dato altro che dispiaceri!».

Nell’attimo stesso in cui quelle parole gli uscirono di bocca, Ash impallidì.

Il problema, nella vita reale, è che non puoi tornare indietro e ripetere la scena. Non puoi cancellarla. Quando le parole sono state dette, non si possono più ritrattare.

Guardai con orrore l’espressione sconvolta di Lara, e provai odio. Una cosa che non pensavo potessi mai provare per qualcuno, tantomeno per mio marito. Ma fu così: provai puro odio perché aveva ferito mia figlia – la mia dolce, vulnerabile, fragile Lara, che stava combattendo una battaglia più dura di quella che lui o io avremmo mai dovuto combattere. Lara corse dentro la casetta, e io avrei voluto precipitarmi subito da lei, ma prima avevo qualcosa da portare a termine.

Calò il silenzio mentre mi voltavo verso Ash, e tutto si frantumò in un milione di pezzetti… la terra, il cielo, il mio cuore.

Quel che è fatto è fatto.

Ash impallidì, in piedi di fronte a me. Sembrava che da un momento all’altro dovesse scoppiare a piangere.

«Voglio che tu te ne vada», dissi, senza aggiungere altro.

«Senti, mi dispiace di aver detto…».

«Voglio che tu te ne vada».

Non avrei potuto essere più chiara. 

La sua espressione da pentita divenne di nuovo furiosa. Aveva le labbra serrate in una linea sottile, le mani strette a pugno lungo i fianchi. La sua voce era gelida. «Voi venite con me».

Ed eccolo qui, mio marito – no, non mio marito, ma l’uomo in cui si era trasformato negli ultimi anni. L’uomo che ci aveva allontanati l’uno dall’altra. La tensione nella sua voce, la freddezza nei suoi occhi.

Che strano che un ricordo degli inizi della nostra vita insieme dovesse tornarmi in mente proprio adesso, dopo che non ci avevo più pensato per anni. Un viaggio al Lago di Garda, appena dopo che ci eravamo fidanzati: una panchina al sole, davanti alle acque scintillanti – la mia testa sulle sue gambe, le sue mani posate con naturalezza su di me, una tra i capelli, l’altra sulla pancia, come se fosse il loro posto –, la luce arancione dietro le palpebre.

La sua voce che vibrava attraverso il suo corpo e il mio, prima ancora di arrivarmi alle orecchie; il mio amore per lui, assoluto, completo, al di là di tutte le differenze, al di là delle perplessità delle rispettive famiglie per la scelta che avevamo fatto, al di là di ogni ostacolo che avremmo potuto incontrare. Che cosa era successo a quell’uomo e a quella donna avvinghiati l’uno all’altra nella luce del sole, convinti che la loro storia sarebbe durata per sempre? Chi avrebbe mai potuto pensare che dodici anni dopo ci saremmo ritrovati l’uno di fronte all’altra nel mezzo di un paesino scozzese, in un piovigginoso pomeriggio d’estate, senza più un raggio di sole?

«Voi venite con me», ripeté.

Per la prima volta dopo dodici anni che lo conoscevo, capii dove avevo già visto quella freddezza: sul volto di sua madre. Avevo sempre considerato Ash una vittima di sua madre, e in un certo senso lo era, ma adesso, d’un tratto, compresi quanto loro due fossero simili.

Mi si fece incontro a grandi passi, il corpo che sprigionava rabbia e calore. Eravamo così vicini, e sembrava furioso: mi sovrastava, ma io non ero intimidita, non avevo paura.

«Non andiamo da nessuna parte con te», risposi calma.

Finalmente. Finalmente sapevo cosa volevo. Finalmente riuscivo a vedere con chiarezza cosa fosse meglio per tutti noi, per i miei figli e per me stessa.

«Ha detto che vuole che tu te ne vada». Era Michael, e mia madre era dietro di lui con il cellulare in mano. Capii che gli aveva mandato un messaggio e lui era arrivato di corsa dal bar. «E anch’io ti voglio fuori dalla mia casa».

«Vattene, Ash», disse mia madre. «Le hai ferite abbastanza. Mia figlia, e tua figlia».

Lara uscì dalla casetta e mi venne accanto, i nostri corpi abbracciati che si univano in un’unica entità, ciò che effettivamente eravamo. Sentivo l’odore della sua paura e del suo shock, un odore acre e pungente come quello di un animaletto ferito. Sentivo il mio cuore sanguinare, mentre mi domandavo come avrei potuto sanare il male che le avevano inflitto le parole di Ash, e come avevo potuto permettere che lui la ferisse di nuovo. Come avevo potuto essere tanto confusa, tanto indecisa, quando adesso vedevo così chiaro, così ovvio, che cosa fosse giusto per tutti noi.

«Non me ne vado senza la mia famiglia», dichiarò Ash, guardandoci uno a uno, con grande sicurezza. Ma gli tremava la voce. Vedevo la sua convinzione venire meno man mano che percepiva che stavamo serrando i ranghi.

Man mano che percepiva che era avvenuto un cambiamento in me e in Lara.

Che le cose non avrebbero potuto essere più le stesse, non stavolta.

«Io non sono la tua famiglia», dissi, e vidi che quelle parole lo ferivano, e ferivano anche me.

E poi accadde.

Un fiume di minacce e insulti che si riversava fuori dalla sua bocca a turbare la pace della casa di mia madre; Michael che alzava la voce; Lara e io strette l’una all’altra, mia madre pallida e silenziosa mentre i nostri mariti si urlavano contro.

Il mio cuore pianse per l’amore perduto e una famiglia andata in frantumi.

Dolcemente, con delicatezza, mi separai da Lara. L’aria era pregna di ostilità, ma io mi sentivo distante da tutto come se le voci di Michael e Ash provenissero da lontano, molto lontano. Nella mia mente c’era silenzio ed entrai in casa di mia madre, facendo attenzione a non sfiorare Ash mentre passavo. Il mio sguardo incontrò quello di mio marito, e d’un tratto lui tacque. Si voltò come attratto da una forza invisibile. I suoi occhi non si staccarono dai miei mentre mi seguiva e poi usciva in strada. 

Sapevamo entrambi che era finita.

Lara e io eravamo nella sua stanza, esauste, sconvolte. Lei se ne stava davanti alla finestra, le braccia incrociate, il corpo in tensione. Quando si voltò verso di me, vidi che i suoi occhi erano arrossati, ma asciutti. Non stava più piangendo.

«Mi dispiace, Lara. Mi dispiace così tanto per quello che ti ha detto… Ma adesso se n’è andato».

«Non voglio tornare a Londra, con o senza papà».

«No. Non ce ne andiamo. Non andiamo da nessuna parte, te lo prometto».

«Voglio rimanere qui».

«Lo so. Lo so…».

«Allora rimaniamo?»

«Sì. Sì, rimaniamo. Per favore, non preoccuparti. Non ce n’è più bisogno».

Un sospiro impercettibile le uscì dalle labbra. Capii che si stava rilassando. Me lo sentivo sulla pelle e nel cuore.

«Mamma, quello che ha detto…».

«Semplicemente dimenticalo, dimentica qualsiasi cosa abbia mai detto…».

«Come posso dimenticarlo? Lui è mio padre!».

Le presi il viso tra le mani e la guardai dritto negli occhi. «Da quando sei entrata nella mia vita non mi ha portato altro che gioia, Lara. Nessun dispiacere. Solo gioia. Questa è la verità, non quello che ha detto Ash…». Non potevo sopportare di dire “tuo padre”. «Ha detto una bugia. Non sapeva di che cosa stesse parlando».

«Davvero?»

«Davvero.»

Si gettò tra le mie braccia come la bambina che era stata, senza aggiungere altro. Mentre la abbracciavo, mi accorsi che aveva qualcosa di rosa scuro tra i capelli. Un fiore di fucsia. Sapevo da dove veniva.

La tenni stretta e pregai, pregai di riuscire a sistemare tutto.

 

 

Capitolo 46

 

Voci

 

Margherita

Ash se n’era andato, con vaghe minacce di rivolgersi a un avvocato e farmela pagare. Le sue parole non avevano alcun peso per me; erano come echi di ciò che una volta era stato importante, ma ora non significava più nulla. Avevo i miei figli, una casa, e una professione a cui tornare a dedicarmi. Non avevo paura.

Erano le due del mattino e non riuscivo a dormire. Guardai fuori le colline fredde e nere e desiderai soltanto uscire e camminare, camminare, camminare, fino a raggiungere Ramsay Hall, fino a raggiungere Torcuil. Avevo paura di dirgli che avevamo deciso di restare. Paura che non mi avrebbe perdonata, che mi avrebbe cacciata anche se avevo deciso di rimanere a Glen Avich.

Forse me lo meritavo.

Il richiamo di mio marito, il ricatto emozionale – dovevo tenere insieme la famiglia, fare il mio dovere e rispettare le mie promesse –, era stato troppo forte per resistere.

Adesso ero tornata in me. Ma mi meritavo davvero una seconda occasione?

Me la meritavo, dopo il modo in cui lo avevo ferito? Entrai in punta di piedi in bagno – l’unica stanza dove il telefono prendeva – per mandargli un messaggio, forse persino fargli una telefonata. Ma cambiai idea. Avevo troppa paura della sua risposta.

Mi misi addosso un cardigan e uscii per andare a casa di mia madre a prepararmi una tazza di caffè. Oh, quanto avrei voluto precipitarmi da lui così, in camicia da notte e pantofole, a chiedergli scusa, a dirgli che adesso sapevo cosa fare.

Per dirgli che non me ne sarei più andata.

Ma come potevo farlo?

Mi sedetti al tavolo della cucina al buio, i pensieri che mi turbinavano nella mente così forte da farmi male. Alla fine ero talmente esausta che mi trascinai di nuovo a letto e mi addormentai. Mi risvegliai di scatto un’ora dopo, alle sei del mattino.

Non potevo più aspettare.

Mi infilai un paio di jeans, una maglietta e il pile, e corsi a casa di mamma. Lei era già in cucina, a preparare il caffè. 

«Ti sei alzata presto», disse quando mi vide. «Stai bene?». Allungò la mano per sfiorarmi il viso.

«Sì. Sto bene. Solo che… Ti dispiace se vado a fare una passeggiata? Leo e Lara stanno ancora dormendo».

Se rimase sconcertata, se sospettò qualcosa, non lo diede a vedere. «Certo. Vai, ci sarò io quando i bambini si sveglieranno».

Feci la strada di corsa. Mentre attraversavo il ponte, la leggera pioggerella che scendeva dal cielo si trasformò in uno scroscio che mi inzuppò fin nelle ossa, ma non m’importava. Volevo solo sistemare le cose.

Torcuil aveva gli occhi ancora appesantiti dal sonno quando aprì la porta.

«Ciao», dissi, senza riuscire ad aggiungere altro. Le parole rimasero bloccate in gola. Restai lì impalata, bagnata fradicia, con la bocca spalancata, i capelli che gocciolavano sul gradino dell’ingresso.

«Entra, vieni all’asciutto. Sei fradicia…», disse, e i suoi occhi non erano più duri, non come il giorno prima. Soltanto molto tristi. «Hai dimenticato qualcosa?»

«Non parto più».

«Cosa?»

«Ash se n’è andato. Io rimango. Noi rimaniamo».

Lui non disse nulla.

«Non posso tornare da lui. E Lara non vuole andarsene da qui. E neanch’io voglio andarmene, e mi dispiace, mi dispiace così tanto…».

Torcuil non mi lasciò dire altro. Semplicemente mi prese tra le braccia, stringendomi forte.

Non mi aveva cacciata. Fui travolta da un’ondata di sollievo e mi strinsi a lui più forte che potei. Proprio in quel momento sentii qualcosa muoversi sopra di me, e per un attimo fui avvolta da una brezza calda, che mi tirava i vestiti e giocherellava con i miei capelli.

Ma eravamo in casa, non all’aperto…

«Torcuil?»

«Mmm?», disse lui, sussurrando tra i miei capelli.

«Che cos’era?»

«Una corrente».

«Non era una corrente».

«No, okay, non lo era».

«Allora cos’era?»

«Te lo dico dopo».

«Dopo cosa?»

«Dopo questo».

Mi prese la mano e mi portò nella sua stanza.

Giacemmo nella luce mattutina, i nostri corpi intrecciati, i miei capelli sparsi sul suo petto, i nostri respiri all’unisono. Il mio mondo era finito e uno nuovo era iniziato. Ma io avevo ancora delle domande che erano rimaste senza risposta e continuavano a pressarmi.

«Come lo sapevi?», sussurrai. Lui capì subito di che cosa stavo parlando.

«A volte sento le cose», rispose, accarezzandomi lentamente i capelli. «È così da sempre, è un dono di famiglia».

«Le senti? Come un… sensitivo?». Non potevo credere che stessi davvero pronunciando quelle parole. Non credevo nel soprannaturale. Non ci avevo mai creduto.

Ma mi ricordai di quanto accadeva in quella casa. Le cose che sparivano, cambiavano di posto. E la corrente calda che mi aveva abbracciata in cucina, quando noi due ci eravamo riconciliati. 

E naturalmente, il fatto che lui sapesse di Lara.

«Non proprio. Vedo gli spiriti. E loro mi dicono delle cose».

«Quindi quando hai detto che in questa casa c’erano i fantasmi…».

«Parlavo sul serio», disse, e mi guardò cauto, aspettando la mia reazione.

Okay. Erano un bel po’ di cose di cui prendere atto. Mi misi seduta, stringendomi nel lenzuolo.

«Dici davvero?»

«Sì, lo chiamiamo il dono della Visione».

«Vedi davvero gli spiriti?».

Lui annuì. «Senti, lo so che è una cosa un po’difficile da accettare…».

«Perché?»

«In che senso perché? Perché li vedo? Non lo so perché. È una cosa di famiglia».

«Una cosa di famiglia? Quindi i tuoi genitori e Angus… e Inary! Anche Inary?»

«No, i miei genitori, mio fratello e mia sorella non hanno questo dono».

Studiai il suo viso. «Invece Inary…».

«È lei che deve dirtelo se ce l’ha».

«Ce l’ha! Ce l’ha!».

Mi ci volle un po’ per assimilare tutto. «Tu pensi che Lara abbia ragione? Pensi che abbia visto davvero Malcolm Far… Farquhar? Non un suo nipote o qualcosa del genere?». Avevo qualche difficoltà con i nomi scozzesi.

«Sì. Credo che fosse proprio lui».

«Perché?»

«Un altro perché?», sogghignò. Ma non stava ridendo. «Mi stai chiedendo perché lo ha visto? Non lo so, forse possiede anche lei questo dono. O forse stava chiamando qualcuno e le ha risposto Mal. Chi lo sa?»

«Oh, mio dio. Questa è una follia!».

«Ascolta, come avrei potuto sapere altrimenti che Lara era nei guai? E che era sull’isola di Ailsa?»

«Torcuil…».

«Margherita». Mi prese il viso tra le mani ed era tremendamente serio. «Te lo dirò solo una volta. E voglio che nel frattempo tu mi guardi negli occhi. Ti sto dicendo la verità. Vedo i fantasmi, e loro mi parlano. Lara ha visto davvero Malcolm Farquhar. Io le credo. E tu devi credermi».

I suoi occhi sembravano così limpidi. Così sinceri.

Ma quanto aveva detto non aveva senso. Era semplicemente impossibile.

Eppure gli credetti.

Sì, gli credetti.

«Allora, che mi dici?»

«Dico che sei pazzo, e lo sono anch’io perché penso che tu stia dicendo la verità», mi sentii rispondergli.

Lui fece un sospiro di sollievo e mi abbracciò forte. La sua pelle contro la mia era calda e infinitamente soffice. «Avevo timore di dirtelo».

«E per Inary è lo stesso? Anche lei ha… la Visione?»

«Sì. Hai letto il suo primo libro?»

«La scelta? Sì».

«Be’, non si è inventata lei quella storia. Gliel’ha raccontata Mary».

«Mary, la protagonista, che era morta molto tempo prima».

«Proprio così».

«Oh, cielo. Qualcun altro sa della Visione? Voglio dire, a parte me e Inary».

«Mia madre, i miei fratelli e una sola altra persona».

«Isabel?»

«No. Lara», disse con fermezza.

«Lara? Cioè, mia figlia Lara?»

«Sì. Gliel’ho detto ieri quando è venuta da me dopo che tu le avevi detto che sareste tornate a Londra».

«E ti ha creduto?». Mentre gli ponevo quella domanda mi risposi da sola: certo che gli aveva creduto! Lara era sempre alla ricerca del lato magico nel mondo che la circondava; era lei quella che colorava tutto con la sua immaginazione.

«Sì. Voglio dire, ne aveva appena visto uno lei stessa».

«Oh, mio dio», esclamai, e mi presi il viso tra le mani. Forse mia figlia era come loro. Come avrei potuto saperlo? Non avevo mai incontrato la sua famiglia biologica. Forse loro erano tutti così. O forse era capitato una volta e non sarebbe più successo.

Speravo che fosse così.

«Non ti preoccupare. Potrebbe non ripetersi. Oppure chissà, magari la attende un futuro molto interessante… Comunque, c’è un’altra cosa che devo dirti». Mi guardò dritto negli occhi e ci sentimmo più vicini che mai.

«Che altro ci manca adesso? Non mi dire che c’è un mostro nel lago…».

«Non lo so. Forse sì. Ma quello che volevo dirti è che ti amo».

Più tardi, molto più tardi, eravamo sulla soglia di Ramsay Hall. Io stavo per incamminarmi verso casa di mia madre per tornare dai miei figli. Ero così felice che iniziai a provare una strana inquietudine… Forse ora sapevo che cosa intendeva Lara quando diceva che aveva paura della felicità.

Eppure, eccomi lì, e il mio cuore era vivo come non lo era stato da anni.

«Allora, quando hai detto che ti trasferirai da me?»

«Che cosa? Di sicuro non oggi», dissi sorridendo.

«No, giusto. Troppo presto. La prossima settimana?».

Risi, e la mia risata risuonò per tutta la proprietà, su cui era calato un improvviso silenzio. Era come se l’intera casa respirasse, un immenso, universale sospiro di sollievo.

«Grazie», sussurrai tra me e me, anche se non sapevo esattamente chi stessi ringraziando.

 

Daniela Sacerdoti - Amore, zucchero e caffè
1.html
2.html
3.html
4.html
5.html
6.html
7.html
8.html
9.html
10.html
11.html