Prologo

 

Il ragazzo che non fece più ritorno

 

 

1916, Glen Avich

Avevo diciott'a nni quando andai in guerra. Molti di noi venivano da Glen Avich: uomini, e anche ragazzi. Madri e fidanzate, mogli, sorelle e figlie piangevano quando ce ne andammo. Non ci soffermavamo sul pensiero che alcuni di noi non sarebbero tornati; lo sapevamo, ma preferivamo non pensarci. Io di sicuro sarei tornato. Ero così giovane che mi sentivo immortale, immune alle leggi che regolano il resto dell'umanità.

Il viaggio da Glen Avich a Edimburgo, dove ci avrebbero messi sui treni e spediti a sud, e poi ancora più giù, verso i campi di battaglia dell'a uropa, sembrava interminabile. Molti di noi non si erano mai spinti più in là del villaggio accanto, a piedi o in bicicletta. Rimanemmo uniti, noi uomini di Glen Avich, fingendo di non curarci del destino che ci attendeva, fingendo di non aver paura della guerra. Ci diedero degli stivali; erano così pesanti che si faceva fatica a camminarci, sembravano indistruttibili. Ancora non sapevamo quanto si sarebbero rivelati fragili dopo le interminabili marce nel fango e nella neve, quanto ci avrebbero fatto male i piedi, quanto avrebbero sanguinato, quanto sarebbero diventati freddi mentre il ghiaccio penetrava la carne rendendola bluastra. Poco sapevamo del gas che fa lacrimare i polmoni, dello shrapnel che ti lacera la pelle, di cosa si prova nel vedere uomini grandi e grossi piangere e invocare le proprie madri. Ancora non sapevamo nulla di tutto questo.

Ce ne stavamo nel nostro gruppetto, circondati da uomini e ragazzi provenienti da tutta la Scozia. Alcuni parlavano inglese, altri gaelico. C'a rano anche donne e bambini, che accompagnavano mariti, padri e figli. C'a ra aria di grandi attese e speranze. Saremmo tornati vittoriosi, prometteva la propaganda. La guerra sarebbe stata rapida, e avremmo combattuto per un bene superiore. Si trattava solo di una breve campagna, e poi saremmo tornati a casa, insigniti di gloria.

Alcuni di noi sapevano che per tutto ci vuole tempo e fatica; alcuni di noi sospettavano che il prezzo da pagare fosse più alto di quello che ci avevano prospettato. Ma era solo un pensiero che si annidava in fondo alle nostre menti, un presagio dell'a mmenso dolore che sarebbe arrivato.

Quando i treni partirono, le donne e i bambini salutarono con la mano e piansero lungo i binari. Era un addio alla Scozia. Ma io di sicuro sarei tornato, di sicuro non sarei morto. Ce l'a vrei fatta. Il filo spinato, le mine, il gas e la febbre da trincea: tutto questo non mi avrebbe impedito di fare ritorno a casa. Niente poteva impedirmelo.

Viaggiavamo verso sud in compagnia di facce sconosciute e sentivamo lingue sconosciute; per la prima volta non ero più tra la mia gente. Presto avrei incontrato i nemici, e i fucili di cui ci avevano dotato sarebbero serviti per ferirli e ucciderli. Fino a quel momento avevo tolto la vita soltanto a qualche animale da mettere in tavola e mi chiedevo come sarebbe stato guardare negli occhi un uomo sul punto di morire, sapendo che ero stato io stesso a sollevare la falce che lo aveva finito. 

Di notte rimasi sveglio ad ascoltare lo sferragliare dei vagoni, cercando di scacciare dalla mente visioni di uomini caduti: uomini che sarebbero morti per mano mia. Tutti avremmo ucciso, e alcuni sarebbero stati uccisi. Il destino era già segnato per ciascuno di noi? già era scritto chi sarebbe riuscito a tornare e chi sarebbe stato sepolto sotto un cielo straniero? Portavo al collo una catenina con una medaglia di san Cristoforo, il santo protettore dei viaggiatori; un regalo che mi aveva fatto mia madre la sera prima che partissi. Mentre giacevo con gli occhi aperti, stringevo in mano la catenina, chiedendomi se san Cristoforo sapesse già chi sarebbeca naufragato e chi sarebbe stato portato in salvo.

Così andammo in un posto che era freddo, tanto freddo, e non c'erano fuochi di torba a scaldarci; un posto dove uomini e ragazzi erano fatti a brandelli, o avvelenati dal gas, o giacevano febbricitanti nelle trincee fangose. La trama del destino era già intrecciata per ognuno di noi: per quelli che avrebbero fatto ritorno e per quelli che non avrebbero mai più rivisto Glen Avich.

 

Daniela Sacerdoti - Amore, zucchero e caffè
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