«Con il camion dei pompieri?», rispose lui, posando entrambe le mani sulla scatola in vetrina ma senza osare sollevarla. Io risi. Era un modo intelligente per ricordarci il motivo per cui eravamo lì.
«Con il camion dei pompieri, sì». Anche mia madre rise. «Grazie, Peggy», disse, pagando il giocattolo. «Comunque vedo Eilidh abbastanza spesso al bar, quindi di sicuro organizzeremo qualcosa».
«Perfetto, ci vediamo presto».
Leo volle assolutamente portare da solo il suo giocattolo, anche se la scatola era alta quasi quanto lui. Procedemmo lentamente, Leo che arrancava davanti a noi barcollando, senza riuscire a vedere la strada. Dopo un po’ ci ripensò e mi permise di portare la scatola.
«Pensaci tu, mamma».
«Lo farò, stai tranquillo».
La nostra incursione al Welly fu molto fruttuosa. Logan – il fratello di Inary – ci rifornì di un po’ di roba calda per l’estate scozzese. Io mi comprai un pile celeste chiaro con la cerniera e un paio di stivali di gomma a fiori. Lara si prese una felpa blu e un paio di stivali rosa chiaro e Leo divenne il fiero proprietario di un paio di stivali a forma di dinosauro e una giacchetta impermeabile con il cappuccio. Sulla via del ritorno ci fermammo spesso volte a salutare la gente per strada. Mia madre sembrava molto amata nella comunità e le persone erano entusiaste di conoscere me e i bambini. Non ero sorpresa. Mia madre è sempre stata una persona molto aperta, dovunque vada fa sempre amicizia.
«Qui tutti conoscono tutti!», disse Lara.
«È un posto piccolo. Molte famiglie vivono qui da generazioni. Proprio come a Castelmonte», disse mia madre, ricordando il paesino dei suoi genitori.
«Non hai mai pensato di tornare a vivere lì, mamma?», chiesi, mentre i bambini camminavano davanti a noi e non potevano sentirci.
Lei alzò le spalle. «Mi sarebbe piaciuto tantissimo. A proposito, sai chi si è trasferito di nuovo a Castelmonte? Tua cugina Allegra. Con il marito e i bambini. Chissà come stanno andando le cose…».
«Perché tu non sei tornata?»
«Be’, erano quelli i programmi, quando siamo andati in pensione. Poi tuo padre è morto, e semplicemente non aveva più senso senza di lui, con te e Anna qui, e Laura in Australia…».
«E poi hai incontrato Michael».
«Sì. Michael non lascerà mai la Scozia. Quando morì sua moglie, la figlia cercò di convincerlo a trasferirsi in Canada per starle più vicino. Disse che era assurdo che rimanesse qui da solo. Ma lui si rifiutò. Disse che questa era la sua terra e non se ne sarebbe mai andato. E poi ci siamo incontrati, ed eccoci qui. Abbiamo trovato Glen Avich e insieme abbiamo fatto questo salto nel buio».
«Be’, ha funzionato», sorrisi.
«Sì. Non ho mai pensato di poter essere di nuovo felice, non senza tuo padre. E devi sapere che non passa giorno in cui non mi manchi, Margherita».
«Lo so. È così anche per me».
«E a Michael manca moltissimo Edith. Ma abbiamo ancora una vita da vivere, e la stiamo vivendo. Abbiamo seguito i nostri cuori».
«Sì. Avete costruito qualcosa di speciale qui. Invece guarda me. La mia vita sta andando in pezzi», dissi amaramente.
«No, non è vero. La tua vita non sta andando in pezzi. Sta cambiando».
“Cambiando senza Ash”, pensai. L’uomo che avevo sposato. L’uomo che avevo amato. L’uomo che, stranamente, amavo ancora. Nel profondo del mio cuore continuavano ad annidarsi le intricate radici di quello che una volta ci univa. Avrei voluto che niente di tutto questo fosse accaduto, che la nostra famiglia fosse ancora unita, ma non c’era modo di riportare indietro le lancette. Non più. Per quanto adesso sembrasse impossibile, noi due un tempo ci eravamo amati moltissimo. Una volta eravamo stati felici.
Niente sarebbe stato più lo stesso, neppure quando, alla fine dell’estate, saremmo tornati a Londra, alla realtà.
«Va bene se dopo andiamo a fare una passeggiata al lago, a Loch Avich?», chiese Lara, interrompendo i miei pensieri cupi. Adoravo il modo in cui diceva loch, sforzandosi di pronunciarlo correttamente.
«Non è pericoloso, vero?», chiesi a mamma.
«Per niente, se non ti avvicini troppo all’acqua. Bisogna fare attenzione a non scivolare».
«Nonna, non sono una bambina!». Lara alzò gli occhi al cielo.
«Già, è vero. Tu hai “quasi quindici anni”, tesoruccio».
«Proprio così», disse lei. Poi ci ripensò: «Mi stai prendendo in giro!»
«Solo un pochettino. Ma adesso è ora di tornare a casa, Leo deve pranzare».
«Sì, in effetti non abbiamo mangiato molto nell’ultima… mezz’ora. Potremmo morire di fame da un momento all’altro», disse Lara.
«Adesso sei tu che mi prendi in giro?»
«Solo un pochettino», rispose Lara, ed entrambe risero, un fiume di affetto e di comprensione reciproca che scorreva tra loro.
In quel momento mi vibrò il telefono. «Oh, un messaggio da quel tizio, Torcuil. “Salve Margherita. Sono Torcuil”, lessi ad alta voce. “Sarebbe grandioso se lei potesse venire a Ramsay Hall domani, a qualsiasi ora, per fare una chiacchierata. Le mostrerò dove colpire la caldaia”». Mi interruppi. Cosa?
Mamma annuì. «Ottimo. Ma cosa intende per “colpire la caldaia”?»
«Non ne ho idea. Ma forse mi mostrerà anche come distruggere la lavatrice», sorrisi, scrivendo un messaggio di risposta.
«Non gli starai scrivendo questo, vero? Guarda che è un aristocratico». Mia madre era sconvolta.
«Un che?»
«Un aristocratico. Lord Ramsay».
«Tranquilla, gli farò un inchino quando lo incontrerò, mamma», risi.
“Certo. Ci vediamo domani. Margherita”.
«Si vede da qui. Ramsay Hall, intendo», disse mia madre. «È lì, oltre il lago».
Il mio sguardo andò verso Loch Avich, ed eccolo lì, abbarbicato lungo il fianco della collina, l’edificio di pietra grigia di Ramsay Hall. Anche da lontano, quel posto sembrava davvero imponente. Sentii una leggera ansia, ma la ignorai. Immaginai Lord Ramsay come un goffo e pomposo signore di mezza età con la giacca in tweed che parlava come se avesse le biglie in bocca. Probabilmente era un po’ snob. Ma non sarebbe stato un problema: ci avrei pensato io a metterlo in riga.
Capitolo 10
Passeggiando
Lara
Cara Kitty,
allora, eccomi qui. Siamo a Glen Avich. Ieri non ti ho scritto perché abbiamo passato tutta la giornata in macchina e quando siamo arrivati mi si chiudevano gli occhi. La mia camera qui a casa di Nonnina è meravigliosa: una vera stanza da adulta con uno scrittoio (che è tipo una scrivania ma più fico – è da qui che ti sto scrivendo adesso) e una bella libreria. Ho anche un camino! Chissà se si possono arrostire i marshmallow sul fuoco di torba? Devo cercarlo su Google. Il telefono prende malissimo, ma del resto non si può avere tutto. E ho scoperto che in bagno il segnale è abbastanza buono, quindi è lì che vado quando ho bisogno di collegarmi a internet. Mi siedo sulla vasca. Comunque, sai che ho incontrato una vera scrittrice?! Si chiama Inary Monteith. È un’amica di Nonnina. Spero proprio di poter fare una chiacchierata con lei.
Oggi sono andata al lago, Loch Avich (NB: si dice loch, non lock. Devo fare attenzione, perché qui ti sgridano se sbagli e poi non mi piace pronunciarlo male). Adoro passeggiare da sola, e pensare. Semplicemente andarmene in giro senza una meta, senza niente da fare. Esplorare. A Londra non potevo fare grandi passeggiate, e comunque lì trovi sempre persone, macchine e negozi dappertutto. Qui a Glen Avich ci sono posti dove c’è così tanto silenzio che riesco addirittura a sentirlo.
Mia madre ha un colloquio di lavoro domani. Guarda un po’ che cosa è riuscita a organizzare nel giro di quarantott’ore! Lei è così: sistema tutto in un batter d’occhio – le persone, le cose, se stessa. È come se avesse una bacchetta magica per riportare l’ordine dal caos. Vorrei avere il suo stesso dono, ma mi sembra di fare esattamente l’opposto. Di solito porto il caos.
L’aria qui è così umida che i miei capelli sono tutti crespi. Non posso credere che sto indossando un pile a luglio – voglio dire, è troppo strano. Ma è tutto talmente bello qui, e l’aria è così profumata. Nonnina è stata fantastica, è davvero la migliore. Prima di tutto mi fa mangiare tantissimo, perché dice che sono troppo magra. E in effetti non mi ero resa conto di quanta fame avessi finché non ho iniziato a mangiare. Il mio piatto preferito è il risotto. E vedessi le torte che prepara! Potrei mangiarle all’infinito. Stamattina Leo ha avuto per colazione latte caldo e una torta speciale fatta in casa chiamata torta di nonna Rosa. A quanto pare i bambini italiani ogni tanto mangiano la torta per colazione! Beati loro! Ah, sto anche imparando l’italiano. E un po’ di scozzese da Michael: per esempio oggi il tempo è dreich (ch si pronuncia come in loch). Significa che è una giornata grigia e piovigginosa.
Nel complesso sta andando tutto bene, anche se ho sentito mia madre piangere ieri notte. Con mio padre è un casino. Litigavano sempre ogni volta che lui era casa, ma stranamente sembra che le manchi lo stesso.
Per ora è tutto. Nonnina ci sta chiamando per il pranzo (oggi tortellini! Sì, grazie!) e poi andrò a fare una passeggiata al lago. Ti scrivo dopo.
* * *
Eccomi, sono tornata!
Questo posto sembra una cartolina, un angolino perfetto che ti immagineresti solo nelle fiabe… Ma procediamo con ordine.
Sono andata a fare una passeggiata dall’altra parte del ponte, ma c’era qualcuno seduto lì. All’improvviso mi sono sentita un po’ nervosa, sapendo che non c’era nessun altro lì intorno – sai, ero in una zona un po’ isolata, fuori dal traffico bestiale del paese (scherzo!). E comunque, per quale motivo uno dovrebbe starsene seduto su quel ponte? Non certo per guardare la gente che passa, visto che lì non c’è nessuno!
Per un secondo ho pensato di fermarmi e tornare indietro. Sono un po’ paranoica su queste cose perché quando stavo con mio padre dovevo andare da sola al negozietto all’angolo a comprare da mangiare visto che lui non se ne occupava mai, e avevo paura. Ma basta con i ricordi.
Alla fine ho deciso di proseguire. Dopotutto siamo a Glen Avich, non a Londra. E ho quasi quindici anni, non sono più una bambina. Ho fatto finta di non vederlo, ma tenevo d’occhio lo sconosciuto. Era sicuramente un uomo. Un ragazzo, mi sono resa conto mentre mi avvicinavo. Indossava un cappellino di tweed. Un ragazzo con un cappellino di tweed? Dove compra i vestiti? A meno che non abbia “uno stile rétro”, come direbbe Polly.
«Ciao», ha detto.
Anche se sapevo che non era una cosa per niente saggia, mi sono fermata e ho ricambiato il saluto.
«Non c’è nessuno in giro», ha detto, e sembrava un po’confuso.
Eh? Mi sono chiesta se intendesse dire: “Visto che non c’è nessuno qui intorno ti posso derubare e uccidere e gettare il tuo corpo nel fiume”. Così poi i miei amici apriranno una pagina Facebook e Ian posterà un messaggio straziante, scrivendo a tutti che non si era mai reso conto di quello che provava davvero per me. O invece questo ragazzo intendeva qualcosa tipo: “Buongiorno. Non c’è nessuno qui intorno, bel tempo, vero? eccetera”, tanto per fare conversazione?
Non che mi facesse paura. In realtà, mi sembrava un po’ spaurito. I suoi occhi erano color grigio selce (bella espressione, vero? L’ho trovata in Sposa delle tenebre, il primo libro della serie delle tenebre. Un libro davvero fantastico. Il protagonista, Damien, ha gli occhi grigio selce) e le sue braccia erano bianchissime, tipicamente scozzesi – non si può dire di aver visto davvero com’è la pelle bianca finché non si è stati in Scozia. Indossava una camicia bianca e dei pantaloni di lana scuri.
«No, è vero. È ancora molto presto», ho risposto.
«A me piace così. C’è una gran pace. Ma vorrei vedere più gente. Non c’è mai nessuno qui intorno».
Mi ci è voluto un attimo per elaborare questa insolita affermazione. Mi sembrava un tipo strano, ma del resto un sacco di ragazze a scuola dicono di me che sono strana, quindi non posso certo giudicare. «Vivi a Glen Avich?»
«Sì. Lassù». Ha indicato con la mano verso il lago in lontananza. «E tu? Non ti ho mai vista».
«Sono venuta a trascorrere l’estate qui. Nonnina… Voglio dire, mia nonna… è la proprietaria del bar La piazza, hai presente?».
Lui mi è sembrato perplesso. «Non ho mai assaggiato il caffè».
«Ah».
Esiste davvero qualcuno che non ha mai assaggiato il caffè? Forse sua madre e suo padre sono dei fricchettoni salutisti o cose del genere, e bevono solo tisane?
«Come ti chiami? Chi è la tua gente?», mi ha chiesto.
La mia gente? Cioè il mio popolo, la mia tribù? E io magari avrei dovuto rispondere: “Sono Lara, del clan Ward”.
Ho deciso che a questo punto potevo anche permettermi di giudicarlo, questo ragazzo: era proprio strano. O magari si tratta di un’usanza scozzese. Forse qui è normale chiedere “Chi è la tua gente?”.
«Mi chiamo Lara. E la mia gente…», ho ridacchiato. «Mia madre si chiama Margherita Ward e mio padre Ashley Ward, e ho un fratellino di nome Leo. Ho anche tre zie, due zii, parecchi cugini e due coppie di nonni. Queste persone sono la mia gente».
«Non ho mai sentito di una famiglia Ward di Glen Avich». Doveva avere più o meno diciott’anni, ma parlava come la vicina di casa di Nonnina, che ha ottant’anni. A quanto pare, quando Nonnina si è trasferita a Glen Avich le ha detto, con una perfetta cadenza scozzese: «Non abbiamo mai avuto italiani in questo paese».
«Be’, non sapete che cosa vi siete persi», aveva risposto diplomaticamente Nonnina.
«Siamo arrivati da poco», ho risposto. «Be’, credo che adesso sia il caso di andare… Ci vediamo qui intorno».
«Sì», ha detto, e il suo volto all’improvviso si è illuminato e non mi è sembrato affatto male. «Non vedo l’ora di rivederti». Si è tolto il berretto e i suoi capelli erano scurissimi, quasi blu, e ricci. Un po’ scompigliati, ma gli stavano bene. «Magari al lago. Ti mostrerò i miei posti preferiti, se vuoi».
Ho alzato le spalle fingendo indifferenza, ma devo dire che un po’ ero contenta. «Certo».
Ho proseguito lungo il ponte, e quando sono scesa dall’altra parte mi sono voltata un attimo. Lui era ancora seduto lì, a guardarmi. Ha alzato la mano e l’ha agitata in aria con un sorriso dolce – un sorriso che non ho mai visto fare a Ian o a nessun altro dei ragazzi che conosco. In quel momento mi sono resa conto di due cose: che mi ero dimenticata di chiedere il nome a quel ragazzo; e poi che era senza scarpe.
Capitolo 11
Polvere
Margherita
Lara, Inary e io camminavamo lungo la riva del lago verso Ramsay Hall, l’edificio di pietra grigia che, come il castello incantato di una fiaba, appariva e scompariva mentre avanzavamo. Da quando ero arrivata, era la prima volta che mi avvicinavo a Loch Avich ed ero ipnotizzata dalla sua placida bellezza. Era un pomeriggio gelido e terso, e l’acqua verde luccicava, increspandosi dolcemente nella brezza. Questo posto sembrava lontano anni luce dalla mia casa nella periferia di Londra: tutto un altro mondo, un’altra vita.
«Guarda! Laggiù c’è un’isoletta». La indicai a Lara. Una collinetta coperta di larici e pini si stagliava in mezzo al lago come un’apparizione, un’immagine mistica. «Quella è Innis Ailsa», disse Inary, nel suo dolce accento scozzese. «Ma noi la chiamiamo Ailsa». Mi dovevo ancora abituare alla cadenza locale – qualsiasi cosa la gente dicesse sembrava una canzone. Il nome dell’isola suonava un po’ come Eylsa, in quella bellissima, misteriosa lingua che è il gaelico. Per me era una lingua sconosciuta e non era nel mio sangue; eppure mi suonava stranamente familiare, come se l’avessi già sentita da qualche parte, in un lontano passato.
Lara sorrise. «Questo nome sembra un incantesimo», disse. «Sembra uscito dalla saga di Harry Potter». Brandì un’immaginaria bacchetta magica. «Innis Ailsa!».
Continuammo a camminare, l’erba ancora umida e lucente di rugiada, la nebbia che saliva pian piano dalle colline. C’era un silenzio perfetto, spezzato solo dal rumore dell’acqua che lambiva le sponde e dal fruscio degli uccelli tra gli alberi. C’era una tale pace. D’un tratto mi tornarono alla mente alcuni sprazzi della mia vita prima dell’estate – giornate piene, una fitta programmazione di faccende da sbrigare che sembravano sempre di importanza vitale. Quand’è che era diventata così frenetica? Per mesi, addirittura per anni, mi era sembrato che fosse tutto urgente, che tutto dovesse essere risolto immediatamente.
Feci un respiro profondo, immergendomi in quella nuova sensazione di calma. “Solo quando posi finalmente il tuo fardello”, pensai, “ti rendi conto di quanto fosse pesante, di quanto sia stata dura portarlo sulle spalle”.
«Eccoci qui», annunciò Inary. Eravamo davanti a un arco di pietra con al centro un cancello di ferro; un muro coperto di edera si allungava a partire da entrambi i lati dell’arco, a perdita d’occhio, seminascosto dagli alberi. Una pesante catena teneva chiuso il cancello, ma Inary lo aprì senza bisogno della chiave: Lord Ramsay ci stava aspettando.
Entrammo in uno spiazzo di ghiaia, e al centro vedemmo ergersi davanti a noi, in tutta la sua imponenza, Ramsay Hall. Lara non riuscì a trattenere un’esclamazione di meraviglia, e io mi guardai intorno incantata. Inary sorrideva in silenzio, comprendendo il nostro stupore.
Ramsay Hall era uno splendido edificio di pietra grigia composto da un blocco quadrato centrale e due ali laterali, con i muri rivestiti di edera. La sua struttura era simmetrica e armoniosa – un gioiello dalle proporzioni perfette. Un boschetto di querce circondava la casa, incorniciandola come una ghirlanda, e più in là si estendevano le dolci campagne, che sconfinavano nelle colline ammantate di pini. Avvertii una stretta allo stomaco, ma decisi che non mi sarei lasciata intimorire dalle dimensioni di quella dimora e dal nome altisonante del suo proprietario. Dopotutto, un vecchietto goffo con una giacca in tweed non poteva certo intimidirmi. Di sicuro si sarebbe rivolto a me chiamandomi “signora”. Forse aveva i baffi. E i pantaloni alla zuava, e un foulard. Okay, adesso mi stavo lasciando trascinare un po’ troppo dalla fantasia.
Sentimmo in lontananza il dolce nitrito di un cavallo, proveniente da una dépendance sulla destra. «Quelle sono le scuderie?», chiesi.
«Sì. C’è una scuola di equitazione, se vuoi prendere lezioni», rispose Inary.
«Non io… I cavalli sono… troppo alti». Scossi la testa, atterrita. «Cavalcare è una delle molte cose che non mi salterà mai in mente di fare. Ma forse Lara…».
«Be’, non so…», disse Lara.
«Torcuil ti mostrerà le stalle e poi potrai decidere. Io amo andare a cavallo», disse Inary – cosa che, sospettai, avrebbe potuto far cambiare idea a Lara e convincerla a provare. Lara aveva una vera adorazione per Inary, pendeva dalle sue labbra. Era una cosa così tenera e buffa, tipica di mia figlia. «Venite, entriamo dal retro», continuò. «Torcuil non usa mai l’entrata principale. A dire la verità non la usa nessuno, solo Lady Ramsay».
«Oh, c’è una Lady Ramsay?». Mi immaginai una signora anziana elegantissima e ben pettinata di quelle che si vedono sulle copertine di «Abitare Country».
«Be’, non proprio… Voglio dire, Torcuil non è sposato», spiegò Inary mentre ci dirigevamo verso il retro della casa. «Lady Ramsay è sua madre. Mia zia, dal ramo paterno. È una donna terribile».
«Ah».
«Tranquilla, non c’è mai. Vive a Perth. Grazie a dio», aggiunse.
Man mano che ci avvicinavamo alla casa notavo segni di incuria – l’edera inarrestabile che si arrampicava sui muri, le siepi che necessitavano di una potatura, i vetri che avevano urgente bisogno di essere lavati. Era una casa grande per viverci da soli.
Facemmo il giro dal retro fino a raggiungere una porticina di legno verniciata di nero, su cui pendeva come una ghirlanda una stupenda pianta di fucsia, carica di fiori.
Inary bussò. «Ciao! Siamo noi!».
La porta si aprì e apparve un uomo in jeans, una camicia a scacchi lasciata fuori dai pantaloni e gli occhiali dalla montatura argentata. Probabilmente era uno stalliere o un giardiniere. «Entrate. Ciao, Inary. E tu devi essere Margherita…», disse, porgendomi la mano. Il suo sorriso era caloroso e timido allo stesso tempo.
«E questa è Lara, la figlia di Margherita», disse Inary.
L’uomo strinse la mano di mia figlia. «Ciao. Io sono Torcuil».
Torcuil? Battei le ciglia un paio di volte, cercando di assimilare quell’informazione. Quest’uomo era Torcuil? Ma era giovane. E non indossava nessuna giacca in tweed. E aveva tutti i capelli.
L’immagine del vecchio, goffo figuro in stile colonnello Mustard si dissolse nella mia mente.
«Lei è Lord Ramsay?», chiesi, giusto per essere sicura.
Lui si passò una mano nei capelli folti color castano ramato, lasciandoli tutti scombinati, come un ragazzino appena sveglio. «Sì, ma diamoci del tu altrimenti mi confondo».
In quel momento mi resi conto di averlo già visto da qualche parte. Era l’uomo che aveva raccolto da terra Pingu la sera del nostro arrivo.
«Eri tu», dissi. «Voglio dire, eri tu l’uomo che ho visto quando siamo arrivati. Hai raccolto da terra il peluche di mio figlio».
«Sì. Sì, ero io… Buffo, eh? Comunque. Posso offrirti del tè? Caffè? Il caffè forse è un po’ vecchiotto…», disse, sollevando un vasetto di qualcosa che aveva subìto uno strano processo di solidificazione, come una rosa del deserto.
«Una tazza di tè andrebbe benissimo», dissi, guardandomi intorno. Tutto era pulito e odorava di candeggina – sospettai una caccia allo sporco dell’ultimo minuto prima del mio arrivo, e quel pensiero mi fece sorridere. Al centro della stanza c’era un robusto tavolo di quercia, pieno di pile di libri e fascicoli, e il pavimento era fatto di lastre di pietra; dalla finestra si vedeva quello che doveva essere stato un rigoglioso giardino, ora invaso da cespugli incolti e numerosi strati di foglie secche.
Torcuil riempì il bollitore, e io colsi l’occasione per osservarlo un po’ mentre era di schiena. Lui e Inary avevano una certa familiarità nei colori – entrambi con la pelle chiara e i capelli castano ramato, anche se quelli di Torcuil erano più scuri. Ma le somiglianze finivano qui: Inary era più bassa di me e molto magra, mentre Torcuil era alto e robusto.
«Spero non ti dispiaccia se rimaniamo a parlare qui in cucina», disse. «È l’unico posto dove non ho problemi di allergie. Qui e in camera da letto. Ma non potrei farti un colloquio di lavoro in camera da letto, sarebbe un po’ sconveniente». Sembrava inconsapevole di quello che stava dicendo.
Inary scoppiò a ridere. Io lo guardai perplessa, e il suo viso diventò rosso fuoco.
«Va bene, meglio se sto zitto. Scusate». Anche lui era nervoso, e per qualche ragione trovai la cosa molto tenera.
«Ehm, sì. Quindi… hai bisogno di un aiuto con la casa?», dissi, venendogli in soccorso.
«Farai vedere a mia madre come deve prendere a calci la caldaia?», chiese Lara, con molta tranquillità. Dentro di me sussultai, ma Torcuil rimase imperturbato.
«Ah, già. Sì, certo, puoi anche provare con un pugno se non vuoi prenderla a calci. Come ti pare, è solo che qui dentro fa molto freddo tutto l’anno, e la mia governante era l’unica persona che ci riusciva sempre. La donna che sussurrava alle caldaie».
«Ma esattamente come mai dovrei prendere a calci la caldaia?»
«Perché altrimenti il riscaldamento non si accende», intervenne Inary porgendo a me e Lara una tazza di tè caldo. «Latte e zucchero?»
«Latte, sì, e un cucchiaino di zucchero», dissi.
«Latte e quattro cucchiaini di zucchero», disse Lara.
«Tè caramellato, il mio preferito», scherzò Torcuil, facendo ridere Lara. «Ah, ho anche qualche biscotto», aggiunse, brandendo solennemente una confezione di Digestive come se fosse il Santo Graal.
Inary afferrò un piatto. «Oh, sì, grazie. Sai, Margherita è una cuoca, una pasticcera…».
«Be’, sì, lo ero ma…».
«Oh, fantastico! Io adoro mangiare, anche se non so per niente cucinare. Dài, siediti e prendi un biscotto, così parliamo». Spostò diverse pile di libri e fogli che sembravano dei compiti scolastici.
Tra me e me sorridevo. Era un tipo divertente. Ci sedemmo tutti a tavola, eccetto Lara, che si appoggiò al davanzale della finestra. Torcuil si sistemò gli occhiali.
«Bene, diciamo che sto semplicemente cercando qualcuno che provi a tenere un po’ in ordine alcune stanze. Non uso tutta la casa; questo posto è enorme e non avrebbe senso riscaldarlo tutto per una sola persona. Sai che vengo soltanto nel weekend, vero? Insegno all’università di Edimburgo».
«Sì, Inary me l’ha detto».
«E quindi a essere sinceri non ha senso tornare tutti i fine settimana, ma diciamo che sono costretto a farlo. Non riesco a stare lontano da qui per troppo tempo…».
Ero sorpresa da questa improvvisa, inaspettata esternazione. Inary stringeva la tazza tra le mani, la testa leggermente chinata e un sorriso sulle labbra. Avevo la sensazione che nutrisse un profondo affetto per il cugino.
«Dovresti prepararmi la casa, farmela trovare riscaldata, con la spesa fatta – cose di questo genere. E un pasto cucinato sarebbe grandioso, se non è un grosso problema…». Adoravo il modo in cui arrotava la r.
«Torcuil è un cliente fisso del Golden Palace. Sai, il ristorante cinese», spiegò Inary.
«Sì, sono un disastro in cucina», disse, passandosi un’altra volta la mano tra i capelli. Era irrequieto, continuava a toccarsi la chioma, a sistemarsi gli occhiali – sembrava timido, a disagio. «È una cosa di famiglia. Cioè, i piatti di Inary per esempio sono leggendari…».
«Che cosa vorresti dire?»
«Senza offesa, davvero…».
«Okay, farò finta di non aver sentito», disse Inary sorridendo, e intinse un altro biscotto nel tè.
«E poi sono impegnato tutto il weekend con la scuola di equitazione e devo preparare le lezioni per la settimana».
«Quindi dovrei venire il venerdì mattina, e forse anche il giovedì, a seconda di quello che serve? Una pulizia generale, dare un calcio alla caldaia…», Lara ridacchiò e io le lanciai un’occhiataccia, «…fare la spesa, cucinarti qualcosa?»
«Sì. Ti sembra fattibile?».
Pensavo proprio di sì, ma volevo pensarci un attimo, quindi temporeggiai. «Mi mostreresti il resto della casa?»
«Certo». Si alzò e ci fece un cenno. «Seguitemi».
«Aspetta e vedrai. Questo è un posto incredibile», mormorò Inary a Lara, prendendola a braccetto. Io sentii un fremito di eccitazione.
Seguimmo Torcuil su per una scalinata irregolare di pietra e oltrepassammo delle stanze alla nostra sinistra, che lui indicò velocemente come la sua camera da letto e il suo bagno, e poi un salottino. Lì dentro ogni superficie utilizzabile era coperta da cataste di libri, e dalla quantità di fogli sparsi in giro e dal maglione gettato sul divano capii che Torcuil usava quella stanza come studio. Teneva tutto in disordine, ma era un bel disordine, pensai, il segno che era appassionato a ciò che faceva. Lo stesso disordine che c’è in cucina mentre si prepara qualcosa di buono.
«Adesso arriva il bello», annunciò mentre entravamo in un corridoio dal soffitto alto, con il pavimento di pietra. «Quella è l’entrata principale, e lì ci sono le sale di rappresentanza». Dal corridoio partiva una scala a chiocciola di marmo che saliva fino al primo piano, dividendosi su due pianerottoli, dove era esposta una serie di ritratti dalle cornici d’oro tutte annerite. In cima alla scala erano appesi degli stemmi e al centro, più grande degli altri, c’era quello che doveva essere lo stemma della famiglia Ramsay: un’aquila nera a due teste con uno scudo.
«Quello è lo stemma dei Ramsay?», chiese Lara.
«Sì. Il nostro motto è Dei donum, che significa…».
«Dono di Dio», disse Lara.
«Studi il latino?», chiese Torcuil sorridendo.
«Ho frequentato qualche lezione a scuola. Solo per hobby».
«Brava, quello è anche il mio di hobby», rispose Torcuil, e vidi Lara arrossire per l’apprezzamento ricevuto. Quella vista mi scaldò il cuore. «Dunque, questa è la parte chic della casa…», continuò. A me in realtà sembrava chic tutta quanta la casa.
Proseguimmo stanza dopo stanza, e in ciascuna regnava la polvere. Enormi lenzuoli bianchi coprivano i mobili più pregiati e dai soffitti pendevano le ragnatele. Torcuil aveva già cominciato a starnutire.
«E questa stanza è quella che un tempo era… ecciù!… lo studio di mio padre».
Era l’unica stanza pulita e ben tenuta, con le mappe alle pareti e un antico globo sulla scrivania.
«Mio padre è morto cinque anni fa. Amava Ramsay Hall. Cercava di passare la maggior parte del suo tempo qui, anche se il lavoro lo teneva lontano. Immagino che con me la storia si stia ripetendo! Venite, vi mostrerò la biblioteca».
«È come la casa del Cluedo», bisbigliò Lara. «Margherita, in biblioteca, con uno stampino per biscotti…». Non riuscii a trattenermi dal ridere.
Le pareti della biblioteca erano rivestite di librerie di legno scuro. C’erano centinaia di volumi nelle teche di vetro – un acquario di libri. Riuscivo quasi a sentire l’eccitazione di Lara.
«Alcuni titoli sono davvero impossibili», disse Torcuil. «Per esempio c’è un’enciclopedia del XVIII secolo sulla flora scozzese, in cinque volumi… Ma ci sono anche libri più moderni e leggibili. Lo so, perché ho passato metà della mia infanzia qui… Voglio dire letteralmente qui». Batté la mano su un divano di pelle marrone scuro sistemato in un angolo.
«E l’altra metà nelle scuderie», intervenne Inary.
«Esatto. Quindi, Lara, se vuoi venire a esplorare la biblioteca, sei la benvenuta».
«Sarebbe favoloso», rispose lei. «Grazie mille».
«Non vedo l’ora di mostrarvi la sala da ballo!», disse Inary, trascinandosi dietro Lara.
«Sala da ballo?», dissi io, già in estasi. Volevo assolutamente vederla – mi immaginavo specchi, soffitti dorati, muri affrescati, pavimenti in mosaico. Ebbene, non rimasi delusa.
Torcuil aprì una porta di legno a doppio battente e ci condusse in un vasto salone. Era anche più bello di quanto avessi immaginato, con i soffitti dipinti di blu e costellati di stelle argentee, e gli angioletti seduti sulle nuvole a suonare strumenti musicali. In ogni angolo c’era un coro di piccoli angeli. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal soffitto, e per un po’ rimasi a girare per la stanza con la testa all’insù.
«L’affresco è incredibile, vero? Mio nonno l’ha fatto restaurare, quindi è in buone condizioni. Non si può dire lo stesso di molte altre cose qui a Ramsay Hall».
«Sto cercando di immaginare come doveva essere un tempo… La musica, i balli, lo scintillio delle candele…», disse Lara con aria sognante.
«In realtà non è trascorso troppo tempo dall’ultima volta che è stata utilizzata. I miei nonni organizzavano ancora dei ricevimenti qui. Ricordo di aver partecipato a una festa quando avevo più o meno sette anni… Però mi rimandarono subito in camera!»
«Me lo ricordo. Ero qui con Logan. Nostra sorella Emily invece era troppo piccola. Logan doveva avere undici anni… Fu costretto a indossare il kilt e a ballare con Lady Diana, ti ricordi? È stata carina con lui», disse Inary.
«Oh, sì», rise Torcuil.
«Io invece andavo a ballare in parrocchia. Suor Maria ci dava sempre gli Smarties e ballavamo i lenti degli anni Ottanta», dissi.
«Anche per me è stato più o meno così! Niente a che vedere con l’aristocratico qui presente…», scherzò Inary.
Torcuil alzò le mani. «Veramente l’aristocratico qui presente dormiva con i maglioni di lana perché faceva troppo freddo in questa casa, quindi…».
Inary fece un’espressione compassionevole. «Oh, povero Oliver Twist!».
«Quanto mi piacerebbe…», iniziò Lara, e tutti ci voltammo verso di lei. Si bloccò.
«Che cosa ti piacerebbe, Lara?», chiese Torcuil dolcemente.
«Partecipare a un ballo qui», sussurrò lei, guardando verso gli alberi fuori dalla finestra. E poi esclamò: «Oh!».
Mi avvicinai. «Che c’è?»
«Guarda», disse, e le si illuminò il viso. Seguii il suo sguardo fuori dalla finestra fino al boschetto. All’inizio non riuscivo a vedere che cosa stesse indicando; poi, tra il groviglio di foglie di una quercia, vidi una casetta di legno adagiata sui rami, collegata con un ponticello di corda a un’altra più piccola, sulla quercia accanto. «Quella», sospirò. «È favolosa».
«Oh, quella è la nostra casa sull’albero. È ancora tutta intera, ed è anche sicura. I miei nipoti ci hanno giocato solo poche settimane fa».
«Da piccoli ci andavamo sempre», disse Inary.
«Sì. Mi ricordo di essere caduto giù e di essere finito addosso a te, una volta».
«Me lo ricordo anch’io. Quell’episodio è inciso a fuoco nella mia memoria, Torcuil», rispose Inary ridendo.
«È un posto perfetto per leggere, Lara. Sei la benvenuta se vuoi usarla».
Lara era raggiante. Penso che le mancassero le parole. Mi guardò e nei suoi occhi lessi: “Ti prego, accetta questo lavoro”.
Inary intercettò lo sguardo di Lara. «Allora, Margherita, che ne dici?».
«Sei libera di dire di no…», si affrettò ad aggiungere Torcuil. «Voglio dire, se non è proprio il tipo di lavoro che stavi cercando…».
«Sì», dissi.
«…E so che sembra tutto un po’… polveroso… e piuttosto isolato… ma non c’è niente di faticoso… Eh, cosa?… Hai appena detto sì?»
«Sì, sarei molto felice di lavorare qui», risposi sorridendo.
«Ah. Be’, è grandioso. È davvero, davvero grandioso. Perfetto…». Guardò Inary e spalancò le braccia come a dire: “Allora è andata bene”.
Lara e io ci scambiammo un’occhiata. Sembrava così felice. In quel momento fui certa di aver preso la decisione giusta.
«Mi piacerebbe molto mostrarvi i terreni e le scuderie, ma devo tornare a Edimburgo stasera», disse Torcuil, lanciando un’occhiata all’orologio. «Se per te va bene, puoi iniziare già questa settimana».
«Certo. Nessun problema».
«Allora è tutto a posto. Come dovrei chiamarti? I tuoi amici ti chiamano Maggie?»
«Nessuno che tenga alla propria vita osa chiamarmi Maggie».
«Oh. Scusa. Allora Margherita?»
«Sì». Mi piaceva come pronunciava il mio nome, con la r leggermente arrotata. Non lo faceva sembrare italiano ma neppure inglese. Lo trasformava in un nome scozzese. Così come smussava tutte le consonanti, sciogliendole e addolcendole.
«A-ah!», esclamò Lara, raccogliendo un oggetto minuscolo dal pavimento.
«Cos’è?»
«Un lustrino rosso. Qualcuno deve aver ballato qui di recente», disse.
Torcuil e Inary si scambiarono un’occhiata. «La signora Gordon!», esclamarono all’unisono.
In tarda mattinata lasciammo Inary a Ramsay Hall, e noi due da sole ci incamminammo verso casa. Il tempo si era rasserenato e il lago luccicava, avvolto in una luce dorata. Lara era così eccitata che quasi saltellava.
«Pensi che abbia una moglie in soffitta? Tipo la signora Rochester?», chiese.
«Ma che dici!»
«Be’. Sarebbe comprensibile».
«Come potrebbe essere comprensibile? È comprensibile solo nella tua folle immaginazione», dissi, picchiettandomi scherzosamente la tempia. «Non penso che abbia una moglie in soffitta, no».
«Come fai a saperlo?», disse lei tutta seria.
«Lara».
«Sì».
«Tu leggi troppo».
Capitolo 12
Eccola
Torcuil
Promemoria: non chiamarla con il diminutivo, per nessun motivo al mondo. Non devi assolutamente chiamarla Maggie. Ricordalo e andrà tutto bene.
Non ho mai visto due occhi così grandi, davvero. Li avevo già notati quella sera, ma la luce del lampione era così fioca che non ero riuscito a vederla bene. Quegli occhi sono così scuri da essere quasi neri. Sembra italiana, ma quando la senti parlare ha un accento londinese. Ha le mani piccole, e porta la fede al dito medio. Inary mi ha detto che lei e suo marito si sono separati – non che io mi sia fatto delle idee su di lei, ovviamente. Non ho assolutamente alcun interesse. E in genere questo tipo di cose con me non funzionano, non dopo la storia con Izzy. Quindi non c’è motivo neppure di pensarci, davvero.
Santo cielo, quegli occhi.
Anche per lei non vedo l’ora di tornare a Glen Avich la prossima settimana – ma non dovrei pensarci, naturalmente. Infatti, non ci ho pensato affatto: è stato solo un momento di debolezza e l’ho già dimenticata.
«Allora adesso sei a posto. Almeno per l’estate», dice Inary mentre preparo la borsa per tornare a Edimburgo.
«Sì. Che strano: quando sono venuto questi fogli ci entravano tutti e adesso non riesco più a farli stare dentro…».
«Ti piace», dice Inary bruscamente, senza alcun preavviso.
«Taci. È sposata».
«Separata. E tu sei un ottimo partito, Torcuil».
«Certo, sono il sogno di ogni donna», rispondo. Lo dico per scherzo, ma con una punta di amarezza. Questi ultimi anni sono stati… Come posso definirli? Non voglio dire tristi. Sono stati freddi. Sì, freddi è la parola giusta.
Gelidi, a dir la verità. Mi sembra di non essere più in grado di provare un vero trasporto per una donna. Soltanto gratitudine, attrazione fisica, o affetto. Ma amore no, non più.
Avevo una persona, tanto tempo fa. Undici anni fa, per essere precisi. Non c’è molto da spiegare: io la amavo e lei mi amava, ma a quanto pare non così tanto, visto che mi ha lasciato per un altro.
In questi undici anni naturalmente ho avuto altre storie, ma non hanno funzionato. A dirla tutta, quello che non andava ero io. Magari penserete che adesso sto ben attento a non lasciarmi prendere troppo dopo essere stato tradito – ma io ho un’altra teoria: che forse semplicemente non amavo abbastanza quelle donne. Voglio dire, ci tenevo a loro, ma non provavo amore. Non l’amore che avevo provato per lei – che era stato molto più di un’amicizia, molto più di una cotta, molto più di un’attrazione; era stato molto più che essere compatibili o ridere insieme, e tutti gli altri parametri con cui in generale si descrive l’amore. Il mio amore per lei era la mia anima che tendeva verso la sua, che desiderava ricongiungersi con lei e non separarsi mai più.
Forse tutto questo aveva a che fare con la consapevolezza che in passato era stata ferita, non so – questo disperato bisogno che avevo di accoglierla, di essere la sua casa e il suo rifugio.
Nessun’altra avrebbe potuto significare tanto per me.
«Vuoi un passaggio?», chiedo a mia cugina mentre ci avviamo verso la macchina.
«No, grazie. È una bellissima giornata, andrò a piedi. Ci vediamo presto».
Da quando è tornata a Glen Avich dopo la morte di Emily, Inary e io siamo diventati molto uniti. Ed è un’ottima cosa, visto che non ho nessun rapporto con mia sorella e che con mio fratello ci vediamo a stento, anche se abitiamo a pochi passi. A essere sinceri, non è vero che io e mio fratello Angus non siamo legati; solo che, con la salute di Isabel che va peggiorando e il suo lavoro che lo porta in giro per il mondo, è difficile per lui trovare il tempo di vedermi. A volte mi sembra di essere completamente solo.
Ho trentasei anni ormai, e sono solo. Mi sembra di andare alla deriva.
E mentre la corrente mi trascina, penso che l’unica cosa che mi impedisce di naufragare è questa casa, Ramsay Hall. Mia sorella dice spesso che questo posto è soltanto un peso per noi, ma non ha idea di quanto si sbagli. Per me Ramsay Hall è una boa di salvataggio. È ciò che mi tiene a galla, impedendomi di affondare. Ho come la sensazione che se riuscissi a salvare Ramsay Hall in qualche modo, riuscirei a salvare anche me stesso.
Capitolo 13
Era lì, tra la nebbia
Lara
Cara Kitty,
a convincermi definitivamente è stata la casa sull’albero. La biblioteca era fantastica e la sala da ballo era un sogno! Ma la casetta sull’albero era persino meglio. Dimentica le passeggiate e la lettura a casa: ho intenzione di prendermi un bel libro e passare buona parte della mia estate lassù.
Grazie al cielo mia madre ha accettato il lavoro. Ovviamente prenderà in mano la situazione e oltre che della casa si prenderà cura di quel tipo, Lord Ramsay. Lui ha detto che non vuole essere chiamato così, ma mi piace come suona questo nome, sembra uscito da un romanzo. È simpatico, molto, e nient’affatto brutto per la sua età. Rimarrà di sasso appena mia madre metterà piede lì dentro. Perché scommetto che rivoluzionerà tutta la casa e la rimetterà in sesto.
Mi domando se dovremmo raccontare a papà che cosa stiamo facendo qui. Da quando siamo arrivati l’ho chiamato due volte dal bagno, ma mi è sembrato strano parlare con lui. Mi ha fatto delle domande su mamma. Io penso che dovrebbe chiedere quelle cose a lei, non a me. Ma loro non si parlano da quando siamo arrivati. Lui non ha mai detto che vuole che torniamo, o che gli manchiamo. A essere sincera neanch’io gli ho mai detto che mi manca. Adesso che lo sto scrivendo mi rendo conto di quanto sia triste.
Comunque, passiamo a Inary. È fantastica. Quando avrò la sua età voglio essere come lei: voglio pubblicare i miei libri, avere un fidanzato, una casa e soprattutto i suoi capelli. Voglio i capelli rossi come i suoi. Però non sono proprio rossi: sono a metà tra il rosso e il castano, come le foglie d’autunno. Mi ha invitata a pranzare a casa sua la prossima settimana. Non vedo l’ora. Infatti, mi sono fatta un calendarietto dove segno i giorni che passano. Adesso ne mancano cinque.
Ogni volta che sono passata dal ponte ho cercato il ragazzo con il berretto di tweed, ma non c’era mai. Poi, mentre tornavamo da Ramsay Hall, mi è sembrato di vederlo dall’altra parte del lago. Era lontano, ma sono quasi sicura che fosse lui: aveva gli stessi vestiti, e ho riconosciuto la sua postura. Volevo fargli un cenno con la mano, ma poi ho pensato che potevo anche sbagliarmi, quindi non l’ho più salutato. E ora mi sento in colpa, perché penso che mi abbia vista ed è come se ci fossimo guardati da una sponda all’altra, ma io non l’ho chiamato, né salutato con la mano o altro. Neppure lui, comunque. Se ne stava semplicemente lì, con l’aria esausta. E triste. Forse stava pescando o qualcosa del genere, perché sembrava coperto di fango; potevo vederlo anche a quella distanza. E poi ero con mia madre, e volevo evitare che cercasse di fare amicizia con lui e gli dicesse: “Ehi, ciao, allora tu sei un nuovo amico di Lara? Che scuola frequenti? Che cosa fanno i tuoi genitori? Dove vivi?”, eccetera eccetera. Sai come fa lei… Insomma, volevo tenere segreta la cosa.
Ripensandoci però era buffo che se ne stesse lì immobile nella nebbia. Come se non sapesse bene dove si trovasse. Sembrava triste e solo.
Spero di rivederlo presto.
Capitolo 14
Un’estate farfalla
Margherita
Il fuoco ardeva, le lucine intorno al camino erano accese, e dalla finestra vedevo il crepuscolo cedere il passo lentamente alla sera. Tutto era così sereno, così bello. Lara era da mia madre ad aiutarla a preparare i dolci per il bar, così avevo la casetta tutta per me e del tempo per riflettere su tutto quello che mi era successo. Ero stesa sul letto accanto a Leo e gli accarezzavo i capelli, finché d’un tratto si addormentò profondamente, stanco com’era dopo una lunga giornata passata in giro per Glen Avich con me e Nonnina. Era adorabile nel suo pigiama blu con gli elicotteri, e Pingu stretto accanto a sé.
Il lavoro a Ramsay Hall rappresentava per me un nuovo inizio, e non vedevo l’ora di cominciare. Ma mi addolorava il silenzio di Ash. Non era affatto sconvolto dalla mia assenza – la nostra assenza. Non mostrava nessun desiderio di riaverci. Sapevo che Lara qualche volta gli aveva telefonato. Mi aveva riferito che Ash stava bene ed era contento che stessimo bene anche noi. Solo questo, come se stesse parlando con un’estranea – “Come stai? Bene, tu? Anch’io”. Non aveva mai chiesto di passargli Leo.
Ma dopo quel messaggio nel mezzo della notte per avvisarlo del nostro arrivo, neppure io lo avevo più contattato. Dopotutto, avrei potuto prendere il telefono invece di aspettare che lo facesse lui. Ma ogni volta che pensavo di chiamarlo, ogni volta che cercavo di costringermi a premere il tasto verde del cellulare, avvertivo una stretta allo stomaco. Solo il pensiero di sentire la sua voce bastava a farmi pulsare la testa, eppure dentro di me percepivo il vuoto della sua assenza. Perché in tutti quegli anni in cui eravamo stati insieme, in tutti quegli anni in cui eravamo stati sposati, non avevamo trascorso più di qualche giorno senza parlarci, anche se a volte si era trattato solo di parole aspre o litigi. Mi sembrava di essere divisa in due, e anche se la metà che avevo perso mi aveva fatto tanto male, mi mancava lo stesso.
Era tutto nuovo, e spaventoso, e immensamente triste, soprattutto perché sembrava che Ash non volesse parlare con Leo. Il divario tra loro due era più profondo di quanto immaginassi, pensai mentre gli rimboccavo il piumone con un gesto protettivo e mi chinavo sul suo corpicino addormentato. I nostri nasi si toccarono. Aveva un odore dolce e caldo; il profumo stesso dell’amore. Il mio bambino. Avrei fatto di tutto per proteggerlo dal dolore.
Leo non sembrava turbato dall’assenza di suo padre. Lo aveva nominato soltanto una volta, quando Michael aveva preparato l’arrosto e lui aveva detto che era il piatto preferito del suo papà. Solo quella volta. Ma come potevo sapere quali sarebbero state le conseguenze a lungo termine di tutto ciò? Dovevo ammettere che da quando eravamo arrivati a Glen Avich, Leo sembrava così felice. La sua Nonnina e Michael lo viziavano a più non posso. Se lo portavano in giro per il paese come un trofeo, tenendolo entrambi per mano, e lui era ben contento di tutte quelle attenzioni.
Adesso sulle colline era calato il buio della sera. Venere brillava luminosa nel cielo nerissimo e mi venne in mente che, in un modo o nell’altro, a Londra non c’era mai il tempo di guardare il cielo. A Glen Avich, invece, il tempo pareva dilatato e rallentato, fino a sembrare infinito. Forse perché non avevo più tutta quella fretta, facevo molto meno e osservavo molto di più. Le giornate sembravano così lente e tranquille, in confronto alla folle frenesia della mia vita a Londra – e in ogni caso che cosa facevo lì? Correvo a destra e a manca per sbrigare un milione di piccole commissioni che mi ero prefissata per riempire il vuoto che sentivo dentro. Adesso invece tutto il mio essere cominciava a rilassarsi, poco alla volta. Sembrava impossibile che dopo un tale sconvolgimento, dopo il silenzio e i litigi di Londra, tutto questo potesse venirmi così naturale; sembrava impossibile che proprio nel momento in cui la mia vita era sconvolta, e le cose erano cambiate così profondamente, la mia mente potesse aver ritrovato la calma.
Dalla casetta si vedeva la finestra della casa di mia madre. Osservai Lara rimestare qualcosa in una ciotola e mia madre che tirava fuori dal forno una teglia con dentro qualcosa che non riuscii a individuare. Adagiai Leo nel suo lettino, stando attenta a non svegliarlo, e mi avvolsi nel cardigan di mohair color crema che mi aveva prestato mia madre. Presi dal comodino il taccuino di nonna Ghita, uscii nell’aria fresca e ventosa di quella serata estiva e andai in cucina. Avevo acceso il baby monitor, quindi potevo lasciare tranquillamente Leo nella casetta. Il profumo che si levava dal forno mi fece venire l’acquolina in bocca, e ora potevo vedere che cosa aveva tirato fuori mia madre: cornetti.
«Sta dormendo?», mi chiese, infornando un’altra teglia di cornetti.
«Sì. Sono venuta a darvi una mano», risposi. «Che ne dici se proviamo una di queste ricette?». Le mostrai il taccuino.
«Sì, perché no? Scegli tu…».
«Affare fatto». Mi tolsi il cardigan, mi arrotolai le maniche e mi infilai un grembiule secondo un rituale che conoscevo fin da quando ero piccola. «Che ne dici dei Brutti ma buoni?» Quei biscottini grinzosi non deludono mai: non sono belli ma il loro gusto dolce, di nocciola, è celestiale.
«Se abbiamo tutti gli ingredienti sì, certo», concordò mia madre.
Era una tale gioia semplice e terrena essere in cucina con mia madre e Lara a preparare dolci; un po’ come quando ero bambina e mia madre, Anna, Laura e io trascorrevamo lunghe ore ai fornelli. E adesso c’era anche Lara. Non era solo questione di cibo; era per la compagnia. Per le donne italiane la cucina è molto più che un posto in cui arrangiare dei piatti veloci – è la stanza più importante della casa, dove chiacchieriamo, entriamo in confidenza, ridiamo e riusciamo a distendere la mente. Mi sembrava di essermelo dimenticato, ma adesso stava riaffiorando di nuovo tutto, come il profumo delle torte di nonna Ghita.
Dopo un’ora di lavoro, divertimento e risate, mia madre aveva finito di infornare, e anche i Brutti ma buoni erano pronti.
«Oh, mamma, perché non li hai mai fatti prima?», disse Lara mentre assaggiava un biscottino bitorzoluto ancora caldo.
«Vuoi sapere la verità? Non lo so», dissi, e mi concessi un breve attimo di sgomento mentre lanciavo un’occhiata veloce al cellulare: ancora nessuna chiamata, nessun messaggio.
Sembrava che Ash non mi stesse più cercando.
Capitolo 15
Piccolo amore (1)
Margherita
Mi avviai sul presto, in una mattina nebbiosa e gelida, verso Ramsay Hall. Lungo la riva del lago c’era un silenzio tale che riuscivo a sentire ogni minimo rumore: il vento tra gli alberi, piccole creature che si muovevano tra i cespugli, lo scricchiolio della ghiaia sotto i piedi. Sembrava che ci fossi soltanto io nell’arco di chilometri, mentre mi avvicinavo a quella maestosa dimora.
Poi, all’improvviso, sentii qualcuno chiamarmi e sussultai. Mi portai una mano al petto per placare il cuore; mi voltai e vidi una donna venire verso di me. Doveva essere sulla cinquantina, aveva i capelli biondi corti, la pelle provata dalle intemperie e gli stivali imbrattati di fango.
«Margherita?»
«Sì. Ciao!», le gridai, mentre le andavo incontro.
«Piacere di conoscerti. Io sono Fiona». Mi strinse la mano così forte che dovetti trattenere una smorfia. «Lavoro alle scuderie, come avrai già capito. Scusa, volevo solo essere sicura che fossi davvero tu. Cioè, Torcuil mi ha detto che oggi saresti venuta, quindi ero qui di guardia».
«Sì, sono io. Non una ladra o cose del genere».
Lei rise – una risata calda, tonante. «Hai visto le scuderie?»
«Non ancora».
«Bene, se hai un minuto te le mostro».
«Mi piacerebbe tantissimo, grazie», dissi, e la seguii lungo un sentiero verso l’edificio di pietra annesso alla proprietà. A differenza della casa, le scuderie erano tirate a lucido e perfettamente curate. Sentii subito l’odore dei cavalli – un odore terreo stranamente gradevole. Ce n’erano cinque che sbirciavano dalle stalle, i loro enormi occhi marroni fissi su di me. Non sono mai stata un’appassionata di cavalli – mi hanno sempre fatto un po’ paura – ma l’ultimo attirò la mia attenzione. Fiona si accorse che lo stavo osservando.
«Questo è Stoirin, il cavallo di Torcuil».
«Story?»
«Sto-rìn. Significa “piccolo amore” in gaelico».
«Non così piccolo». Sorrisi. A me quel cavallo, con il suo caldo manto color castagna e la criniera bionda, sembrava enorme.
«Avresti dovuto vederla quando era una puledrina. Era piccolina, e così carina. È per questo che Torcuil l’ha chiamata Stoirin».
«Quindi è femmina?»
«Oh, sì. Ed è anche molto femminile. Osserva i suoi occhi».
Stoirin e io ci guardammo per un momento. Fiona aveva ragione, adesso potevo vederlo – era, in qualche modo, femminile. Una donna, diciamo, anche se non saprei spiegare bene perché. Non si muoveva né emetteva alcun suono, poi all’improvviso sbuffò delicatamente e si avvicinò. Senza pensarci, posai una mano sulla sua testa setosa, poi sul muso – era così calda e morbida. Si strofinò contro di me teneramente come se mi stesse salutando.
«Sembra che abbia fatto colpo su di te», disse Fiona sorridendo.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dagli occhi di Stoirin. Poi finalmente mi costrinsi a fare un passo indietro. «Farei meglio ad andare al lavoro», dissi, voltandomi… E poi voltandomi di nuovo a guardare Stoirin.
«Anche tu devi aver fatto colpo su di lei. Di solito non si fa toccare da nessuno. È dolce, ma non così dolce. Perché non torni e provi a cavalcarla? Cioè, chiedi prima a Torcuil. In realtà Stoirin è sua; non la usiamo per la scuola».
«Oh, non fa per me, sinceramente. Non vado a cavallo. I cavalli sono troppo… alti».
Fiona scoppiò di nuovo a ridere.
«Meglio se vado a sbrigare qualche faccenda», le dissi. «Grazie per il giro. Ci vediamo dopo».
Mentre mi allontanavo, incrociai un gruppo di mamme e ragazzine in tenuta da equitazione – Fiona avrebbe avuto il suo bel da fare. Qualcosa mi fece voltare un’ultima volta prima che le scuderie scomparissero dalla mia vista. Non potrei giurarlo, perché erano parecchio distanti, ma credetti di vedere gli occhi color miele di Stoirin, dolci e scuri, che mi seguivano.
Mi diressi in cucina. Sembrava abbastanza in ordine, e di nuovo sospettai che Torcuil l’avesse pulita in previsione del mio arrivo, perché ancora una volta sentivo un leggerissimo accenno di candeggina sotto l’odore stantio onnipresente a Ramsay Hall. Sul tavolo della cucina c’era un biglietto.
Mi dispiace molto per il disordine sto uscendo di fretta come sempre
Non vedo l’ora di vederti nel weekend
Accendi pure il riscaldamento altrimenti ti congeli
T
Chiaramente andava troppo di fretta anche per preoccuparsi della punteggiatura. Sorrisi, immaginandomi Torcuil che usciva di corsa, portando con sé i suoi innumerevoli fogli.
Aveva ragione riguardo al freddo in quella casa; avevo già i brividi. Per qualche motivo, la temperatura dentro era più bassa che all’esterno. Accesi il termostato in cucina e mi avviai verso le cantine, come lui mi aveva mostrato. Scesi i gradini di pietra e aprii la porta dello scantinato. Lì dentro era tutto buio e silenzioso, metteva paura. C’era solo una lampadina che pendeva dal soffitto e ragnatele dappertutto. Ma io non sono una che si impressiona facilmente, quindi proseguii lungo le scale con passo deciso.
«Scusa, amica», dissi all’enorme caldaia antiquata mentre la colpivo ripetutamente. Niente da fare. Magari un giorno Torcuil avrebbe cambiato il sistema di riscaldamento… Ma in una casa come questa sarebbe costato una fortuna. Continuai a sferrare calci, piuttosto contenta di sfogarmi un po’. Stavo per mollare un altro calcio, quando risuonò un leggero brusio. Evidentemente la signora Gordon, la ballerina, non era l’unica ad avere il tocco magico. Stavo per tornare di sopra, quando la porta dello scantinato si richiuse sbattendo, facendomi sobbalzare per lo spavento. Maledissi in silenzio le correnti d’aria di quella gelida vecchia casa, e corsi su per le scale fino alla porta. Per un attimo pensai di essere rimasta intrappolata là sotto, e che avrei dovuto aspettare due giorni, fino al ritorno di Torcuil – ma poi, girando il pomello e vedendo che la porta si apriva, risi di quanto ero stata sciocca. Ormai anch’io facevo come Lara: trasformavo ogni situazione in un romanzetto gotico. Anche se, a essere sinceri, a Ramsay Hall non occorreva un grande sforzo di immaginazione.
Tornai in cucina, e rovistai nell’armadietto dei detergenti. Esitai sulla soglia della camera da letto di Torcuil; non avevo mai pulito la casa di qualcun altro, quindi mi sembrava strano introdurmi così nello spazio privato di un’altra persona. Il suo profumo – fumo di legna e pino e un accenno di qualcos’altro, qualcosa di fresco e puro che mi ricordava l’aria del mare – aleggiava dappertutto. Mi fermai un istante, e qualcosa dentro di me reagì a quell’odore. Fu come ritrovare un ricordo a lungo dimenticato, o un luogo in cui ero stata tanto tempo prima e dove volevo tornare… Invece tornai alla realtà.
Mi cadde l’occhio su una fotografia posata sul comodino di Torcuil: due ragazzini in jeans e maglioni di lana, entrambi a cavallo. Uno dei due aveva i capelli rosso acceso e le lentiggini, e sembrava basso ed esile. Aveva un gran sorriso stampato in faccia e un’aria birichina e scherzosa. Doveva essere Angus – sembrava il tipico fratello minore, pensai. La più piccola delle mie sorelle, Laura, la bambolina della famiglia, aveva lo stesso sguardo. L’altro ragazzino senza dubbio era Torcuil. Quella foto doveva essere stata scattata quando aveva più o meno undici anni, tra l’infanzia e l’inizio dell’adolescenza. Era alto, con i capelli folti e ondulati e uno sguardo pensieroso, come se nel suo corpo giovane abitasse l’anima di un vecchio. Aveva un atteggiamento serio, come se già sentisse il peso della responsabilità sulle sue giovani spalle.
Non c’era molto da fare per quel giorno, così dopo aver pulito tutto ciò che potevo e aver aperto tutte le finestre, mi sedetti in fondo alla stanza, su una panca addossata alla parete. L’indomani sarei andata a fare la spesa e avrei cucinato un bel po’ di cose per l’arrivo di Torcuil. Anzi, avrei potuto usarlo come cavia per gli esperimenti di pasticceria che avevo in mente. Era una giornata calda – per gli standard scozzesi – e io chiusi gli occhi per un momento, godendomi la brezza. Un delizioso profumo di rose mi avvolse. Aprii gli occhi e contemplai il giardino. Per la prima volta notai alcuni cespugli di rose lungo l’aiuola in fondo al giardino, in prossimità del boschetto. Mi avviai in quella direzione, camminando sul vialetto di ghiaia tra le aiuole.
Qua e là spiccavano statue ornamentali ricoperte di muschio, le forme levigate dalle intemperie. I bordi delle aiuole erano quasi del tutto cancellati e i viali di ghiaia erano invasi dalle erbacce. Mi domandai perché Torcuil avesse lasciato il giardino in un tale stato di abbandono – non poteva essere soltanto perché non poteva permettersi un giardiniere. Trapelava piuttosto un senso di… sconfitta. Lui diceva di tenere molto a Ramsay Hall, ma io sentivo che una parte di lui in un certo senso aveva gettato la spugna. Sembrava che non credesse possibile risistemare quel posto, riportarlo al suo passato splendore. Alla vita.
Era un pensiero triste, e passeggiai nella fresca brezza estiva cercando di scacciarlo. Le rose nelle aiuole, sebbene abbandonate all’incuria, erano bellissime – alcune erano di un colore che non avevo mai visto, un misto di rosa, giallo e arancio. Poi c’erano quelle gialle con le punte dei petali rosa che pareva stessero avvampando, e una rosa con qualche tocco di giallo che sembrava prendere il sole. Mi chinai per osservarle meglio e inspirare il loro profumo, quando con la coda dell’occhio colsi qualcosa che mi fece drizzare la schiena. Doveva essere stato un uccello che prendeva il volo da un davanzale… Ma no, eccolo di nuovo. C’era qualcosa che si muoveva dietro l’ultima finestra sulla destra. Un’ombra. La tenda che ondeggiava. E poi niente. La fucsia che avvolgeva la porta sul retro oscillò dolcemente nel vento e una pioggia di fiori rosa cadde sul pavimento di pietra. Ma non si mosse nient’altro.
Scacciai il pensiero di quell’ombra, attribuendolo a un’illusione ottica. Ma mentre riesumavo un paio di guanti da giardiniere e cominciavo a strappare via le erbacce, tenni gli occhi fissi sulla finestra e non voltai più la schiena alla casa.
Capitolo 16
Anime gemelle
Lara
Cara Kitty,
ho appena trascorso il miglior pomeriggio di sempre. Sono andata a pranzo a casa di Inary, ed è stato meraviglioso. Ha bruciato i toast e abbiamo dovuto mangiare cereali perché aveva finito tutto. Nonnina sarebbe rimasta sconvolta, ma per me è stato divertentissimo. È così che ho sempre immaginato gli scrittori: talmente concentrati sul proprio lavoro da dimenticarsi di tutto il resto. Cioè, per esempio non credo proprio che Charlotte Brontë smettesse di scrivere per cucinarsi un bel risotto, non credi? Vanno avanti anche per tutta la notte e sono completamente posseduti dalla loro arte. È tutto molto romantico, e Inary ha proprio l’aspetto della scrittrice; i suoi capelli sembrano un dipinto, così luminosi e ondulati. Non come i miei. Crespi. Lei ovviamente per essere gentile ha detto che ho dei capelli stupendi. Poi mi ha messa davanti allo specchio della sua camera, ed è stato strano, ma quando mi ha sciolto la coda e mi ha lasciato cadere i capelli sulle spalle, non mi sono sembrati tanto male.
La casa di Inary è esattamente come vorrei che fosse un giorno la mia casa. Piena di libri e con uno studio tutto per me. Non so cosa vorrei fare da grande – la scrittrice, o l’insegnante, o la bibliotecaria – ma sicuramente qualcosa che abbia a che fare con i libri. E poi Inary ha un fidanzato meraviglioso che sembra un attore. È dovuto andare a Londra, quindi non l’ho incontrato, ma ho visto una sua foto e ha i capelli corvini, come Damien di Sposa delle tenebre.
Inary ha detto che leggerà la mia fan fiction di Sposa delle tenebre. Sono così eccitata.
Vorrei tanto che vivesse a Londra, per poter parlare con qualcuno che mi capisca davvero. Prima viveva lì, ma poi è venuta a Glen Avich a trovare sua sorella, che è morta da giovane, e ha deciso di rimanere. Il suo fidanzato l’ha seguita. Inary ha detto che adora vivere qui anche se è un posto così piccolo. Mi ha detto che a Glen Avich abitano millecinquecento anime, più alcune altre che gravitano qui attorno – penso intendesse i pendolari.
Dopo essere stata a casa di Inary, ho deciso di andare a Ramsay Hall, alla casa sull’albero – Torcuil ha detto che posso andarci quando voglio. Ma prima mi sono fatta un giro lì intorno perché in qualche modo speravo di incontrare di nuovo quel ragazzo.
Mentre camminavo mi sentivo strana, come se lui mi camminasse accanto. E poi all’improvviso eccolo lì.
«Lara?», ha detto, e io sono trasalita.
«Sì. Ciao. Ehi, fai come i gatti, che tendono gli agguati?»
«Scusa. Non volevo spaventarti. Dove stai andando?».
I suoi occhi sono grigi. Cioè, davvero grigi. Una tonalità che non ho mai visto. Penso che neppure Damien abbia gli occhi grigi come i suoi. E i capelli sono nerissimi. Non pensavo che qualcuno con una pelle così bianca potesse avere i capelli tanto scuri.
«Su alla tenuta dei Ramsay. A leggere un po’ nella casa sull’albero». Gli ho mostrato la mia copia di Cime tempestose e la coperta che avevo rubato dall’armadio di Nonnina.
«Anche a me piace leggere. Non ci sono molti libri da queste parti, ma il maestro me ne presta sempre qualcuno».
«Intendi il tuo professore?»
«Sì. Vado su Ailsa con la mia barca. Mi porto un po’ di cibo e un libro e passo ore lì a leggere in solitudine. Ci siamo solo io e il lago. Mio padre si arrabbia perché leggo invece di aiutarlo. Dice che diventerò un prete o un maestro». Ha sorriso. Quando sorride sembra diverso. Sembra illuminarsi tutto. Non succede spesso; di solito sembra triste, o agitato. «A volte scrivo poesie».
«Un prete?». Come?
«Sì, ma non mi piace molto la Bibbia, quindi non penso che succederà mai!».
Okay, devo ammettere che a volte questo ragazzo dice cose strane. Voglio dire, la Bibbia? Quale adolescente legge la Bibbia? A meno che non venga da una famiglia super religiosa. Potrebbe anche essere…
«Vuoi venire su con me?», ho chiesto, e poi ho avuto paura. Che lui rispondesse di no.
Ma lui ha detto: «Sì, ottimo», e abbiamo camminato insieme in silenzio. Non è stato imbarazzante, eravamo solo molto tranquilli. Ogni tanto mi guardava e sorrideva.
Tutto qui, abbiamo passeggiato senza dirci nulla. Poi siamo saliti nella casa sull’albero e ci siamo seduti a gambe incrociate.
«Sei sicura che a Lord Ramsay non dispiaccia che siamo qui?», mi ha chiesto.
«Sono sicura. Mi ha detto…».
Improvvisamente è diventato molto pallido, e sembrava avesse di nuovo paura. Ma perché? Perché era di nuovo così spaventato, come l’ultima volta? È difficile da spiegare; è stato come se il tempo fosse cambiato all’improvviso – come succede qui in Scozia, che in un attimo si passa dal sole alla pioggia.
«Devo andare adesso», ha detto rialzandosi. Lo ha sussurrato talmente piano che a stento sono riuscita a sentirlo.
«Ti vedrò domani?», gli ho chiesto, e me ne sono pentita subito. Forse lui non voleva affatto rivedermi, forse mi stavo solo rendendo ridicola.
«Spero di sì», ha risposto, e si è avvicinando gattonando alla porticina.
Improvvisamente mi sono ricordata. «Ehi… non mi hai ancora detto come ti chiami».
«Mi chiamo Mal».
“E chi è la tua gente?”, stavo per chiedergli, proprio come aveva fatto lui quando ci eravamo incontrati la prima volta. Ma non ne ho avuto la possibilità, perché si è calato giù per la scaletta di corda. Mi sono avvicinata alla porticina e ho guardato fuori: dalle campagne cominciava a salire una fitta nebbia bianca. Per qualche secondo sono riuscita solo a distinguere una sagoma sfocata – poi è sparito.
Quindi adesso so il suo nome.
Capitolo 17
Ramsay Hall
Margherita
Il giorno dopo arrivai a Ramsay Hall di buon mattino, con due sacchetti della spesa per Torcuil, contenenti tutto l’occorrente per il weekend. Mi avviai in cucina e cominciai a mettere a posto le cose, quando sentii un rumore proveniente dall’interno della casa. Rimasi impietrita.
Forse era un topo. O era stato uno di quegli strani rumori che si sentono nelle vecchie case – i cigolii o gli scricchiolii di assestamento. Oppure era il vento che batteva alla finestra. Sicura che non fosse niente, mi rimisi al lavoro.
E poi di nuovo lo stesso rumore, che mi fece sobbalzare. E poi un altro – un colpo, come un oggetto che cadesse o qualcuno che buttasse giù qualcosa violentemente… E dei passi. Passi che venivano verso la cucina. Passi che si avvicinavano.
C’era qualcuno in casa, e chiunque fosse, stava venendo verso di me.
E poi cominciò a cantare, a squarciagola. Era una canzone di Miley Cyrus – la riconobbi perché era nella playlist di Lara.
«We can’t stop, we can’t stop! Oh oh oh… We can’t stooop…».
Conoscevo quella voce.
«Aaah!». Torcuil sobbalzò mentre entrava in cucina. Solo un secondo prima stava cantando spensieratamente, ignaro della mia presenza. Io ero in piedi con un pacco di pasta in ciascuna mano, e tremavo dalla testa ai piedi. E sarei una che non si lascia intimorire facilmente.
«Oh, dio. Mi hai fatto prendere uno spavento pazzesco», disse. Indossava una maglietta dell’università di Edimburgo e un paio di pantaloni del pigiama a quadri.
«Anche tu! Pensavo di morire!».
«Tutta colpa delle mie abilità canore», rispose con un sorriso.
«Sì, quello di sicuro mi ha allarmata. Che ci fai qui?»
«Sono tornato ieri sera. Oggi è festa. Ho dimenticato di dirtelo?»
«Sì! Ma non fa niente. A parte il fatto che ho perso cinque anni di vita».
«Ti ho spaventata così tanto?». Sembrava sinceramente preoccupato. Per un momento, pensai di raccontargli dell’ombra che avevo visto il giorno prima; poi cambiai idea. Era stata un’illusione ottica, non era il caso di parlarne.
«No, certo che no. Stavo scherzando».
«Che sollievo. Che ci fai qui?»
«Lavoro. È venerdì. Ti ricordi?». Sorrisi, mettendo a posto dei barattoli di piselli.
«Sono le otto meno un quarto! È un miracolo che io sia già vestito».
«E meno male», risi. «Senti, non so che dire. Sono un tipo mattutino».
«Be’, sono contento che tu sia qui. Quella è roba da mangiare?»
«Sì, tutto cibo per te. Volevo preparare una lasagna da farti trovare stasera».
«Lasagna fatta in casa… Oh, sì. Adoravo la lasagna fatta in casa della signora Gordon. Be’, fatta in casa dalla cooperativa di Kinnear. Una tazza di tè?»
«Sì, volentieri. E forse potrei preparare dei pancake con lo sciroppo d’acero, che ne dici?». Gli mostrai la bottiglia di sciroppo d’acero che avevo comprato. «L’avevo presa per la colazione di sabato».
«Oh. Bene, molto, molto bene. Sono sempre affamato il weekend; stavo quasi pensando di cominciare ad andare al bar La piazza…».
«Allora ho rubato un cliente a mia madre!», risi, mescolando uova, farina e latte in una ciotola.
«Ma hai preso un sacco di roba», disse, sbirciando nella credenza. «Fammi sapere se ti servono altri soldi…». Sembrava preoccupato.
«Niente affatto. Gli alimenti base costano molto meno dei takeaway».
«È da tempo immemore che compro solo latte, prosciutto e biscotti».
Alzai gli occhi al cielo, sbattendo l’impasto. «Sei lo stereotipo dell’uomo imbranato!».
«Non è questione di essere un uomo, tra noi tre la peggiore è mia sorella. I suoi figli si nutrono di sandwich al formaggio. Sembra che nessuno della mia famiglia si diletti in cucina».
«Tutto l’opposto della mia allora! Noi cuciniamo e mangiamo un sacco. Anche troppo, credo», dissi indicando i miei fianchi prosperosi, e pentendomene immediatamente. Forse non era il caso di portare l’attenzione sui miei fianchi. Solo che la conversazione era stata così spontanea e amichevole che non ci avevo badato.
«Niente affatto, stai benissimo», riuscì a dire, e stavolta fui io ad arrossire. «Oh, no», disse, tutt’a un tratto.
«Che c’è?»
«Mi sono appena ricordato di non avere una padella».
«Lo so che non ce l’hai. Ne ho comprata una. Be’, due», dissi, tirandole fuori dalla mia sportina. «Ta-daaa!».
Lui sorrise. «Stai rifornendo ben bene la mia cucina!».
«Ascolta, qualunque essere umano possiede una padella. Dovevo prenderla».
«Devi dirmi quanto…».
«Sssh!».
«Okay. Okay. Ma sinceramente…».
«Non comprerò nient’altro. Promesso».
«Affare fatto. Santo cielo, sei veloce…», disse mentre imburravo la padella, la mettevo sul fuoco e cominciavo a sfoderare dei pancake impeccabili.
«Una volta lo facevo per lavoro».
«Lo vedo», disse, ammirato, e nei fu contenta. Molto contenta. Di fatto, ero sorpresa di quanto mi facesse piacere quel piccolo apprezzamento.
«Oh, mi sono dimenticato il tè», disse, accendendo il bollitore e prendendo due tazze dalla credenza.
Cinque minuti dopo, avevo pronta una bella pila di pancake allo sciroppo. Lui si sedette al tavolo, piegando sotto le sue lunghe gambe. Notai ancora una volta quanto fosse alto e robusto, e improvvisamente la cucina mi sembrò molto più piccola.
«Sono meravigliosi», esclamò, prendendo un bel boccone.
«Oh, grazie». Non potevo dargli torto. «Quindi, di voi tre… Voglio dire tu e i tuoi fratelli… sei stato tu che ti sei preso in carico la gestione di tutta questa proprietà». Spalancai le braccia per indicare Ramsay Hall e i terreni circostanti. «Dove vivono loro? Non possono partecipare un po’?»
«Sheila vive a Perth, vicino a mia madre. Non è neanche lontanamente interessata. Per lei Ramsay Hall è solo uno spreco di denaro. In realtà questo è ciò che pensa mia madre; Sheila si limita a eseguire a bacchetta i suoi ordini. Se non fosse stato per la scuola di equitazione, mia madre avrebbe già venduto tutto».
«A bacchetta?», risi. Immaginai Lady Ramsay con una divisa militare, che urlava i suoi ordini a destra e a manca.
«Sì. Non hai idea».
«Sembra una donna terribile».
«Mmm», annuì. «Lo è. Mia madre e mia sorella non sono tra le persone che amo di più al mondo. Lo so che sembra una cosa orribile…», si passò una mano tra i capelli: lo faceva spesso, era un gesto inconsapevole, come sistemarsi gli occhiali, «ma purtroppo è così».
All’improvviso un raggio di sole trapassò le nuvole e attraverso il vetro raggiunse il nostro tavolo. Fece luccicare la bottiglia di sciroppo come oro liquido, e illuminò i capelli rosso ruggine di Torcuil.
«No, niente affatto. Lo capisco. Le famiglie possono essere difficili da gestire. Mio marito…», esitai. Il solo pensiero di Ash mi faceva venire un nodo allo stomaco, di risentimento e nostalgia. «Mio marito ha una relazione molto complicata con sua madre. Penso che mia suocera e tua madre siano molto simili. Lei in realtà lo tratta molto male».
«Dev’essere difficile. Voglio dire, è difficile. Lo so per esperienza».
«È molto doloroso per lui, sì. Penso… penso che questo lo abbia davvero segnato». E molto più di quanto avessi creduto.
«E così vi siete separati».
Deglutii. «Sì. per un po’. Forse per sempre, chi lo sa? Per il momento è tutto in sospeso, non so che cosa succederà…». Mi accorsi che avevo iniziato a strappare il tovagliolo in milioni di pezzetti, quindi mi fermai di scatto.
«Mi dispiace, non avrei dovuto chiedertelo», disse lui.
«No, è tutto a posto, non ti preoccupare. Dimmi di tuo fratello».
«Be’, Angus è cinque anni più piccolo di me e fa il violinista in un gruppo folk. Ha davvero un gran talento; devo portarti a un suo concerto».
«Vive qui a Glen Avich, vero?»
«Avich, non Avick», rise.
«Scusa, faccio del mio meglio! Sono anglo-italiana, ricordi? Prima che mia madre si trasferisse qui, per me la Scozia era solo un posto intravisto in TV. Non ho avuto il tempo di prendere lezioni di dizione scozzese!».
«Sembri una londinese, davvero».
«E infatti lo sono. In un certo senso».
«Lo parli, l’italiano?»
«No, ma lo capisco. In realtà i miei nonni non parlavano proprio italiano; parlavano il piemontese, un dialetto franco-italiano. Comunque, mi stavi raccontando di Angus…».
«Oh, sì, Angus abita sì a Glen Avich, ma non ha mai davvero vissuto qui a Ramsay Hall. È andato in collegio e poi a Glasgow a studiare musica».
«Anche tu sei stato in collegio?»
«Non mi ci hanno mandato, per fortuna. Io comunque volevo rimanere qui. Ho frequentato le scuole del posto e poi sono andato all’università a Londra. Avevo grossi problemi di asma, quindi mi hanno tenuto a casa».
«Oh… ecco perché hai detto che la cucina e la camera da letto sono gli unici posti dove riesci a respirare! Qui è pieno di polvere, dappertutto!». Adesso ero spaventata. E se avesse avuto un attacco quando era lì da solo? Lo conoscevo a malapena e già mi preoccupavo per lui.
«Lo so, lo so, ma ci vorrebbero settimane per pulire tutta la casa e tutti i soprammobili e i libri e i quadri…».
«Lara e io ci metteremo al lavoro. Okay, forse soltanto io. Un po’ alla volta sistemeremo tutto. Considera che sono un disastro nelle faccende domestiche».
«Buono a sapersi, visto che dovresti essere la mia nuova governante».
«Scusa!», risi, dando un morso al pancake. «Ma purtroppo dovrai accontentarti di quello che passa il convento. Scherzo, naturalmente».
«Stai scherzando nel senso che in realtà sei bravissima nelle faccende domestiche?»
«No, sono davvero pessima. Scherzavo sul fatto che ti tocca accontentarti di ciò che passa il convento. Scommetto che c’erano un bel po’ di persone che avrebbero voluto questo lavoro. Voglio dire, un posto così bello…».
«Non credo».
«Perché?»
«Be’, un sacco di gente pensa che Ramsay Hall sia un posto inquietante».
«Lo è. Ma è una dimora splendida. Se fosse ristrutturata…».
«Non possiamo permettercelo. La gente pensa che i Ramsay abbiano un mucchio di soldi, ma non è vero. Angus fa il musicista; io il professore. E ho detto tutto». Alzò le spalle. «Semplicemente non possiamo permetterci di ristrutturare questa casa».
«Hai mai pensato di aprirla al pubblico?»
«Non posso».
«Perché?»
«Ci sono i fantasmi».
Risi. «Potrebbe essere un’attrazione turistica! Un vero castello infestato!».
«Sì, prova tu a convivere con i fantasmi».
Risi di nuovo. Poi mi ricordai dell’ombra dietro la finestra e della porta dello scantinato che si era chiusa, e la risata mi morì sulle labbra. Se glielo avessi detto, avrebbe pensato che ero matta?
«Torcuil?»
«Sì?»
No. Era una cosa troppo strampalata. «Niente».
«Dimmi».
«No, è tutto a posto. Davvero».
«Hai qualcosa che ti frulla in mente», disse spingendo indietro la sedia e alzandosi. Fui colpita dal fatto che si preoccupasse di quello che pensavo, e tutt’a un tratto, mentre lo osservavo appoggiato al davanzale con la sua tazza di caffè, a piedi nudi, i capelli ancora umidi dopo la doccia, il mio cuore ebbe un piccolo sussulto.
Il che non era una buona cosa.
«Non dici sul serio, vero? Non hai visto davvero un fantasma?», dissi tutto d’un fiato.
Torcuil aprì la bocca come per dire qualcosa, ma ci ripensò. «Certo che no. Non dire sciocchezze».
Mi sentii davvero una stupida per aver fatto quella domanda. Decisi di cambiare subito argomento.
«Ieri ho conosciuto Stoirin. Fiona mi ha fatto fare un giro nelle scuderie».
Gli si illuminò il viso. «Stoirin è bellissima, vero? La moglie di mio fratello, Isabel, era l’unica che riusciva a montare Stoirin, a parte me».
Notai che aveva usato il passato. Non sapevo se fosse il caso di chiedergli cosa fosse successo a Isabel. Lui dovette leggermi nella mente, perché si affrettò a spiegare.
«È mia cognata… Ecco, non sta molto bene. Diciamo che non può uscire di casa».
«Oh… mi dispiace molto».
«Sì. Ormai sta così da un paio d’anni e sono sei mesi che non mette più piede fuori. Fisicamente sta bene, ma… c’è qualcosa nella sua mente che… la paralizza. I medici dicono che potrebbe essere una forma di ansia, ma non si sa…».
«Capisco». Povera Isabel. Provai un moto di compassione per lei. «Se c’è qualcosa che posso fare…».
«Sei molto gentile. Ma non credo. Nessuno può far niente», disse, e c’era un tale dolore nelle sue parole e sul suo viso, che parve che una nuvola fredda e nera fosse entrata nella stanza. Sembrava che ci tenesse molto a lei.
«Hai visto cosa ho fatto in giardino?», mi affrettai a chiedergli, cercando di risollevargli l’umore.
«No… Sono arrivato ieri sera quando era già buio, e oggi non sono ancora uscito», rispose, e si alzò per andare alla finestra. «Perché, cosa è successo?»
«Prova a dare un’occhiata», dissi sorridendo. Lui aprì la porta e uscì – era una mattina piovigginosa, il cielo era grigio, ma a quanto pareva non gli importava e andò lo stesso a piedi nudi. Gli scozzesi sono così: sembrano immuni al freddo e all’umidità. Si guardò intorno, e un sorriso gli danzò sul volto.
«Lo hai ripulito tutto. Grazie», disse. E poi: «Grazie», ripeté a voce bassa. E guardò altrove, verso il cielo grigio.
Quella sera, mentre preparavamo i dolci per il bar, non riuscivo a smettere di pensare a Isabel. Feci un’infornata di amaretti, i biscotti alla mandorla dal sapore un po’ dolce e un po’ amaro, che per me richiama il gusto agrodolce della vita. Ne infilai qualcuno in una bustina di carta e la richiusi con un nastro. PER ISABEL, scrissi con un pennarello argentato.
Cercai di contattare Torcuil per chiedergli se potevo salire in macchina a lasciargli il pacchetto, ma non rispose al telefono. Non avevo idea di dove abitasse Isabel, così camminai fino a casa di Inary, mentre nel cielo della sera galoppavano nuvole grigie e il vento soffiava forte.
Lei mi accolse con un sorriso. «Oh, Margherita, entra pure».
«Non c’è bisogno, sono solo venuta a…», cominciai, e poi il viso di Torcuil fece capolino dietro di lei.
«Ciao», disse passandosi come al solito la mano tra i capelli.
«C’è qui Torcuil, stiamo bevendo un po’ di whisky», disse Inary. «Voi unirti a noi?». Si fece da parte per farmi passare.
«Veramente non posso. Devo aiutare mia madre a pulire tutto, sai che la sera prepara un sacco di dolci per il bar. Ho fatto questi biscotti per Isabel, volevo salire in macchina a Ramsay Hall ma non hai risposto al telefono…». Oh, dio, adesso sembrava che lo stessi perseguitando.
«Torcuil non è per niente affidabile con il telefono, Margherita!», disse Inary.
«Scusa». Sembrava davvero turbato e mi sentii terribilmente in colpa.
«No, è tutto a posto, davvero non è stato un problema venire qui a piedi, e comunque alla fine ti ho trovato. Buonanotte!». Lasciai il pacchettino profumato nelle mani di Torcuil e praticamente scappai via.
Appena arrivai a casa, il mio telefono fece bip.
“D’ora in poi terrò d’occhio il telefono. Grazie per i biscotti per Isabel. Buonanotte. T.”.
Sentii nel petto un impeto di felicità, e mi domandai quale fosse la ragione.
Capitolo 18
Il dono
Torcuil
Sono ancora sbigottito dopo l’apparizione di Margherita a casa di Inary. Avrei tanto voluto che rimanesse. Avrei dovuto chiederle di rimanere. Adesso me ne sto in corridoio con un pacchetto di biscotti per Isabel, senza sapere bene cosa fare.
«Torcuil?». Inary sta sorridendo. «Vieni, te ne verso un altro».
«Devo essere proprio trasparente, immagino».
Ecco, adesso mi farà un sacco di domande. Domande a cui non so rispondere perché non so nemmeno io che cosa provo e cosa penso.
Voglio dire, non è affatto normale prendersi una cotta a trentasei anni, vero? Può andar bene finché ne hai quindici, di anni.
“Quindi ti prego, Inary, non farmi domande, non adesso”, dico tra me e me.
«Margherita è stata così carina, non è vero? A preparare i biscotti per Isabel. Le hai raccontato la situazione?»
«Sì, diciamo per sommi capi».
“Ti prego, ti prego, ti prego, basta”. Miracolosamente, Inary si impietosisce e cambia argomento.
«Chissà se sono successe delle cose in casa quando Margherita era lì. Sai cosa intendo».
So cosa intende, sì. Perché quando ho detto a Margherita che Ramsay Hall era infestata dai fantasmi, non mentivo.
«È probabile».
«E glielo dirai?»
«Be’, le ho detto dei fantasmi, e lei ha pensato che scherzassi, ovviamente. Glielo lascerò credere. La signora Gordon pensava che le cose strane che succedono… tu lo sai bene, gli oggetti che cambiano posto, cose del genere… dipendessero semplicemente dal fatto che era sbadata, e io glielo lasciavo credere».
«Che cattiveria!», ride lei. «Hai convinto la signora Gordon che stava perdendo la testa».
«Non l’ho convinta affatto! Era lei che lo pensava. Semplicemente non l’ho contraddetta».
«La signora Gordon è sulla sessantina. Margherita è giovane. Se cominciano a succedere le stesse cose, non penserà che è distratta e si dimentica le cose. Comincerà a farsi delle domande. E che cosa farai allora?»
«Mi inventerò qualcosa, immagino. Tanto, se le dicessi la verità non mi crederebbe».
«Magari invece…».
«È del tutto improbabile».
«Sì, immagino di sì. Ti ricordi Lewis, il mio ex?»
«Oh, sì. L’idiota che ti ha lasciata».
Lei sorrise. «Grazie per la solidarietà. Comunque, a lui l’avevo detto. Ed è per questo che mi ha lasciata. Voglio dire, certo che c’era anche dell’altro, ma quello è stato il motivo principale. Ha detto che avevo bisogno di farmi aiutare. Lo ha detto in modo delicato, ma praticamente intendeva dire che ero pazza».
«È terribile. Quel…».
«Quindi sì, capisco cosa intendi quando dici che Margherita non ti crederebbe, perché in effetti Lewis non mi ha creduta. Non avrebbe mai potuto credermi, se fossimo rimasti insieme. Avrebbe continuato a pensare che avevo le allucinazioni o sentivo le voci».
«E Alex lo sa?»
«Certo che sì. Lui pensa che sia una cosa meravigliosa», sorride. «Ed è qui che voglio arrivare: Lewis non mi credeva, ma Alex sì. Devi solo scegliere la persona giusta a cui dirlo. A Izzy per caso l’hai…? Oh». Si blocca. «Scusa, non volevo impicciarmi…».
«Glielo avrei detto, ma non era mai il momento giusto, e poi se n’è andata. Solo i miei genitori e i fratelli lo sanno. E tu. Nessun altro».
«E se dovessi trovare di nuovo qualcuno?»
«Non penso proprio che succederà».
«Perché no? Perché a te non dovrebbe succedere?»
«Oh, Inary, non lo so. Molto spesso è questione di fortuna, non è così?»
«Sì, ma devi anche volerlo, Torcuil. Se non ti fai mai avanti…».
Basta, vorrei davvero cambiare argomento. «Comunque, volevi sapere se lo direi, a questa fantomatica donna che probabilmente non incontrerò mai? Non lo so, se vuoi una risposta sincera. A te l’ho tenuto nascosto per anni, ricordi?»
«E io naturalmente non ho mai avuto nessun sospetto. Gli uomini non dovrebbero avere il Dono; si tramanda solo per linea femminile».
«Devo avere una sorta di malformazione genetica».
«È questo che pensi che sia? Una malformazione genetica?».
Alzo le spalle. «Non lo so. Forse».
Per un attimo cala il silenzio, ed entrambi prendiamo un altro sorso di whisky. Oh, adesso sì che mi sento meglio. Caldo e confortante, il whisky avvolge tutto nella sua luce dorata.
«Inary?»
«Sì?»
«E se lo dicessi a Margherita e lei reagisse come Lewis?»
«Allora significherebbe che non si merita questa rivelazione».
Mentre torno a casa scrivo un messaggio a Margherita.
“Avrei voluto che restassi. Sogni d’oro, T.”.
Ma poi lo correggo e scrivo: “D’ora in poi terrò d’occhio il telefono. Grazie per i biscotti per Isabel. Buonanotte. T.”.
Sospirando, premo il tasto di invio.
Capitolo 19
Piccolo amore (2)
Margherita
Il venerdì successivo, dopo aver terminato il mio lavoro, rimasi a Ramsay Hall ad aspettare che Torcuil tornasse da Edimburgo. Ci eravamo scambiati messaggi per tutta la settimana. Solo brevi e semplici scambi – più che altro buongiorno e buonanotte, e che tempo fa. Ma io li conservavo con grande cura. In un certo senso mi avevano fatto compagnia per tutta la settimana. C’erano state delle lunghe telefonate tra me e Anna, e ci eravamo raccontate nei minimi dettagli che cosa facevamo e come stavano i bambini, ma in un certo senso i messaggi di Torcuil stavano diventando quasi altrettanto preziosi.
Quel pomeriggio però lui non si presentò, e non mandò messaggi. Io ero delusa, e allo stesso tempo arrabbiata con me stessa per come mi sentivo. Alle cinque dovevo essere a casa per prendermi cura di Leo e permettere a mia madre di riposarsi prima di iniziare a preparare i dolci per il giorno dopo. Così mi incamminai verso casa, molto delusa e anche spaventata dall’intensità della mia delusione.
“Mi dispiace, non ho fatto in tempo a incontrarti, giornata folle al lavoro, sono appena arrivato. Che ne dici di venire alle scuderie domenica con Lara e Leo?”.
Il messaggio apparve sul mio cellulare mentre Leo, Lara e io eravamo in cucina a mangiare dei toast al burro, prima di portare a letto Leo e metterci a preparare i dolci per il bar. Leggendolo, sentii le farfalle nello stomaco.
«Chi è, mamma?», chiese Lara.
«Soltanto Torcuil», dissi, fingendo indifferenza, e le lanciai un’occhiata. Era impegnata a spezzettare il toast di Leo, e grazie al cielo non sembrava molto interessata al messaggio di Torcuil. «Mi chiede se domenica vogliamo andare a cavallo. Ti piacerebbe andare a vedere i cavalli, Leo?», domandai.
Lui fece un gran sorriso. «Sì! posso andare su un cavallo?»
«Be’, forse, se Fiona ti tiene ben stretto e il cavallo va piano, piano. Vedremo. Tu ci stai, Lara?»
«Certo!», disse lei illuminandosi, e diede un morso al toast. Aveva legato i lunghi capelli in una treccia adagiata su un lato, e indossava una minigonna color giallo acceso con le ballerine nere e le calze nere. Inary le aveva regalato dei vestiti che non indossava più, e per Lara erano preziosissimi. Ancora una volta notai quanto fosse più allegra adesso, come sembrasse riposata, visto che da quando eravamo arrivati dormiva tutte le notti senza interruzioni. Non c’era più traccia della sua rabbia, anche se a essere sinceri non era mai accaduto che si sfogasse con me, con suo padre o con Leo. Era successo soltanto a scuola. O con la mia cara suocera.
«Che c’è?», chiese sorridendo.
«Oh, scusa. Ti stavo fissando?»
«Sì! Di nuovo!».
«Scusa!». Mi misi subito sulla difensiva. «È che sei molto carina».
«Sei molto caina», ripeté Leo.
«Mamma! Smettila! E anche tu, Leo, smettila!», disse, e si avvicinò a darci un bacio prima di varcare la portafinestra e dileguarsi in camera sua.
* * *
Domenica Leo fu il primo ad alzarsi. Stavo ancora dormendo quando saltò sul mio letto.«Mamma! Svegliati! Dobbiamo andare a cavallo! Mi metti gli stivali?»
«È un po’ presto, tesoro». Mi sforzai di sollevare la schiena. Lara si aggirava per la stanza, gli occhi ancora socchiusi.
«Che ore sono?», biascicò.
«È tardissimo, è ora di andare», disse Leo allegramente. «Devo portare i miei Transformers».
«Non penso proprio che ne avrai bisogno».
«Ti prego, mamma!».
«Va bene, va bene!», risposi, intenerita, e guardai l’orologio. «Non sono neanche le sette!».
«Io torno a letto», disse Lara, scontrosa.
Leo la prese per mano. «Ma non puoi! I cavalli ci stanno aspettando!». Non potei fare a meno di ridere. Questo lo dicevo sempre io quando eravamo in ritardo per l’asilo: “La tua maestra ti sta aspettando”.
«I cavalli adesso stanno dormendo, Torcuil ci ha detto di andare verso le nove. Mancano ancora più di due ore», dissi, cercando di farlo ragionare. «Perché non ci rilassiamo un po’ qui, giochiamo e poi…».
«Voglio mettere gli stivali».
Fu irremovibile. Dovetti cedere e alzarmi. Decisi di portare Leo al bar per perdere un po’ di tempo. Michael la domenica arrivava sempre sul presto per cucinare i piatti del giorno. Cercai di prepararmi più lentamente possibile ma qualche minuto dopo le otto eravamo già pronti per uscire.
Leo corse lungo il vialetto si infilò subito nella cucina del bar.
«Sai che andiamo a cavallo?»
«Sei arrivato presto, giovanotto!», disse Michael. In cucina c’era un delizioso profumo di coriandolo e noce moscata.
«Sì, perché i cavalli ci stanno aspettando», spiegò Leo.
«Scusa se siamo piombati qui a quest’ora. Dobbiamo essere a Ramsay Hall intorno alle nove e questo giovanotto è in piedi già dalle sette».
«Be’, si vede che ci tiene parecchio! Fai pure colazione, Margherita. Sai usare la macchina del caffè, vero?»
«Oh, sì, posso prepararti un espresso o qualcos’altro?»
«Non bevo quando sono in servizio». Sorrise. «E poi, se il tuo caffè è come quello che fa tua madre, non posso berlo. Non dormirei per una settimana».
Mi presi del caffè e un po’ di torta che mamma e io avevamo preparato la sera prima, e diedi a Leo e Lara del latte caldo e una bella porzione di torta ciascuno. Leo era così emozionato che non riusciva a stare fermo. Finalmente arrivò l’ora di andare.
«Allora noi andiamo, ci vediamo dopo!».
«Divertitevi!», disse Michael facendomi l’occhiolino.
Mi aveva fatto l’occhiolino.
Perché mi aveva fatto l’occhiolino?
Per essere simpatico! Semplicemente per questo, dovevo smetterla di essere paranoica.
«Salutami Lord Ramsay», gridò poi, mentre uscivamo.
Allora no, non ero affatto paranoica: Michael mi stava prendendo in giro. Okay, avrei fatto finta di niente.
Il povero Leo dovette aspettare ancora mezz’ora, perché tutti i cavalli erano già stati presi dagli allievi della scuola di equitazione. Torcuil era in tenuta da equitazione e non indossava gli occhiali; teneva Stoirin a briglie lente, come se la portasse per mano. Si vedeva chiaramente che tra loro c’era un legame profondo. Ogni tanto, Stoirin strofinava il naso contro la sua testa. Era ancora più bella ora che la vedevo per la prima volta fuori dal suo box: il manto di una calda tonalità di marrone luccicava nel sole, lucido e immacolato, come se fosse stata lavata con qualche unguento esotico, e la sua criniera svolazzava dolcemente nel vento. Pensandoci bene, sembrava che ci fosse sempre una leggera brezza a Ramsay Hall.
«Allora, che dici? Vuoi montarla?», propose Torcuil mostrandomi che aveva un altro cap.
«Dài, mamma», mi incoraggiò Lara.
« Dài, mamma», le fece eco Leo, che con la manina continuava ad accarezzare Stoirin.
«Non so… Non sono mai salita su un cavallo…».
«Non ti farà cadere. Te lo garantisco», disse Torcuil.
«So che non lo farebbe. Non lo faresti, vero?», dissi dolcemente, accarezzando la criniera di Stoirin. Ma quella giumenta mi sembrava così grande. «Magari un’altra volta».
«Io vorrei salirci», disse Lara, e mi guardò.
«Vai pure», sorrisi.
Torcuil le porse il cap. «Ecco», dissi.
Ero così fiera di lei e solo un po’ in ansia mentre infilava i piedi nelle staffe e si sollevava sul cavallo, con l’aiuto di Torcuil. Stoirin sbuffò e barcollò leggermente, ma per il resto rimase imperturbata.
«Come va?», le chiesi, anche se non ce n’era assolutamente bisogno. Si vedeva che era raggiante.
«Benissimo! Wow! Posso… andare da qualche parte?»
«Be’, potresti, ma Stoirin non è abituata a seguire un percorso fisso, le piace allontanarsi un po’. Per te va bene?»
«Non penso che dovresti. È la prima volta…», protestai.
«Mamma!».
«Andrà tutto bene. Davvero, Margherita, te lo prometto. Tu sei una ragazza dolce, non è vero, Stoirin?». Torcuil sembrava sicuro, quindi mi rilassai un po’. Non avrebbe messo in pericolo mia figlia.
«Lara, se credi che stia andando troppo veloce, tira le redini…».
«Le farà male?»
«Certo che no», disse Torcuil, «è come se le stessi parlando. Le stai solo dicendo che vuoi rallentare un po’».
«Okay».
«Pronta?».
Lara annuì. Forse poteva anche essere pronta, ma io mica tanto.
«Vai, Stoirin, da brava», la incitò Torcuil, dandole un colpetto sul fianco.
«Oh!». Sul viso di Lara si spalancò un sorriso enorme mentre Stoirin cominciava a trottare sulla ghiaia e poi per i campi. Avevo il cuore in gola e mi tremavano le ginocchia, ma finsi che fosse tutto a posto.
«Non ti preoccupare. Andrà tutto bene», disse Torcuil con sicurezza. Sentii che il nodo allo stomaco si scioglieva un po’, ma non del tutto.
Lara montava Stoirin come se fosse sempre andata a cavallo. La vidi aumentare un po’ il passo poi tirare le redini quando Stoirin andava troppo veloce. Sembrava avere il controllo della situazione. La guardavo ammirata.
«Ha un talento innato», disse Torcuil, dando voce ai miei pensieri. «E tra poco arriverà anche il tuo turno, vero?», disse a Leo.
«Sì, voglio andare sul cavallo più grande di tutti!».
«Niente affatto, tu andrai sul pony più piccolo di tutti», replicai, senza distogliere gli occhi da Lara che trottava per i campi.
«Lui può montare Sheherazade», disse, indicando una piccola giumenta che Fiona stava tenendo per le briglie. «Le lezioni finiscono appena scocca l’ora, quindi ci siamo quasi». Guardò l’orologio.
«Mamma! Guarda! Peppa Pig!», disse Leo indicando il braccio di Torcuil. E in effetti indossava un orologio di Peppa Pig.
«Torcuil? Sei un fan di Peppa Pig?»
«Oh, questo? È solo provvisorio. Il mio orologio si è rotto. Questo lo abbiamo trovato nelle scuderie. Nessuno è venuto a reclamarlo e io odio fare shopping».
«Oh, io invece adoro fare shopping. Spero di riuscire ad andare presto a Aberdeen con Lara e mamma. Prima che l’estate finisca e arrivi il momento di tornare a Londra».
Lui ebbe un attimo di esitazione, come se fosse rimasto turbato, o sorpreso, da quello che avevo appena detto. «Certo, ci sarà tempo per quello», disse. «C’è ancora un sacco di tempo. Prima che torniate a casa, intendo».
«Sì. Certo», mi affrettai a dire. Ma lui non rispose. Distolse lo sguardo, e per un attimo tra noi calò il silenzio.
La lezione era finita e le ragazzine stavano smontando dai pony. Aspettammo che si allontanassero insieme alle madri e poi ci avvicinammo.
«Fiona, pensi che Leo possa cavalcare un po’ Sheherazade?», chiese Torcuil.
«Assolutamente sì! Vieni, giovanotto», disse lei, e lo prese per mano, conducendolo verso la pila di caschi da equitazione poggiati sulla panchina di legno. Scelse il più piccolo e lo fece indossare a Leo. Lui era così emozionato che non riusciva a stare fermo.
Avevo il cuore in gola quando Torcuil lo sollevò e lo mise sopra Sheherazade, che non protestò e rimase fermo. Quel pony era l’immagine della mansuetudine mentre Fiona cominciava a condurlo lentamente in cerchio e Torcuil sorreggeva Leo, tenendogli una mano sulla schiena.
«Mamma! Guarda! Sto su un cavallo!».
«Proprio così! Bravissimo!», esclamai, in parte fiera e in parte terrorizzata. Lanciai un’occhiata a Lara, che stava ancora trottando con Stoirin e sembrava avere il perfetto controllo della situazione.
Camminammo lentamente in circolo, e un pensiero che mi ribolliva nella mente già da un po’ finalmente risalì in superficie. «Torcuil, stavo pensando…».
«Sì?».
Esitai.
«E se venissi a Ramsay Hall un giorno in più a settimana? Ovviamente non dovresti pagarmi. Mi piacerebbe…». Alzai le spalle, volevo fargli capire quanto desiderassi salvare Ramsay Hall dal declino. Mi prudevano le mani tanto era il desiderio di sistemare tutti i bellissimi angoli abbandonati di quella dimora. «…Aiutarti a sistemare le cose».
Lui sgranò gli occhi e si bloccò un istante. «È un lavoro immane. Non ce la faresti mai in sei settimane…».
«Non tutto, no… ma in parte, almeno. Sarebbe comunque un inizio».
«Non potrei chiederti di…».
«Mamma!». La voce di Lara ci interruppe. Mi voltai di scatto, il cuore in gola, temendo che fosse in pericolo – ma lei stava tornando al trotto in tutta calma, come se cavalcasse Stoirin da una vita.
«Com’è stato?»
«Fantastico! Ti prego, posso tornare un’altra volta?»
«Certo. Vieni quando vuoi», rispose Torcuil, aiutandola a smontare. «Che ne dici della prossima domenica?»
«Non possiamo certo chiedere di…», iniziai.
«Ti sei appena offerta di aiutarmi con Ramsay Hall. In cambio permettimi di offrirti questo. Insegnerò a Lara a cavalcare Stoirin e Fiona darà lezioni a Leo. Che ne dici?».
Lara continuava a spostare lo sguardo da me a Torcuil e viceversa. Desiderava disperatamente che dicessi di sì.
«Okay, per me va bene», dissi.
«Grazie, mamma!». Lara era pazza di gioia. «E tu sei una ragazza adorabile, non è vero?», disse, gettando le braccia intorno a Stoirin. «Tornerò presto a farti visita». La giumenta strofinò il naso contro il collo di Lara proprio come aveva fatto con Torcuil, e lei chiuse gli occhi estasiata.
«Ed eccoci qua». Da dietro le spalle mi arrivò la voce di Fiona. Stava aiutando Leo a smontare. «Sheherazade ha un’altra lezione adesso, ma sei stato bravissimo, Leo», disse con dolcezza.
Leo mi prese subito la mano. «Mi hai visto? Hai visto come andavo a cavallo?»
«Certo che ti ho visto! Ero proprio qui! Sei stato fantastico!», dissi, arruffandogli i capelli.
«Posso tornare un’altra volta?»
«Sei il benvenuto, Leo», disse Torcuil con fare solenne, e Leo annuì con altrettanta serietà. Era buffo, e davvero commovente, vedere come quest’uomo senza figli riuscisse istintivamente a instaurare un rapporto con un bambino di tre anni mai visto prima. Mi stupivo di quanto fosse rilassato in presenza di Leo, di come lo guardasse e ridesse delle cose buffe che diceva, e mi domandavo come mai fosse solo e non avesse anche lui una famiglia.
Ci avviammo verso casa nel sole di mezzogiorno, e io non riuscivo a smettere di pensare a come aveva reagito Torcuil quando avevo accennato al nostro ritorno a Londra. Quell’estate, che quando era iniziata mi sembrava infinita, sarebbe volta presto al termine – breve e fugace come la vita di una farfalla. Il tempo che stavo trascorrendo a Glen Avich era un momento di tregua, una piccola pausa tra le note di uno spartito. La nostra vita, quella vera, ci stava aspettando a Londra, e prima o poi saremmo dovuti tornare alla realtà.
Sulla via del ritorno ci fermammo al bar La piazza, per raccontare a tutti della nostra mattinata a cavallo. Leo e Lara erano raggianti.
«Allora, vi siete divertiti?». Mia madre sorrise.
«Sì. E il prossimo weekend ci torniamo!», disse Lara, togliendosi la felpa al calore del fuoco.
«Bene, allora penso che dovrò portarvi io, perché vostra madre potrebbe essere impegnata».
Come? Come faceva a sapere che mi ero offerta per fare un po’ di straordinari a Ramsay Hall?
«Be’, lavorerò solo un giorno in più alla settimana. Sarò comunque libera nei weekend…».
«Lavorerai un giorno in più a settimana? Che intendi?». Mia madre era sbalordita.
«Ho proposto a Torcuil di aiutarlo a sistemare Ramsay Hall. Era a questo che ti riferivi?»
«No!». Mia madre fece un sorriso compiaciuto, quel sorriso che significa: “Io so qualcosa che tu non sai”.
«E a che cosa allora?». Cominciavo a sentire una scintilla di eccitazione.
«Be’, ricordi quei torcetti che hai preparato ieri? C’era una signora qui con una sua amica, e le sono piaciuti da impazzire. Ha scritto un libro e lo presenterà domenica pomeriggio a Aberdeen. Mi ha chiesto se ti avrebbe fatto piacere occuparti del catering!».
Per un attimo rimasi ammutolita. «Stai dicendo sul serio?»
«Oh, mamma, è fantastico! Devi accettare!», esclamò Lara.
«Certo che lo farà!». Mia madre si piegò e per un attimo scomparve dietro il bancone, per riemergere subito con un bigliettino in mano. «Questo è il suo biglietto da visita. Ha detto di chiamarla per i dettagli. Dice che le dispiace per lo scarso preavviso, ma si tratta solo di un piccolo evento, quindi non devi preoccuparti».
Guardai il biglietto. Era nero con un uccello giallo e rosa nell’angolo.
«Carlotta Nissen», lessi. «Scrittrice, Master Reiki, life coach, yogini… Caspita!».
«Eh, già! È per il lancio del suo ultimo libro. Qualcosa sul sole liquido, non ricordo bene. A proposito, lei è danese. Vuoi farle uno squillo adesso?»
«Oh, sì, grazie!», risposi, e andai nel retro. Davanti alla cucina c’era un piccolo cortile con un muretto di pietra, e mi sedetti lì per fare la telefonata. Era così strano, che mi stesse accadendo tutto questo.
«Carlotta?»
«Sì?»
«Salve, sono Margherita, del bar La piazza».
«Oh, ciao! Sono così felice che tu mi abbia chiamata!». Aveva un leggero accento esotico, misto alla cadenza tipicamente scozzese.
«Mi sono piaciuti tantissimo i tuoi biscotti. Come si chiamano… Torseti?»
«Quasi! Torcetti. Ne hai provati anche altri?»
«Ho assaggiato anche quei dolcetti ripieni di crema al caffè … Erano incredibili!».
«Oh, sì, le bignole…».
«Bi…?»
«Bignole», ripetei.
«Ecco, quelle. Speravo, se non sei troppo impegnata, che magari potessi prepararmi un assortimento di biscotti e dolcetti. Presenterò il mio primo libro venerdì alla libreria Waterstones di Aberdeen. Lo so che ti sto dando solo un brevissimo preavviso…».
«Niente affatto, quando lavoravo al ristorante dovevo improvvisare un dessert per otto persone nel giro di poche ore! Davvero, c’è un sacco di tempo!».
«Grandioso! Speravo che potessi preparare anche un po’ di stuzzichini salati da accompagnare col vino…».
«Certo! Se vuoi posso continuare con le specialità italiane. Salatini, pizzette…».
«Non so bene cosa siano, ma sembrano buoni! Già solo a sentirli nominare…».
«E che ne diresti di qualche biscotto nei sacchettini trasparenti come ricordino? Sai, con un bel nastro e un’etichetta con su scritto GRAZIE PER ESSERE VENUTI?»
«Sarebbe fantastico. Potresti farne, diciamo, una sessantina? Sarà una piccola presentazione, ma ci saranno un bel po’ di persone con i contatti giusti…».
«Certamente. Grazie davvero tanto. Per me è una grandissima opportunità…».
«No, grazie a te. Non posso credere di essere stata così fortunata. Voglio dire, quando ho assaggiato quei biscotti, erano così buoni che ho pensato che fosse impossibile che la persona che li aveva preparati avesse il tempo di occuparsi del catering per la mia presentazione!». L’accento di Carlotta era adorabile, come un’allegra cantilena, il tono che si alzava alla fine di ogni frase.
«Be’, sono qui soltanto temporaneamente. Al momento non sto proprio lavorando…».
«Sì, tua madre me l’ha detto. Ma penso che dovresti preparare qualche biglietto da visita da portare alla presentazione. Ho il sospetto che ne avrai bisogno».
Capitolo 20
Si era perso qualcosa
Margherita
Quella notte riuscii a malapena a dormire per l’eccitazione. Avevo incaricato Lara di creare con il computer di Michael le etichette con la scritta grazie per essere venuti, e avevo cercato in internet tutto quello che mi serviva – piccoli sacchetti trasparenti, nastri, inchiostro e carta per stampare. Il giorno dopo presi la macchina e andai dai fornitori del bar La piazza a comprare gli ingredienti per evitare di saccheggiare la dispensa di mamma.
«Non c’era bisogno di andare da sola, Margherita. Avresti dovuto chiedermi di accompagnarti…», disse Michael, tirando fuori un grosso sacco di farina da cinque chili dal bagagliaio della mia macchina.
«Tu sei già abbastanza impegnato!».
«Mai troppo impegnato per la mia figliastra», disse.
«Grazie per avermi permesso di usare la vostra cucina, Michael. Ve ne sono davvero grata».
«È bello vederti felice. E questo è solo l’inizio!».
Era davvero così? Ripensai a quello che aveva detto Carlotta, che avrei dovuto preparare qualche biglietto da visita, e sentii le farfalle nello stomaco. Era tutto così eccitante, ma faceva anche un po’ paura.
Tanto per cominciare, quale indirizzo avrei messo sui biglietti da visita, se avessi deciso di stamparli?
Glen Avich era solo una soluzione temporanea, naturalmente, mi dissi. E poi mi ricordai del piccolo scambio che avevo avuto con Torcuil alle scuderie, e ancora una volta avvertii una stretta al cuore.
«Se hai bisogno di una cavia per le tue creazioni, sono disponibile!», disse Michael strofinandosi le mani dopo aver maneggiato i sacchi di farina.
«Lo terrò presente. Be’, adesso vado…». Ero impaziente di cominciare i miei esperimenti in cucina, ma avevo promesso a Torcuil che avrei fatto un giorno di straordinario a Ramsay Hall e pensai che sarebbe stato meglio togliermi subito il pensiero, per poi concentrarmi sui dolci nei quattro giorni che mi rimanevano.
«Ah, sì? Pensavo fossi impaziente di cominciare».
«Sì, lo sono infatti, ma…». Stavo per dire a Michael che dovevo andare a Ramsay Hall, quando mi ricordai dell’occhiolino che mi aveva fatto il giorno prima. Non volevo dargli un ulteriore appiglio per prendermi in giro.
«Io… ho delle cose da fare. Per qualche ora».
«Come vuoi. Tua madre è più che felice di prendersi cura di Leo, e io sono a posto con il bar, quindi puoi andare…».
Ma io gli avevo già stampato un bacio veloce sulla guancia e, dopo un sentito grazie, mi catapultai fuori dalla porta.
Preparare un catering per un evento di sessanta persone era niente rispetto a tutto quello che c’era da fare a Ramsay Hall. Durante il breve giro che avevamo fatto con Torcuil, avevamo visto solo una piccola parte delle meraviglie di quella dimora. Avevo deciso che avrei convinto Torcuil ad aprirla al pubblico, qualunque motivo avesse per non farlo, qualunque vera preoccupazione si celasse dietro le sue battute sui fantasmi.
Ero seduta in cucina davanti a una pila di stampe botaniche che stavo spolverando una a una, mentre pensavo a quali biscotti avrei preparato per i ricordini di Carlotta. Avevo già fatto un sacco di lavoro quella mattina, ed ero molto soddisfatta. Perlopiù si trattava di eliminare qualche tonnellata di polvere per aiutare Torcuil con la sua asma e di aprire decine di finestre per fare entrare aria fresca. Nei giorni successivi mi sarei dedicata ai vetri. Mi ero appena fermata per riposare un poco e bere una tazza di tè, quando dalla pila di stampe incorniciate si levò un’allegra melodia che risuonò in tutta la casa, rimbalzando sulle pareti. Sobbalzai e mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che si trattava del mio telefono, che avevo lasciato sul tavolo accanto a me mentre strofinavo quelle sudicie cornici di legno. Era Torcuil.
«Lord Ramsay?», dissi, con una punta di ironia.
«Margherita. Grazie al cielo hai risposto».
Mi preoccupai. «Cosa è successo?»
«Ho bisogno di chiederti il più grande favore di tutti i tempi. Un favore enorme».
«Dimmi», risposi, posando la stampa di una petunia in cima all’interminabile pila. Quante stampe di piante, fiori e radici può possedere una famiglia?
«Oggi terrò una conferenza alla Società di storia medievale scozzese. È un evento importantissimo e ci ho messo settimane per prepararmi. Gli appunti della conferenza sono salvati su una chiavetta USB, che ho lasciato a Ramsay Hall. E io sono a Edimburgo. Puoi capire il problema. La conferenza è tra…», una piccola pausa, «due ore e venti minuti, quindi non ce la farei a venire e tornare».
«Non hai salvato gli appunti sul tuo laptop?»
«No».
«Perché?». Decisi di lasciarlo per un attimo sulle spine.
«Perché sono un cretino. E ho bisogno anche dei miei appunti scritti a mano, che sono nello stesso raccoglitore. Ti prego, solo tu puoi salvarmi la vita. Avrei chiesto a Inary, ma tra pochi giorni ha la consegna del manoscritto e…».
«E tu hai pensato: “Ehi, cosa potrebbe avere da fare Margherita stamattina a parte pulire settantadue stampe botaniche della mia collezione di famiglia?”». Risi, avvitando il tappo del lucido per legno.
«Settantadue? Ce ne sono così tante?»
«Sì, le ho contate. Comunque certo, non c’è problema. Devo solo avvisare mia madre e prendere la macchina. Dov’è la chiavetta con gli appunti?»
«Sulla mia scrivania, in un raccoglitore azzurro».
«Oh», sospirai, e mi diressi verso lo studio di Torcuil.
«Sì, capisco cosa intendi, ma ho messo in ordine qualche settimana fa… O è stato prima di Natale? Comunque dovrebbe essere facile da…».
«Torcuil? Torcuil?», chiamai. Era caduta la linea. A Ramsay Hall il segnale era piuttosto ondivago: non si poteva mai sapere quando sarebbe spuntato e quando sarebbe caduto. Mentre entravo nel tremendo caos che era lo studio di Torcuil, il telefono squillò di nuovo.
«Sì, eccomi. Sto cercando il raccoglitore sulla scrivania. Ma è come uno scavo archeologico…», dissi, spostando le pile di fogli e libri.
«È azzurro. Non puoi non vederlo».
«Torcuil, in questo caos sarebbe difficile vedere anche un trattore arancione fosforescente. Oh, aspetta…». Tutt’a un tratto le pile di documenti e stampate sembrarono scompigliarsi e risistemarsi, e uno scorcio azzurro apparve tra i fogli. Spalancai gli occhi. La mia mente mi stava giocando qualche scherzetto, o i fogli si erano appena spostati da soli?
«Lo hai trovato?»
«Non ancora. Ho bisogno di tutte e due le mani per scavare dentro… tutto questo. Ti richiamo».
«Okay».
Guardai i fogli con circospezione, poi li rispostai finché riuscii a vedere di nuovo un lampo di blu cobalto. Afferrai subito il raccoglitore come per impedirgli di muoversi – sì, proprio così – e mi guardai intorno.
Non era la prima volta che mi accadeva una cosa del genere. L’attrezzatura per le pulizie non sembrava essere mai nello stesso posto. E già diverse volte era successo qualcosa con la mia borsa: non la ritrovavo mai dove l’avevo lasciata al mio arrivo. Se la lasciavo sul tavolo della cucina, la ritrovavo sul davanzale della finestra. Se la lasciavo sul davanzale della finestra, la ritrovavo accanto alla porta. Sembrava spostarsi a suo piacimento. Ma non avevo accennato nulla a Torcuil o a Lara. Temevo che mi dicessero che ero impazzita. Non volevo che l’immaginazione di Lara prendesse il sopravvento, soprattutto dopo le battute sulla signora Rochester imprigionata in soffitta.
Mi rifiutavo di credere che ci fosse qualcosa di strano, che non fossi io a dimenticare dove mettevo le cose. Eppure non ero il tipo che scordava le cose. O forse erano i gatti di Torcuil – anche se i gatti non spostano le borse.
Un piccolo campanello d’allarme stava squillando in un angolo della mia mente, ma non potevo permettermi di ascoltarlo. Era tutto troppo strano.
Con il raccoglitore al sicuro nelle mie mani, mi incamminai verso casa di mia madre per prendere la macchina. Non c’era nessuno a casa – probabilmente erano tutti al bar. Le mandai velocemente un messaggio per farle sapere dove stavo andando e per controllare che fosse tutto a posto con i bambini.
“Stiamo tutti bene. Divertiti con Torcuil”, rispose lei. Era più o meno quello che aveva detto Michael quando avevo portato i bambini a cavallo – “Buon divertimento. Salutami Lord Ramsay”.
Decisi di non farci caso neppure stavolta.
Guidare fino a Edimburgo fu bellissimo. I colori di agosto, soprattutto il verde rigoglioso, intenso, vitale, dipingevano un paesaggio saturo, pronto a cedere all’autunno, la sua maturità un segno della fine imminente. C’era un accenno di autunno nell’aria, anche se era solo l’inizio di agosto – o forse quest’anno l’estate scozzese era così gelida da farsi beffe di me, inducendomi a credere che fosse già finita.
Mi feci largo attraverso la città e riuscii a trovare un parcheggio – un miracolo perché le strade erano strapiene di turisti. Con Torcuil avevamo appuntamento davanti alla Società di storia medievale scozzese, un bellissimo edificio georgiano in quella che viene chiamata la New Town.
«Non potrò mai ringraziarti abbastanza», disse. «Ascolta… Se devi tornare da Leo e Lara va bene, non ti preoccupare, davvero, ma se invece… No, probabilmente devi tornare. Devi, vero?»
«Be’, non proprio. I bambini sono con mia madre, e comunque adesso avrei dovuto essere al lavoro da te». Alzai le spalle guardandomi intorno. «Penso che mi prenderò un po’ di tempo per me e farò una passeggiata». Non ero mai stata a Edimburgo. Quel poco che avevo visto era così bello e pieno di atmosfera che volevo scoprire di più.
«Ah. Ah, ottimo. Allora forse potresti aspettarmi da qualche parte… E forse potremmo incontrarci… E forse potremmo mangiare un boccone insieme per pranzo? O forse no?».
Sperai per lui che durante la conferenza facesse sfoggio di migliori capacità oratorie.
«Hai detto un sacco di forse! Certo, perché no?»
«Bene! Grandioso». Si passò una mano tra i capelli – di nuovo quel suo tic nervoso. «Hai un buon senso dell’orientamento?», mi chiese in un tono serio che mi fece ridere.
«Sono un piccione viaggiatore. Hai presente quella donna nel navigatore satellitare? Sono io».
«Davvero? Io potrei perdermi nella mia stessa casa».
«Succederebbe a chiunque, considerato dove vivi».
«Immagino di sì. A ogni modo, intorno all’una avrò finito. Forse ci possiamo incontrare da qualche parte lontano dalla folla delirante. Penso di conoscere il posto giusto».
«Perfetto».
«Ottimo! Quindi posso mandarti a fare un giro di ricognizione e rivederti di nuovo qui all’una e mezza?»
«Certo. Ci vediamo dopo. In bocca al lupo per la conferenza!».
«Grazie», rispose mostrandomi la chiavetta, come per ringraziarmi. Mi ricordai di quando mi era parso di vedere i fogli spostarsi sulla scrivania, rivelando il raccoglitore che giaceva lì sotto, e ancora una volta mi domandai se dovessi dirglielo.
Un paio d’ore dopo, eravamo seduti ai Dovecot Studios, una galleria d’arte con una caffetteria piuttosto appartata rispetto alle principali mete turistiche. Edimburgo pullulava di turisti e artisti di strada – stava per iniziare il Fringe Festival. L’atmosfera era frizzante, caotica e piena di vita ed eccitazione. Era sorprendente il contrasto tra la folla di musicisti e attori e i pesanti edifici grigi.
«È come se all’improvviso in una cattedrale fosse esploso un carnevale, se capisci cosa intendo», dissi a Torcuil.
«Sì, è proprio così! Un sacco di persone si lamentano, dicono che i festival sono una seccatura, che la città si riempie e non ci si può più muovere, con tutta la gente che ti lancia in faccia i volantini. Ma io li adoro. È tutto così…».
«Pieno di vita».
«Esattamente!». Il viso di Torcuil si animava mentre parlava. Era la prima volta che rimanevamo seduti a lungo uno di fronte all’altra, e notai che i suoi occhi cambiavano colore con la luce. A volte erano azzurri, a volte verdi…
Ahi ahi.
Non avrei dovuto notare che i suoi occhi cambiavano colore, o sbaglio? O come gli stesse bene la giacca di lana blu scuro. E non avrei dovuto essere così contenta di passare un po’ di tempo con lui.
Per un attimo mi sentii in imbarazzo, ma Torcuil continuava a chiacchierare e in qualche modo me ne dimenticai. Mi dimenticai di sentirmi in imbarazzo. Mi dimenticai di sentirmi inopportuna.
Stare con lui, parlare con lui, era così facile.
«…E quindi ho avuto un attimo di smarrimento e mi sono quasi bloccato, ma grazie al cielo mi sono ripreso. Parlo in pubblico da anni e ancora mi rende nervoso. Non so come faccia Angus a salire sul palco con tutte quelle persone che lo guardano... Oh, ecco qui. Grazie», disse alla cameriera, che posò davanti a noi due ciotole bollenti di Cullen skink, una zuppa di pesce affumicato. «Ti piacerà da morire, Margherita. Non posso credere che tu non abbia mai provato la Cullen skink».
«Ha un profumo fantastico. Presto voglio provare anche l’haggis. Il mio patrigno ha promesso che me lo cucinerà».
«Mmm. Io di solito tendo a non mangiare gli intestini».
Risi. «Ma non mangi nessun intestino! Sono solo frattaglie e avena cotte nello stomaco della pecora! Non dovrei essere io a spiegartelo, sei tu lo scozzese qui!».
«Se è per questo, non mangio neppure le frattaglie. Che te ne pare della zuppa?»
«Meravigliosa. Anche da noi abbiamo una cosa del genere. Si chiama minestra bianca… È una zuppa che si prepara con latte, riso e verdure».
«Sembra buona. Allora, prima facevi la cuoca?»
«Sì, nella mia vita precedente sì. Facevo la pasticcera. E a proposito, ho delle novità».
«Racconta».
«Mi hanno chiesto di occuparmi del catering per la presentazione di un libro. Si terrà a Aberdeen questo venerdì».
«Fantastico! Sei qui da nemmeno un mese e sei già richiestissima». Non mi stava adulando – sembrava onesto, sincero.
«Questa tizia ha provato i miei biscotti al bar di mia madre e, be’, le sono piaciuti moltissimo. Ovviamente verrò comunque a lavorare a casa tua questo weekend…».
«Non preoccuparti per quello. Mi accontenterò di vederti…». Ebbi un tuffo al cuore quando entrambi ci rendemmo conto di quello che aveva appena detto – e lui chinò la testa, imbarazzato, non appena quelle parole gli furono uscite di bocca.
Mi accontenterò di vederti.
«Be’, sono certa che…», cominciai, altrettanto confusa.
«Ma perché hai smesso?», mi interruppe, e io gli fui grata per aver cambiato argomento.
«Intendi perché ho smesso di lavorare? Per stare a casa con i bambini».
«Lo ha fatto anche mia sorella. È durata un anno prima che la noia la facesse impazzire. Scusa, riformulo… Prima che la sua noia facesse impazzire noi».
«Sì, non è per tutti, ma io adoravo stare e a casa con loro. E ora… Be’, le cose per me sono cambiate e sono pronta ad aprirmi di nuovo al mondo. Vedi, all’inizio pensavo di poter riuscire a svolgere un lavoro part-time e contemporaneamente prendermi cura dei bambini, ma Lara è sempre stata…». Esitai. Di solito ero restia a condividere i particolari della storia di Lara. Non volevo che fosse etichettata come “quella che è stata adottata”, che fosse giudicata esclusivamente in base al suo passato. Lasciavo sempre pensare a tutti di essere la sua vera madre, in modo che fosse lei a decidere se parlarne o meno. Ma con Torcuil era diverso. Lui sembrava una persona così… gentile. E solida. Una persona con cui potevi parlare, senza paura che tradisse la tua fiducia; che spargesse in giro parole dure e sconsiderate su di lei, dietro le sue spalle, come semi di inquietudine.
«Lara è stata adottata quando aveva sei anni. Ha sempre avuto bisogno di me. Molto. Ecco perché ho lasciato il lavoro».
Torcuil annuì, mentre io aspettavo con una certa trepidazione di sentire che cosa avrebbe detto. «Mi sembra che Lara abbia qualcosa di speciale, è una ragazzina sveglia e creativa. E molto intelligente».
Sorrisi. Aveva detto le cose giuste.
«È vero. È molto talentuosa. Sta seguendo dei corsi extra a scuola… Inglese e scrittura creativa. Sono così fiera di lei».
«Lo vedo. I tuoi occhi si illuminano quando parli di Lara».
«L’abbiamo aspettata per tanto tempo. Lei è stata… un dono. Vedi, la mia famiglia è tutto per me», dissi, guardando nella mia zuppa. Quelle erano parole molto intime, e difficili da pronunciare ad alta voce. «Le cose non stanno andando esattamente come avevo programmato…».
Torcuil annuì. «So esattamente cosa intendi».
Per un momento fui indecisa se chiederglielo o meno. «Sei stato sposato?».
Lui sorrise e scosse la testa. «No, no. Mai».
«Oh, scusa. Solo che quando hai detto che sapevi cosa intendevo…».
«Cioè, so com’è quando le cose non funzionano come avevi programmato».
La tristezza gli adombrò il viso per un momento; era ora di cambiare argomento. «Bene, io ho adocchiato una di quelle…», dissi, indicando le torte esposte.
«Pensi che saranno buone come le tue o quelle di tua madre?»
«Mai. Ma per stavolta mi accontenterò». Risi.
Scelsi una fetta di torta alle mele e cannella, mentre Torcuil ordinò un altro caffè. Al tavolo accanto al nostro era seduta una coppia di anziani. Erano imbacuccati nelle loro giacche pesanti, anche se non faceva troppo freddo. Capii immediatamente che si trattava di turisti. La donna guardò verso di me.
«Guarda che bella signora scozzese…», disse in italiano al marito.
Io ridacchiai.
Torcuil sorrise. «Che c’è di divertente?»
«I signori accanto a noi», bisbigliai, avvicinandomi a lui in modo che loro non potessero sentire, «sono italiani. Hanno appena parlato di me. Hanno detto che sono una bella signora scozzese!». Ridacchiai di nuovo. «Hanno sbagliato tutto».
Torcuil guardò dritto nel caffè, come se ci fosse qualcosa di estremamente interessante dentro la tazza. «Be’, non tutto. Hanno sbagliato solo a pensare che fossi scozzese».
Rimasi senza parole.
Mentre guidavo verso casa, mi ritrovai a desiderare che venerdì arrivasse presto, così avrei rivisto Torcuil – e immediatamente, per un milione di motivi diversi, mi sentii schiacciata da un enorme senso di colpa e di vergogna.
Ma era stato così bello. Era stato splendido rimanere seduti a chiacchierare, ridere e ascoltarci reciprocamente. Come se finalmente quello che dicevo contasse per qualcuno. Come se qualcuno avesse gioia e piacere a stare in mia compagnia. Non riuscivo a ricordare l’ultima volta in cui mi ero sentita così, e ora che quella piccola parte del mio cuore si era di nuovo aperta, sapevo che sarebbe stato difficile richiuderla.
“Grazie per oggi. Notte. T.”.
Il suo messaggio di buonanotte, semplice come sempre, arrivò quella sera.
“Grazie. Spero di rivederti anche prima di venerdì. Voglio dire, ormai non rimane molto tempo prima che finisca l’estate, e sono stata così bene oggi…”, cominciai a scrivere.
E poi cancellai tutto.
“Grazie per la tua compagnia. Buonanotte. M.”.
Questo fu tutto ciò che mi concessi di scrivergli.
Capitolo 21
Acque calme
Lara
Cara Kitty,
ho passato ore a stampare e ritagliare etichette per mia madre, e mi è piaciuto moltissimo. Penso che verranno fuori delle bomboniere fantastiche e sono così emozionata all’idea di andare a una vera presentazione di un libro. Verrà anche Inary, quindi sarà perfetto.
Quando ho finito sono andata a fare due passi. Non che fossi andata a cercare Mal, ovviamente. Stavo semplicemente passeggiando e per una fortunata coincidenza mi è capitato di imbattermi in lui. Era di nuovo al lago. Era immobile a guardare l’acqua. Il suo viso si è illuminato quando mi ha vista, e così anche il mio. Ovviamente non mi sono specchiata, ma me ne sono accorta. È stato come se mi si fosse accesa una lampadina in testa e avesse illuminato tutto.
«Ciao», l’ho salutato, e proprio allora è arrivata una folata di vento e una ciocca di capelli mi si è attaccata al lucidalabbra.
Oddio che imbarazzo.
Ma mentre staccavo la ciocca dalle labbra, lui sembrava non farci caso.
«Ehi, Lara. Ciao, come stai?». Ha sollevato la testa di lato, come fa sempre. Come se volesse davvero ascoltare, come se fosse davvero interessato alla tua risposta e non te lo stesse chiedendo solo per pura formalità. Hai presente quel tipo di persone che vogliono davvero sapere come stai?
«Sto bene. Stavo facendo un lavoro per mia madre, e poi sono uscita. Solo per fare una passeggiata, sai. Senza nessun motivo in particolare. Tu?»
«Non lo so».
«Non sai che cosa?»
«Non so come sto».
«Adesso ci sono qua io», gli ho detto. Gli ho tolto uno sbaffo di fango dalla guancia e gli ho preso la mano; non sembrava più così smarrito.
«Non ti preoccupare», ha detto, e mi ha stretto forte la mano. «Vieni. Voglio mostrarti una cosa».
«Cosa?», gli ho chiesto.
«Aspetta e vedrai», ha detto con un sorriso.
Mi ha guidata lungo la riva oltre Ramsay Hall, quasi fino a raggiungere l’altra sponda del lago. Abbiamo camminato in silenzio, e sentivo il mio respiro riecheggiare nell’aria. Ho notato che il suo passo era davvero silenzioso e si muoveva sull’erba e sulla riva sassosa quasi senza emettere un suono.
A un tratto si è fermato e mi ha posato un dito sulle labbra. Mi è sembrata una cosa strana che mi toccasse le labbra, e penso di essere arrossita perché il mio cuore ha avuto un sussulto e mi sentivo le guance calde. Ho annuito.
Lui mi ha preso di nuovo la mano, e ci siamo avvicinati così tanto alla riva che eravamo quasi dentro l’acqua. Sembrava che volesse farmi immergere, e forse a quel punto avrei dovuto essere un po’ nervosa, e invece non lo ero.
Per qualche motivo, mi fidavo di lui.
Mi ha stretto la mano indicando qualcosa tra i giunchi.
E lì, in un morbido nido fatto di erba e alghe, era rannicchiata una lontra. Dormiva e c’era un cucciolotto accoccolato contro il suo corpo, il pelo bagnato e lucente e il nasino rosa confetto. Ero senza parole dalla meraviglia e ho sorriso in silenzio. Riuscivo a percepire la gioia di Mal nel vedermi sorridere, e per un momento siamo stati uno dentro l’altro – se così si può dire. Non riesco a pensare a un modo migliore per descriverlo, è stato come se io e lui fossimo una sola persona. E io ero felice, ma avevo tanto freddo. Tanto, tanto freddo tutto all’improvviso. Non so bene perché. Ho sentito un brivido lungo il corpo.
E d’un tratto l’incantesimo si è spezzato. Mamma lontra si è svegliata e ha cominciato a muoversi. Io ho guardato Mal preoccupata, ma lui ha scosso la testa e mi ha stretto di nuovo la mano come a dire: “È tutto a posto”.
La lontra è sgusciata nel lago così velocemente che a stento ha fatto increspare l’acqua, e il suo cucciolo è rimasto solo nel nido. Ha emesso un suono acuto, chiamandola – e il mio cuore stava per spezzarsi quando la sua mamma è emersa dal lago e ha strofinato il naso su di lui. Penso che stesse dicendo: “Va tutto bene, torno presto”, e il cucciolo deve aver capito il messaggio perché si è rannicchiato di nuovo come una pallina e non l’ha più chiamata.
Mal mi ha tirato delicatamente la mano e ci siamo allontanati.
«Fanno il loro nido lì ogni anno», ha sussurrato. «A volte vengo a salutarle».
Ho aperto la bocca per dire qualcosa – qualsiasi cosa, magari quanto fosse carino il cucciolo di lontra – ma mi è venuto fuori qualcos’altro. «Sai una cosa?». Ho guardato a terra. Probabilmente a questo punto ero diventata rosso fuoco, ma non m’importava.
«Cosa?»
«Speravo che fossi lì. Diciamo che sono venuta a cercarti».
«Sai una cosa?», ha detto lui.
Ho continuato a guardare a terra, ma ho percepito un sorriso nella sua voce.
«Cosa?»
«Io ero lì perché speravo di vederti».
Mi ha scostato una ciocca di capelli dietro le orecchie. E poi mi ha accarezzato la guancia.
Nessuno mi ha mai fatto qualcosa del genere prima.
Cioè, nessun ragazzo mi ha mai fatto qualcosa del genere.
Sentivo che stavo per sciogliermi da un momento all’altro.
Mi ha preso le mani nelle sue – erano ghiacciate, e le ho tenute strette, cercando di riscaldarle un po’ – e mi ha stretto forte a lui. È stato perfetto.
Finché l’ho sentito rabbrividire – un brivido così violento che lo ha fatto sobbalzare.
«Lara, penso che adesso dovremmo andare, mi dispiace», ha detto, così, all’improvviso. Un’altra delle sue uscite inaspettate.
«Oh. È tutto a posto», ho risposto. Ma in realtà ci sono rimasta davvero malissimo.
«È solo che sono molto stanco adesso».
Stanco? Era malato o qualcosa del genere?
«È tutto a posto, davvero. Adesso vado…». Ho indicato dietro di me, facendogli capire che sarei tornata indietro da sola.
«Allora ti rivedrò presto?». Mi stava quasi supplicando, e mi è dispiaciuto per lui, anche se non sapevo neppure perché.
«Sì, certo».
«Lo prometti? Perché tutti gli altri se ne sono andati».
«Certo. È una promessa…», ho risposto, ma prima che potessi fare un altro respiro se n’era già andato, scomparso tra gli alberi in quel modo silenzioso che ha di muoversi. I suoi capelli scuri e la sua giacca si sono fusi con l’oscurità del bosco, fino a diventare un tutt’uno.
E questo è quanto, Kitty.
Mi sono incamminata verso casa da sola, e sto già contando le ore che mancano per rivederlo.
Sai, sono felice anche per il solo fatto che esista.
Anche per il solo fatto che lui sia in questo mondo.
Capitolo 22
Tempo per noi
Margherita
Lara e io stavamo preparando dei dolci, provando diverse ricette dal taccuino di nonna Ghia, per decidere quale scegliere per la presentazione di Carlotta. I risultati delle nostre fatiche erano allineati sul tavolo a raffreddare, ed emanavano un profumo meraviglioso – tortine e biscotti, pizzette assortite e salatini di pasta sfoglia. Lara era di fronte a me e passava al setaccio lo zucchero a velo sulla nostra nuova creazione – avevamo provato le tortine di mele, ed erano venute leggere e gustose. Avevamo preparato anche le paste di meliga, un biscotto tradizionale piemontese che non facevo da tempo.
«Le tortine non si possono usare per le bomboniere, ci vogliono dei biscotti secchi. Ma possiamo comunque prepararle per il buffet, che dici?».
Nessuna risposta. Lara era appena stata da Inary, e adesso la sua mente era altrove; era persa nei suoi pensieri. La guardai, e ancora una volta pensai a quanto fosse bella, anche se non ne era consapevole, convinta invece di non esserlo. Quei capelli ondulati per lei erano crespi. Quegli occhi azzurri, del colore del cielo d’estate, per lei non erano niente di speciale; quelle gambe affusolate per lei erano troppo esili. Le lentiggini quasi invisibili che aveva sul naso e che io trovavo irresistibili, per lei erano semplicemente brutte. Non riusciva a vedere ciò che tutti gli altri, non solo io, vedevano: la bellezza che stava sbocciando poco a poco, fino al giorno in cui sarebbe diventata parte di lei. Avevo una teoria: che fosse proprio la bellezza di Lara il motivo principale per cui Polly e Tanya – e le loro amichette – erano così crudeli con lei. Cercavano costantemente di convincerla che erano più belle di lei, nel timore che lei decidesse di svegliarsi e alzare la cresta. Ero davvero contenta che Lara si fosse allontanata da loro, almeno per un po’.
Quando le avevo detto quello che pensavo, lei non mi aveva creduta. Dopotutto, quale adolescente accetta di sentirsi dire da sua madre che è bellissima?
«Lara?»
«Sì? Scusa, cosa stavi dicendo?»
«Solo che le tortine di mele non vanno bene per le bomboniere».
«Ah, sì. Vero», rispose, ma si capiva che stava pensando a tutt’altro. Che cosa la preoccupava?
«Quindi la rivedrai presto?»
«Chi?»
«Inary, intendo». A chi altro avrei potuto riferirmi?
«Sì». Sorrise – un sorriso sincero – e tolse delicatamente un po’ di zucchero a velo dal bordo di un piatto. «Andremo insieme a fare shopping a Aberdeen».
«Fantastico», dissi, ma provai una punta di gelosia. Volevo andarci io a fare shopping con Lara. Ma poi misi a tacere quella vocina gelosa che avevo in testa: non era giusto da parte mia pensare quelle cose. E Lara aveva bisogno di nuove amicizie. Inary era molto più grande di lei, ma sembravano avere molto in comune.
«Bene. Quindi quando pensi di farlo?»
«Be’, prima speravo di farmi un giro a Aberdeen con te, mamma. Dopo la presentazione, intendo».
Sorrisi dentro di me. Per quanto fosse stupido da parte mia, ero felice che mia figlia volesse andare a fare shopping prima con me.
«Vorrei provare di nuovo le lenti a contatto». Lara sognava le lenti a contatto ormai da due anni ed eravamo andate dall’ottico già due volte, ma entrambe le volte era andata male. Lara diceva che il pensiero di infilarsi qualcosa nell’occhio le dava i brividi.
«Certo, perché no? Cercheremo un ottico a Aberdeen e fisseremo un appuntamento».
«Grazie… Spero che stavolta non mi mettano le dita negli occhi».
«Be’, diciamo che bisogna per forza farlo, se vuoi metterti le lenti».
«Uffa…».
«Ehi, andrà bene. Sai che la tua zietta, Anna, porta le lenti a contatto e le adora. Stavolta ci riusciremo, ne sono certa».
«Lo spero. E poi…».
«Cosa?»
«Mi piacerebbe tagliarmi i capelli», disse, arruffandosi le onde morbide e sporcandole di zucchero. Avevo sempre pensato che i suoi capelli fossero color oro antico, come la cornice di un vecchio dipinto.
Ci rimasi malissimo.
«Ah».
«Mamma, non sono più una bambina e i miei capelli sembrano una balla di fieno!».
«Non è vero! Sono bellissimi!».
«Mamma. Ho deciso così».
Sospirai. «Giusto. Sono i tuoi capelli…», dissi, toccandomi la chioma pesante e scura che non avrei tagliato per niente al mondo.
«Infatti», disse lei infastidita.
«Ma sono splendidi…», riprovai.
«Mamma!».
«Okay, okay!». Alzai le mani in segno di resa.
Dovevo ammettere che era dura vedere Lara crescere, trasformarsi in una donna, ma opporsi non sarebbe servito a nulla. E poi sospettavo che questo nuovo look avesse qualcosa a che fare con il misterioso Mal. Un giorno, mentre preparavamo i dolci per il bar, aveva parlato di sfuggita di questo ragazzo.
«Allora, questo Mal è un tuo nuovo amico?», avevo chiesto, fingendo indifferenza.
«Sì», era stata la risposta di Lara. Aveva detto soltanto questo, senza aggiungere nulla.
«Okay. È simpatico?»
«Sì, certo che lo è. Non sarei sua amica se fosse una brutta persona, non credi?», aveva esclamato.
«Va bene, va bene, scusa».
«Okay».
«Solo che forse sarebbe carino conoscerlo…».
«Mamma!».
E così si era conclusa la nostra conversazione. Io l’avevo guardata un’ultima volta con aria supplicante, ma lei mi aveva lanciato un’occhiataccia, così avevo deciso di lasciar perdere.
Con l’intenzione comunque di tenere d’occhio questo suo nuovo amico, ovviamente.
«Sono sicura che Lara ce lo presenterà appena ne avrà l’occasione», aveva commentato mamma diplomaticamente quando le avevo sottoposto la questione. Ripensai a quanto avevamo sofferto le mie sorelle e io a causa di mio padre tutte le volte che in casa veniva nominato un ragazzo, e non volevo essere possessiva come lui, anche se era stato sempre affettuoso. A rivederla ora, era una cosa tenera. Ma io dovevo permettere a Lara di farsi le sue esperienze.
Sempre entro certi limiti.
«Senti, Lara, perché non ne approfittiamo? Posso accompagnarti a provare le lenti a contatto e a tagliare i capelli, e magari facciamo un po’ di shopping per il tuo nuovo look».
«Sarebbe splendido! Magari questo weekend?»
«Chiederò a Nonnina se posso lasciarle Leo. Se dice di sì…».
«Dice sempre di sì», mi fece notare Lara senza il minimo accenno di gelosia. Era da tanto che non la vedevo così sicura di sé, e aveva un ottimo rapporto con mia madre e Michael.
«È vero, sì. E ora vediamo come sono venute queste tortine», dissi, addentandone una.
Capitolo 23
Nuovi inizi
Margherita
Carlotta era in piedi con un microfono in mano, e con grande disinvoltura riusciva a calamitare l’attenzione di tutta la sala nonostante fosse bassa e minuta. Aveva un taglio corto e sorridenti occhi marroni, e indossava un vestitino giallo acceso – era luminosa come il titolo del suo libro. Le copie di Sole da bere erano impilate sul tavolo accanto a lei, sistemate davanti a un poster che la ritraeva con la copertina del libro.
«Le tue etichette sono perfette», sussurrai a Lara, che era in piedi accanto a me. Ci aveva messo come sfondo un cielo azzurro pieno di nuvole soffici, e un piccolo sole giallo in un angolo.
Lei sorrise raggiante. I nostri sacchettini di biscotti, chiusi con il nastro blu e decorati con le etichette di Lara, facevano un gran figurone sul vassoio accanto ai libri, mentre le nostre pietanze erano esposte meravigliosamente nei piatti vintage di mia madre. Non vedevo l’ora che gli ospiti si lanciassero sul buffet, anche se a essere sinceri ero un po’ nervosa.
«Ho voluto completare la mia esperienza come life coach con le mie ricerche sulla filosofia orientale…», stava dicendo Carlotta, ma io non riuscivo a concentrarmi sulle sue parole; riuscivo solo a pensare al momento in cui gli ospiti si sarebbero avvicinati ai tavoli in fondo alla sala e avrebbero assaggiato il cibo che avevo preparato con tanta cura e amore. Una parte di me sapeva che non avevo nulla di cui preoccuparmi, avevamo assaggiato tutto ed era delizioso, ma un’altra parte si chiedeva che cosa sarebbe successo se gli ospiti non avessero gradito. Non potevo fare a meno di pensarci. «…Per aiutare i miei clienti a identificare quelli che io chiamo bisogni profondi e raggiungere il loro punto di coronamento…».
Finalmente, dopo un esercizio di respirazione profonda – che invece mi lasciò senza fiato, mentre Lara ridacchiava – la presentazione finì e gli ospiti si radunarono intorno al buffet. Cercai di non dare nell’occhio mentre mi confondevo tra la folla, tenendo le orecchie tese per sentire i commenti.
«Sembra che stiano spazzolando tutto…», sussurrai a mia madre, cercando rassicurazioni.
«Assolutamente sì! Perché non dovrebbero? È tutto delizioso, e lo sai».
«Lasceranno solo le briciole. E poi leccheranno i piatti», disse Lara.
«Questo sarebbe un po’ troppo…».
«Ed eccoti qua!». Carlotta si avvicinò, rossa in viso e felice dopo il discorso di ringraziamento e tutti i complimenti che le avevano fatto. «Abby, questa è Margherita. Ascolta, Margherita, Abby avrebbe bisogno… Lascerò che sia lei stessa a dirtelo».
Una giovane donna dagli occhi sorridenti mi strinse la mano. «Allora tu sei la famosa Margherita!».
«Proprio famosa non credo…».
«Be’, Carlotta si è innamorata delle tue creazioni, e adesso capisco perché!».
«Grazie. Non sono esattamente le mie creazioni; sono vecchie ricette, solo che fuori dall’Italia sono poco conosciute».
«Allora spargeremo la voce! Stavo pensando, siccome presto festeggerò il mio addio al nubilato… Faremo una festa nella spa a casa dei miei genitori, tra un paio di mesi. Forse, se non sei troppo impegnata… Voglio dire, ci saranno un po’ di ragazze lì, sarebbe una buona occasione per ampliare la tua rete di contatti, proprio come un evento pubblico».
«Oh, che peccato, Abby. Tra due mesi non sarò più qui… Rimango a Glen Avich solo per l’estate».
«Oh, no! Ci contavo così tanto…».
«Per adesso prenda pure questo e poi vediamo come va», disse Lara, tirando fuori dalla borsa un bigliettino. «Ecco il biglietto da visita di mia madre».
Il mio biglietto da visita? Lara mi aveva fatto dei biglietti da visita? Pensavo che non avessimo ancora preso una decisione in merito.
«Oh, grazie. Posso averne due? Mia cugina farà battezzare presto suo figlio e non si sa mai», disse Abby. «È stato bello incontrarti, spero di rivederti presto!».
«Lo stesso per me», dissi. E poi, a Lara: «Biglietti da visita?»
«Un omaggio della ditta Prontaprint! Sono un po’ amatoriali, ma è il meglio che sono riuscita a fare in meno di una settimana».
«Amatoriali?», risi. Non avevamo certo un’impresa professionale! Non avevamo fatto altro che preparare qualche biscotto e infilarlo nei sacchettini.
«Sono bellissimi», disse mia madre. E lo erano davvero: erano tutti bianchi con le lettere blu, che richiamavano i colori del bar La piazza.
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GLEN AVICH
«Ho pensato di farli semplici. Il meno è il più», disse Lara in tono solenne.
«Sei stata così carina, Lara! Non ne avevo idea!».
«Volevo che fosse una sorpresa», rispose lei sorridendo.
«Quanti ne hai stampati?»
«Duecentocinquanta».
«Duecentocinquanta? Ma qui c’è scritto “Glen Avich”, e noi dobbiamo ripartire tra poche settimane…».
«Be’, io…».
«Penso di essere arrivato troppo tardi. Non c’è più niente da mangiare». Era Torcuil, materializzatosi accanto a me all’improvviso. Lara si voltò e si allontanò, raggiungendo Inary dall’altra parte della sala. Ne avremmo parlato dopo, ma potevo immaginare benissimo che cosa stava cercando di dirmi…
«Che ci fai tu qui?», chiesi a Torcuil.
«Sto cercando una life coach, non te l’ho detto?»
«Ah, sì?», risi.
«Certo! Devo trovare i miei bisogni profondi e il mio punto di coronamento».
«Sssh!», risi. «Non ti ho visto tra la folla».
«Ero nascosto tra gli scaffali del settore giardinaggio a fare gli esercizi di respirazione».
«Zitto!».
«Davvero! E penso di aver identificato tra i miei bisogni profondi una tazza di tè…».
«Lord Ramsay! È un onore!». Carlotta si era precipitata da Torcuil.
«Oh, ciao. Congratulazioni per il tuo libro, Carlotta», disse lui calorosamente.
«Grazie. Non sapevo che fossi qui! Aspetta che chiamo il fotografo, dobbiamo farci una foto insieme…».
Rimasi a guardare mentre Torcuil posava per le foto con la faccia di uno che stia camminando sui carboni ardenti.
«Ehi, non dirmi che hai già comprato una copia! Te ne avrei data una in omaggio. Perché non ne prendi un’altra comunque? Puoi darla alla tua fidanzata», disse Carlotta sollevando le sopracciglia. Stava cercando di carpirgli qualche informazione, si vedeva. Ed era davvero un comportamento fastidioso.
«Lo farò sicuramente», disse Torcuil, e Carlotta cambiò espressione quasi impercettibilmente, riprendendosi in un batter d’occhio.
«Oh, bene. Quindi lei non è qui stasera?»
«Oh, santo cielo, guarda che ore sono! Devo scappare. È stato davvero bello incontrarti, Carlotta», disse Torcuil in tutta fretta e, appena lei si fu allontanata, si voltò verso di me. «Che ficcanaso…», bisbigliò.
«Be’, ricordati sempre che sei un ottimo partito!».
Lui alzò gli occhi al cielo. «Per favore. Odio quando Inary dice così».
«Ma è vero! Hai visto come ti guardava? E devi ammettere che è carina».
«Non l’ho notato». Pensai che era improbabile che un uomo non notasse la bellezza scandinava di Carlotta, i suoi capelli biondi e le sue guance rosa. «E poi è troppo… troppo entusiasta per me. Come se si fosse ingoiata una sfera stroboscopica».
«È una life coach, deve necessariamente essere così! Sempre allegra ed entusiasta».
«Se la attacchi alla presa si illumina».
«Dài, basta! Comunque… Oggi eri al lavoro a Edimburgo? Hai fatto tutta la strada fino a qui?»
«Sì, sto andando a casa. Hai bisogno di un passaggio?».
Sembrava una domanda molto casuale. Del tipo: “Per caso hai bisogno di un passaggio? Altrimenti non importa”.
«Io…».
«Sì», disse mamma. Si era avvicinata a noi insieme a due signore anziane di Glen Avich, Maggie e Liz. Facevano parte della brigata delle chiome d’argento che frequentava abitualmente il bar La piazza, in cerca di chiacchiere, oltre che di tè e scones – e cornetti alla mandorla, a quanto pareva. Erano superinformate quasi quanto Peggy, e molto più loquaci. Ogni volta che succedeva qualcosa a Glen Avich, loro dovevano sovrintendere all’evento – e a volte andavano anche in trasferta, come oggi. Entrambe indossavano il loro cappotto della domenica e la borsa migliore, e avrei scommesso che Maggie si fosse fatta la piega da Enchant quel pomeriggio. I suoi capelli erano praticamente immobili e di certo altamente infiammabili.
«Maggie, Liz e io andremo a fare delle commissioni e penso che Lara stia programmando di andare con Inary». Mia madre indicò Lara e Inary che chiacchieravano animatamente in un angolo.
«Ciao, Torcuil, come stai? È tanto che non ti vediamo giù in paese», disse Liz.
«Be’, signora Ritchie, lo sa, sono impegnato con il lavoro. Ma in effetti dovrei scendere più spesso».
«E dimmi, alla fine hai trovato una persona speciale?», intervenne Maggie.
«No, nessuna persona speciale, signora Bell».
Liz sollevò le sopracciglia. «Come mai, mi chiedo, quando ci sono così tante ragazze carine a Glen Avich?»
«Nessuna può competere con voi due», disse Torcuil, schivando completamente la domanda.
Continuavo a soffocare le risate, ma non sapevo quanto sarei riuscita a resistere.
«Oh, tu sei sempre stato un tipo affascinante. Da quando eri un ragazzino! Allora, dove andrai adesso, Margarayta?»
«Be’, ho ancora un po’ di cose da fare a Ramsay Hall», risposi. «Non ho avuto molto tempo questa settimana…».
«Ma va bene così, non ti preoccupare, davvero!», mi rassicurò Torcuil.
«Be’, è il suo lavoro, no? Deve andare a sistemare le cose che non ha ancora sistemato», intervenne Maggie. «Non può venire a bighellonare con noi, non pensi, Maggarita?»
Che cosa?
«È vero. Tu vai con il tuo giovanotto, Margaret-ah», concluse Liz.
Il mio nome non è così difficile da pronunciare, vero? Ma sia Maggie che Liz sembravano incapaci di… Un attimo – aveva detto “il tuo giovanotto”?
«Non sono così giovane, signora Bell», disse Torcuil.
«Oh, quando arriverai alla mia età capirai che cosa significa essere vecchi!». Si lanciò in una risatina nostalgica. «Goditela finché puoi. E adesso andatevene, voi due…», disse, e letteralmente spinse me e Torcuil verso la porta.
Così non ci rimase altra scelta che andarcene insieme, dopo un breve saluto a Lara.
Mi avevano incastrata.
«Allora, che facciamo adesso?», chiese Torcuil mentre uscivamo dalla libreria.
«Che intendi? Non torniamo a Ramsay Hall così posso recuperare il lavoro di oggiù»
«Non sono venuto a prenderti per farti lavorare per me! Non sono un negriero!».
«No, lo so, ma…».
«Senti, è una bellissima serata. Andiamo a fare una… Oh-oh».
«Che c’è?»
«Ho sentito una goccia sulla mano».
«Oh… Anch’io. Sta iniziando a piovere… Altro che bellissima serata».
«Okay, allora andiamo a mangiare».
«Quella è sempre una buona idea! Dove? …Oh, aspetta. Lo so. Ti porto in un posto che conosco…».
«Conosci i ristoranti di Aberdeen?»
«Be’, me ne hanno parlato mia madre e Michael. Non dovrebbe essere lontano dal Trinity Centre. Aspetta…». Tirai fuori il telefono e controllai il percorso su Google Maps.
«Come si chiama?», chiese Torcuil.
«Non te lo dico, perché lo conoscerai sicuramente, e invece voglio che sia una sorpresa».
«Okay, ci sto».
Arrivammo dopo pochi minuti di cammino – grazie al cielo, perché aveva cominciato a piovere seriamente.
«Oh, La lucciola!».
«Visto? Sapevo che lo conoscevi!».
«Be’, non ci sono mai stato. E tu potrai istruirmi un po’ sul cibo italiano».
«Ne sarò felicissima!».
Seduta al tavolo di fronte a Torcuil, riflettei sul fatto che ogni volta che si sedeva faceva sembrare più piccoli i tavoli e le sedie. Quella sera indossava una camicia azzurra con le maniche arrotolate – le portava sempre così, notai. I suoi occhi cangianti erano grigi.
«Quindi… ti interessava il libro di Carlotta?»
«Per niente».
«Lo sospettavo!».
«Sono venuto per vedere te», disse, distogliendo lo sguardo. Chinai immediatamente la testa, e in quel momento eravamo come due goffi adolescenti.
«Mi spiace che tu non abbia potuto assaggiare niente. Ma ho ancora qualche sacchettino a casa», dissi, cercando di scacciare l’imbarazzo.
«Sei a Glen Avich soltanto da qualche settimana e hai già due lavori». Sorrise.
«Lo so. Incredibile. Guarda cosa mi ha fatto Lara…». Tirai fuori dalla borsa i biglietti da visita.
«È proprio una cara ragazza…».
«Siete pronti per ordinare o torno tra cinque minuti?»
«La signora qui ordina per entrambi», disse Torcuil, e mi sorrise.
«Oh, è una grande responsabilità! Bene, allora… risotto ai funghi per me e per lui… tagliolini al tartufo?»
«Non ho idea di cosa siano».
«Fidati di me».
«Certo».
«E per iniziare un piatto di antipasti misti, per favore», dissi, soddisfatta delle mie scelte.
«Sembri un gatto che si è appena fatto una scorpacciata», rise lui.
«Oh, lo so! Sono davvero ossessionata dal cibo. Ce l’ho nei geni».
«Quindi, stavo dicendo…». Torcuil sollevò il bigliettino che gli avevo passato. «…Ehi, aspetta, ha messo l’indirizzo di Glen Avich? Ma se partirete tra poche settimane? …Anche se in verità non mi piace pensarci».
«Lo so. È come… è come se Lara stesse cercando di dirmi qualcosa. Che non vuole andarsene».
«E tu che cosa vuoi?». La luce della candela tremolava tra di noi, dando alla sua pelle una tonalità dorata e facendo luccicare i suoi occhi.
Non sapevo rispondere a quella domanda. Torcuil mi guardava come se stesse cercando di scrutare la mia mente, e qualcosa si mosse dentro di me, risvegliandosi da un lungo letargo.
Capitolo 24
L’immagine stessa della vita
Torcuil
Sono seduto di fronte a lei mentre mangiamo. È il ritratto della vita: le guance rosa alla luce della candela, i suoi occhi liquidi, che godono del piacere sensuale del cibo. Sta chiacchierando animatamente, parlando di tutto e di niente con quel suo delizioso accento londinese.
E poi arriva il mio turno di parlare, ma non so che cosa sto dicendo; mi ascolto, ma non riesco a sentire davvero le mie parole.
Un fuoco si è acceso dentro di me, caldo e luminoso, come la luce di una finestra in una fredda notte d’inverno. Quel calore e quella luce mi stanno chiamando verso casa.
La lascio a casa di sua madre a Glen Avich dopo aver viaggiato in silenzio – lei è rimasta tutto il tempo con la testa poggiata contro il sedile, esausta dopo l’eccitazione della giornata. Le sue ciglia gettavano una leggera ombra sulle guance e aveva una mano aperta in grembo – ha le dita piccole, magre, minute come i raggi di una stella marina.
Ramsay Hall mi sembra ancora più fredda e lugubre – e anche il mio letto è freddo. Il pensiero di Margherita mi prende per mano e mi conduce attraverso la notte, e l’ultima cosa che vedo dietro le palpebre abbassate, prima che il sonno mi vinca, è il suo viso.
Capitolo 25
Unione
Margherita
Stavo tornando in macchina da Aberdeen con Lara, dopo la gita che le avevo promesso, e la mia testa era piena di pensieri, dubbi, domande. Ero ancora sorpresa per il successo del catering e per l’incontro con quella donna, Abby, che avrebbe potuto offrirmi un altro evento. E naturalmente per la cena con Torcuil.
Era stata soltanto una cena. Non significava niente.
Ma mi ero goduta ogni minuto con lui.
E il modo in cui mi guardava… Come se fossi qualcosa di prezioso. Qualcosa di fragile da tenere delicatamente nel palmo della mano per non lasciare che si rompa o possa cadere. Il pensiero di lui mi seguì durante tutta la giornata con Lara, anche se feci del mio meglio per scacciarlo.
La nostra giornata di shopping, io e lei da sole, era stata un successo. Nel giro di una mattinata Lara era riuscita finalmente a indossare le lenti a contatto («No, non ti prendo quelle viola; sì, me l’hai detto che Ophelia di Sposa delle Tenebre ha gli occhi viola, ma non te le prendo comunque».), a tagliare i capelli (sentivo il cuore spezzarsi a ogni ciocca d’oro che vedevo cadere sul pavimento), e a comprare dei vestiti nuovi («Sì, lo so che non sei un personaggio di Piccole donne, ma quella gonna ti sta così bene… No? Okay, allora scegliamo un paio di jeans aderenti…».) Ero esausta – come lo sarebbe stato qualsiasi essere umano in possesso delle sue facoltà mentali dopo tre ore di shopping con un’adolescente – e avevo bisogno di una pausa cappuccino, ma Lara insisteva perché comprassi qualcosa anche per me.
«Andiamo da Next. Qui non troverai niente, c’è solo roba per giovani», disse.
«Giusto, grazie. Comunque vorrei ricordarti che ho trentotto anni».
«Sì, appunto».
Non sarebbe servito a nulla discutere: Lara era irremovibile sul fatto che dovessi comprarmi qualcosa di carino. Io non ero convinta. Non avevo nessun evento in programma, e mi sembrava più saggio comprare dei vestiti da indossare ogni giorno, che avrei potuto sfruttare molto di più. Ma Lara non si arrese. Era decisa a farmi prendere un “vestito buono” (un’espressione che aveva mutuato da mia madre). Provai qualche vestito, ma essendo così bassa mi sembrava sempre di navigarci dentro. Poi finalmente trovai una casacca color rosso accesso che mi ricordava un po’ un sari indiano, e dei pantaloni neri sottili e morbidi. Il rosso sembrava chiamarmi.
D’un tratto mi ricordai che esperienza surreale era stata fare le valigie per venire in Scozia. Avevo spalancato le ante del guardaroba e mi ero meravigliata di vedere file e file di blu, grigio e nero: gli stessi maglioncini dai colori scuri o tenui riprodotti una decina di volte, in leggere varianti – maniche corte, maniche lunghe cotone o lana – ma fondamentalmente tutti uguali. E poi un mare di jeans. Era come se avessi indossato una divisa blu e grigia per anni, come una scolaretta troppo cresciuta. Alla fine avevo riempito solo un terzo della mia valigia – volevo lasciarmi alle spalle tutti quei colori deprimenti.
«Mamma… Sei stupenda», disse Lara quando provai la casacca.
«Be’, non so se…».
«Davvero! Sei così… bella».
In quel momento mi ricordai quando me lo aveva detto per la prima volta. Era stato dopo le prime settimane che era con noi, mentre eravamo accoccolate insieme nel suo letto a leggere una storia. Mi aveva accarezzato il viso con le sue manine e aveva detto: «Sei così bella», e io, ancora nuova alla maternità e a tutte le emozioni che porta con sé, stavo per scoppiare in lacrime per la felicità.