Postfazione
QUANDO LO SPAZIO FU INVENTATO IN CIELO
a mia madre
Torno con questa antologia ad Adam Zagajewski, la cui poesia mi accompagna da anni. E Zagajewski mi invita a sceglierlo come oggetto di un discorso che lo trascende. Cerco di camminare intorno a Zagajewski, ma anche di staccarmene, catturato da una linea tangente. Zagajewski è una circonferenza? Zagajewski accoglie? Folgoranti – perché veri e incisi – i versi de Lo sfavillare dei lampioni (da La tela): «Nulla l’un dell’altro sapevamo, essendo / amici». Il tacito patto al quale invita Zagajewski è quello di ogni poeta: la poesia deve, leopardianamente, lasciare libera l’immaginazione. E qui è la poesia degli antichi, e qui è la modernità. Ora, sembra che la modernità abbia un limite (sembra proprio che le sue immagini, stante lo Zibaldone, non siano mai inventate per la prima volta, che non siano mai possenti, innocenti, vigorose, vergini). Qualcosa di quelle narrazioni è rimasto in noi, e intanto si apre un orizzonte nuovo. Sembra che l’era in cui siamo entrati – mirabile e senza nome, e scomodi guanti mi sembrano per lei le etichette di “postmoderno” e “ipermoderno” – travalichi tutte le categorie che costituiscono il nostro orizzonte, la nostra abitudine. Penso anche alla psichiatria postrazionalistica, o al discorso antiheideggeriano di Basaglia, col richiamo al «coraggio di essere» (titolo del libro di Paul Tillich), e penso allo stupendo discorso di Anna Maria Ortese:
Di Cristo, la gente si vergogna, perché lo associa continuamente a immagini di martirio o di debolezza; […] o ne ha semplicemente terrore, perché vi vede la destinazione sovrumana a cui non è nata, o non crede di essere nata. Questo è il caso più ovvio. Molti, più di quanto si immagina, sono coloro che hanno terrore di essere eterni, e lo hanno principalmente per questo: che hanno terrore di essere. È che non vi vedono ragione alcuna, e il sapere di essere – al di fuori di una RAGIONE – sembra loro intollerabile. Così, fingono di non essere, mentre non si può sfuggire all’essere (dice Kierkegaard: «nulla è più eterno dell’Io»). Questa è proprio la disperazione che invoglia l’Io – pur essendo l’Io irrimediabilmente – a vivere come non essendo, o nel falso. Ma dove – per l’uomo colto o per l’ignorante – una vera ragione all’essere? Impossibile alla storia, come a ogni scienza del terrestre. Un Enigma stagna nel fondo, sempre più grande, quanto più la ragione lo attraversa, sempre più impenetrabile, agghiacciante: a che, tutto questo? a che il dolore di tutti i viventi? e se non vi è scopo, finalità alcuna, a che la meraviglia e il dolore della ragione? A che la ragione stessa? Questo è il mistero: che il mistero si veda – mentre potrebbe non essere veduto – e porti dolore alla ragione. Il mistero più grande appare dunque la ragione – sempre più inutile e madre di domande che lasciano intatto l’infinito silenzio di ogni cosa. Non vi è spiegazione alle cose: il modo, il come, continuamente si presentano e passano, come inutili. Il perché non c’è mai. Non vi è perché all’universo, come non vi è perché alla ragione che se lo domanda. In questo orrore della ragione solitaria e inutile davanti al nulla, un giorno appare, e tramonta, qualcuno che – dicono – non è mai nato. Forse un’invenzione. Il Cristo.
Con lui, i conti tornano. La ragione, come il mare che – si dice – egli placava solo guardandolo, trova il suo fondamento e spiegazione alla sua solitudine: non è di qui, viene di lontano, dal Creatore, il Legislatore, la mansuetudine e purezza stessa. Non è di qui. Si spiega perché sia rifiutata dal mondo, e non trovi risposte nel mondo. Non è di qui, ma illumina qui.1
E al discorso di Kierkegaard fa eco il grande Aldo Capitini:
[…]
Dovrò combattere, perché il mio amore vuol essere eterno.
Non mi volgo indietro per non rinnovare l’odio contro gli errori.
C’è forse qualcuno per cui il passato può essere un porto?
Al culmine degli anni vedo che vivere è dirigersi e scegliere.
In ogni istante perdo cose che potrei fare od avere.
Non mi può esser tolto il tu, eterno, che non chiede nulla.2
È l’era antitetica al cogito. È l’era posteriore ai computer. È l’era di oltre l’infinito – denominazione apposta da Kubrick alla sequenza finale del suo 2001: Odissea nello spazio (1968). Che vuol dire “oltre l’infinito”? Che l’iperbole ha toccato la retta, ma non vediamo né sappiamo dove. Il bambino sorride. I punti cardinali sono diventati flatus vocis. Siamo all’incrocio di tutti i possibili. È l’epica-etica dei ragazzi, in cui, con buona pace del sistema finanziario mondiale, si esprime il profetico cinema di Spielberg. L’uomo sembra potere tutto. Ma cosa gli interessa veramente? Cosa lo attrae? È ancora uno sguardo rivolto al passato, quello del poeta Zagajewski: nostalgia, destabilizzazione, “asimmetria”, per usare proprio il suo termine. Scrive Pasolini in Poesia in forma di rosa: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore». Ma Pasolini non è poeta elegiaco né bucolico, come non lo è Zagajewski, che usa il moderno per parlare d’altro, come Leopardi aveva usato il Romanticismo. La poesia di Zagajewski sembra trovarsi continuamente su un piano inclinato: la prospettiva è sempre in fuga, con un centro ubiquo e parzialmente ingannevole: il centro si sposta perché si sposta tutto l’apparato che sembra contenere quel centro. Il piano del discorso si può spostare su tutte le rette che attraversano quel centro. Il discorso, quindi, sembra nascere da un’intersezione i cui limiti, però, sono indefiniti. “Quadretti” le poesie di Zagajewski? Discrete elegie classiche? Non solo, o non proprio. Zagajewski è un poeta tradizionale? Si trova a un crocevia. Zagajewski è partito dall’avanguardia, che poi ha ripensato. Quando i suoi versi si fanno più forti e più belli? Quando il poeta compie una scelta, la scelta di quella che chiamiamo classicità (per tutti valga l’esempio del nume tutelare Herbert, ma anche Miłosz), di un ragionativo, pacato immaginismo concettuoso (è nel barocco che qualcuno vuol vedere, contro la classificazione europea di Michel Foucault, le radici profonde della modernità e della contemporaneità polacche, rinvenendo una continuità), ed è proprio da Lettera. Ode alla molteplicità (1983) e da Andare a Leopoli e altre poesie (1985) che ascoltiamo una voce, una voce misurata, sobria, che non è né debole né indecisa, e che a volte tocca il sublime dell’inno (la tentazione dell’inno), dell’invocazione e del discorso (l’occasione del discorso) che mi sembra appartenere a Yeats, Eliot, Auden, Montale, Różewicz, Rilke, Pessoa e appunto a Miłosz e Herbert (si potrebbero ancora nominare Machado, García Lorca, Kavafis). La nostalgia del grande, è quella che prova Zagajewski, l’ammirazione di fronte a modelli insuperabili. E in alcuni punti Zagajewski tocca davvero il grande: e la sua costruzione del sublime parte proprio dal discorso delle opere fra il ’79 e l’85, anche quando la possanza della cattedrale è il tangibile tacere che la abita (Gotico), l’opera è la negazione dell’opera, la poesia è la non-poesia (I lunghi pomeriggi), l’illuminazione è l’oscurità, l’incontro è il mancato incontro (Ultima fermata). È proprio allora che a Zagajewski viene proposta la pubblicazione americana (Tremor, un’antologia della sua produzione fino al 1985). Ma dall’immaginismo al visionarismo (non quello assoluto di Dylan Thomas e Amelia Rosselli, né quello dal nerbo, inflessibile e ardimentoso, di Eliot) il passo è breve, e Zagajewski vuole auscultare le occasioni montaliane, cantando sulla soglia fra assenza del miracolo, miracolo dell’assenza e miracolo del miracolo, in un testo che è più recitativo che canto, mentre quando la scansione versificatoria viene meno assistiamo a delle arie, degli assoli mirabili: ma quella è già “prosa” (La leggera esagerazione, 2011). Cosa vuol dire Zagajewski? Zagajewski si vuole spostare con l’oggetto del proprio desiderio. Vuole inventare questo oggetto. Allora inventa il paesaggio. Il piano in cui l’oggetto deve apparire, in cui tremiamo per l’avvento, è sempre un piano in fuga: è una prospettiva, non un nome. Il punto di convergenza delle linee sta oltre il quadro. Dobbiamo attraversare l’illusione, ritrovarci uguali nel nostro doppio. All’interno di una cornice che è la fotografia finale, raccapricciante, di Jack Nicholson in Shining (Kubrick, 1980), o il corrusco, illuminato e cupo Settecento di Barry Lyndon (Kubrick, 1975) o il finale di 2001. Dove l’incubo commuove e poi se ne torna in quelle regioni da cui non lo dobbiamo richiamare: l’infinito dei periodi ipotetici, dove ciò che è, shakespearianamente, non è mai quello che è (Otello, ecc.). Il finale è affidato a Richard Strauss (Così parlò Zarathustra): grandioso, possente, sconvolgente, dolcissimo. La regione cui non è ancora stato dato un nome è materiale e reale. Tutti i paradossi di Zenone si sono realizzati, cioè vanificati, e viceversa. LA POESIA È. La biblioteca è il futuro del mondo? O un uomo che ha ingerito la biblioteca, senza distruggerla, per non servirsene più?
In questo mondo trasformato, Dio è un fatto, non un nome. L’origine cui l’infinito del tempo futuro conduce. Zagajewski, che gravita intorno a una scena, un’idea, un “dato” (e “dato” fa “rima” con “sottratto”, non-dato; mostrato e ritirato), costruisce ogni proprio avvicinamento. L’approssimazione non è infinita: è un silenzio. Quando il possibile ha esaurito la propria (in)esistenza, allora la musica – parola, linea, volo, rumore che è se stesso e nient’altro (parafrasando Montale, Tempi di Bellosguardo) – può sussistere perché ha uno spazio in cui farlo. Le onde hanno un’acqua in cui nuotare. Uno spazio che si sottrae al nome ma non al fenomeno. E in questa fenomenologia senza oggetto, il cui oggetto deve essere reinventato, rinominato, vive l’uomo che siamo noi – quello che pensa perché è.
Cracovia, 7 marzo-11 aprile 2020