LA STANZA

per Derek Walcott

La stanza nella quale lavoro è un cubo

come un dado da gioco.

Contiene un tavolo di legno

dal caparbio profilo contadino,

una pigra poltrona e una teiera

col gonfio labbro asburgico.

Dalla finestra vedo alcuni smilzi alberi,

fini nuvole e bambini dell’asilo,

sempre soddisfatti, rumorosi.

A volte in lontananza balena il vetro di una macchina

oppure, più in alto, l’argenteo guscio di un aereo. E tutto

sembra indicarmi che gli altri non perdono tempo

quando io lavoro, cercano avventure

sulla terra e nello spazio.

La stanza in cui lavoro è una camera obscura.

Cos’è, però il mio lavoro –

tanto attendere immobile,

volgere fogli, paziente meditazione,

passività poco gradite

al giudice dallo sguardo assetato.

Scrivo così lentamente, come se dovessi vivere duecento

[anni.

Cerco immagini che non ci sono,

e se ci sono giacciono arrotolate e riposte

come vestiti estivi in inverno,

quando il gelo piaga la bocca.

Sogno il raccoglimento assoluto; se lo trovassi

sicuramente smetterei di respirare.

Forse è bene che ben poco mi riesca.

Eppure odo fischiare la prima neve,

odo la delicata melodia della luce diurna

e il minaccioso brontolio della grande città.

Bevo da una piccola fonte,

il mio desiderio, la mia sete supera l’oceano.

HOUSTON, LE SEI DEL POMERIGGIO

L’Europa già dorme sotto il grezzo plaid delle frontiere

e degli antichi odii; la Francia stretta

alla Germania, la Bosnia nelle braccia della Serbia,

la Sicilia sola nell’azzurro mare.

Qui sta facendo sera, brucia la lampada

e veloce si spegne un sole scuro.

Sono solo, un po’ leggo, un po’ rifletto,

un po’ ascolto musica.

Sono lì dove c’è l’amicizia,

ma non ci sono gli amici, dove crescono

la fascinazione, l’incanto, ma non c’è fascino,

malia, lì, dove ridono i morti.

Sono solo, perché l’Europa dorme. La mia amata

dorme in un’alta casa nei pressi di Parigi.

A Cracovia e a Parigi i miei amici

sguazzano nello stesso fiume di oblio.

Leggo e rifletto; in una certa poesia

ho trovato le parole “Capitano colpi così terribili…

– Non domandare!”. Non domando. Nel silenzio della sera

s’infila un elicottero della polizia.

La poesia chiama a vita più elevata,

ma ciò che è basso è ugualmente eloquente,

più rumoroso di una lingua indoeuropea,

più forte dei miei libri e dei miei dischi.

Qui non ci sono usignoli né merli

dalla dolce, triste cantilena,

ma solo l’uccello-schernitore, che imita

e scimmiotta tutte le altre voci.

La poesia chiama alla vita, al coraggio

al cospetto dell’ombra che si fa più grande.

Sei forse in grado di guardare tranquillo la Terra

– come un ideale cosmonauta?

Dall’innocente indolenza, dalla Grecia delle letture

e dalla Gerusalemme della memoria emerge ex abrupto

l’isola del testo poetico, isola deserta,

che scoprirà un qualche nuovo Cook.

L’Europa ormai dorme. Gli animali della notte,

malinconici e predatori,

partono per la caccia, per la morte.

Fra non molto anche l’America si addormenterà.

I BARBARI

Eravamo noi, i barbari.

Davanti a noi tremavate nei vostri lussuosi palazzi.

Era noi che aspettavate col batticuore.

Era delle nostre lingue che dicevate:

“forse sono composte solo di consonanti,

di fruscii, bisbigli e secche foglie”.

Eravamo noi a vivere nelle nere foreste.

Era di noi che aveva paura Ovidio a Tomi,

eravamo noi a onorare dèi da nomi

che voi non sapevate pronunciare.

Ma anche noi conquistammo la cognizione

della solitudine e dell’angoscia, desiderando

per sempre la poesia.

SENZA FLASH

“Senza flash!”

(istruzione udita spesso nelle gallerie italiane)

Senza vampa, senza notti insonni, senza braci,

senza lacrime, senza grande passione, senza persuasione,

così vivremo; senza flash.

In modalità serena e misurata, obbediente e sonnolenta,

i palmi delle mani imbrattati dal nero dei giornali,

i visi trasudanti trucco; senza flash.

Sorridenti turisti in camicie molto bianche,

Herr Lange e Miss Fee nonché Monsieur et Madame Rien

entreranno in un museo; senza flash.

Si fermeranno davanti a un quadro di Piero della Francesca,

sul quale Cristo, quasi preso dal delirio,

emerge dalla tomba,

risorto, libero; senza flash.

E forse allora accadrà qualcosa di imprevisto:

sussulterà il cuore, nascosto sotto liscia seta,

calerà il silenzio, sfavilla un flash.

HOW HIGH THE MOON

Ovviamente, erano, quelle,

le gite familiari in estate,

i picnic in riva al canale nero

(anticamente intitolato ad Adolf Hitler),

nella cui acqua vivevano ancora granchi;

sulla riva pini nani e flessibili, esili.

A volte – raramente – barche cariche di carbone,

come di tinte per pittori della domenica,

scorrevano verso occidente.

L’afa si travestiva come una diva dell’opera:

era azzurra, rosa, rossa,

e infine bianca, trasparente.

A dirigere la nostra orchestra

era mio zio, che amava così tanto la vita

(ma senza essere ricambiato).

Se allora qualcuno mi avesse detto

– è questa, l’infanzia –

non ci avrei creduto;

erano, quelle, soltanto ore e giorni,

interminabili ore,

dolci giorni di giugno

sulla riva di un canale

che non aveva fretta di arrivare da nessuna parte,

immerso in umidi sogni,

e la timida giovane luna

che partiva solitaria

alla conquista della notte.

I LUNGHI POMERIGGI

Erano i lunghi pomeriggi in cui mi abbandonava la poesia.

Paziente scorreva il fiume, spingendo in mare le pigre barche.

Erano i lunghi pomeriggi, costa d’avorio.

Le ombre giacevano nelle strade, nelle vetrine c’erano

[tronfi manichini,

che mi guardavano arditi come per attaccar briga.

Dai licei uscivano professori e avevano vuoti visi,

come se Omero li avesse sconfitti, umiliati, uccisi.

I giornali della sera davano inquietanti notizie,

ma nulla cambiava, nessuno affrettava il passo.

Nelle finestre non c’era nessuno, non c’eri tu,

e anche le monache sembravano vergognarsi della vita.

Erano lunghi pomeriggi, svaniva la poesia

e restavo solo con l’impenetrabile, all’animo e al corpo,

moloch della città come un viaggiatore povero, alla Gare

[du Nord

con una troppo pesante valigia, legata con la corda,

bagnata da una nera pioggia, la nera pioggia di settembre.

Oh, dimmi, come si guarisce dall’ironia, dallo sguardo

[che vede,

ma non squarcia oltre, trafiggendo il vero; dimmi, come

[si guarisce

dal tacere.

OPERA POSTUMA

Il treno si fermò in un campo; l’improvviso silenzio

svegliò anche i fanatici fautori del sonno.

Le lontane luci dei magazzini o delle fabbriche

luccicavano nella nebbia come i gialli occhi dei lupi.

Itineranti uomini d’affari sgobbavano al computer,

calcolando il profitto e la perdita del giorno trascorso.

L’hostess portava caffè in cui era confitta l’amarezza.

Ewig, ewig, l’ultima parola di Das Lied von der Erde,

ripetuta tante volte; ricordi, ascoltavamo

insieme questa musica e questa promessa alla quale

volevamo allora così tanto credere.

Non si sa se siamo ancora in Olanda,

o già in Belgio. Ma che differenza fa?

Sbocciava una sera d’inverno e la terra era nascosta

sotto le grosse strisce del crepuscolo; potevamo

immaginare la vicina presenza della nera acqua del canale,

immobile, privata della gioia dei torrenti montani

e della gran meraviglia dei nostri oceani.

I gialli occhi dei lupi tremavano di una nervosa luce

al neon, ma nessuno temeva l’attacco degli indiani.

Il treno si fermò nell’ora in cui non dorme

la ragione, ma dorme l’anima, il suo nobile

desiderio.

In un altro momento ascoltavamo

il quintetto postumo di Schubert, dove la disperazione

si dichiara tante volte, appassionata, quasi ossessiva,

rinnovando il suo attacco all’indifferenza

raffinata della sala, delle dame in pelliccia

e dei recensori, piccoli emissari di grandi riviste.

Mentre una volta, a passeggio, a mezzanotte, in campagna,

d’estate, ci trattenne un suono molto singolare: lo sbuffare

e nitrire d’invisibili cavalli al pascolo. Come se la notte

ridesse, fra sé e sé, felice. Cos’è la poesia,

se tanto poco vediamo?

Cosa saranno la salvezza, il sopravvivere, il riscatto,

se nulla ci minaccia? Un quintetto postumo! Solo la musica

[cresce

anche dopo la morte, la musica e le chiome degli alberi.

Se i fiumi ci dessero il miele e il latte dell’incanto,

se le danzatrici tornassero a ballare nel delirio…

Ma non siamo soli. L’antiquata chitarra un giorno

comincerà a cantare, sola con se stessa, a se stessa.

E il treno infine si metterà in moto, la terra si cullerà

sotto il suo maestoso peso e lenta

si avvicinerà a Parigi, con la sua aura dorata,

col suo grigio dubitare.

SCALE MOBILI

Come sono immobili sulle scale mobili

i monumenti dei miei ignoti prossimi.

Come si elevano lenti, senza sforzo

né stanchezza. Ai loro piedi giace una città

che nessuno ormai conquisterà,

perché oggi non si assediano più le mura.

Il destino capitola volentieri,

mentre i vincitori non sono peggio dei predecessori.

Il sole tramonta nello stesso modo di sempre,

una crema rosa tocca l’orizzonte.

Le strade sono aperte come lattine svuotate di birra,

cantano la stessa canzone, senza comando.

A che pro conquistare le città,

a che pro scagliare pietre e incendiare i templi,

se bastano il bisbiglio e il riso, il disprezzo.

Le scale crescono come pinete.

La notte di San Bartolomeo può durare un quarto d’ora,

senza sangue – solo il coraggio evapora lento.

Guardo la folla che sale.

Tanti volti, tante guance,

tanta speranza, aspettativa, mani intrecciate,

nelle iridi convesse, sporgenti, degli occhi

la luce s’incrocia con l’ombra.

Tanti volti, tante mani

e una sola immaginazione.

Noi che torniamo sappiamo già:

in alto nessuno ci sta aspettando.

I colombi lottano per briciole di pane,

le rondini con rapidi geroglifici

scrivono una lettera al signor presidente

e il presidente ride come il vento.

CHE FINE FANNO I CLOWN

Un vecchio clown alla stazione distribuisce volantini

sullo spettacolo di un circo itinerante. È questa la fine

dei clown – al posto di un distributore automatico

(o un bambino). Lo osservo attento per sapere

che fine fanno i clown.

Quell’equilibrio, pieno d’incanto, fra la malinconia

e il selvaggio, contagioso riso lentamente svanisce;

con gli anni si indossa una ruga nelle guance,

e altro non resta che la disperazione del naso

troppo grosso e le sgraziate mosse di un vecchietto,

lontane dalla parodia che furono

della sana e irriflessiva umanità, e ora solo un pamphlet

d’accusa all’imperfetta corporatura, allo sbaglio

dell’architetto. Resta la luce dell’ampia fronte,

la lampada della cera troppo bianca (ormai senza cipria),

[le labbra

troppo strette e degli occhi dai quali guarda qualcuno che

[è già straniero,

estraneo, dai quali freddo sbircia qualcuno che potrebbe essere

il prossimo locatario del volto – se solo si prolungasse

[l’affitto

di questa tristezza. Questa è la fine che fanno i clown

[– quando

la grande indifferenza del mondo irrompe in noi, amara

[entra in noi,

come piombo in bocca.

APPARTAMENTO PER BORSISTI

In un appartamento per borsisti di passaggio

– sullo scaffale più di una decina di annoiati romanzi in

[una lingua

che non è l’idioma dei tuoi cari, un sonnolento Buddha,

e un televisore muto, una padella scheggiata che ha fritto

più di un malinconico paio di uova strapazzate un

[sabato sera,

e un bollitore sbiadito, opaco, che fischia in tutti i dialetti

– cerchi di metterti a tuo agio, e persino di pensare.

Leggi Meister Eckhart sul ritirarsi da sé e dalle cose

[(Abgeschiedenheit)

e le poesie di un certo inglese che ama la Francia

nonché la prosa di un francese che ammira l’Inghilterra;

e soltanto dopo alcuni giorni di intensi tentativi

di acclimatarti in queste igieniche stanze

dove è sfilata l’élite dell’umanità colta,

scopri, quasi sbalordito –

qui non abita nessuno; non c’è vita sulla Terra.

GRANDI CITTÀ

al signor Stanisław Kasprzysiak

Mi sono fermato, in piedi, nel mezzo di grandi città

più di una volta, fra pareti

e case, e alberi nei giardini,

e ho cercato di capire

dove si nasconde il centro

di questo enorme spazio,

la capitale della capitale.

Gli aerei roteavano, si aggiravano su di me

come avvoltoi, splendeva un sole insolente,

sghignazzavano gli occhi dei passanti:

noi viviamo senza cuore

e senza memoria…

finché bastano le forze.

SQUARE D’ORLÉANS

Luogo in cui si confondevano la sofferenza

e il rapimento – due sostanze

che si conoscono da molto tempo.

Adesso si trova qui la sede di una banca;

eleganti uomini entrano ed escono,

ognuno di loro snello come una nuova banconota.

Una volta abitava qui Chopin. Le sue dita

colpivano con furia la tastiera, la materia.

Una volta abitava qui la violenta poesia.

Adesso al suo posto abbiamo silenzio, e nei pressi

numerosi uffici assicurativi, e un medico

riceve negli orari dati, opportuni.

Il giorno volge alla sua sera; gli edifici come aironi

stanno pensosi sulla rovina del secolo

(ciò che si può udire è il remoto fischio della città).

Una fontanella al centro della piazza

erge timida due trecce d’acqua

riportando alla memoria cos’è la vita.

Siamo seduti sulle scale; non accade nulla.

Non si può neanche dire

che sentiamo tristezza.

Il luogo di febbre e inquietudine (inquietudine

e febbre: due giovani popoli)

è occupato da un discreto classicismo.

La sera settembrina si spegne lenta,

un dolce vento cammina per Parigi

come un vecchio attore del teatro kabuki

che reciti la parte di una beltà diciottenne.

Se qualcosa ci tormenta – ma nulla

ci tormenta – non è che il vuoto.

PICCOLO VALZER

Le giornate sono così fulgide, così chiare

che persino le rare, strette palme

sono coperte della bianca polvere della disattenzione.

I serpenti nei vigneti strisciano in silenzio,

ma a sera il mare si fa scuro e i gabbiani

sospesi nell’aria come l’interpunzione

della più alta scrittura si muovono appena.

Sulle tue labbra si è inscritta una goccia di vino.

Le montagne calcaree all’orizzonte si dissolvono

lentamente e appare una stella.

Di notte, sulla piazza, un’orchestra di marinai

in divise impeccabilmente bianche

suona il valzerino di Šostakovič; i bambini

piangono, come se riuscissero a figurarsi

di cosa parla l’allegra musica.

Siamo stati rinserrati nella scatola del mondo,

l’amore ci farà liberi, il tempo ci ucciderà.

GEORGES SEURAT: “LA FABBRICA” (DISEGNO NELLA MENIL GALLERY DI HOUSTON)

a Jacek Waltoś

In montagna, sull’estremità della mappa, lì dove l’erba diventa sfrontata e appuntita come le baionette dei disertori, si erge la fabbrica dimenticata.

Non sappiamo se è l’alba o il crepuscolo. Sappiamo solo una cosa: è qui, in questo tetro edificio, che nasce la luce.

Prigionieri taciturni dagli stretti e trasparenti volti di monaci bizantini fanno ruotare un’enorme dinamo e accendono le dorate faville del mattino nelle più remote parti del globo. Alcuni piangono, altri fumano eleganti sigarette, lievi come il respiro di un passero. Non risponderanno a nessuna domanda: sono state tagliate loro le lingue.

Proprio sotto il muro, lì dove crescono nere gramigne, è andata a nascondersi l’oscurità. C’è silenzio assoluto. Crescono le chiome del mondo.

TRATTATO DEL VUOTO

In libreria mi sono trovato per caso proprio vicino al reparto Tao, o per essere più esatti, vicino al Trattato del Vuoto.

Mi sono sentito felice, perché quel giorno ero completamente vuoto.

Ma guarda che incontro – quanto raro – il paziente trova un medico, il medico tace.

SÉNANQUE

Annoiati turisti cercano l’illuminazione

e danno un’occhiata negli oscuri angolini del refettorio;

qualcuno dorme al sole, a bocca aperta,

bocca dove entra la celebre aria

della Provenza, l’ossigeno e le erbe, le erbe e l’ossigeno,

e il secco respiro della terra.

Solo a volte sgattaiola qualcuno di serio –

in una tonaca di chi non ha tempo,

di chi ha tempo solo per l’eternità.

Queste spesse mura, che proteggono la musica,

mura distrutte tante volte, donate alla natura,

alla rivoluzione, al raziocinio – ricrescono.

Campi di lavanda circondano il convento –

su di loro romba l’esercito di api e il giovane autunno,

e piano nasce l’aureo raccoglimento.

VENTICINQUE ANNI

a mia sorella, Ewa

Nei recessi del tempo pulsava il tuo sonno, il tuo sogno,

sereno e lieve respiro; così dormono i viaggiatori,

quando li sorprende un breve temporale alla stazione,

in Toscana, in una cittadina di polvere e vespe.

Avresti adesso venticinque anni, ascolteresti

quelle canzoni che a me non piacciono

e forse avresti appunto alle tue spalle una grande

delusione amorosa, e io ti prenderei in giro.

Nei recessi del tempo pulsa il tuo sereno sonno, sogno;

così dormono i bambini dei quali si dimentica la bambinaia,

e non si svegliano mai, e non escono

dagli appartamenti subacquei, dove piangono i delfini.

SORGERE DEL SOLE SU CASSIS

Nella penombra delirano i bianchi edifici, non pronunciati

fino in fondo, e accanto a loro le grigie vigne, silenzio

[prima dell’alba;

Giuda conta le monete d’argento, ma gli ulivi contorti

in una selvaggia preghiera penetrano sempre più in profondo

nella terra. Ah, se sorgesse il sole! Per ora, tuttavia, fa

[freddo,

e intorno a noi si stende nella nebbia un umile paesaggio;

le stelle sono dipartite e placidi dormono i preti, agli uccelli

non è più consentito cantare in luglio e solo a volte qualcuno

farfuglia come un pigro alunno in una lezione di latino

[al liceo.

Sono le quattro del mattino e la disperazione dimora in

[così tante case.

È proprio adesso che i tristi filosofi dai visi emunti

scrivono i propri cinici aforismi mentre gli stanchi direttori

[d’orchestra,

che la sera prima hanno resuscitato Bruckner e Mahler,

si addormentano svogliati, senza applausi, e le puttane

[tornano

alle loro misere case.

Noi chiediamo che le vigne,

grigie, come coperte dalla cenere del vulcano, ritornino

[alla vita,

e che le lontane, grandi città si destino dall’apatia,

e io chiedo di non confondere la libertà col caos,

nonché di recuperare la fede, che unifica

le cose visibili e quelle invisibili, ma non tranquillizza il

[cuore.

Sotto di noi azzurreggia il mare e sempre più nitida

si profila la linea dell’orizzonte, come un delicato cerchio

che amoroso e robusto abbraccia il nostro volteggiante

[pianeta,

e vediamo le barche dei pescatori dondolare fiduciose

[come gabbiani

sulle profonde, celesti acque, e fra poco il purpureo

scudo del sole emerge da sotto il semicerchio dei colli

e torna a noi il dono della luce.

IL CASTELLO

I guardiani gridavano, senza essere compresi,

nell’idioma gutturale di una tribù montana.

Si aprivano e si chiudevano le finestre veneziane.

Lunghe limousine arrivavano e se ne andavano.

Forse qualcuno stava morendo nel palazzo.

La bandiera nera spuntò

e poi si ritirò, come la lingua di una biscia d’acqua.

Le rondini, i salmi folleggiavano inquieti…

Ma di chi poteva trattarsi,

se il castello già da tempo era vuoto,

consegnato ai pipistrelli e all’ironia?

Eppure tutto lo indicava –

qualcuno stava morendo nel palazzo.

Era evidente: tout le temps, tout le temps

c’era ancora lì dentro vita.

PARLA PIÙ PACATAMENTE

Parla più pacatamente: sei più vecchio di colui

che sei stato così a lungo; sei più vecchio

di te stesso – e continui a non sapere

cosa sono l’assenza, la poesia e l’oro.

Ha inondato la strada un’acqua bruna; una fulminea

tempesta ha confuso questa piatta, sonnolenta città.

Ogni temporale è congedo, centinaia di fotografi

sembrano girare su di noi, immortalando col flash

i secondi di angoscia e panico.

Sai cos’è il lutto, una disperazione così violenta

da soffocare il ritmo del cuore e il futuro.

Hai pianto fra estranei, in un negozio moderno,

dove continuava a volteggiare l’agile denaro.

Hai visto Venezia e Siena e, sulle tele, per strada,

tristi giovincelle Madonne, che volevano essere

comuni ragazze e ballare a carnevale.

Hai visto anche piccole città, per niente belle,

gente anziana, tediata dalla sofferenza e dal tempo.

In icone medievali brillavano gli occhi

di santi olivastri, ardenti occhi di animali selvatici.

Hai preso fra le dita ciottoli dalla spiaggia, la Galère,

e hai avuto per loro una tenerezza così grande

– per loro e per l’esile pino, per coloro

che erano lì con te e per il mare,

che è in verità possente, ma molto solo

– una tenerezza così grande, come fossimo tutti

orfani di una stessa casa, disgiunti per sempre

e condannati soltanto a brevi istanti di visione

nelle fredde galere della contemporaneità.

Parla più pacatamente: non sei più giovane,

la folgorazione deve trattare con settimane di digiuno,

devi scegliere e rinunciare, prendere tempo

e conversare a lungo con emissari di secchi paesi

e labbra screpolate, devi aspettare,

scrivere lettere, leggere libri di cinquecento pagine.

Parla più pacato. Non rinunciare alla poesia.

LÌ DOVE IL RESPIRO

Sta in piedi, essere solo, sulla scena

e non ha nessuno strumento.

Pone i palmi delle mani sul petto,

lì dove nasce il respiro

e dove si estingue.

Non sono i palmi a cantare

né il petto.

Canta ciò che tace.

AUTORITRATTO

Fra computer, matita e macchina da scrivere

scivola via metà del mio giorno. Un giorno metà giorno

sarà mezzo secolo. Abito in città estranee e a volte converso

con estranei di cose che mi sono estranee.

Ascolto molta musica: Bach, Mahler, Chopin, Šostakovič.

Nella musica trovo forza, debolezza e dolore, tre forze

[della natura.

La quarta non ha nome.

Leggo poeti, vivi e morti, imparo da loro

perseveranza, fede e orgoglio. Cerco di comprendere

grandi filosofi – il più delle volte mi riesce

di afferrare solo brandelli dei loro preziosi pensieri.

Mi piace fare lunghe passeggiate per le vie parigine

e guardare i miei prossimi, vivificati da gelosia,

brama o rabbia; osservare l’argentea moneta

che passa di mano in mano e lentamente perde

la propria forma rotonda (si cancella il profilo del cesare).

Proprio qui accanto crescono alberi, non esprimenti nulla,

se non si calcola una verde, indifferente perfezione.

Per i campi incedono neri uccelli che aspettano

sempre qualcosa, pazienti come vedove spagnole.

Non sono più giovane, ma ci sono persone più vecchie.

Mi piace il sonno profondo, quando io non ci sono,

e mi piace correre in bicicletta in campagna,

quando i pioppi e le case si dissolvono

come cumuli nel cielo sereno.

A volte mi parlano i quadri nei musei

e di colpo sparisce l’ironia.

Adoro perscrutare il volto di mia moglie.

Una volta alla settimana, di domenica, telefono a mio padre.

Ogni due settimane m’incontro coi miei amici,

in questo modo ci serbiamo reciproca fedeltà.

Il mio paese si è liberato da un male. Vorrei

che seguisse un’ulteriore liberazione.

Posso essere utile in questo? Non so.

Non sono in verità figlio del mare,

come scrisse di sé Antonio Machado,

ma figlio dell’aria, della menta e del violoncello,

e non tutte le strade dell’alto mondo

s’incrociano coi sentieri della vita che, per ora,

appartiene a me.