CONVERSAZIONE CON FRIEDRICH NIETZSCHE

Illustrissimo signor Friedrich:

mi sembra di vederla, sì,

sulla terrazza del sanatorio, all’alba,

quando cala la nebbia e il canto fa esplodere

le gole degli uccelli.

Non alto, il capo chiuso a volta come un proiettile,

lei sta scrivendo un nuovo libro

e una strana energia le scorre attorno:

mi sembra di vedere i suoi pensieri ballare

come grandi eserciti.

Lei sa che è morta la bruna di capelli Anna Frank

e i suoi compagni e compagne,

coetanei, e le compagne dei suoi compagni

e i suoi cugini.

Voglio domandarle cosa sono le parole e cos’è

la chiarità, perché le parole ardono

finanche dopo cent’anni, benché la terra

sia così pesante, dura.

È ovvio: non c’è nesso fra la folgorazione

e l’oscuro dolore, la crudeltà, la ferocia.

Esistono perlomeno due regni,

se non di più.

Se, tuttavia, non c’è Dio e nessuna forza

assembla variegati elementi, allora

cosa sono le parole e da dove scaturisce

la loro luce interiore?

E da dove deriva la gioia? Dove approda il nulla?

Dove dimora il perdono?

Perché i piccoli sogni svaniscono sul far del giorno

mentre quelli grandi crescono?

DALLA VITA DEGLI OGGETTI

La levigata pelle degli oggetti tesissima,

quanto il tendone di un circo.

Sopraggiunge la sera.

Salve, oscurità.

Addio, luce del giorno.

Siamo come le palpebre, dicono le cose,

tocchiamo sia l’occhio sia l’aria, l’oscurità

e la luce, l’India e l’Europa.

E improvvisamente sono io che prendo a dire: o cose,

sapete cos’è la sofferenza?

Siete mai state affamate, smarrite, sole?

Avete mai pianto? Conoscete l’angoscia?

La vergogna? Avete mai incontrato l’invidia e la gelosia,

i piccoli peccati che non sono abbracciati dal perdono?

Avete mai amato? Siete mai state vicine alla morte,

di notte, quando il vento apre le finestre e penetra

nel cuore fattosi freddo? Avete mai capito, vissuto

la vecchiaia, il tempo, l’effimero? E il lutto?

Cala il silenzio.

Sul muro danza l’ago del barometro.

LA LAVA

Cosa dire però, pensai, se al tempo stesso

sia Eraclito sia Parmenide hanno ragione

e proprio uno accanto all’altro esistono due mondi,

uno pacato, l’altro forsennato; un dardo

sfreccia pazzo mentre l’altro scruta indulgente

il primo; la stessa onda scorre e non scorre,

gli animali nascono e periscono nello stesso istante,

le foglioline di betulla giocano col vento e intanto

vanno distrutte nella feroce fiamma ruggine.

La lava uccide e immortala, il cuore colpisce

ed è colpito, c’è stata la guerra, la guerra non c’è stata,

gli ebrei sono morti, gli ebrei sono vivi, le città

sono ridotte in cenere eppure stanno in piedi,

l’amore scolorisce, eterno bacio,

con tutta evidenza le ali dello sparviero sono marroni,

tu stai sempre con me sebbene noi non ci siamo più,

le navi affondano, la sabbia canta e le nubi

seguono un percorso come brandelli di veli nuziali.

Tutto perduto. Tanta epifania. I colli

portano cauti le lunghe bandiere del bosco,

il muschio sale sulla torre di pietra della chiesa

e con la boccuccia timidamente loda il settentrione.

Al crepuscolo i gelsomini luccicano come selvagge

lampade frastornate dal loro stesso fulgore.

Nel museo di fronte alla scura tela si restringono

le pupille feline di qualcuno. Tutto finito.

Cavalieri corrono su cavalli neri, il tiranno compone

una condanna a morte piena di svarioni.

La gioventù si tramuta in nulla

nel giro di una giornata, i volti delle fanciulle

si tramutano in medaglioni, la disperazione in incanto

e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo

come chicchi d’uva e il bello dura tremante e irremovibile

e Dio c’è e muore, la notte torna a noi

ogni sera mentre l’alba è canuta di rugiada.

ANTON BRUCKNER

All’alba bassi prati sanno di trifoglio.

Chiese barocche calpestano la terra.

Nella nebbia vanno carri contadini e oche

si lamentano in silenzio. Il Danubio scorre

lungo piatte pietre, si esercita

nella dizione come un timido Demostene.

Nei tunnel di fieno si rincorrono topi.

Dondolano lampade negli scuri cortili delle case coloniche

e ombre messe in fuga scivolano lungo i muri.

I passeri tentano discorsi in una lingua umana.

Pelo dei cavalli scarruffato, nelle scuderie gialla paglia,

evaporano fiumi di respiri, agghiacciano palmi di mani rossi.

Il mondo è troppo materiale, denso, identico

e le sue metamorfosi non portano in nessun posto;

agli specchi è venuta a noia l’ininterrotta proiezione

di quegli stessi oggetti, finanche l’eco balbetta.

Sulla soglia di un’imbiancata casa, fermo, in piedi,

c’è un ragazzo brutto in viso e dalla nuca troppo forte –

è buono e pio, ma non piace alle fanciulle.

Sulle spalle un modesto fagottino, pesanti scarpe ai piedi.

Gocce d’acqua cadono dal tetto in uno strano ordine,

stride il verricello del pozzo, le sedie parlano in sussurri.

Dov’è la frontiera fra le sfere? Dove sono le guardie?

In cosa sono simili due differenti elementi della natura,

piombo e ossigeno, l’inerzia delle mura di pietra e la musica

che corre fino all’ultimo respiro, come per liberarsi

della compagnia di oboi, corni e trombe, eppure

è con loro per sempre legata e i tamburi di pelle animale

correranno insieme alle lievi lance delle viole,

scorreranno come a ritmo di una sonnolenta danza,

attratti dalla forza dell’autre côté, lato invisibile e muto,

e in questa corsa affannata, che non è fuga, si dissolveranno

lo sfavillante Danubio e la chiesa di Linz con le due torri

e finanche la grande Vienna coll’aureo grano dell’imperatore

piantato in ubertosi giardini resterà indietro

come se fosse un insignificante punto sulla mappa.

Anton Bruckner lascia la casa natale.

LO SFAVILLARE DEI LAMPIONI

in memoria di Konstanty Jeleński

Un po’ di morte era in te come in ognuno di noi,

ma non sapevo che presto

avrebbe conquistato l’intero territorio.

È pur vero che ridevi così audace,

come se stessi inghiottendo l’eternità, il fuoco.

Eri un soldato, in gioventù avevi sconfitto

il Terzo Reich; nel carrarmato leggevi libri,

in compenso per boulevard Saint-Germain,

in un tramonto così enorme da non poter trovare spazio

fra i muri dei palazzi, camminavi a passo

elastico, impettito come Montgomery.

Nulla l’un dell’altro sapevamo, essendo

amici. Alcune strade sono adesso fondi fiumi,

insuperabili. L’estate al Sud era torrida,

ardevano i boschi. Una volta si scendeva insieme

in una stazione del metrò in periferia, due forestieri

che si dileguavano sotto la superficie della terra,

cadeva una fredda pioggia e lo sfavillare al neon dei lampioni

si scioglieva nell’umidità come una gouache.

Un’altra volta eravamo seduti nella cucina

del tuo appartamento in rue de la Vrillière,

in compagnia di un gatto bianco che beveva

l’acqua direttamente dal rubinetto. Un’altra volta

– non accadrà più. Ora abiti nell’ombra;

che le falene imparino a correre verso l’oscurità

visto che riesce loro così facile

ritrovare la via della luce.

CRUDELE

a Józef Czapski

Nel parco di Saint-Cloud cantavano gli uccelli.

Ero da solo nell’esteso, narcisistico

parco che guarda Parigi.

Stavo pensando alle tue parole:

il mondo è crudele, si divora

a vicenda, è crudele, crudele.

Giravo in tondo per il parco di Saint-Cloud, camminavo

al movimento delle lancette d’orologio.

Passavo sotto i nudi rami

dei castagni, salutavo gli scuri cedri.

Udivo crepitare le pigne di pino

quando venivano aperte da cince e passeri.

Nel parco non c’erano grandi belve né rapaci

se non vogliamo dire del tempo, che cambiava pelle,

gettando l’inverno per indossare la verde primavera

e per un attimo fu privo di un mistero che l’avvolgesse,

come un attore che si spossessi di una tunica in un freddo

[guardaroba.

È crudele, stavo pensando. È un assassino

tollerato dalla polizia e dai preti, e anche tu

nei suoi confronti, se ne hai fatto il protagonista

delle tue tele. Ci sarà forse una scelta –

un altro, più delicato, migliore mondo,

alberi più belli, cedri dagli aghi

ancora più scuri, festività ancora

più magnifiche, attimi assorti

diretti all’eidos della conoscenza,

un buono, mite chronos, che ci rendesse

coloro che perdemmo per sempre

e noi stessi, innocenti e giovani?

Il cielo, rosa, legato coi nastri delle nuvole.

Le mura marroni delle prigioni, degli ospedali e dei tribunali,

gli interminabili corridoi del pianto, gli attimi assorti,

ardenti, franti, messi a repentaglio

da angoscia inquietudine e tradimento.

Giravo in tondo per il parco di Saint-Cloud, sempre più veloce.

Era finito l’inverno, la primavera non era ancora giunta.

Nel vuoto parco, disertato dal monarca

ripetevo la parola “crudele” tante volte,

mi ascoltavano gli uccelli e le lucertole,

da oltre le nebbie uscì un bianco sole

e mi trafisse l’acuminato arpione del rapimento.

STECCATO, CASTAGNI, CONVOLVOLO, DIO

Steccato. Castagni. Convolvolo. Dio.

Nelle ragnatele si nasconde

l’archè, il primo mobile, nella folta

erba si asciugano le luccicanti

prove d’esistenza.

Profumano le trecce e il vento

confuso con la bocca della promessa sposa.

Acido è il sapore dello stelo,

strofinato sotto la lingua.

Le nere bacche non saranno

il nostro pomo della discordia.

Fioriscono gli anemoni sul ruscelletto,

la palla sfugge a una ragazzina,

placidamente ondeggia

un maturo, giallo biancospino.

Spegni il sole folgorante,

ascolta il ricordare del papavero.

Steccato. Castagni. Convolvolo. Dio.

NELL’ORA DELLA MORTE

Ringiovanivi nell’ora della morte –

parlavi l’infanzia.

Un bianco paravento (ala d’aliante)

ti recintava rispetto ai viventi,

balbettava la flebo, lungo il parapetto

camminava un impaziente colombo.

Stavi morendo intero. Tutte le epoche

della tua vita stavano morendo nell’ospedale:

il diciottenne elegantone, l’energico trentenne,

l’insegnante di tedesco severo con gli alunni,

il pensionato che faceva tutti i giorni lunghe passeggiate

e forse superava la distanza

che separa la terra dal cielo.

Rinascesti per morire;

dal corridoio arrivava il riso delle infermiere,

sotto la finestra i passeri si azzuffavano per un briciolo di pane.

NINNA NANNA

Oggi non ti addormenterai. Tanto è il fulgore nella finestra.

Fuochi artificiali crescono sulla città.

Non ti addormenterai, troppo è avvenuto.

Libri vegliano su di te, disposti in file.

Penserai a lungo a ciò che è successo

e a cosa non c’è stato. Non ti addormenterai, oggi.

Si ribelleranno le tue palpebre rosa,

avrai gli occhi rossi, brucianti,

e il cuore gonfio di ricordi.

Non ti addormenterai. Si aprirà l’enciclopedia

e ne usciranno antichi poeti, ben vestiti,

imbacuccati contro il freddo. Si aprirà la memoria,

come un paracadute, nel repentino sibilo dell’aria.

Si aprirà la memoria e no, non ti addormenterai,

ondeggerai fra le nubi,

obiettivo mobile e chiaro nella luce dei fuochi d’artificio.

Non ti addormenterai mai più, troppo ti è

stato raccontato, troppo è accaduto.

Non a caso ogni goccia di sangue potrebbe

scrivere per intero la propria scarlatta Iliade.

Ogni alba potrebbe diventare autrice

di scure memorie. Non ti addormenterai

sotto la spessa coltre dei tetti, delle soffitte e dei camini

che scagliano in alto un pugno di cenere.

Le notti bianche trascorrono sommesse il cielo

e i remi frusciano, seriche calze.

Uscirai per andare al parco e i rami

più volte, amichevoli, ti colpiranno le braccia,

cresimandoti una volta in più, come se non fossero

certi della tua fedeltà. Non ti addormenterai.

Correrai attraverso il parco vuoto, diverrai

ombra e incontrerai altre ombre. Penserai

a qualcuno che non c’è più e a qualcuno

che è vivo così tanto, che questa vita strabocca

fino a diventare amore. Luce, luce, sempre più,

ecco, si sta accumulando nella stanza. Oggi

non ti addormenterai.

ELIADE

Romania, malinconia, lunghe spedizioni

a piedi o con un kajak (la tempesta sul Danubio

avrebbe potuto concludersi tragicamente),

poi il viaggio in India, Lisbona, Londra,

infine Parigi – rue Vaneau – e Chicago.

Voleva essere come Buddha o Socrate –

portarci fuori dalle cantine della storia.

Favilla degli dèi, scongiurava, insegnami a ridere allegro!

Favilla degli dèi, fai scattare in piedi gli spossati

profughi della Moldavia, che danzino, dimenticando

le case distrutte, il diluvio, le tombe.

Ebrei, non abbiate più paura delle persecuzioni,

vi aspetta il momento d’incanto, la felicità.

Favilla degli dèi, liberaci dalla triviale tirannia

dei moderni Neroni e Tiberi;

aria, apri le cateratte della magia.

Non a caso persino i piccoli oggetti – le spille di sicurezza,

le correggiole, i pettini – conoscono il gusto dell’eternità.

Non è forse vero che gli archeologi li trovano

nella polvere e nell’argilla, dove giacciono quieti,

come se venissero sognati da grandi pittori?

Pensionanti di questo secolo, non sapete

che ovunque covano fiammelle di gioia

e che i buoni spiriti ci vengono dietro in punta di piedi

e gli invisibili loro cuori battono lievi

come martelletti in un’aria di Mozart?

Uno storico della religione – scrisse di lui

Cioran – non riesce, non sa pregare.

La redenzione è un’alta onda, che cieca percuote

la riva sabbiosa, se ci sono una riva, un oceano,

una nera nuvola e la luna, governatrice del cielo.

I demoni dell’Europa Orientale, che tanto lo appassionavano,

giunsero al suo funerale nel cimitero americano

e ridevano inaudibili, con ammirazione.

CAMPANE

Ci rifugeremo nelle campane, nel loro abbandonarsi,

nel rimbombo, nell’aria, nel cuore di quei colpi.

Ci rifugeremo nelle campane passando

al di sopra della terra in pesanti vagoni. Al di sopra della terra,

dei campi, dove ci sono prati, portati

da giovani frassini e chiese campestri avvolte dal sipario

delle nebbie mattutine e boschi in corsa come branchi

d’antilopi: lì dove i mulini girano in silenzio

nei flussi d’acqua. Al di sopra della terra, dei prati,

della bianca pratolina, della panca sulla quale

l’amore incise un segno imperfetto, al di sopra

del salice obbediente al gelido vento,

della scuola in cui a sera le paroline

latine conversano sole, con se stesse; al di sopra dello stagno

profondo, del lago chiamato Occhio del Mare, del pianto

e del lutto, del binocolo rilucente

al sole, dei calendari

che, ricolmi di tempo, giacciono sul fondo del cassetto

placidamente come anfore greche nel mare.

Al di sopra della frontiera, del tuo attento sguardo,

della pupilla di qualcuno, del cannone arrugginito,

della solenne porta che apre al giardino che non c’è più,

al di sopra delle nubi, della pioggia che beve rugiada,

di una lumaca che non sa su quale monumento

si sta arrampicando, al di sopra di un treno espresso,

che respira concitato, di un ragazzo

che si annoda la cravatta prima di una festa scolastica,

al di sopra di un parco urbano dove continua a riposare

il temperino svizzero un tempo perduto.

Quando verrà la notte ci rifugeremo

in campane, in lievi veicoli,

in aerostati di bronzo.

GUARDANDO “SHOAH” IN UNA CAMERA D’ALBERGO, IN AMERICA

Capita che la notte sia delicata come il pelo di un puledro,

ma noi preferiamo gli scacchi o le carte: ecco

che gli ospiti dell’albergo cantavano “happy birthday to you”

mentre il monocolo tv mischiava indifferente il mazzo

[delle immagini.

Gli alberi della mia infanzia avevano attraversato a nuoto

[l’oceano

e mi salutavano con fare scostante dallo schermo.

Contadini polacchi s’invischiavano in dispute teologiche

disinvolti come gesuiti, solo gli ebrei tacevano,

stanchi del lungo morire.

I torrenti delle mie vacanze scorrevano prudenti

attraverso un continente a loro ignoto, straniero.

Carri con sponde a rastrello portavano capelli anziché fieno

e stridevano i loro assi sotto il soffice peso.

Siamo innocenti, dichiaravano i pini.

Le SS si erano trasformate in fragili anziani, i medici

lottavano per il loro cuore, la loro vita e coscienza.

Era ormai tardi, sentivo l’insidiosa onda della sonnolenza.

Volevo addormentarmi, addormentarmi, ma gli ospiti

[dell’albergo

a voce sempre più alta gridavano “happy birthday to you”

(invocavano più forte dei morenti ebrei).

Grandi camion trasportavano le stelle dal firmamento,

i treni andavano malinconici nella pioggia.

Sono innocente, si giustificava Mozart,

solo il pioppo tremulo tremava come sempre,

confessando ogni crimine.

Dov’è la mia casa, cantavano gli ebrei cechi.

Non c’è casa, le stanno bruciando, nelle case

sta fischiando un gelido gas.

Ero sempre più assonnato e innocente.

La tv mi assicurava: noi entrambi

siamo al di sopra di ogni sospetto.

Il compleanno stava diventando sempre più fragoroso.

I lillà fioriscono ogni anno come petardi viola.

Le scarpe di Auschwitz, erte: terrapieno, una piramide

che toccava il cielo, si lamentavano sottovoce:

purtroppo siamo sopravvissute all’umanità.

Dormiamo, dormiamo, non abbiamo dove andare.

POMERIGGIO DI SETTEMBRE IN CASERME ABBANDONATE

Il sole, il saturo sole di settembre,

il sole della messe e dei gialli campi di stoppie,

si arrestò su di me

e sulle costruzioni delle caserme abbandonate.

Il silenzio bivaccava lì dove una volta

risuonavano rumorosi comandi,

il silenzio lasciato dai soldati, il silenzio

lasciato dall’ospedale da campo, dove un tempo

si udivano i gemiti degli ammalati.

Il cortile era ricoperto dall’erba, alta, fiera,

matura per la lama della falce.

Il silenzio dominava lì dove un tempo avevano pianto

le reclute dai plumbei crani rapati.

E anche in me c’era silenzio, lì dove una volta

aveva dimorato la disperazione.

Per il sentiero corre un gallo nero, bandiera

piena di ardente sangue.

Sbiadisce l’autunno,

si spegne la guerra.

A MEZZANOTTE

Parlavamo e parlavamo, quella notte, in cucina;

la lampada a petrolio morbidamente splendeva

e gli oggetti, fatti arditi dalla sua delicatezza,

facevano capolino dalla tenebra, rivelando

i propri nomi: tavola, sedia, saliera.

A mezzanotte dicesti usciamo, mettiamoci davanti

alla facciata della casa. D’improvviso vedemmo il cielo

e deflagrarono le stelle, d’agosto le stelle.

Il chiaro fuoco della notte agostana tremava

su di noi, indomito, eterno.

Il mondo andava in fiamme, senza suono, avvolto

da un bianco incendio, nel quale dormivano paesetti,

chiese e biche di fieno, odoranti di menta

e trifoglio. Bruciavano alberi e torri,

acqua e aria, e vento, e fiamme.

Cos’è il silenzio di stanotte, se i vulcani

hanno gli occhi spalancati, e il passato

è presente e minaccioso, emerge di nascosto

così come la luna o il cespuglio di ginepro?

Fredda è la tua bocca e fredda sarà l’alba,

asciugamano buttato su una fronte incandescente.

IN PRIGIONE

in memoria di Anatolij Marčenko

Forse in altri continenti

ci si è già dimenticati di te e non tutti sanno

cos’è la fedeltà,

ma la tua cella, la tua casa, il tuo sepolcro

sono fedeli, per sempre.

Forse di notte non riuscivi a addormentarti

e pensavi cosa sia la giustizia –

l’ombra di Platone come una farfalla si cullava

sulla livida lama della baionetta della sentinella

che costeggiava il muro – sotto la tua cura –

senza fine.

Forse in prigione la morte è una stella

che apre i muri ricoperti di scrittura cuneiforme

e solleva la pesante palpebra dello spioncino;

forse esplode la chiarezza.

VELE

Alcune sere, purpuree come vele fenicie,

assorbivano luce e aria; d’un tratto quasi

perdevo il respiro e mi accecavano gli sghembi raggi

del sonnolento sole. Così finiscono le epoche, pensavo,

così vanno a fondo pesanti navi, così crollano le palpebre

di vecchi teatri, rimane soltanto polvere e fumo,

aguzza ghiaia sotto i piedi e un’angoscia che è

vicina alla gioia, e la fine, il silenzio, il rasserenamento.

Presto però si veniva a sapere che era un’ulteriore prova

generale, un’ulteriore pazza improvvisazione:

ecco che le comparse tornano alle case, le rondini

si addormentano in nidi pericolosi, una provinciale

luna timidamente s’infila al suo posto, masnadieri

si tolgono le parrucche, un prete scrive alla madre.

Con quanta pazienza ci prepari e ci abitui,

quanto tempo ci dedichi,

oh, sei la vera insegnante di storia, terra.

CANZONE DEI RAGNI

Dov’è l’esistenza che era,

le antiche civiltà e i tramonti

pacifiche città sui colli, torri,

dov’è il canto dei monaci, la fiamma,

dove si sono nascoste le generazioni trascorse,

così promettenti e piene di speranza?

Dove sono i pogrom, la paura e il sangue,

la folla, l’odio e lo strepito?

Dove sono le buon’anime delle donnole,

le buon’anime dei rigogoli e dei pioppi?

Ero nel bosco e guardavo le foglie

arse dalla brina.

Ragni facevano l’altalena su lunghi sottili fili

come si divertissero col lutto e cantando:

Ciò che era dura nell’immaginazione.

Ciò che è attende la distruzione.

LA TELA

Ero fermo, dritto, eretto, chiuso in un aperto

silenzio, di fronte a un oscuro quadro,

di fronte a una tela pronta a trasformarsi

in un cappotto, in una camicia, in una bandiera,

e invece divenne cosmo.

Continuavo a tacere di fronte all’oscura tela,

colmo d’incanto e di rivolta e pensavo

all’arte del dipingere e all’arte di vivere,

a tanti giorni vuoti e gelidi,

agli attimi d’impotenza,

alla mia fredda immaginazione

che è cuore di una campana

e vive solo nel dondolio,

colpendo ciò che ama

e amando ciò che colpisce,

e pensai che quella tela

avrebbe potuto essere anche un sudario.