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LA MISSIVA DAL DESERTO
Triste la nostra epoca, in cui è più facile
disintegrare un atomo che un pregiudizio.
ALBERT EINSTEIN
Ci eravamo fermati accanto alla porta di vetro opaco che dava sullo studio del genio. Mi stupiva che di lunedì mattina in quell’ala dell’edificio quasi non ci fossero attività.
«Questo istituto fu fondato dai fratelli Bamberger proprio dopo il crack del 1929», spiegò la donna. All’inizio volevano che fosse una scuola di odontoiatria, ma un amico li convinse a dedicare il centro alle scienze teoriche. La loro missione era accogliere emigranti ebrei, come Einstein, che venivano respinti dall’antisemita Università di Princeton.
Dalla passione che metteva in quel racconto, capii che Meret era ebrea e si sentiva orgogliosa di lavorare nell’istituto. Prima di aprire la porta, mi fissò e mi chiese:
«Lei lo sa chi ha diretto l’istituto negli ultimi anni di vita di Albert?».
Mi strinsi nelle spalle con un certo imbarazzo. Mi rendevo conto che la mia preparazione sulla tappa di Princeton lasciava un po’ a desiderare.
«Julius Robert Oppenheimer. Niente meno che il padre della bomba atomica. Può immaginare che discussioni avrà avuto il signor Einstein lì dentro con il direttore... uno era l’autore teorico dell’invenzione. L’altro, il suo esecutore».
Aprì con una piccola chiave la porta dello studio e accese le luci. Mi sentii come un iniziato che penetri nel luogo più sacro della sua religione. Il silenzio di quell’ampia sala con mobili vetusti conteneva molteplici enigmi. Capii che se Einstein alla fine della sua vita era arrivato a un’«ultima risposta», quella doveva essere nata tra quelle pareti.
Dietro il massiccio scrittoio con la sua sedia, c’erano una nutrita biblioteca scientifica e una piccola lavagna sorretta da un piedistallo. La superficie sembrava essere stata pulita da poco, come se Albert fosse ancora vivo e avesse cancellato i suoi errori prima di uscire a fare una passeggiata.
Notando il mio interesse per la lavagna, Meret disse:
«Come nella vita, la cosa interessante non è la parte visibile, ma ciò che sta dietro».
Subito dopo, fece girare la lavagna sull’asse per mostrarne il retro. Un secondo prima che questo si palesasse ai miei occhi, seppi – come raggiunto da una premonizione – cos’era quello che avrei visto.
E = ac2
Anche se la calligrafia era uguale a quella della formula proiettata da Jensen, cosa che dava credibilità alla sua ipotesi, mi assalì la delusione di aver viaggiato fin lì per vedere qualcosa che conoscevo già. Quella formula mi perseguitava da quando tutto aveva avuto inizio.
«Sa cosa significa quella “a”?», domandai.
«Nessuno lo sa», rispose la donna incrociando le braccia. «E io ancora meno. Lavoro nell’amministrazione del centro. Non sono una scienziata».
Per non fare un torto alla funzionaria, appuntai nuovamente la formula sul mio taccuino fingendo un grande interesse.
«Ora me ne devo andare», annunciai. «Credo che ci sia un treno...».
«Pensavo volesse vedere quello che è stato trovato qui».
«Non è la formula?».
Meret scoppiò in una breve e secca risata e poi aggiunse:
«Quello sta lì dalla morte di Einstein. Mi riferivo al quadro. Guardi bene, non vede nulla di strano?».
Mi indicò un piccolo dipinto appeso tra due librerie. Mostrava un vecchio transatlantico – forse lo stesso in cui il fisico aveva viaggiato fin lì – che solcava un mare infuriato. Cercai nella parte in basso a destra la firma dell’artista, nel caso fosse quella di Einstein, ma non trovai nulla.
Lo feci notare a Meret, che rispose:
«Ci sono molti quadri senza firma, soprattutto quando la loro funzione è puramente decorativa. Ma questo ha qualcosa di particolare. Lo guardi bene...».
Intrigato, mi avvicinai al dipinto. Non c’era niente di strano sulla nave, né in mare né in cielo. Nell’indietreggiare di qualche passo per vederlo nell’insieme, notai una leggera inclinazione verso destra della linea dell’acqua, come se l’artista avesse piegato leggermente la testa mentre dipingeva l’imbarcazione.
Senza chiedere il permesso alla funzionaria, alzai la parte sinistra del quadro di qualche millimetro fino a che la linea del mare non si trovò in orizzontale con il mio sguardo. Proprio allora, dal retro, cadde qualcosa.
«Fu così che lo scoprimmo», disse orgogliosa, mentre si chinava a raccogliere una busta dal formato insolitamente piccolo. «Il signor Albert ideò un’intercapedine dietro la cornice che fa cadere il suo contenuto solamente quando lo si inclina così come ha fatto lei ora. Ingegnoso, non le sembra?».
La donna mi porse delicatamente la bustina, che mi ricordò quelle che si utilizzavano, anni addietro, per i santini della prima comunione.
«Solamente io e il direttore del centro siamo a conoscenza di questo piccolo segreto. Lei sarà la terza persona. Se l’è guadagnato per il fatto di essere venuto da tanto lontano».
Aprii con cautela la busta, che aveva il francobollo timbrato, anche se non riuscii a decifrarne la provenienza. Ne estrassi un foglio di carta velina piegato più volte. Nell’aprirlo, riconobbi la stessa grafia della cartolina di Cadaqués, anche se con un tratto più insicuro e infantile.
Un brivido mi corse lungo la schiena, e le mie mani cominciarono a tremare leggermente mentre leggevo la lettera:
Trinity, 3 gennaio 1955
Caro nonno,
è così grande il deserto e così piccola la mia speranza di rivederti!
Penso molte volte a quello che mi dicesti: c’è una forza più potente della gravità, del magnetismo e della fissione nucleare. La nostra missione come esseri umani è scoprirla e domarla per illuminare il mondo intero.
Se questa forza esiste, dobbiamo liberarla proprio qui, nel luogo più triste della Terra. Per questo resteremo.
Sempre tua,
Mileva