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LE PORTE DEL PASSATO

 

 

 

La sola ragione dell’esistenza del tempo è che esso

impedisce che le cose accadano tutte in una volta.

ALBERT EINSTEIN

 

L’unica via d’uscita era mettere le carte in tavola. Prima che quel pazzo premesse il grilletto o chiamasse lo sceriffo del posto, Sarah gli spiegò in poche parole che stava preparando una tesi di dottorato sulla prima moglie di Einstein. Tuttavia, David Kaufler non sembrava contento di parlare della madre biologica.

«Non so niente di lei e nemmeno mi importa. Porto il suo cognome perché mio padre diceva che il suo, Smith, era troppo comune per portare a qualcosa nella vita. È evidente che si è sbagliato». Lasciò cadere la tazza vuota sul tavolo e concluse: «Inoltre, non si sposarono e a quell’epoca non era come adesso, per questo sono un Kaufler mio malgrado».

«In ogni caso», intervenne Sarah timidamente, «ci piacerebbe sapere se Lieserl...».

Il vecchio gigante si alzò in piedi facendo stridere forte la sedia. Pensai che con ciò la riunione fosse chiusa ma, con nostra sorpresa, Kaufler si arrampicò in alto sulla credenza della cucina e tirò giù un album tutto impolverato.

Mentre ci dava le spalle, mi azzardai a rimettere il revolver – era rimasto pericolosamente naufrago sul tavolo – nel cassetto, che chiusi proprio prima che dicesse:

«Conservo solo un ricordo di lei».

Subito dopo l’album atterrò rumorosamente sul legno. Sarah guardava affascinata la spessa copertina di tela marrone. Sotto il leggero strato di polvere, si poteva ancora distinguere il titolo di un certo effetto: «DOORS OF TIME».

Dovemmo aspettare che il maldestro padrone di casa si decidesse ad aprire la prima di quelle «porte», dietro la quale c’era la fotografia in bianco e nero di un longilineo militare. Si trovava in groppa a un asino e aveva un’espressione furba. Non ci voleva molto a capire che quello era il soldato che aveva rubato il cuore di Lieserl.

Come se l’immagine non fosse degna di alcun tipo di commento, Kaufler passò alla successiva cartolina nera. Tra due foto di affollate riunioni familiari, c’era il ritratto di una donna che teneva in braccio un enorme bebè. Era brutto come quelli che adornavano l’ingresso di quella casa.

Per evitare che permanessero dei dubbi, il gigante posò un’unghia lunga e nera sul bambino.

«Questo ero io».

Il nostro sguardo viaggiò fino alla parte superiore della foto. A sostenere il bambino sproporzionato era una donna giovane e fragile. Sotto la chioma riccia, occhi incredibilmente astuti – come quelli di suo padre – sembravano voler sfidare il fotografo.

«Mi ha abbandonato a soli due anni», disse chiudendo l’album di colpo.

Una nuvola di polvere si alzò sul tavolo come un fungo nucleare in miniatura.

«Avrà avuto una buona ragione per farlo», si azzardò a dire Sarah. «Voglio dire, una madre non abbandona suo figlio piccolo se non è...».

Si interruppe nel vedere che di nuovo il cassetto della pistola si apriva e richiudeva in maniera compulsiva. Feci alla francese cenno di alzarsi. La pazienza dell’uomo sembrava essersi esaurita. Era impossibile prevedere come sarebbe potuta finire la giornata se avessimo continuato a tirare la corda.

«Magari i nostri vestiti sono già asciutti», intervenni. «La ringraziamo molto per averci salvato da una polmonite».

Ci eravamo alzati in piedi, invitando Kaufler a fare la stessa cosa e a portarci i nostri stracci per poter andar via di lì. Tuttavia, il linguaggio non verbale fu un fallimento. L’uomo continuava a sbattere il cassetto pieno di ferro e piombo mentre fissava con sguardo furioso Sarah. Si interruppe solamente per dire:

«Troia!».

Gli occhi azzurri della mia compagna scintillarono per l’indignazione. Fece un passo verso Kaufler e temetti la catastrofe, ma questi si strinse inaspettatamente nelle spalle, poi aggiunse:

«Niente giustifica il fatto che mia madre sia sparita dalla sera alla mattina. Sicuramente mio padre aveva un brutto carattere, perché la guerra l’aveva indurito, ma a Boston era riuscito a darci un tetto. Non giocava, non beveva, non frequentava prostitute. Era un brav’uomo».

Kaufler sembrava parlare a se stesso, con lo sguardo perso in un angolo della cucina. Senza menzionare sua madre, provai a dare una certa piega al suo discorso per assecondare Sarah.

«Come è arrivato lei a Staten Island?».

L’uomo girò la testa verso di me con la lentezza di un rettile preistorico.

«Mi sono sposato con la proprietaria della casa morta. Per un po’ siamo stati felici, ma tutte le cose belle finiscono».

Dopo aver detto questo rimase assorto.

Il cassetto era mezzo aperto, ma non si muoveva più. Io e Sarah ci guardammo con disagio. Come se all’improvviso se ne fosse reso conto, David Kaufler si alzò bruscamente e attraversò la cucina fino a sparire in direzione del salone.

«Non abbiamo fatto nessun passo avanti», sussurrai a Sarah.

«Non è detto».

I nostri vestiti ormai asciutti piombarono sul tavolo. Questa volta il gigante uscì dalla cucina affinché ci cambiassimo, come se si fosse già stancato di noi.

Con lo sguardo fisso verso il pavimento per non rimanere turbato, mentre mi cambiavo ringraziai il cielo di poter uscire da quel posto opprimente e pieno di ricordi amari.

Kaufler era già nell’ingresso con la porta aperta. Era stato detto tutto.

Mi congedai in silenzio da quell’esposizione di mostri infantili prima di uscire dalla casa. Con la sicurezza che le dava la riconquistata libertà – e la certezza che il revolver fosse in cucina –, Sarah trovò il coraggio di fare un’ultima domanda.

«Lei sa se sua madre ha avuto una figlia dopo essere arrivata a New York?».

Per tutta risposta ci sbatté la porta in faccia.

Prima che ritornasse con il revolver, approfittammo del fatto che non piovesse per incamminarci verso una strada in discesa. Nel passare di nuovo vicino alla casa morta, un volto alla finestra senza rampicanti mi raggelò.

Presi per il braccio Sarah, che istintivamente alzò lo sguardo.

Sembrava una bambina, ma entrambi sapevamo che non lo era.

Lorelei.

Un provvidenziale taxi che si avvicinò a noi fu il segno che dovevamo allontanarci da lì.

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