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LA NOTTE DI TEA
Non mi sento terrorizzato
perché non conosco le cose,
né per essere perso nel misterioso universo
senza avere alcun proposito:
questo è il modo in cui la realtà è.
RICHARD FEYNMAN
La casa della sorellastra di Lieserl si trovava nei dintorni di Novi Sad, alla fine di un bosco isolato con uno stagno asciutto.
A quanto pare, Tea era stata l’ultima figlia biologica di Helene Kaufler Savić́, che si era occupata della figlia della sua amica prima che questa si sposasse con Einstein. Quello che era successo dopo era un mistero che speravo di risolvere quella sera stessa.
Ci aprì la porta un uomo di mezza età con i capelli bianchi e l’espressione fiera. Dopo essersi presentato come Milos, ci salutò dandoci la sua grossa mano da agricoltore. Poi in un inglese abbastanza comprensibile disse:
«Mia madre vi aspetta nel salone. Non la fate stancare troppo, oggi non sta molto bene».
Prima di attraversare l’ingresso, Sarah gli consegnò una busta. L’uomo la piegò in due e se la infilò nella tasca del giubbotto senza aggiungere altro.
La piccola dimora di Tea Kaufler era una confusa collezione di ricordi che accumulava polvere e risentimento. Dal corridoio rivestito di carta da parati pendeva un ritratto del maresciallo Tito, così come varie fotografie di un partigiano dai grandi baffi che doveva essere imparentato con l’inquilina.
Milos ci guidò fino a un salone poco illuminato in cui potei distinguere un poster con lo slogan: VISIT YUGOSLAVIA. Nell’immagine, due ragazze dall’espressione allegra brindavano con la cittadella di Dubrovnik (nell’attuale Croazia) sullo sfondo. Tutta la stanza puzzava di chiuso e urina di gatto.
Visibilmente emozionata, Sarah mi afferrò il braccio quando arrivammo alla sedia a dondolo su cui un’anziana dai capelli rasati sembrava dormire con una coperta leggera sulle ginocchia.
Suo figlio mi sussurrò all’orecchio:
«È cieca, ma sa perfettamente che siete qui».
Un minuto dopo tornò con un vassoio sul quale erano poggiati quattro bicchierini di rakija. Uno era per l’anziana, che lo afferrò con notevole precisione. Se lo avvicinò alle labbra mentre con il naso inspirava fortemente, come se valutasse l’aroma delle prugne con cui era stata prodotta la grappa.
Poi con voce spezzata mormorò:
«Kako...».
Non era la persona che aveva detto «Cabaret Voltaire» al telefono, e molto probabilmente nemmeno le lettere erano uscite dalle sue mani. Tuttavia, al momento, Tea Kaufler era tutto ciò che avevamo per cercare di far combaciare alcuni pezzi del puzzle.
Milos parlò dolcemente all’orecchio della madre, che annuì un paio di volte mentre emetteva diversi grugniti. Poi lui ci guardò e capimmo che l’intervista poteva cominciare.
Lasciai a Sarah l’iniziativa. Aveva le mani incrociate sul grembo in una posa alquanto pudica e dopo aver salutato l’anziana signora e averla ringraziata per la sua gentilezza iniziò:
«Siamo qui perché stiamo completando una biografia di Einstein e ci piacerebbe chiarire alcuni legami con la famglia».
Milos tradusse la domanda e l’anziana, nel sentire il nome del fisico, iniziò a scagliare delle invettive in serbo.
«Mia madre non ha una grande stima di Einstein», disse. «Non gli perdona il fatto che non si sia mai degnato di conoscere sua figlia».
«Lei l’ha conosciuta?», intervenni, rivolgendomi a lui.
«Ho un ricordo piuttosto vago. Era una donna molto bella, secondo quanto racconta mia madre. Al termine della seconda guerra mondiale si stabilì negli Stati Uniti e non è più tornata».
Sarah proseguì:
«Suppongo che loro due abbiano continuato a mantenere i contatti tramite telegrammi o per telefono. Potrebbe chiedere a sua madre se Lieserl riuscì mai a conoscere il padre in America?».
L’anziana ascoltò la domanda mentre beveva il suo liquore facendo un gran rumore. Nel sentire di cosa si trattava, cominciò a dire di no con la testa e a esclamare:
«Nema, nema, nema...».
Poi si lanciò in un lungo sproloquio che il figlio accolse con mormorii di approvazione. Milos inspirò forte e cominciò:
«Lieserl non aveva nessun interesse a conoscere l’uomo che l’aveva abbandonata. Specialmente considerando il modo in cui aveva trattato Mileva, con la quale aveva mantenuto qualche contatto. Ciò che la portò a Boston fu l’amore per un soldato americano che aveva conosciuto in un campo di rifugiati di Trieste mentre lavorava come infermiera».
Potei leggere la delusione sul viso di Sarah. Quella versione dei fatti non coincideva con l’ipotesi che avevamo tessuto in maniera tanto elaborata. Nonostante tutto, insistette:
«Può chiederle se Lieserl ha avuto una figlia negli Stati Uniti? Forse una bambina di nome Mileva?».
Milos tradusse la domanda all’anziana, che rispose con una debole risata. Poi pronunciò tre o quattro frasi con un tono irritato. Era chiaro che quell’interrogatorio iniziava a stancarla.
L’uomo si voltò verso Sarah e disse:
«Tutto quel che mia madre sa è che ha avuto un bambino con il soldato. Si chiamava David. Poi Lieserl si separò e ne perse le tracce. L’ultima cosa che ha saputo è che aveva accettato un posto da infermiera a New York».
Anche se la situazione suggeriva che era meglio finire lì la conversazione, Sarah pregò Milos di fare un’ultima domanda a sua madre. Voleva sapere se, prima della sua morte, Einstein avesse cercato di risarcire la figlia in qualche modo, così come aveva fatto con Mileva dopo aver ricevuto il Nobel.
Tea Kaufler ascoltò infastidita la domanda e poi concluse:
«L’ultimo regalo di Einstein a Lieserl, dopo averla disprezzata come un insetto, fu quello di piantare in asso Mileva per andare a letto con sua cugina».
Tradotto questo, l’uomo ci invitò ad andare via. Un taxi, che lui aveva già chiamato, ci aspettava all’ingresso.
Seduti sul sedile posteriore, io e Sarah ci guardammo. Eravamo in un vicolo cieco. Mentre il tassista ci riportava verso il centro di Novi Sad, lei, sospirando, disse:
«E adesso?».