Amore assoluto (e buche)
Sta di fatto che succede, e poi vallo a sapere perché succede. La stessa sensazione che provano le donne quando sono incinte, almeno cosí mi pare: quel senso di gioia, la commozione per un nonnulla. Che so, una banda che suona e al ritmo delle trombe i pezzi di fuliggine che abbruniscono l’animo si staccano e ti lasciano: ciao ciao. Saluti i bimbi con la vocina scema: perché questo bel bimbo piange? Oppure ti fermi sul lungotevere, al semaforo, e percorri i sette colli con lo sguardo: Roma è bellissima, dici ad alta voce, a pieni polmoni, e capita anche che qualcuno annuisca, tipo: e c’hai ragione, ma adesso mòviti. E tu ti muovi molto lentamente nel traffico, scivoli tra le macchine, nulla ti tocca, lo smog t’accarezza, i clacson si spengono. Capita alle donne incinte, dicevo. Ma a me, perché dovrebbe capitare? Cos’è questo languore? Cosa sono questi sogni vividi e luminosi come quelli di un adolescente?
Allora telefono a Paola:
– Non so se la nostra conversazione mi ha fatto bene o male.
– Cioè? – mi chiede Paola gridando perché sta in motorino, in mezzo al bordello.
– Non so se mi hai trasferito empatia verso il mondo o depressione, – le rispondo a voce bassa perché non sono in mezzo al bordello.
– Ehhh? La depressione non credo, se ti commuovi per ogni cosa.
– Potrebbe essere un effetto della miglioria della morte.
– Cioè? – e alza di piú la voce.
– La miglioria della morte!
– Ho capito, ma che è?
– Quando qualcuno sta per morire, e ci sono i parenti al capezzale, tutti piangono, e quello all’improvviso si alza, si sente benissimo, mangia, parla, i parenti allora piangono dalla commozione: si è ripreso, si è ripreso, e dopo un’ora muore.
– Ah! Bella roba, e la depressione che c’entra?
– Eh, nel mio caso: gli ultimi istanti prima di cadere nella depressione.
– Mi stai inquietando, – mi dice Paola.
– E perché mai? Sono io che starei per morire, se la mia contentezza fosse un effetto della miglioria della morte.
– Ma che c’entro io?
– Non lo so, però sto cosí da quando abbiamo parlato.
– Mi stai inquietando.
– Vabbè, – le dico allora per cambiare discorso, – le scarpe come vanno?
– Non piacciono a nessuno.
– A nessuno dei trentenni che conosci?
– No, proprio a nessuno.
– Tu insisti, bisogna perseverare. Ma hai visto che bella giornata?
No, indubbiamente: è strano. Questo sentimento dolce che mi domina. Voglio dire: sono in treno verso Caserta, devo presentare il libro di Daniele Fortini e Gabriella Corona, Rifiuti, una dettagliata analisi, come dire, fisiologica, del sistema rifiuti, un contributo importante per la democrazia, niente emotività, ma soluzioni integrate, dati, costi, comparazioni tra sistemi gestionali, e insomma, nonostante il tema del libro e nonostante dal finestrino intraveda già i topoi dell’agro aversano, case non finite, mattoni senza intonaco e parabole sui tetti, pilastri che reggono il nulla, e campi polverosi, ecco, nonostante questo quadro, fatto strano, mi sembra che il tutto nella sua imperfezione conservi qualcosa di poetico. Lo penso e mi faccio schifo io stesso, ma niente da fare, il languore non cede e mi vengono in mente associazioni bislacche, tipo le case abusive e i fiori di campo, quelli che crescono ai margini, brutti ma resistenti, fiori piccoli ma con tanto polline.
L’imperfezione, mi dico, può essere liberatoria, almeno spinge le persone a intervenire per apportare miglioramenti, anche la volgarità, con quel suo codice basico, semplifica l’incontro tra due esseri umani. Quanto è ansiogeno il desiderio di trovare corrispondenza in tutto. Che condanna rendere perfetto ogni momento, cosí sciupiamo per confronto i giorni che ci restano, e avvolto in questa strana luce bianca e ovattata, perso nelle considerazioni liriche, nemmeno mi sono reso conto che stavo seduto, in mezzo a Fortini e a Corona, e soprattutto che toccava a me.
Ho detto con voce pacata e vellutata qualcosa sulle nostre opinioni: siamo una specie molto influenzabile, siamo gregari, preferiamo stare con quelli che la pensano come noi, dunque non cambiamo facilmente opinione, siamo rigidi, spesso convinti d’aver ragione sulla base di false credenze, ragioniamo poco e ci emozioniamo molto, a un certo punto alcune parole diventano tabú, non si possono pronunciare, che so, dico «inceneritore» e la discussione si blocca. Che fatica la discussione, e questo è un controsenso, la cultura è tutto quello che la statistica non riesce a identificare (poi mi sono pentito d’averlo detto, non c’entrava niente, ma ormai era fatta), qui da una parte siamo pieni di informazioni, dall’altra scartiamo tutte le informazioni che potrebbero farci riflettere. Per questo avremmo bisogno di tecnici di base che ci spieghino come funzionano le cose, tecnici fisiologi e non patologi, perché spesso è la nostra ignoranza sul funzionamento del sistema a produrre il danno. Insomma, e mi sono avviato verso la conclusione, non possiamo ricercare la perfezione, ovvero è necessario rinunciare alle soluzioni uniche, perché contengono in sé il germe dell’adorazione coatta, ecco cose cosí, per introdurre Daniele Fortini.
Poi è toccato a lui: le soluzioni di compromesso – ha detto – a volte sono necessarie e utili, ci costringono a misurarci con l’altro e costringono anche l’altro a fare lo stesso, e se misuriamo bene, se concordiamo su un metodo condiviso, allora non solo sconfiggiamo le false credenze ma ci difendiamo dall’imponderabile. Giusto, ho pensato io, anche nei sentimenti è cosí, mi sa che per il documentario bisogna intervistare Daniele Fortini. Che ha aggiunto: per esempio, una macchina quanto pesa? Nessuno tra il pubblico ha risposto. Una tonnellata e 200 chili, mediamente: ebbene, circa 500 chili sono composti da plastiche e gomme, diciamo 17 tipi di plastiche differenti e 21 tipi di gomme. Sono elementi tecnologici che garantiscono la nostra sicurezza, assorbono bene gli urti, alleggeriscono il veicolo, quindi consumiamo di meno, insomma benefici, ma hanno un costo: questi materiali non possono essere riciclati, troppo complesso separare elementi diversi, per non parlare delle specifiche colle, e allora che ne facciamo? In discarica no, ha concluso, perché ci restano per centinaia d’anni, siccome sono derivati dal petrolio, si possono bruciare in maniera controllata, misuriamo con metodo, accettiamo il fatto che non esistono reazioni perfette, e bilanci zero, si avranno sempre scorie da gestire. Un buon compromesso massimizza i benefici e ci consente di gestire al meglio le scorie. Il problema, ha concluso Fortini, è solo uno: in Italia non ci fidiamo del prossimo, siamo portati a pensare che prima o poi ci farà fessi, quindi il compromesso, da entrambi le parti, è visto come una specie di inganno che prima o poi scopriremo.
Applausi. Io ho guardato il pubblico e ho capito che alcuni avevano voglia di controbattere – ce l’avevano scritto in faccia – perciò ho chiesto se c’erano domande. E uno:
– Mi spiega lei, Pascale, come fa a essere favorevole agli inceneritori? Cioè, lei metterebbe una struttura industriale di quel tipo vicino a una scuola?
– In verità dell’incenerimento ha parlato Fortini… ha fatto un esempio preciso…
– No no, – dice il signore, – inceneritore l’ha detto lei.
– Sí ma l’esempio della macchina… e delle soluzioni di compromesso che…
Avrei litigato. Un tempo l’avrei fatto, invece niente, calma e languore. La parola è passata a Fortini per le precisazioni del caso.
A presentazione finita ho deciso di svignarmela perché va bene che stavo in pace con il mondo ma affrontare quelli del no-inceneritore, che tra l’altro stazionavano come sentinelle davanti all’uscita principale, ecco, questo proprio no, allora ho chiesto a un commesso della libreria di scortarmi.
– Esci dal retro, – mi ha risposto.
– Che c’è, un’uscita di sicurezza?
– Sí sí, – ha detto il commesso, – esci sui giardinetti.
– I giardinetti, wow, c’ho passato molti anni, quando ero giovane.
– Ma certo, – mi dice, e sorridendomi aggiunge: – D’accordo su tutto con te, tranne sugli inceneritori.
E vabbè. Ho salutato Fortini e Corona: avrei il treno per Roma alle 21,36, vado subito in stazione, non passo nemmeno da casa a trovare i miei. Ma come, non ti fermi? Sono le otto, siamo a cinque minuti dalla stazione. Sí, ma sapete la mia nevrosi…
Insomma sono uscito dal retro e nell’ombra dei giardinetti del corso mi sono avviato verso la stazione, nemmeno una decina di passi e ho sentito:
– Antonio!
Una voce piena, piena di ricordi e amarezze, almeno cosí mi è sembrata, e senza nemmeno girarmi ho detto:
– Barbara!
– Ma che fai qua?
– Sono venuto per presentare un libro –. Non è cambiata per niente, penso, gli stessi capelli neri e lunghi.
E si avvicina per darmi i due bacetti di rito – e la guardo: sí, solo qualche ruga sotto gli occhi, appena accennata, ma io non ho niente contro le rughe.
– Non ci posso credere, – mi dice, – che bello, – e aggiunge una cosa tipo: stavo andando allo studio, e mi indica con il dito un punto imprecisato in un palazzo, ma invece di osservare il dito guardo il suo seno: non è cambiato, penso, bello e sodo, o forse è rifatto, ma io non ho niente contro il seno rifatto. E mi spiega che da un po’ di tempo dipinge.
– Dài, – le dico.
– Sí sí, pensa, devo esporre anche a Roma.
– Veramente?
– Sí sí, il 24, ci sei?
– Sí, no, non lo so.
– Ma ci vieni?
– Se sono a Roma…
Poi mi guarda negli occhi e mette su un’espressione sbarazzina, irresistibile, che le ho visto fare decine di volte e mi dice: vuoi vedere i miei lavori?
– Sarebbe bello, però avrei un treno.
– Quando?
– 21,36.
– Sono le 20,05, cioè, sei a cinque minuti dalla stazione.
Cosí entriamo nel suo studio e cerco la giusta distanza per guardare i suoi quadri. Rappresentano strani esseri marini che si staccano da fondali dai colori tenui. Sono conturbanti, penso, e la guardo, calza scarpe con i tacchi, un jeans nero, molto attillato. Si è tolta anche la giacca e ora è in camicetta bianca, un ricamo le sottolinea la curva del seno, e ciocche di capelli le scendono come una collana. Sono conturbanti, vorrei dirle per prima cosa, invece:
– Che luce che hanno… quella del pomeriggio inoltrato… il vespro.
– Dici? Sí, forse.
– Sono conturbanti, comunque.
– Dici?
D’accordo, il tempo è per me un problema, la velocità con cui scorre la luce e porta via tutto, le informazioni, le decisioni, i dubbi e le riflessioni, però c’è sempre un momento durante il quale la luce sembra fermarsi. Il vespro, appunto. Quando avevo sedici anni uscivo con Barbara, durante il vespro. Allora era una ragazza mora, simpatica, spigliata. E anche ora, mi sembra. Andavamo insieme in bicicletta, soprattutto di domenica sera, quando la luce imbruniva e cominciava a mancarti il respiro perché già pensavi al lunedí, alla scuola. Sensazioni che tra l’altro il nostro grande cantante pop e lirico Carmelo Bene deve aver provato, almeno a giudicare da come cantava Garzoncello scherzoso. Come alzava il tono della voce quando la partitura prendeva l’abbrivio. Per forza, tutto si sta facendo buio, allora devi gridare. Godi fanciullo mio; stato soave. E io per godermi lo stato soave, prima che l’indomani la mia età mi sembrasse troppo grave, andavo con Barbara in bicicletta. Caserta, 1982.
Ma c’era un problema: bisognava fare la dichiarazione. Tante belle parole e buoni, tanti buoni intenti. E bisognava pure fare presto, altrimenti non solo arrivava uno che ti rubava la ragazza, ma rischiavi di diventare amico di quella che volevi fosse la tua fidanzata. Troppi temporeggiamenti non garantivano passione né desiderio.
Cosí una domenica, durante il vespro, mi decisi. Passeggiai con lei due ore, su e giú per via Gemito, e in quelle due ore le feci una dichiarazione poetica. Cosa mi rispose al termine di questa mia impresa dialettica? No! Non se la sentiva. Che strazio.
Dopo pochi giorni si mise con Roberto, un mio compagno di scuola, uno di pochissime parole, tutto fatti.
– Barbara. Ba-rba-ra! – le ho detto guardando i suoi lavori. – Mi sembrano delle creature avvolte da una luce magica che le immobilizza e dalla quale però vorrebbero fuggire.
E lei mi dice, guardandomi negli occhi:
– A che ora parte il treno?
– 21,36.
– E prendiamoci una cosa, dài.
Cosí abbiamo parlato un po’, abbiamo rievocato i vecchi tempi, e alla fine gliel’ho chiesto:
– Scusa, ma perché mi dicesti di no? Non ti piacevo? La domenica sera, la bicicletta, quel senso di complicità. Ti piaceva piú Roberto?
– Certo che mi piacevi! Ma non ci hai provato abbastanza.
– Eh? Che? Due ore di dichiarazione?
– Dovevi provarci di piú. Ti ho detto di no per metterti alla prova. Se ci riprovavi…
– Col cazzo, Barbara, e Roberto allora? Tre minuti e vi siete baciati.
– Ma che c’entra, con lui non era niente, due settimane ci sono stata, con te poteva essere per sempre. Come un diamante, ti ricordi: shine on you crazy diamond. Come ci piacevano i Pink Floyd… Beh, per me quello era importante, era assoluto, ma tu non c’hai creduto.
– Non c’ho creduto? Due ore di dichiarazione, no, insisto.
Abbiamo continuato a discutere, sull’assoluto, la purezza, gli uomini e le donne, e mi sono innervosito:
– Qual è il guadagno di questa tua purezza? Ti sei irrigidita…
– Ma ce stai a prova’?
– Figurati, mi parte pure il treno.
– Io, in generale, non posso dividere un uomo con nessuna, capito? – cosí mi dice, e assume un contegno fiero, solleva le spalle, mi guarda dall’alto in basso. – O bianco o nero, niente sfumature, devo essere sicura.
– Ma che ce stai a prova’ tu?
– See, beato te. Tu stai ancora fermo agli anni Ottanta, una botta e via…
Qui ci sarebbe una precisazione da fare, perché a Caserta, negli anni Ottanta, il concetto di «una botta e via» non era ancora arrivato, ma tornando a Barbara:
– Che ti sei perso, – mi fa.
E a quel punto mi è venuto in mente un articolo di psicologia evoluzionistica, su cosa si nasconde dietro la scelta del partner secondo le dinamiche biologiche e culturali. Ma non mi ricordavo esattamente il riferimento, ne avevo un ricordo vago, cosí ho lasciato cadere la psicologia evoluzionistica e io e Barbara abbiamo continuato a ricordare i vecchi tempi.
– Ma quella capa di cazzo di Roberto? Madonna quant’era brutto!
– Ma che dici?
– Era oggettivamente brutto.
– Manco per niente. Ci vieni alla mostra a Roma?
– Ti giuro che se ci sono sí. Anche perché se non vengo io, chi viene? Chi conosci a Roma?
– Beato te: ho centinaia di amici.
– Centinaia?
– Centinaia.
– Comunque, tecnicamente parlando, quella che ho fatto a te non è la stata la prima dichiarazione.
– E no, questo è un tradimento!
– La prima l’ho fatta a Maria Giaquinto. Capito chi è?
– Sí sí, ha divorziato due volte, e che ti disse?
– E non lo so.
– Come non lo so?
– No, è che le feci questa dichiarazione, sempre di domenica, il 23 novembre del 1980, e mentre parlavo parlavo, ci fu il terremoto, e cosí scappammo.
– Dài, questa è una stronzata da scrittore.
– Chiedi a Maria.
– Lo faccio.
– Chiedi chiedi, poi mi dici. Ti do il mio numero, mi chiami e mi dici.
– Ma allora lo vedi che facevi cosí con tutte? Cioè, la dichiarazione anche a Maria, che poi era brutta, con quel muso grasso che aveva… lo vedi che ho ragione?
– Il mio treno…
– Lo vedi che non sei cambiato? Non ci provi abbastanza.
C’ho pensato in treno, verso casa. Mi tornava tutta la giornata in mente. Del resto si scrive per rimettere in ordine. La narrativa è cosí, un piacevole autoinganno. Anzi, piú è introspettiva piú è soggetta a inganni. Ma è chiaro, no? L’io è labile, discontinuo, i pensieri sono uno strano miscuglio, insomma la narrazione altro non è che l’estremo tentativo – illusorio e, chissà, a volte commovente – di dichiarare che niente accade per caso.
E invece tutto accade per caso, anzi prima le cose accadono, e non le vediamo, poi cerchiamo di interpretarle. Dobbiamo proteggerci dal caos, e i sentimenti sono lo strumento, la nostra corazza.
Cioè, alla fine, psicologia evoluzionistica. Tutto lí. Ovvero: cosa si nasconde dietro la scelta del partner secondo le dinamiche biologiche e culturali. Ora mi ricordavo di quello studio che volevo citare a Barbara. Quello studio che dice che i padri piú coinvolti nell’educazione dei figli e che giocano con loro, con allegria e partecipazione, sono anche quelli con un rapporto matrimoniale basato su una profonda comunicazione. E pare che l’investimento affettivo nei confronti dei figli da parte dei padri tenda a migliorare con la convinzione che i figli, appunto, assomiglino fisicamente piú al padre che alla madre. Piú somiglianza, piú caratteristiche genetiche in comune, maggiori cure parentali.
La femmina quindi dovrebbe allontanare il maschio dall’incertezza della paternità. E allora non c’è da meravigliarsi se una parte importante della strategia riproduttiva nella donna è quella di mostrare amore, e dedizione all’amore. Altrimenti come spiegare la tendenza a sbandierare un amore profondo, unico, esclusivo, assoluto? E la tendenza a soffrire per amore, la tendenza a dichiarare che senza di lui io muoio?
Il fatto è che il bisogno di un partner stabile per poter avere successo riproduttivo fa sí che le donne siano molto concentrate sulle relazioni d’amore, dalle quali, da un punto di vista evoluzionistico, non possono non dipendere.
Per questo il sentire parlare d’amore piace cosí tanto alle donne, per questo Čechov dice che le donne ti perdonano tutto ma non l’eccesso di ragionevolezza. Per questo le lettrici di romanzi sono in maggioranza donne e per questo gli/le scrittori/scrittrici scrivono d’amore, e per questo io non dovrei scrivere saggi.
Per una donna ogni incontro sessuale è potenzialmente molto costoso: una volta che un ovulo è fecondato, lei non ha altre opportunità di riproduzione per un tempo lungo. Il parto, l’allattamento, la mettono in condizione di debolezza rispetto all’acquisizione di risorse per far sopravvivere la prole. E allora? E allora la strategia riproduttiva piú efficace sarà cercare di instaurare relazioni sentimentali stabili, di evitare relazioni a sfondo puramente sessuale e ostacolare la tendenza dei maschi a essere promiscui.
Secondo l’etologo Robin Baker, le donne intrecciano due strategie riproduttive, una basata sullo shopping for genes (assicurarsi un buon potenziale genetico) e una sullo shopping for resources (assicurarsi risorse per il sostentamento).
Se proprio si deve scegliere, la preferenza viene data al secondo tipo di shopping, nel senso che a un uomo bello viene preferito uno con una posizione, intelligente, serio, affidabile, economicamente solido – al quale naturalmente non perdoneranno mai quell’eccesso di ragionevolezza.
Ho chiamato Paola:
– Dovete assolutamente andare a una mostra, il 24!
– Dovete chi? – ha urlato lei.
– Ma sei ancora in moto?
– Lascia stare… ma dobbiamo chi?
– Tu e Giacomo, e magari vi portate pure Luigi, è per il docu, devi conoscere Barbara, una mia ex, è un ottimo esempio di idea malsana di amore assoluto.
– Ma perché dobbiamo… tu non vieni?
– E non lo so, cioè, non so se ci sono.
La mattina verso le 6,30 ho detto a Daniela:
– Tu non sai ieri che giornata, tutta di corsa e stanotte… niente, non ho dormito niente. Però ho pensato a come mettere insieme, per questo documentario che stiamo facendo… un garbuglio di concetti. Senso di inadeguatezza femminile e ansie che ne conseguono. Tendenza delle donne a credere nell’amore assoluto, tendenza degli uomini a dire stronzate: cioè che sí, io sono quello fantastico con cui avere figli. Tendenza del nostro cervello a seguire questa tendenza: ordinare tutto sotto l’ideale dell’amore romantico, quindi interpretare come destino ciò che è frutto del caso. Le parole che bloccano la conoscenza, vedi inceneritori, e poi l’arte e gli artisti che proteggono e riavviano la conoscenza, perché smontano le parole usurate…
– Lo sai, – ha detto Daniela ancora con la testa sotto le coperte, – perché alla fine ti ho sposato?
– Di’, confessa…
– «Amare gli altri è una pesante croce…»
– Certo, Pasternak, ti dedicai quella straziante poesia: «È facile svegliarsi e veder chiaro | spazzare dal cuore il pattume verbale | e vivere senza intasarsi in anticipo. | Tutto questo è una piccola scaltrezza».
– No, non per la poesia, ma perché fino a mezzogiorno non parlavi, cominciavi nel pomeriggio, lentamente, era questa la piccola scaltrezza.
– Ah.
– Eh.
– Caffè?
– …
– Sí, vado a fare il caffè.
– …