Cardigan e divani
Nel dormiveglia mi sono ricordato del saggio di Freud sul perturbante. Quando un elemento, che so, un numero, ricorre piú volte in un certo arco di tempo, allora proviamo inquietudine. Come mai sfoglio un libro e mi fermo a pagina tre, poi esco e, per strada, noto una targa che finisce con il numero tre, infine vado in un bar e sento uno che ordina tre caffè? Quel sentimento ha un nome che lo identifica: il perturbante.
Non fa bene fissarsi su queste cose, si tratta di casualità che noi stessi ordiniamo per quell’atavico bisogno di sequenze definite (MFMMFM), solo che, in certe condizioni, la sequenza dei tre è cosí definita e assurda nello stesso tempo che per forza pensiamo: che significato ha tutto questo?
Insomma, nell’arco di tre giorni avevo incontrato la stessa persona in situazioni e luoghi diversi. Giacomo. Che poi era la persona con la quale, ubriaco per colpa del vino bio, avevo discusso sul perché alcuni uomini sembrano impauriti dalle donne, perché non raccolgono gli sguardi seduttivi. Quello che mi aveva detto che ero fissato e che non tutto girava attorno al sesso. Quello che, candidamente, e con stupore sincero, mi aveva fatto sentire un satiro bavoso.
Vado in libreria per una presentazione e lo incontro: elegante, slanciato, sorridente, bel fisico, mica gobbo come me. Con una ragazza: elegante – che pendant –, capelli lunghi stirati e occhiali grandi con montatura d’osso ondulata.
– Uè bello! Tutto a posto?
Il giorno dopo sto girando in bici per villa Pamphilj, per far lavorare un po’ i muscoli intorpiditi, e mentre pedalo lo reincrocio, su una panchina con una ragazza: bella, leggings neri, una cinta di cuoio che le stringe la vita, maglia blu come il cielo dopo la tramontana, e vistosi orecchini d’argento lavorato che terminano con lance appuntite.
– Uè bello… tutto a posto?
– Tutto bene, grazie.
Poi, incredibilmente, dormo come un sasso – un bambino dopo le coliche –, da mezzanotte alle quattro, ma alle quattro suona la sveglia. Treno per Fiumicino aeroporto alle 5,25. Che ci posso fare? Ho i miei tempi: caffè, abluzioni… I primi passi nel quartiere sono i miei. Respiro e le narici mi raccontano il mondo, quest’aria dolce e umida, tutto attorno sembra ovattato, mi viene in mente la scena della nebbia in Amarcord, ma sono già in moto, i semafori che si riaccendono, un’autoambulanza, e l’ovatta si scioglie. Arrivo alla stazione, bar, secondo caffè. Un bar rude, con una luce giallastra che ben si associa ai gesti netti e rumorosi dei camerieri, anche loro tirati giú dal letto. E al bancone, fatto incredibile, c’è Giacomo.
– No, ma ti rendi conto?
– Eh! – fa lui.
– Ma che ci fai?
– No, guarda, una storia lunga… Sto aspettando Linda, la mia produttrice, oggi giro qui vicino, attacco alle sette.
Beve un sorso di caffè, facendo un sospiro, poi mette su uno sguardo curioso e mi chiede:
– Ma dove vai a quest’ora?
– Calabria, Lamezia Terme, lavoro ministeriale, – e intanto arriva il mio caffè.
– Parti presto.
– Sí, ho l’aereo alle 9,20.
– 9,20? Ma sono le cinque ora.
– Sí, ma mi piace arrivare presto in aeroporto.
– Presto? Ma il check-in on-line no?
– Guarda, – e bevo un sorso di caffè, che meraviglia, mi si accendono tutti i neuroni, – forse sono stato il primo uomo al mondo ad aver usufruito del check-in on-line, ma nella sostanza non è cambiato molto per me: arrivo sempre presto.
– Ma sono le cinque, il treno ci mette venti minuti, arrivi alle sei, e che fai?
– A parte che mi sono già informato: il primo treno è stato soppresso, quindi mi tocca prendere quello dopo e arrivo alle 6,20, alla fine non c’è molto tempo.
– Stai scherzando?
– A quest’ora? No, davvero, arrivo sempre presto in aeroporto, mi guardo intorno, che so, incontri qualcuna che si aggira nel terminal, ci sono donne molto strane e affascinanti nei terminal, e poi penso, osservo, prendo appunti, mentali eh…
– Ah, potrei raccontarti io una storia…
– Ce la fai in trenta minuti?
– Credo di sí… Guarda che è già un racconto, finisce che magari lo scrivi e, sai, ci sono persone implicate…
– Nooo, io? A parte il fatto che non scrivo racconti da sei anni, figurati… E poi, sai, se mai dovessi farlo, cambierei tutto, non riconosceresti niente. Ci sediamo sulla panchina?
Cosí ci mettiamo comodi, anzi di piú, io stendo le gambe, allungo pure un braccio sullo schienale, devo avere l’espressione di uno pronto all’ascolto, ma calmo, senza segni di morbosità, e infatti Giacomo annuisce con la testa, come si stesse convincendo, e mi chiede:
– Insomma, lo vedi questo cardigan?
Mi rendo allora conto che gli uomini li guardo poco o niente. Mica solo questa mattina e nemmeno per via della luce a bassa intensità, no, non li guardo, diciamo che l’unica cosa che so fare è controllarli.
– Me l’ha regalato Silvana, – continua.
– Silvana è…?
– La mia compagna, scusa. Però a me non piace, mi sembra… mi sembra un accappatoio.
Il cielo ora è di un violetto cobalto, l’alba in stato avanzato. Mica so distinguere i colori, no, per me sono come gli uomini, li incasello per categorie grezze. Il violetto cobalto però me l’ha fatto scoprire una volta Luigi, i pittori hanno occhio, e da allora lo uso sempre e faccio bella figura. Insomma, c’è un po’ piú di luce e guardo il cardigan di Giacomo: di lana, grigio, con un collo a scialle troppo vistoso. Effettivamente sembra un accappatoio, ma non saprei dire bene, e allora dico:
– Embè?
– Embè… a me non piaceva e quindi l’ho chiuso nell’armadio, ma ieri mattina, prima di uscire, Silvana ha cominciato a rompermi le scatole: il mio cardigan, non lo metti mai. Non so, le ho detto, c’è qualcosa che non mi convince ma non saprei cosa. E lei: non capisci niente. Sai, Silvana è costumista e quindi su queste cose…
– Guarda, – dico io stirandomi sulla panchina, – una volta mi sono comprato una maglietta da Empresa, di maglina aderente blu scuro, ma artificialmente sbiancata sotto le braccia, come se il sudore e la fatica avessero tolto il colore, una specie di metafora del lavoro antico, ricordo dei muratori di una volta, veri uomini. Trentacinque euro in sconto, credo, spinto dal commesso: la puoi indossare sempre, perché è calda d’inverno, fresca d’estate e sopra puoi mettere un maglioncino semplice, cosí non ti sbagli mai e stai bene in ogni occasione. Questo secondo il commesso, ma appena entrai a casa, Daniela mi disse: ma che ti sei comprato? Ma chi ti consiglia a te? A parte il fatto che è cafona, ma poi quanto l’hai pagata? Quindi se domani i ragazzi dicono vogliamo le scarpe della Nike a centocinquanta euro, tu come fai a dire di no?
– Ah, lo vedi… quindi…
– Quindi che vuoi fa’? Comunque, dicevi: Silvana fa la costumista…
– E sí, e ieri è partita.
– Per dove?
– Mi sembra per un paesino dell’Umbria, di quelli tipici, deve girare… E siccome doveva partire, per farla contenta lo indosso, e non so, mi sembra un po’ da vecchio, tu che dici?
– Mah… non saprei… i cardigan danno l’idea di uomo affidabile.
– Ah, – e Giacomo cala un po’ la testa, sbuffando, – comunque lo indosso e vado a girare, tutto il giorno… ieri è stata una giornata lunga. Poi a cena, la sera, rilassati… mentre mangiavamo con la troupe, chi ti vado a incontrare?
– Silvana!
– No, Giulia, una vecchia compagna di scuola, sai com’è quando incontri le vecchie compagne di scuola…
– Com’è? Non le incontro mai: stanno tutte a Caserta.
– Ma non sei di Napoli?
– Nato a Napoli, per un accidente, ma sono vissuto a Caserta fino al 1989. Però Napoli non perdona: se nasci lí, anche se ci stai due giorni, sei di Napoli.
– Insomma, pensi sempre male delle vecchie compagne di scuola: come si sono imbruttite, ingrassate… Giulia invece si è trasformata in una figona, mi girava la testa. E poi elegantissima, modi raffinati. Carino il tuo cardigan, mi dice.
– Azz’, e dunque…
– E dunque Silvana era lontana.
– E Giulia vicina. Ma… no, per carità, sono contento, ma… non mi hai detto quella sera, vabbè che ero ubriaco, però non mi hai detto che tu non hai la fissa del sesso?
– Sí, certo, è cosí, però Giulia era una figona! Oh, ti prego, non raccontare questa cosa, ci sono delle persone coinvolte.
– Tranquillo, siamo io e te, alla stazione, alle 5,10 di mattina, quando arriva il treno me ne vado, la nevrosi è piú forte del tuo racconto.
– Sai qual è il problema?
– Di’.
– Che non riesco a scopare se sono a Roma.
– È un problema, effettivamente.
– Cioè, ho i sensi di colpa. Devo andare fuori, piú sono lontano da casa mia, piú mi rilasso, e mi sembra che non sto facendo niente di male.
– Vabbè, dài, vedi il lato positivo: non sei un uomo a chilometro zero, meno male… E quindi?
– E quindi, quelle poche volte che mi è capitato stavo fuori Roma, una volta a Mosca, ma poi anche lí ho avuto problemi.
– Cioè?
– Cioè, non ti vado a rincontrare quella di Mosca a una festa con Silvana?
– Cazzo! Comunque il guaio era fatto, quindi?
– Quindi Silvana se n’è accorta, che avevamo scopato a Mosca.
– Però tu hai mentito, hai detto: ma che sei pazza? Come ti viene in mente?
– Non sono bravo…
– Vabbè, torniamo a oggi, scusa, fra poco arriva il treno e vorrei sapere com’è andata a finire.
– Ah, sí, no, Giulia, guarda, fantastica, ha capito la situazione e ha detto: andiamo da me. Abita verso Labaro.
– Lontanissimo.
– Buon per me: piú lontano è, meglio funziono. Perciò ci mettiamo in macchina…
– Ma scusa, se Silvana è a Roma, devi scopare fuori Roma, e va bene, lo capisco! Ma se è in Umbria, potresti scopare anche a Roma, no? Tanto la distanza tra di voi è la stessa, anzi dovresti sfruttare questo fatto, la matematica è dalla tua.
– No no, io devo sempre uscire dal raccordo anulare, sono piú tranquillo, capito? Come se entrassi in un altro mondo, a te non succede?
– No, che dici? Io sono di una pigrizia patologica, devo stare comodo, e poi tanto le donne, puoi scopare dove vuoi, alla fine se ne accorgono sempre.
– Tu dici che se ne accorgono sempre… quindi Silvana…?
– No no, non voglio dire niente, cioè, la pretesa di farla franca è solo una nostra illusione, a Mosca o a casa, è la stessa cosa, del resto anche io me ne accorgo... ma continua, arriva il treno!
– Tu dici che lo sanno?
– Sempre, – rispondo, mentre Giacomo comincia a muoversi nevroticamente, si mangia anche un’unghia, e allora noto che lungo i polsi del cardigan c’è una fila di bottoncini di pelle e penso: ma a che servono? – Però non lo vogliono sapere, nemmeno io lo voglio sapere, e poi confessare un tradimento è un gesto di arroganza, la sincerità è mortificante, quindi meglio non dire niente, a meno che non sia una cosa seria, ma sai, prima di decifrare se è serio o non è serio, com’è e come non è, passa del tempo.
– È un gesto di arroganza?
– Ma che scherzi? Poi, dopo che l’hai detto, lei sta male, pensa: perché? Cos’ho di diverso da lei? E tu allora vedi la sua sofferenza, ti dispiaci, ti senti uno schifo e cominci a mentire: è successo solo una volta, tecnicamente non abbiamo nemmeno scopato. Sai, cose patetiche del genere, menzogne dette perché ti sei pentito della sincerità. Sei sincero all’inizio, poi menti per tutto il resto della confessione. Dài, meglio mentire dal principio, quando uno dei due dice: mi hai tradita, l’altro risponde con la frase standard: ma che sei scema? È un codice, ci si capisce e pace.
– Dici?
– Sí, dico, ma poi ognuno fa come vuole… E allora Giulia?
– Giulia è stata bravissima, siamo stati bene in macchina, poi a un certo punto è venuto fuori che lei è amica di un’amica di un’amica di Silvana e io mi sono irrigidito.
– Eh, sindrome Mosca.
– Mi sono irrigidito e mi sono staccato un bottoncino dal cardigan per il nervosismo, ma lei mi ha proprio detto: stai tranquillo.
– Eh eh! Freud, preciso!
– Cioè?
– Cioè il cardigan è un regalo di Silvana…
– Ah, beh, sí… insomma, siamo arrivati a casa sua.
– E ora ti stai strappando un altro bottone…
– Ma no, è un gesto cosí, e poi ce ne sono tanti, su questo cazzo di cardigan… Comunque, abbiamo bevuto una cosa, s’era fatto tardi, e ci siamo dati un bacio lungo e bellissimo. Poi altri baci, e poi il cardigan che avevo messo sull’attaccapanni è caduto, cosí senza motivo, incredibile, e allora mi sono fermato. Sai cos’è successo?
– Eh no…
– Ho notato che entrava la luce della luna e colpiva il viso di Giulia. Pareva trasfigurata, era ancora piú bella, gliel’ho anche detto: sei bianca, candida. E cosí ho pensato: va bene, aspettiamo un momento. Mi sono acceso una sigaretta, mi sono rilassato e abbiamo parlato ancora un po’, stravaccati sul divano, e dopo guardandola cosí avvolta nella luce della luna, le ho detto: dài, non facciamo niente, va bene cosí, stiamo cosí bene… Guarda, non puoi sapere che è successo…
– E lo voglio sapere.
– Giulia si è trasformata, prima era raffinata, un linguaggio cosí suadente, pieno di sfumature, e all’improvviso si è inviperita, ha cominciato a parlare romanesco: ohhh, ma che stai a di’? Pure il viso si è sfigurato. Ohh, mi ha detto, me stai a fa’ pèrde tempo! Io c’ho pure ’na figlia, sistemata dai miei, me stai a sfrutta’, vieni a casa mia, ti siedi sul mio divano… Pensa che io mi sono alzato.
– Dal divano?
– Eh, cosí, una reazione, e lei ha detto: ma che cazzo ti alzi, siediti! E io mi sono seduto, e lei ha continuato finché non mi ha detto: e mo che stai a fa’! Che stamo a fa’ io e te, qui? Ma vattene va’! E allora mi sono rialzato…
– E lei non ti ha fermato?
– No, macché, ho preso tre autobus notturni, sta lontanissimo Labaro, ho chiamato Linda, se poteva passare a prendermi prima, l’ho svegliata, si è incazzata pure lei, la conosci Linda?
– Linda? No, guarda, io sono un monaco, non esco mai di casa.
– Comunque, non raccontare questa storia, ci sono persone implicate.
– Io non devo raccontarla? Tu non la devi raccontare: ti devi vergognare! Arrivi fino a Labaro e dici non facciamo niente? Ti rendi conto dell’umiliazione?
– Ma ci siamo baciati, per me va bene cosí, già sono coinvolto con un bacio, tecnicamente per me significa tanto.
E mentre discutiamo su questioni tecniche, una macchina frena con uno stridore che rompe quello che restava della notte, e Giacomo mi indica la sua produttrice: Linda. E dalla macchina scende una donna magrissima e scattante, nervosa e scavata in volto, con i capelli corti, che si avvicina a noi e come prima cosa guarda me e io guardo lei, poi cambia obiettivo e squadra Giacomo:
– A Gia’, – gli dice, – ma che cardigan te sei messo?
– Non ti piace? – chiede Giacomo. – Sembra un accappatoio, vero?
– Ma che stai a di’? – ribatte Linda, guardandomi fisso, al che mi sento chiamato in causa:
– Troppo da uomo affidabile, – dico.
– No, manco per niente, – dice Linda, – è troppo da frocio.
Il treno alle sei di mattina da Roma Trastevere per Fiumicino aeroporto non è vuoto, anzi. Oltre a quelli che partono, oltre a quelli già in affanno perché hanno paura di perdere l’aereo, ci sono un sacco di persone che lavorano in aeroporto o a Parco Leonardo, e tante ragazze, hostess soprattutto, o impiegate, tutte belle, in divisa, truccate a dovere, colpi di matita sulle palpebre e occhi vispi, battiti di ciglia regolari, insomma, sveglie, già pronte, alcune leggono, altre stanno al telefono, un paio mandano messaggi (a chi, a quest’ora?), riconosco l’accento, vengono dalla provincia, vanno chissà dove e mi chiedo se hanno avuto un Giacomo nella loro vita, seduto accanto a loro su un divano, se nelle loro case, a Labaro, a Fara Sabina, sulla Tiburtina, un uomo che ha detto loro di no, non ora, non qui, magari ragazzini che credono cosí tanto nell’amore che preferiscono sognarlo a casa propria che sporcarlo a Labaro, e il treno che fa poche soste va cosí leggero, senza scosse, che mi sono ricordato di una notte, parecchio tempo fa, durante la quale presi la moto per andare a Pineta Sacchetti, partendo pure dalla Prenestina.
Mi aspettava Ilaria. Anche lei, come me, veniva dalla provincia, Bari. Ora, io non ci volevo andare, non mi convincevano alcune cose, c’era un che… Per esempio, la sua stanza era tappezzata da punti fosforescenti che rappresentavano stelle, cluster di galassie, insomma, spegnevi la luce e si illuminava il firmamento.
Il cielo stellato l’avevo visto una sera, durante una cena, quando Ilaria mi aveva portato a fare l’esperimento, me e altri amici. Tutti dicemmo: fantastico. Ma c’era qualcosa di stonato tra la pasta con la besciamella (tanta) e quel cielo virtuale. Poi Ilaria aveva parlato dello yoga e della pratica buddista, dei risultati immediati che dava, come trovare parcheggio sotto casa o prendere l’autobus al volo, e pure qui c’era qualcosa di stonato: concentrare energie cosmiche solo per trovare posto sotto casa, e rubarlo a me magari. E c’era anche un’altra cosa: Ilaria mi aveva raccontato che sulla sua schiena c’era un punto dove si concentrava tutto il dolore, l’aveva scoperto con lo yoga, e se lo toccavi, se solo sfioravi quel punto, lei cominciava a piangere. E insomma per questo, e per altro, non ci volevo andare, ma il mio amico Francesco m’aveva chiesto invece di farlo, pregandomi, non fosse che per scoprire se era vero che esisteva quel punto di dolore, se si poteva davvero procurare il pianto solo premendo un punto sulla schiena, e si era messo anche a scherzare: tipo Big Jim, te lo ricordi? Toccavi la schiena e il braccio scattava, come un karateka. E vacci, dài, sei triste, ti sei lasciato con Rosaria, sei solo, e anche lei, dài, sciogliete un po’ il dolore, dài.
E dài, m’ero detto, e avevo bussato, giovane, capelli irti e scompigliati, e ideali accessi e passioni estese, e avevo mangiato, parlato, bevuto, scherzato, fatto un paio di battute alle quali lei aveva riso, mostrando però nella grana della risata un che di malinconico, forse gli anni in piú che si avvertono in alcune serate nonostante il cielo virtuale e l’abbondanza del cibo, e comunque la risata si era spenta all’improvviso e senza strascichi, come a dire: ti concedo questa risata, ti faccio vedere che corrispondo, ma non ci fare troppo affidamento.
Anche se queste considerazioni non le avevo fatte all’epoca, ma le sto facendo qui e ora, in treno, verso Fiumicino. Allora m’ero seduto sul divano vicino a lei parlando, credo, o immagino, di letteratura, e lei aveva abbassato la luce e io, dopo tre minuti, m’ero alzato dal divano, di scatto, e avevo detto: vado via. Una reazione emotiva, qualcuno che ti tocca e tu reagisci, e come un ragazzino spaventato l’avevo lasciata sola sul divano. E il giorno dopo mi ero dovuto sentire pure il rimprovero di Francesco: ma il punto dietro la schiena? Funziona? E avevo dovuto rispondere alle domande di Ilaria: ma non sono stata una brava padrona di casa? Ma sí, sí, che dici? E allora?
Cosí avevo fissato un altro appuntamento, per rimediare, una cena a Trastevere, ma uscito dall’ufficio, sarà stato il nervosismo, spezzai, non so come, la chiave nel bloster e niente, bloccato, non potei raggiungerla, né avvisarla, maledetti o benedetti cellulari, lo feci dopo, lasciandole un messaggio in segreteria, al quale lei non rispose mai piú, e pensai che fosse giusto cosí. Finché un giorno, a un semaforo, mi giro e c’è lei, in moto, come me. Ciao, le dico, e siccome era tardi, ma le luci della strada erano spente, c’era uno spicchio di cielo visibile, con il firmamento vero e flebile, insomma senza scendere dalla moto ci siamo baciati. Mi sono sposata, mi dice, tutta contenta, io no, le rispondo, non ancora, ma chissà, forse un giorno. Fu un attimo, il bacio, la conversazione, poi il verde del semaforo e addio.
Si è stupidi da giovani, con tutte quelle idee su amore e grazia e purezza e serietà e determinazione e monogamia, tutto quest’ordine in testa che ci porta a vedere segni perturbanti là dove si tratta solo di fluttuazioni casuali. Cos’è l’amore se non quel punto di dolore del quale ridiamo sí, ma che prima o poi, a turno, ci fa sedere sul divano, convinti d’essere fatti l’uno per l’altra?
E intanto arrivo all’aeroporto, due ore prima, e giro e rigiro, prendo ancora un caffè, guardo il panorama e noto una tipa, e penso: che splendido viso calabrese, con quei capelli ricci, gli occhi senza matita ma cosí neri che sembra truccata, e un vestito corto di maglia. E infatti va verso il mio stesso gate.
Legge un libro, mi chino per vedere cos’è ma niente, non riesco, allora mi avvicino per incrociare il suo sguardo, e invece incrocio quello di un uomo che mi sorride.
Non ricambio. Mi siedo, un po’ affranto e stanco. Davanti a me gli aerei, normali operazioni di carico e scarico. Chiudo gli occhi e nel dormiveglia penso al perturbante di Freud, alle cose che ritornano. Certo che se, per un paio di volte, a tornare sono quelli come me o Giacomo, finisce che le donne cominciano a pensare che una maledizione abbia colpito il loro divano. Ma cos’è quest’ordine perturbante che ci invade? Questo punto di dolore dietro la schiena? Meglio accettare le fluttuazioni casuali della vita, che aspettare l’uomo capace di scioglierlo, quel dolore. Queste e altre cose confuse mi affollano la mente, finché mi sento toccare e apro gli occhi: è l’uomo che mi aveva sorriso. Lo guardo male, come a dire: che cazzo vuoi, e lui mi dice affabile e con l’accento tedesco: stanno imbarcando.
Attorno non c’è piú nessuno, tranne l’hostess che mi fa segno: sei l’ultimo.