Appuntamento con Paola. A Monti. E naturalmente esagero. Arrivo un’ora prima. Che devo fare? Passeggio e mi guardo intorno. Molto parigino, il quartiere. Banca d’Italia da una parte e vicoli con tanti negozi di modernariato anni Cinquanta, design svedese, scialli e sciarpe, botteghe artigiane, abiti usati che arrivano da tutto il mondo e prodotti a chilometro zero – che pure arrivano da tutto il mondo, insomma tipo: piccolo è bello, e costoso. Cammino e alzo gli occhi per guardare le splendide case illuminate dagli ultimi raggi arancioni di questo vespro romano, case che comunque mai potrò possedere, allora meglio riabbassare lo sguardo verso i primi piani, pur essi splendidi, con tutte le finestre aperte per invitare a entrare gli ultimi raggi di questo, appunto, meraviglioso vespro romano, e la luce allora rimbalza sui balconi e illumina i soffitti in legno, di queste case che, appunto, alte o basse che siano, vespro o non vespro, mai potrò possedere, ed è meglio allora puntare lo sguardo a terra, cosí che possa seguire la traccia che si dipana tra vicoli e piazzette, e cosa capita? Che vedo Paola, seduta al tavolo di un bar, un succo d’arancia e un ragazzo davanti a sé: sono in anticipo, dico, perché lei guarda due volte l’orologio.

– Stai bene con questo taglio, – mi dice, visto che sono finito di fronte a lei, anzi le faccio ombra sottraendole l’ultimo spicchio di sole.

– Tutto da solo. Sai, i barbieri sono le persone piú autistiche che conosco, non ti ascoltano proprio, allora faccio da solo, cioè ho deciso cosí...

Mi presenta il ragazzo, Andrea, piacere, mi stringe la mano e mi guarda come a dire: ti conosco.

– Pascale… Pascale… – e mi osserva, spero non per il taglio dei capelli. – Quello OGM sí.

– OGM sí, però è una questione complessa –. No, i capelli vanno bene, però penso: mo litigo e mi rovino la giornata.

– Anche se, – mi dice Paola, prendendo le misure con la mano messa in verticale come una riga impietosa che taglia la luce, – qui sono un po’ piú lunghi.

– Dove?

– Qui, vedi, ma un pochino, un dettaglio.

– I dettagli sono la mia dannazione… Insomma, – dico ad Andrea, per cambiare discorso, – ti rendi conto che ormai appartengo alla categoria OGM sí, ma non è una cosa seria…

– Guarda che lui ha girato un documentario su Slow Food, – mi dice Paola, un po’ agitata, preoccupata che io faccia una gaffe.

– Un documentario adatto a un popolo di italiani con età media di 48 anni, che pensano solo a magna’, – e però io sono partito lo stesso, alcune parole mi fanno questo effetto, e vedo Paola che comincia a respirare profondamente e a sbiancare. Allora mi acquieto mentre Andrea prima mi sorride e annuisce con la testa, poi si alza perché riceve una telefonata e se ne va in un angolo a parlare.

– Ho un attacco, – mi dice Paola.

– Che attacco?

– Panico, oddio, fammi respirare, – e comincia a inspirare profondamente.

– Oddio, – dico, – che posso fare? – in effetti il volto di Paola sembra una collina al tramonto, quando va via la luce e diventa prima violacea e poi bianca… (ma cosa sono tutte queste similitudini?)

E Paola mi fa segno: vai da lui, parla con lui.

– Con il fedele Slow Food? E di che parlo?

– Vai vai, – mi dice, e mi fa di nuovo segno di sloggiare.

E vado, e dico ad Andrea, che ha finito la telefonata: – Ma guarda che gli obiettivi di Slow Food sono giusti, sono gli strumenti che sono reazionari –. E lui mi dice: – Ma guarda che, per quello che c’ho capito io, dicono cose molto vaghe. – Ah, bene, – continuo io, – quindi non c’è bisogno di litigare? – Con me? – mi chiede. – Certo, – gli dico. E lui: – Ma che scherzi? A me non me ne frega niente, ho fatto quel documentario per i soldi, io ho altre cose a cui pensare, – e con la coda dell’occhio guardo Paola che ancora respira profondamente e Andrea si avvia verso di lei ma io lo fermo: – Ho capito, – gli dico, – ma questo documentario quando esce? – Per come la vedo io, può anche non uscire, mi hanno pagato. – Ah bene, però, – e lo prendo per un braccio, – ripeto: gli obiettivi sono giusti, ma considera il rame… – Che devo considerare? – mi chiede Andrea. – Il rame, – insisto io mentre Paola respira, respira, respira, – è un fungicida usato in agricoltura biologica, perché appunto ritenuto tradizionale. Ma se noi consideriamo un prodotto tradizionale come un prodotto sacro, dunque immodificabile, allora, scusa, a che serve far ricerca per migliorare i fungicidi? Il rame basta a se stesso, e i giovani chimici che si impegnano a fare a cercare molecole meno invasive?, c’è il santo rame, possono anche emigrare in un altro paese meno tradizionalista. Ti pare? – dico io per trattenerlo, mentre mi accorgo che ci sto prendendo gusto, però Andrea ha cominciato a stringere gli occhi per fissare meglio la mia immagine, poi sbatte le palpebre come se stesse per perdere la pazienza e si svincola da me tornando da Paola:

– Paola, dài, rimaniamo d’accordo cosí, devo scappare, – dice, e lei fa un respiro che sembra un sí, ok, ma secondo me è un respiro per dire: non me ne frega niente, non rompere, non vedi che ho un attacco di panico.

– Meglio? – le chiedo.

– Ok, ok, – dice, poi respira, respira, respira, – passeggiamo, camminiamo un po’.

Le vorrei dire: questa cosa sul rame e sull’immobilismo italico non è male, e invece dico:

– Certo.

– Guarda, a volte scattano cosí, basta un che ne so, un nonnulla, tipo: arrivi tu…

– Arrivo io?

– Sí, ma non c’entri.

– E appunto!

– Secondo me è solo ansia. Cioè, prima di Andrea ho parlato con un vecchio sceneggiatore che da anni non lavora piú e ha scritto un soggetto, guarda, non si poteva leggere, tanto era banale, ma che pena, però, – e qui Paola si ferma, mette le mani avanti per riacquistare l’equilibrio, poi riprende a camminare. – Lui, invecchiato, un po’ gobbo, era cortesissimo con me, si è seduto, mi guardava: sono nudo davanti a te, mi ha detto. Ho dovuto dirgli che no, non mi interessava, naturalmente gliel’ho detto bene, con precisione, ma siamo sempre là, capito? Una ragazza che deve giudicare un signore avanti con gli anni. Sapessi i suoi occhi come sono diventati, è calata un’ombra sulle palpebre. Uffa, che ansia.

– Ha detto cosí: sono nudo davanti a te?

– Sí, poi è arrivato Andrea, – e fa un altro lungo respiro, pausa, poi: – Ok, va meglio, – riprende, – questo ragazzo legge tre volte piú di me, vede tutti i film che escono, mi sento sempre in ansia, non all’altezza, capito?

Intanto sento crescere a mia volta l’ansia, quella classica maschile da competizione per il territorio. – Ma il problema, – continua Paola, – si riassume in due parole: eccesso di empatia. Mi faccio carico dei problemi degli altri, mi immedesimo cosí tanto che soffro per loro, ma come faccio a fare questo lavoro? Tipo, – e scandisce il tempo con pochi gesti della mano, – ho visto un servizio a Piazza Pulita su un imprenditore rimasto senza soldi, tu non sai che nottata ho passato, mi sembrava che crollasse tutto. Hai presente Luci d’inverno di Bergman?

– Certo che sí! – mento, lo ricordo molto vagamente.

– Mi sento come il protagonista: un prete in crisi che deve consolare gli altri con tutte le loro paure e deve ascoltare le loro storie.

– Ma sí, – dico, – il senso di empatia può coincidere con il senso di onnipotenza. Il desiderio di controllare tutto: «sono felice se lo sei tu», che già è una cosa difficile, diventa «sono felice solo se lo sono tutti gli altri». Si tratta di delirio di onnipotenza. Ricorda il concetto di amore assoluto.

– Guarda, non so, però t’assicuro che sto veramente male, cioè ci penso al vecchio sceneggiatore che arriva davanti a me, cortese, e dice quella cosa che di sicuro gli deve essere costata: sono nudo davanti a te. E io gli stronco, con cortesia si intende, ma alla fine gli stronco il soggetto. Lui dice grazie mille per i consigli, rifletterò, e se ne va. Immagino quando tornerà a casa, si guarderà allo specchio e si dirà: ho preso un altro no, e ora? Capito? Se arrivo a vergognarmi per le altre persone, come faccio a fare questo lavoro?

– Vabbè, nel documentario questa tua empatia la mettiamo, facciamo una cosa metacinematografica, la produttrice entra in scena e si confessa…

– Poi arriva quest’altro, Andrea, venticinque anni, e sa tutto. Mi racconta di cinquanta film da vedere, cinquanta libri da leggere, capito? – e qui mi fermo io, faccio un respiro, mi viene pure voglia di prendere a capate Andrea, ma è mai possibile a venticinque anni leggere cosí tanto? Io a quell’età non facevo niente di niente, meno di adesso. – Da una parte mi immedesimo nella sofferenza degli altri, – riprende Paola, – dall’altra mi sento sempre in debito con qualcuno o qualcosa, – e intanto ricomincia a respirare, una, due, tre volte. A questo punto, sarà l’empatia diffusa di Paola, ho una specie di visione, mi vedo come un vecchio scrittore, diciamo fra vent’anni, sofferente di sciatica e un po’ gobbo, che si guarda allo specchio e pensa: ormai sono finito, non scrivo piú, nessuno mi cerca, chiamano solo quelli che parlano del rame.

Poi entriamo in un bar: prendiamoci una cosa, dài, una camomilla, una tisana. Dovevamo parlare del documentario, ma a questo punto rimandiamo. Altrimenti facciamo un documentario sull’ansia. E sulla soglia mi intravedo in uno specchio: la puttana, penso, non solo ho i capelli piú lunghi da un lato, ma sto invecchiando.

Ci sediamo – c’è ancora tempo per le rughe e per i capelli bianchi, mi dico per tirarmi su –, tisana per Paola, caffè per me, sorseggio, sorrido, sto pensando ai miei capelli lunghi da un lato.

Insomma, mi sento a disagio, balbetto un po’, Paola si china verso di me e io mi accorgo che mi sto mangiando le parole:

– Scusa, – le dico, – a volte non parlo bene. Sai, da piccolo non parlavo proprio, sono ancora in fase di recupero.

Le racconto che mia mamma perse una bambina, un mese dopo la nascita. Lei era depressa, io avevo bisogno d’affetto, e insomma, due piú due: non parlavo – e qui Paola sembra in procinto di avere un’altra crisi, ma calma, le dico, calma, perché in compenso, in assenza del linguaggio, devo aver sviluppato una particolare percezione. Magica – le dico senza dare troppo importanza alla parola –, che ancora oggi conservo. Cioè, da piccolo sapevo riconoscere i segni minimi sui volti delle persone: sei arrabbiata? felice, angosciata? Uno sguardo e afferravo l’umore. Battevo anche mia cugina Giovanna che è una strega, nata il 24 dicembre, e per l’antica e onorata civiltà contadina e meridionale diventi strega se nasci lo stesso giorno di Gesú.

– Certo che voi meridionali con la religione… noi toscani tiriamo giú certi santi.

– Ma che scherzi? Noi no. Anche un agnostico come me porta rispetto. Al Sud, quelli che bestemmiano storpiano i nomi: mannaggia sant’Asca, porco due… capito?

– Eh? Asca? E chi è?

– Sarebbe Anna, che diventa Asca, cosí non pronunci il nome, capito?

– E chi è?

– Sant’Anna?

– Sant’Asca, sí.

– Anna, non Asca, oh, Paola: è la madre della Madonna.

– Asca, Anna, che ne so!

Vado avanti. Paola mi segue con attenzione, e ci credo, ha ancora un sacco di empatia addosso. Le dico che tra l’altro da piccolo avevo sviluppato una visione del mondo antropomorfa. Le case non erano case, ma volti di persone. I cornicioni erano sopracciglia, i balconi nasi o labbra. Imitavo con l’espressione del viso il design delle macchine. Una Cinquecento: con quegli occhioni. La Giulietta: tutta arrabbiata. Ero comico, facevo ridere, senza parlare. Quando ho scritto anni dopo La città distratta mi dicevano: in questo libro parlano anche le case. Sí, per me era facile, compensavo.

– Davvero?

– Sí, da piccolo tutto mi parlava. E se tutto ti parla, capisci bene che devi ascoltare tutti, un’ansia.

– Capisco benissimo come ti sentivi.

– Però, d’altra parte, lo sguardo artistico dovrebbe, insomma, credo, dovrebbe sia pescare nel torbido sia raffinare le acque, capito? Una sorta di rete, per eliminare il dolore di scarto. Se l’arte è una compensazione per i dolori e le bassezze, allora gli artisti proteggono.

– Uhm, quando funzionano sí, altrimenti gli artisti parlano e basta: io, io, io. E io devo ascoltarli, capito? Alla fine o diventi violenta e li umili, oppure percepisci il loro stato d’animo cosí profondamente che entri nei loro progetti, stai con loro, e alla fine: ansia, ansia, ansia.

– Però possono anche proteggerti dall’ansia. Cioè, tempo fa ero a pranzo con Mauro Gioia… ho scritto quello spettacolo… Una bella giornata napoletana… Dove ero nudo sul palco… vabbè… Con noi c’era il produttore. Stavo raccontando un fatto, avevo il boccone in bocca e biascicavo, e il produttore ha detto con quella leggera cattiveria di chi ha il potere: non ti si capisce quando parli. Che è una cosa che qualche volta mi dicono. E ci credo, fino a quattro anni non parlavo. Ma a me mette ansia sentirmi dire questa cosa, perché mi riporta indietro nel tempo, a quella sofferenza lí. Lo sai che ha detto Mauro Gioia, che stava pure parlando al cellulare? Ha chiuso la conversazione e ha detto: io ho dimostrato che Antonio sul palco si fa capire eccome, anche senza parlare. Mo vattelappesca se quello spettacolo era bello o brutto, però, capito il senso? Di protezione. Quando capitano momenti cosí? Sono rari. L’arte è bella per questo, a prescindere dal risultato si sviluppa un senso di protezione. Per questo amo gli artisti, leggono le proprie sofferenze e quindi quelle degli altri. Adesso magari è strano che lo dica io: ma tutto questo è associato alla magia, magia e depressione vanno insieme. Io vengo da una civiltà contadina, no? Non c’era modo di esprimere la sofferenza se non attraverso un rituale magico. Tutte le mie zie leggevano i tarocchi, no? Pure io.

– Leggi i tarocchi? – e Paola stringe la tazza della tisana con tutte e due le mani.

– Sí, sí. Ma non li faccio piú, una volta in ufficio li ho fatti a una collega, e le carte dicevano: amante. Io tentenno, poi glielo dico, con le dovute cautele, ma questa impazzisce, controlla tutte le tasche del marito e che ti trova? Una ricevuta di un albergo… è successo un casino, da allora niente, basta.

– Me li fai?

– Noo! Ma che sei pazza?!

– E dài.

– Nooo. Comunque li leggevo bene, soprattutto da ragazzo. Del resto, parlavo male, balbettavo, dovevo pur trovare un modo per adattarmi…

– Però, – dice Paola, – è anche vero il contrario: essere artisti significa corteggiare la propria fragilità. Fragile, cioè narcisista, egoista, depresso, vittima di se stesso e delle sue stesse parole. Vitalità e depressione si sfidano sempre. Se da una parte infondi energia, dall’altra la sottrai. L’artista è uno che può rovinarti a forza di parole insensate, perché se è vero che sa leggere i tuoi dolori è anche vero il contrario: non vede che il suo dolore. Vabbè ma come siamo finiti a parlare di questo adesso?

– L’empatia e gli artisti, mi sembra… E le donne che provano ansia per un senso di inadeguatezza.

– Già, io però ho ancora un po’ d’ansia, artistica si intende, e perciò voglio fare un po’ di shopping, dài, vieni.

– E andiamo… ma questa cosa del rame?

– Del rame?

– Sí, come metafora dell’Italia tradizionalista…

E ci siamo infilati in un negozio. Tutti specchi, porca puttana. Vestiti e forti sconti. Paola ha cominciato a tirare fuori la roba mentre io cercavo di capire quale ciocca accorciare per appianare il taglio. Poi è arrivato un commesso gay: Gianni, piacere. Molto discreto, alla giusta distanza: se avete bisogno, sono qui. Paola si è provata i vestiti, io guardandomi allo specchio ho cominciato a percepire una maggiore quantità di capelli bianchi.

– Sei di una bellezza asimmetrica, – fa lei.

– Ahah.

Per distrarmi ho detto al commesso: – Sei napoletano, quartieri bassi, vero?

– Incredibile, come hai fatto?

– Eh, guarda con gli accenti sono un mostro.

Ci mettiamo a parlare un po’ di Napoli, mentre Paola prova e riprova: come sto, come non sto. Gianni dice che lavora part time al negozio, in realtà fa il costumista al cinema. – Ah, – dice allora Paola, – e dove? – Gianni usando le dita cita uno, due, tre e quattro film per cui ha lavorato, naturalmente io ho annuito una sola volta e ho detto: sí sí, certo, visti (nemmeno uno in verità).

E Paola: – Incredibile, conosco tutti e quattro i registi, sono amici miei e pure napoletani –. Cosí battute su napoletani e casertani, i tanti, tanti, tanti che abitano a Roma, le usanze e i modi di dire, e Paola:

– Potrei scrivere un saggio su di voi, su come dite le cose, i vostri codici, – e però aggiunge, borbottando fra sé e sé: – Ho le cosce troppo grosse…

– Ma no, – dice Gianni, – che scherzi?

Paola però non scherza, la vedo incupirsi e mettere su il broncio, si stira la gonna e dice: – Com’è che dite voi quando vi arrabbiate? Mannaggia sant’Anna.

In un istante cala il gelo. Gianni letteralmente si ritira nelle spalle.

Intervengo prontamente:

– Sant’Asca! Non sant’Anna. La mamma della Madonna, non scherziamo…

E Paola si guarda intorno con l’espressione dispiaciuta: – Asca, Anna, non ho capito, tu ti mangi pure le parole.

Gianni a questo punto deglutisce profondamente, fa un sacco di gesti con le mani, come se stesse annaspando, tutto scoordinato, perde l’aplomb: non sono cattolico, cioè non so cosa sono in questo senso, però mia nonna e mia madre sono devote a sant’Anna, anche io un po’, ma cosí per rispetto a una cultura, un modo per proteggersi, sai, eravamo tutti poveri, mio padre chi lo vedeva mai, e allora, sai, ci restavano i santini, conservo ancora dei santini, li infilo nei cassetti, sotto i libri, anche qui nel ripostiglio ce n’è uno. E Paola fa la faccia sempre piú dispiaciuta:

– Noi toscani tiriamo giú certi moccoli.

Io intanto guardo l’orologio, tossisco, è tardi, e dico a Paola, cosí, per cambiare discorso:

– Ma quelle scarpe? Stile fetish, niente male.

– Uhm. Sí, ma non è il mio genere.

– La volgarità pure è bella, – dico, – è accogliente, a volte ’sta moda…

E Gianni conferma. Comincia a parlare dei vestiti, l’uso che se ne fa nel cinema, la distanza gergale, cosí dice, che i costumisti hanno dal mondo vero, e Paola annuisce un paio di volte e non ho capito se c’entrava l’empatia, o sant’Asca/Anna, la mamma e la nonna di Gianni, insomma Paola s’è comprata le scarpe fetish, un vero azzardo stilistico per lei.

– Bellissime, – dice Gianni, – ti stanno una favola.

– Sí belle, – dico, – ti stanno benissimo, ora troverai sicuro un fidanzato.

Alla fine Paola si accorda con Gianni per farlo lavorare nel prossimo film, e nel nostro documentario.

– Cioè, sei incredibile, – le ho detto, una volta usciti dal negozio, la luce che calava sempre di piú e forse era meglio cosí, meno capelli bianchi visibili, meno smagliature e asimmetrie varie, – ti sei comprata le scarpe fetish!

– Boh, non so, mi sono già pentita.

– Ti sono venuti i sensi di colpa per Gianni, e solo perché hai bestemmiato per sbaglio sant’Anna.

– Mi sono confusa, colpa tua, sant’Anna, sant’Asca… Dimmi la verità, come mi stavano?

– Sono la persona meno adatta…

– E infatti, che ne capisci di scarpe tu?

– Infatti, io giudico in base ad altri parametri… eccitante non eccitante…

– Eccitante vuol dire volgare e non eccitante non volgare? È cosí?

– Pressappoco…

– Uhm. Questo taglio comunque ti sta malissimo, guarda qua…

A casa mi sono sistemato i capelli e dopo un lavoro meticoloso per raccogliere i resti nel lavandino (erano tanti ed erano bianchissimi) mi sono messo a letto che era passata la mezzanotte. Ho chiuso gli occhi e dietro le palpebre ho visto una luce, bianca, intensa e calda. Piano piano la luce si è impadronita della mia mente. Non c’era nessuna venatura mistica, insomma: non avevo visto la luce in quel senso. Sublimazione, evidentemente. Dai capelli bianchi alla luce bianca. E come se fosse l’inizio di un film, come per magia il candore ha preso forma, e una dietro l’altra ecco apparire immagini liriche, una catena di ricordi, e perle, ambra, orizzonti, profili al tramonto e ho sognato intensamente le onde piene di spuma, creste e bollicine e il bagnoschiuma, il candore, il latte, il mare dell’infanzia e quei tramonti ramati sulla spiaggia, quando giocavi a pallone e i tuoi genitori ti chiamavano: adesso basta, a cena, e rispondevi avvolto dagli ultimi bagliori che si stendevano come una sirena sul letto marino, cinque minuti ancora, gridavi con la voce piena di giovinezza, di allegria, e giocavi e giocavi, l’ultima rete, l’ultimo calcio di rigore e il sole ramato stava lí gioioso come il sole dei Teletubbies, non se ne andava, il tempo in slow motion, che bella la vita e che nostalgia, mi sono detto nel sogno, un sogno concreto e palpabile, tanto lungo che nemmeno ho sentito la sveglia e stranamente alle sette stavo ancora dormendo e sognando l’ambra e il miele, le caramelle rossana i baci perugina il natale le cristall ball la nevicata del ’56 – intesa come canzone – e che tempi quelli là, quando mi sentivo o mi pareva di essere in sintonia con tutto, e leggevo l’umore delle persone con un solo sguardo e immaginavo l’espressione delle case dalla forma del cornicione, e quando le antenne erano i capelli irti e forti, ispidi e ricci, comunque alzati contro il cielo blu e perso nel languore, spogliato di tutto, imparentato con tutto ciò che esiste, ho avvertito come un sibilo, un rumore piú o meno acuto, una specie di fischio, è l’acqua del rubinetto ho pensato, e mi sono reso conto che non era quel genere di sibilo, no, era la voce di Daniela che mi malediceva perché i resti dei miei capelli avevano otturato il lavandino, un disastro, un disastro, e diceva a Brando di prendere la chiave inglese e di svegliarmi perché dovevo assolutamente darle una mano a smontare il sifone e vedi, diceva, che mi tocca fare di prima mattina.