Passeggiavo in bicicletta a villa Pamphilj. Con un delizioso vento di scirocco che, a folate, mi scompaginava i ricordi. Pedalavo e pensavo: ah, com’è difficile descrivere la contentezza. Con la tristezza è facile, ma con la contentezza? Che dire? Lo sguardo si apre, finisci per cogliere i dettagli, sorridi a tutto, ai fiori primaverili, ai bambini che corrono. Piú prosaicamente, e in particolare, passeggiando in bicicletta, il mio sguardo si è aperto non sul mondo ma su una ragazza. Una bellissima creatura sul bordo, cioè tra la terra battuta e l’erba, ferma, statuaria, lunghi capelli rosso fuoco – accesi e mossi dallo scirocco.

Incredibile, la bellissima creatura mi sorride. Sono sveglio in queste cose – mi guardo intorno: di sicuro saluta un altro.

Invece: – Ciao, – mi dice, ma non solo, mi saluta con la mano. Alza il braccio come se fosse su una nave e ci tenesse a farsi vedere, e con il braccio va su anche il seno. Non esco pazzo per il seno, ma il suo… insomma rispondo:

– Ciao.

– Non ti ricordi, vero?

– Ma certo che sí, – e intanto mi fermo e scendo dalla bici con molta agilità. È una meraviglia, occhi verdi e pelle bianchissima. Ci sarà una smagliatura senz’altro, magari sul collo.

– Certo che sí?

Niente smagliature, e poi le sopracciglia: folte e marcate. Belle le sopracciglia marcate, mi ricordano le donne degli anni Ottanta.

– Certo che no! – le dico. – Forse ci stiamo ingannando, non ci conosciamo.

– Certo che sí.

– Cioè, certo che non ci conosciamo?

– No, certo che sí: ci conosciamo. Anna, – e mi tende la mano e mi dà un bacio sulla guancia, uno solo, e mi viene in mente, non so perché, il sapone di Marsiglia.

– Anna?

– Anna! Dài, uno sforzo, Anna d’Amico.

– Anna d’Amico… certo…

– Anna d’Amico, figlia…

– Figlia, certo… di d’Amico…

– Di Ugo d’Amico, – e imbroncia il muso delusa e mi viene in mente un batuffolo di cotone e penso: ma che sono queste immagini tenere?

– Ugo?

– Sí.

– Ma Anna, scusa… l’ultima volta che ti ho vista ti tenevo in braccio, oh…

– Eh, passa il tempo.

– Ma scusa che… che… ci fai qui? Cioè, ti tenevo in braccio!

– Ma no! Ci siamo visti tipo dieci anni fa.

– E… appunto… quanti anni avevi?

– Vedi che non ti ricordi niente? Sempre cosí, guarda.

– Come, sempre cosí?

– La gente non si ricorda di me.

– Adesso non ti scordo piú, – e noto che non porta il reggiseno, il suo seno sfida la gravità, e allora raddrizzo la schiena.

– Comunque non mi hai tenuta in braccio l’ultima volta: avevo tipo nove anni.

– Quindi adesso…

– Tipo diciannove.

E qui sento le spalle cedere, insomma torno alla mia gobbitudine. Parliamo un po’ di suo padre e le dico quanto ha contato per me, a Caserta era una figura fondamentale, un vero artista, fu lui che mi disse: vai via da Caserta, altrimenti diventi lo scrittore casertano, confrontati, sporcati. E intanto lei piega un po’ la testa sulla spalla e la curva del collo sembra una vallata innevata. Diciannove, penso, e le dico:

– Dài, ci vuole un caffè, cosí mi racconti –. E mentre ci avviamo, io spingo la bici, lei mi sta a fianco e il profumo di sapone di Marsiglia se lo porta il vento. Mi dice che mi legge sempre, io un po’ gongolo un po’ arrossisco. Ci sediamo al bar della villa, un posto elegante, tutti prodotti bio ben esposti. Lei tiene il muso imbronciato, e mi piace, piace a tanti: due o tre persone guardano con un occhio i prodotti bio con l’altro la bellissima creatura di fronte a me – qualcun altro guarda sia i prodotti sia i miei capelli bianchicci e penserà: chi è lui? Il nonno?

Poi mi chiede:

– Allora? Prossima opera?

E io:

– Ma sai, piú che un romanzo vorrei fare un documentario sui sentimenti… Però poi vado in bicicletta, pedalo e penso, e penso, e divento digressivo…

– Aggressivo? Perché?

– Digressivo, non aggressivo, insomma vorrei che tutti questi pensieri entrassero a forza in un… una…

E Anna allontana un po’ la testa e storce leggermente il labbro come se temesse l’arrivo di una metafora sessuale, o forse sono io che ho i sensi di colpa, che ne so, e allora taglio corto e le chiedo: – Ma allora? Che ci fai qui?

Mi dice che si è trasferita a Roma per l’università. Lettere.

– Lettere?

– Sí, perché?

– Ma che ci fai con lettere? Dài, neuroscienza, genetica, robotica… possiamo fare ciao ciao alla cultura umanistica.

– Uhm, a me piace però.

– Sí va bene, ma gli sbocchi? Sai cosa fanno i laureati in lettere oggi? Scrivono questi dépliant illustrativi per i prodotti bio, guarda qui: che aggettivi fatati!

Poi le racconto di suo padre, che faceva l’artista multimediale già negli anni Settanta, integrava scienza e cultura classica, vera avanguardia, tra Leo de Berardinis e Carmelo Bene, amplificazione high tech, tecnologia spinta. – Non capisco, – le dico, – perché sia rimasto a Caserta per cosí tanto tempo, – e lei sbuffa appena e mi dice:

– Io invece lo capisco, la provincia è rassicurante, qui a Roma, non so, mi vengono un sacco di paranoie che a Caserta non mi venivano.

– Senso di inadeguatezza, – le dico. – Colpisce i provinciali, maschi e femmine, in maniera diversa ma affine.

Cosí le racconto di quando andai a vedere la mostra di Van Gogh a Roma – era la fine degli anni Ottanta, ascoltavo solo i CCCP (e pure adesso). Un’impresa. Riesco a recuperare i soldi per il treno (un Espresso a bassissima velocità), aspetto in fila (affollatissima) due ore e finalmente entro. Venivo da Caserta, passavo il tempo al bar o al pub, vita di provincia, caffè, aperitivi, su e giú tra corso Trieste e piazza Vanvitelli, qualche raro momento creativo, cioè, in pratica frequentavo suo padre, e insomma, finalmente qualcosa di nuovo: i magnifici colori di Van Gogh. Che bello. Una soddisfazione. Torno con l’ultimo treno, altro Espresso lentissimo, sbuffi, imprecazioni: ma quando la fanno l’alta velocità? E ricomincio la vita normale, caffè, aperitivi, suo padre che mi diceva: vai via di qua, sennò diventi l’artista di Caserta. Solita vita. Con una differenza: parlavo di Van Gogh, con leggerezza, a cuor contento. Tutto questo fino al giorno in cui guardo Mixer Cultura e c’era uno che parlava della mostra, e che diceva? Quelli che andavano a vedere la mostra erano omologati, si lasciavano trascinare dalla moda, e di Van Gogh, in fondo, non capivano niente. Cioè? Io ero omologato? Non capivo niente? Ma i colori di Van Gogh mi erano cosí piaciuti, i suoi quadri mi sembrava disegnassero paesaggi moderni. Avevo fatto due ore di fila e ora mi dicevano che ero omologato?

– Ma che cazzo! – le dico. – Senso di inadeguatezza, capito? Loro possedevano un canone e un passo che io, provinciale, nemmeno mi sognavo. Sai alla fine che ho fatto? Ho studiato tanto e ho cercato dei maestri. Anche se non lo superi mai del tutto, il complesso dell’inadeguatezza. Però a Roma ormai non ci sono piú solo i romani, sono tutti provinciali, e io ho imparato a riconoscere le ragazze dall’accento.

Le faccio un paio di esempi seduta stante: senti quella? Senti come dice «caffè»? Napoli alta (Vomero). Quell’altra, napoletana di periferia, e poi quella, toscana (Firenze, Empoli).

– Ma sei bravo, – mi dice, e tutto contento della mia bravura vado avanti: – Guarda, le donne che vengono dalla provincia e che ho incontrato a Roma hanno, di solito, queste caratteristiche: a) una sensibilità verso il bello; b) talento; c) ambizione creativa, – e lei arriccia naso e occhi. – Ma, di contro, hanno un’altra caratteristica: non credono in loro stesse, le pervade appunto un senso di inadeguatezza. Provincia versus metropoli, cambio di passo. Avrò fatto la cosa giusta? Avrò detto la frase adeguata? – lei alza la testa e mette via il broncio: mi sta seguendo. – Eppure le vedi mentre prendono tram e bus notturni, o con borse della spesa e da viaggio pesantissime (hanno tutte un segno rosso sulla spalla). Trasportano mobili Ikea su motorini precari, si caricano divani su per le scale, ora sono con te, fra un’ora dall’altra parte della città. Vai nelle loro case e te le ritrovi con un cacciavite in mano, che avvitano qualcosa con grazia. Che so, aggiustano una maniglia, fanno buchi con il trapano, montano una mensola. Rimango a guardarle, stupito da tanta manualità, – non chiedetemi mai di aggiustare qualcosa in casa, non lo so fare e non voglio imparare. – A volte mentre montano una mensola, in queste case brutte, periferiche, piene di scarafaggi, e che loro cercano di rendere carine, vivibili, presentabili, calde… insomma, mentre fanno partire il trapano e bucano la parete, ti dicono una frase intelligente, sul mondo, sulla vita, e pure su Van Gogh. Sai, pur usando con facilità le parole, resto a volte incantato: una frase semplice e chiara. Allora dico: bella questa cosa che hai detto! E loro accennano un vago sí con la testa e rimettono in moto il trapano. Dopo, prima di entrare nel letto, le mani ancora sporche, ti chiedono: ma se dicessi una cazzata, me lo diresti, vero? Non è che lo fai solo per scopare? Lo faccio solo per scopare? Ma no, apprezzo. Sicuro? Certo. Sei certo davvero? Sí. Sí? Sí!

– Uhm.

Cosí Anna si rigira la tazza fra le mani e fa «uhm». Poi aggiunge:

– Mi faccio un sacco di paranoie.

– E perché?

– Non mi piace il mio corpo.

– Che… che dici? Sei molto bella.

– Mi vedo brutta.

– No, allora, vuoi che facciamo subito un test? Chiediamo un po’ a questi qui, nel bar?

– Ma sono tutti vecchi, dài, a questi basta che respiri.

Mi guardo intorno: tutti vecchi? Avranno qualche anno meno di me.

– Allora, va bene, quale parte del tuo corpo non ti piace?

– Tutto.

– Tutto il cazzo, dài.

– Le gambe per esempio, – gliele guardo, sotto il vestito, lasciano una sottile traccia amabile.

– Ma che dici?

– Il seno poi, proprio per niente.

– Alt! Guarda, io sono ideale per questo test. Perché io non impazzisco per il seno…

– E lo vedi…

– Non per il tuo seno, aspetta… Preferisco il culo.

– E lo vedi, io quello proprio per niente.

– Aspetta. È una mia preferenza, per carità, tu…

– Ma fa un po’ gay.

– Cosa?

– Quelli che preferiscono il culo.

– No!! Semmai è il contrario. Se la vogliamo vedere in questa ottica di… di… di psicologia spicciola. A essere gay sono quelli che amano il seno. Sai, la mamma, la tenerezza… il culo è l’avventura, capito? Ma se proprio la vogliamo vedere in quest’ottica, altrimenti possiamo limitarci a dire che il tuo seno è veramente bello, e se te lo dico io…

– Forse il mio ragazzo è gay, non so.

– Hai un ragazzo?

– No… insomma, una specie.

– Una specie? Com’è possibile?

– Non so, ho incontrato solo ragazzi molto immaturi, cioè che non si prendevano responsabilità, – e guarda fuori attraverso i vetri, la villa animata e piena di sole.

– Eccone un’altra… vabbè… forse è presto.

– Cioè, piú che altro ho avuto degli amanti, stanno con me ma non lasciano mai la ragazza o la moglie. Tutti gli altri, quelli che mi piacciono, sono amici.

– Solo amici…

– Sí, comunque il mio… amante… attuale è fissato con il mio seno, sta sempre accucciato, – e fa un gesto, – come un bambino, e poi, sai, – e abbassa la voce fino a che diventa quasi impercettibile, – da quel punto di vista… non sempre…

– Pure!

– Sarà colpa mia.

– Oh, ma sei impazzita, sei una ragazza, guarda, proprio bella, cos’è questa insicurezza? Davvero puoi spaccare il mondo, – e lei ridacchia, ma turbata, solleva appena il labbro superiore che forma un angolino delizioso.

– Me l’ha detto anche Richard.

– Il tuo ragazzo?

– No, il fotografo, Richard Kern, sai chi è?

– Il fotografo di… nudi.

– Sí, Kern.

– Sí, un po’, – naturalmente mento: nelle librerie tolgo sempre il cellophane da tutti i suoi libri, eccitantissimi. – E conosci Kern?

– Sí, ho fatto un servizio per lui.

– Ma dài. E quando?

– Dieci mesi fa.

– E… cioè… un servizio…

– Un servizio fotografico.

– E… cioè… si trova…

– È uscito, sí. Ho deciso di fare queste foto proprio per superare i miei complessi, per esempio guarda qua che cosce, sono troppo grosse.

– Ma che grosse! O Gesú.

– Cioè, a Caserta non ero cosí, da adolescente, dico, poi crescendo ho perso l’autostima. Allora ho pensato che se non riesco a guardarmi allo specchio, potrò guardarmi almeno in foto.

– No, non ho capito.

– Ti spiego.

– Sí, spiegami, sono un po’ vecchietto, sai…

– È vero, hai fatto un sacco di capelli bianchi… – poi mi chiede di aspettare un momento: deve mandare un messaggio al suo quasi fidanzato. Smanetta un po’ e dunque:

– Non ho mai fatto foto, tranne una volta, con un mio amico, un fotografo di Caserta, un professionista.

– Nome?

– Che ti importa?

– Dài…

– Augusto.

– Della Libera! Ma che cazzo, hai fatto le foto con lui?

– Oh, ma che vuoi?

Ecco qua, penso, adesso non mi racconta piú niente. Mai ritirarsi però, anzi, insistere e azzardare.

– Ma non è un professionista, a Caserta faceva i matrimoni, i funerali, una volta ha fatto un book per un funerale, capito?

– Eh, ma quelle erano foto normali, e comunque in quelle foto mi piacevo e allora ho deciso di impormi questa sfida.

– Ah! Hai capito come siamo fortunati noi uomini? Possiamo decidere se una ragazza è attraente o no. Vabbè, e come è andata? Come ti sei sentita? Imbarazzata?

– Noo, è stato come tornare bambina e stare al mare, che so, a Formia o a Gaeta, con il solo pezzo di sotto, da bambina appunto.

– Con il solo pezzo di sotto? – comunque non sento piú traccia nell’aria del sapone di Marsiglia.

– Sí, le mutandine non me le sono tolte. In verità, alcune cose che mi ha chiesto non le ho fatte.

– Tipo?

– Tipo, non so, quando ho fatto il provino mi aveva chiesto di farmi crescere i peli sotto le ascelle, perché, sí, appunto, diceva che con questi capelli rossi e i peli sembravo una selvaggia, e potevamo spaccare il mondo.

– E cazzo, sí.

– No, dài, mi sembrava una cosa un po’ rozza, da vecchi bavosi.

– E infatti… – adesso lo risento, sapone di Marsiglia.

– Poi mi ha chiesto di farmi la doccia, di lavarmi il seno ma io no.

– No?

– No, troppo intimo.

– Troppo intimo lavarsi?

– Certo.

– Mi mancano alcuni parametri di… di riferimento. Ma tuo padre lo sa?

– No, oh, non glielo dire.

– No no, ma che scherzi…

– E poi, sai, è diventato quasi cieco, ormai, è andato a vivere con Alessandro, il mio fratellastro.

– E lo sa Alessandro?

– Delle foto?

– Delle foto, sí.

– No, e non lo scrivere però…

– Ma che scrivere: non scrivo romanzi da sei anni.

– Ah, vero, e come mai? Non trovi le storie?

– No, il contrario! Cioè, vedi, tu con questo tuo corpo qui e tutto il disagio che ti porti sei già una storia, le storie sono ormai scritte nei corpi, le parole sono… come questi dépliant del bio: stronzate messe in fila ma con un certo gusto, capito?

Annuisce e i capelli le vanno sugli occhi e poi:

– Eccolo!

– Eccolo?

– Ciao, – saluta, mentre si avvicina al tavolo un ragazzone biondo, alto e massiccio, carnagione chiara, sembra inglese tanto è slavato.

– Ciao, – dice con un accento romanissimo. Dovrebbe essere il quasi fidanzato, cioè l’amante, almeno a giudicare dall’aria circospetta. Gli stringo la mano, sarà alto 1.90, lui abbassa gli occhi (è l’amante), e io dico:

– Vabbè, allora a presto.

Lei sorride, mi dà un bacio sulla guancia. – Mi raccomando, – mi dice, e se ne vanno uno vicino all’altra, spalla a spalla, senza toccarsi.

E me ne vado anche io e ricomincio a pedalare e mi viene in mente il vecchio film di Woody Allen, Provaci ancora, Sam. Woody Allen è un uomo impacciato, timido, non ci sa fare con le donne, per questo si rivolge allo spettro di Humphrey Bogart che gli appare per consigliarlo: fai cosí, fai questo, poi quest’altro. È innamorato di Diane Keaton ma non ha il coraggio, del resto è anche la donna del suo miglior amico e per proprietà transitiva diventa la sua migliore amica.

Una sera si accomodano sul divano. Lei è un po’ alticcia, lui tenta vari approcci. Bogart non si risparmia in consigli.

«Tu sei molto piú bella della media», le dice Allen.

«Quando esco con te e tutte quelle belle ragazze, mi sento come se la vita mi avesse lasciato da parte, io potrei al massimo fare la maschera in un cinema».

«Ma che dici? Nessuna di quelle ha la tua classe…»

«Oh, continua a parlare, mi stai salvando la vita, io ho un tale complesso di inferiorità».

«Complimenti, – suggerisce Bogart, – stai andando fortissimo, dài, baciala».

Bogart insiste (Allen non si decide):

«Adesso dille che di donne ne hai viste tante, ma che lei è qualcosa di realmente diverso».

«No, guarda, – dice Allen, – questa non se la beve».

«Prova!»

Prende un sospiro, si concentra: «In vita mia ne ho viste tante di donne, ma tu sei qualcosa di realmente diverso!»

«Davvero?!»

«Se l’è bevuta…»

Se l’è bevuta. Stupore? No, tutto deriva dal senso di inadeguatezza.

E pedalando sono arrivato a casa, mi sono fermato, immobile, sotto il portone, a pensare: lo vedi che bel documentario verrebbe fuori? Certo, è complesso, mica posso solo intervistare le persone e sentire cosa pensano della moglie, dell’amante, dei figli, dei genitori, è necessario mettere insieme neuroscienza, psicologia cognitiva, biologia evolutiva, prima la chimica e poi i sentimenti, e mica la parola amore rende la vita migliore, no, semmai la rende possibile, migliore certo che no, anzi spesso i sentimenti sono duri, brutali, in fondo discendiamo dai rettili, desideriamo conquistare il territorio, soffriamo se non ci riusciamo, ci sentiamo inadeguati, e cosa si nasconde dietro i sentimenti? Il nostro passato, i nostri dolori, le risposte giuste date al momento sbagliato, il modello, nel mio caso il modello meridionale, le contraddizioni, ecco, bisognerebbe inserire tutte queste cose in una… in una… una traccia (maledizione ho pensato, ecco cosa volevo dire prima con Anna: una traccia). Poi, all’improvviso, è arrivato mio figlio e mi ha scosso:

– A pa’, che stai a pensa’? Me dai la bicicletta?

– E dove vai?

– Con Arturo, annamo a fa’ un giro.

– Annamo? Annamo a fa’ un giro… ma come parli? Fate sempre ’sti giri in bicicletta… L’altra volta vi ho visto, stavate come due cazzoni, davanti a scuola, fermi, con gli zaini, questi zaini pesanti sulle spalle e intorno c’erano tutte ’ste ragazzine, e voi che facevate? Parlavate fra voi due, con questi zaini pesanti sulle spalle, cioè ve ne accorgete che c’è un mondo attorno a voi? O c’è solo la A. S. Roma, la magica?

– ’a magica, sí, perché, che c’è di male?

– Vabbè, poi ne parliamo.

Sono salito a casa e che ti vedo? Marianna in chat che scrive velocissimamente sulla tastiera, e cosí maledico Facebook, ma a un’altra occhiata mi accorgo che indossa una maglietta una misura piú larga della sua con su scritto: «Cogli questo fottuto attimo», e proprio in quel momento mi chiede: – Papo posso uscire?

– Ma no, si sta facendo buio.

– Ma Brando…

– Che c’entra? È andato a fare un giro in bicicletta, e poi io devo uscire ancora e non posso venire a riprenderti.

– Me ne torno da sola.

– No, poi finisce che mi chiami perché ti metti paura di passare vicino alle case popolari.

– E allora mi vieni a prendere.

– E allora ti ho detto che non posso, devo fare un servizio.

– Ora?

– Sí ora, non va bene? E poi questo film, L’attimo fuggente, è una stronzata romantica.

– Che c’entra?

– Tu non lo sai, ma la scritta sulla tua maglietta è una citazione ironica di un film che non hai visto, perché stai sempre a chattare…

– Ma io l’ho visto, l’ho visto.

– E dove l’hai visto?

– L’hanno condiviso su Facebook, guarda… è un bel film…

– Ah! – e me ne sono andato in cucina, ho aperto il frigo e l’ho richiuso, ho aperto la credenza e l’ho richiusa, quindi sono tornato da Marianna: – Guarda, tu rischi di diventarmi creativa con questo Facebook, poi finisce che non credi in te stessa e devi farti giudicare dai maschi, da maschi orribili con la bava alla bocca. Meglio se vai con la tua amica, va’, ti vengo poi a prendere io.

Cosí sono uscito di nuovo, a piedi, direzione Feltrinelli viale Marconi, anche perché lí c’è un reparto appartato dove ci sono i libri di fotografia, e dove, per curiosità, posso sfogliare il servizio di Kern.

Sono arrivato, ho guardato un po’ i classici in sconto, un po’ la massa di giovani scrittori, e poi via, verso il reparto fotografia. Trovato. L’ultimo Kern. Anna poteva essere in questo? C’era il cellophane. Che palle. Va bene me lo prendo, mi allontano un po’ e…

– Pascale?

– Sí?

– Lo scrittore, vero?

Ma quando mai capita? Una lettrice, intorno ai sessanta, mi riconosce alla Feltrinelli di viale Marconi e si mette a parlare. Mi stima tanto, mi legge sempre e ha molto apprezzato, dice, la recensione sul libro di Franco Cassano, Modernizzare stanca, perché sostiene che quella è la via giusta.

– Quella quale?

– La decrescita.

Ha preso la mia stroncatura del libro di Cassano come un giudizio positivo sulla decrescita. E comincia a parlarmi di come stiamo messi male, la terra si sta consumando, viva il bio, viva la decrescita, e allora le dico:

– Guardi che io ho stroncato il libro di Cassano.

– Non mi sembrava.

– Ma quale recensione ha letto? – mi sto innervosendo, poi Kern sotto il braccio pesa.

– Quella sul «Mattino», mi pare.

– E mi pare… no, sul «Messaggero», – e cosí riassumo velocemente la cosa alla signora che mi guarda attraverso gli occhiali, vedo i suoi occhi concentrati. – Bene, ma non sarebbe piú serio dirci di quanto dobbiamo decrescere? C’è una cifra, un dato economico che Cassano ci può fornire? Keynes ci ha mostrato lo stretto rapporto che esiste tra produzione, consumo e reddito, dunque i tre elementi sono legati, la questione della decrescita va affrontata per intero: quanto siamo disposti a perdere in termini di nostro potere d’acquisto, quindi di reddito, per salvare il mondo? In fondo si potrebbe adottare anche un’altra strategia: per combattere la modernità, io mi taglio lo stipendio. Cosí, con meno soldi in tasca sono costretto a risparmiare. Taglio dei consumi, meno investimenti, calo della produzione. Tipo meno rifiuti, piú telefoni pubblici? Ma se cala il reddito, non è affatto scontato che aumentino i telefoni pubblici, anzi probabilmente si ridurranno anch’essi. I beni pubblici richiedono investimenti. Questi vengono fuori dal surplus di reddito. Nemmeno ci saranno meno rifiuti, infatti l’efficienza ambientale, cioè il rapporto tra input e scorie, non è funzione della produzione totale ma della tecnologia. I paesi meno sviluppati producono meno di quelli avanzati, ma inquinano di piú. E, soprattutto, la cosa insopportabile è la visione che questi hanno della donna…

– Questi chi?

– Questi della decrescita. Qui sta cambiando tutto, i vecchi ruoli si stanno sfaldando e allora noi maschi per paura sa che facciamo?

– …

– Facciamo l’elogio delle donne. Cioè, elogiamo il territorio, l’identità, la tradizione, i sapori di una volta. Slow, andiamo piano, per carità, slow food, slow tour eccetera. Questo che significa? Che la critica alla modernità è solo una perifrasi maschile per dire: eh, le donne di una volta, come mia nonna, tranquille con tutte le loro ricette bio e gustose, ma dài! Questo dicevo nella recensione, quindi io sono contro l’idea di decrescita e del bio e tutte queste cose qui, sono per l’industria, sono progressista. E poi i sentimenti sono complicati da scrivere…

– Sí, però, com’è nervoso e aggressivo, – cosí mi ha detto.

– Sono nervoso perché mi scambia per un altro.

– Come per un altro? Lei è Pascale, sí o no?

Insomma, abbiamo litigato, ho alzato la voce, lei ha fatto un’espressione tipo: questo è pazzo, stia calmo, veramente, si faccia curare, lei è ossessionato dalla crescita e sta andando a sbattere contro un muro.

Comunque se n’è andata, e ho dovuto aspettare cinque minuti, con il libro sotto il braccio, un po’ per far sbollire la rabbia, un po’ perché s’era formato un capannello di curiosi attorno a me. Poi, finalmente, ho tolto ’sto cazzo di cellophane dal libro – che se c’è un motivo per essere d’accordo con la decrescita è proprio la questione packaging, non per i prodotti in generale, per i libri di Kern – e ho sfogliato. Porca puttana, ho pensato.

Sono uscito e ho chiamato Luigi.

– Ti dico solo due parole: Anna e Kern.

– Anna chi?

– Anna d’Amico, la figlia di Ugo.

– Ugo d’Amico?

– Sí sí.

– E c’avrà dieci anni.

– Si, ’na volta, mo è arrivata a diciannove. Anna e Kern. Ultimo volume, se vai alla Feltrinelli di viale Marconi lo trovi senza cellophane.

– Veramente?

– Poi mi dici.

La sera stavo vedendo Piazza Pulita, nervosissimo, e stavo dicendo: qua siamo messi male, quando ha squillato il cellulare. Era Luigi, ha detto solo:

– Alla faccia! – e dopo una pausa ha aggiunto: – La giovinezza è una cosa bellissima.