14
I tetti di Parigi
Era in maniche di camicia, con il gilet sbottonato e i sensi allertati al compito che aveva da svolgere. Lavorava da un bel po’ con materiali che lui stesso si era procurato e che adesso teneva in buon ordine sul tavolo della sua stanza all’hotel Madison.
Preparava un artefatto rudimentale, efficace, di potenza moderata ed effetti ragionevoli. Una bomba artigianale. Sapeva come farla, naturalmente. E non era la prima volta.
Paziente, senza fretta, con una limetta per le unghie finì di lavorare sulla bolla di vetro di una lampadina da torcia fino a praticare un foro dal quale introdusse del fosforo triturato. Poi inserì la lampadina in una scatola di biscotti di metallo con mezzo chilo di polvere da sparo – anche quella l’aveva fabbricata e mescolata lui – e la chiuse lasciando fuori i due cavi.
Collegò l’estremità dei cavi a ciascuna delle puntine da disegno fissate su una molletta per stendere i panni e vi interpose una linguetta di caucciù. Alla fine, per chiudere il circuito, collegò uno dei cavi a una pila da 2,5 volt.
Dopo essersi assicurato che non fossero rimasti sul tavolo residui di fosforo e di polvere da sparo, si alzò e si accese una Player’s. La bomba era pronta, e adesso mancava soltanto il meccanismo a orologeria. Fumò affacciato alla finestra, osservando il traffico delle auto nella mattina grigia, la statua del filosofo e la chiesa di Saint-Germain oltre le fronde degli alberi del boulevard. Poi guardò l’orologio, spense con cura la sigaretta in un posacenere e tornò al tavolo.
Il meccanismo a orologeria era semplice: una sveglia di media grandezza alla cui chiave posteriore, quella che girava all’ora fissata – aveva svitato la campanella in modo che tutto accadesse in silenzio –, fissò un filo grosso che, al momento giusto, avrebbe collegato alla linguetta di caucciù in modo che, quando la chiave avesse girato facendo arrotolare il cordino, l’avrebbe tirata via e avrebbe chiuso il circuito elettrico. Lo fissò alla bomba con del fil di ferro e poi mise tutto in uno zainetto, e quest’ultimo in una valigia in cui infilò anche diversi attrezzi e un rotolo di cerotto. Aggiunse trenta metri di corda da alpinismo che aveva comprato il giorno prima al Club Alpin. Poi andò in bagno per sciacquarsi un po’, verificò che la pistola e il libro dei codici fossero nascosti dietro l’armadio, finì di vestirsi, prese la valigia, l’impermeabile e il cappello e uscì dalla stanza.
Piovigginava dolcemente sull’asfalto lucido. All’angolo di rue de Rennes, dopo un paio di andirivieni per assicurarsi che nessuno lo seguisse, prese un taxi fino alla Gare de Montparnasse. Il tragitto era breve e sentì grugnire il tassista, ma gli chiuse la bocca con una buona mancia. Scese dall’auto e camminò fra la gente fino ad arrivare al deposito bagagli, dove lasciò la valigia. Uscì con la ricevuta in tasca, percorse parte del boulevard fino a superare La Rotonde e poi tornò sui suoi passi, attento ai volti che incrociava. Entrò nel caffè scuotendosi l’acqua dall’impermeabile e dal cappello, ordinò un vermouth con gin e rimase per un po’ a sorvegliare la porta e la strada. Quando fu soddisfatto, uscì e prese un altro taxi.
Il tempo del tragitto lo occupò in pensieri tecnici: orari, movimenti, opportunità, cautele, rischi assumibili. Passava in rassegna tutto in continuazione, tentando di scoprire se avesse trascurato qualcosa. Qualche errore nei piani previsti. Ma tutto sembrava in ordine. Si era tolto il cappello e appoggiava la tempia destra sul vetro del finestrino, costellato di goccioline all’esterno e appannato dal suo fiato. Il fresco gli faceva bene, o forse il sollievo proveniva dall’azione in cui era ormai immerso. Dal giorno prima e da quello che era accaduto al 34 di rue de l’Orne, il tempo dell’attesa era finito: da bersaglio fisso, Lorenzo Falcó era diventato minaccia mobile, e questo cambiava molto le cose. Pensò alla valigia che attendeva al deposito bagagli della stazione, e una smorfia da cacciatore privo di scrupoli gli smagrì il volto.
Adesso – e ormai sarebbe stato così fino alla fine – il pericolo era lui.
Scese dall’auto accanto alla colonna patinata di verde di place Vendôme e camminò verso il Ritz mentre lanciava in giro un’altra occhiata discreta. Passò sotto uno dei quattro archi dell’ingresso, salutato da un portiere con il berretto e la casacca gallonata, e si avviò verso il bar calpestando tappeti. Il Ritz gli sembrava sempre un’oasi di calma nella rumorosa Parigi. Fattorini e cameriere si muovevano silenziosi come fantasmi, e il silenzio era interrotto soltanto dalla caduta accidentale di qualche cucchiaino da caffè.
Hupsi Küssen aspettava seduto a un tavolino sul fondo, il più lontano dal bancone. Quando vide entrare Falcó agitò una mano per segnalare la propria presenza. Aveva una bottiglia di acqua minerale sul tavolo e la sua espressione era inquisitiva.
«Tutto bene?»
Falcó, che non si era seduto, indicò un altro tavolo vicino alla porta.
«Le dispiace se andiamo lì?»
L’austriaco lo guardò con curiosità.
«Come vuole.»
Andarono a sedersi all’altro tavolo, e Falcó si accomodò su una delle sedie rivestite in pelle, in modo da poter sorvegliare il corridoio dell’ingresso. Chiamò il cameriere e ordinò un vermouth.
«Come va con Picasso?» domandò l’austriaco.
La luce di un’applique sulla parete gli illuminava la parte bruciata della mandibola e lasciava l’altro lato in ombra, in modo che la parte inferiore del viso sembrava una maschera di pelle morta.
«Tutto pronto, o quasi.»
«Credo che porteranno il quadro all’Esposizione tra un paio di giorni.»
«Ne dubito.»
Küssen fissò Falcó senza aprire bocca. Alla fine, la maschera bruciata si distese in un sorriso, o in una smorfia. Abbassò la voce.
«Lo farà lei da solo?»
Falcó non rispose. Si stava avvicinando il cameriere con il suo vermouth. Vi bagnò le labbra, guardò verso l’ingresso. Continuava a non dire nulla.
«Mi permette una domanda?» azzardò Küssen.
«La faccia e lo sapremo.»
«Ho saputo che Picasso è stato gentile con lei.»
«Molto. Mi ha perfino fatto un ritratto.»
«E non le provoca nessun tipo di…?»
Si era fermato cercando la parola.
«Rimorso?» suggerì Falcó.
«O di remora. Qualcosa del genere.»
«E perché dovrebbe provocarmeli?»
«Be’, non so. Lei l’ha chiesto a me un paio di giorni fa parlando di Bayard, se lo ricorda?… Il tradimento lascia sempre dei peli nella gattaiola.»
Falcó lo guardò con sarcasmo.
«È strano che lo dica lei, Hupsi. La sua vita, per quanto ne so, è un tradimento continuo di tutti quelli con cui ha rapporti.»
«Oh, certo» sorrise Küssen con astuzia. «Sono, per dirlo in qualche modo, un traditore senza complessi. Non voglio nasconderlo proprio a lei. Ma c’è una differenza.»
«Che lei ci si arricchisce?»
«Non mi riferivo a quello… Nel mio caso, il tradimento non lo è davvero. Come le ho detto anche l’altro giorno, sono un nazionalsocialista, capisce?»
«Capisco.»
«Così come mi vede, servo il Reich come un soldato fedele.» Si toccò macchinalmente la faccia. «Quello che sono stato nella Grande Guerra. A differenza sua, ho un’ideologia, sa?… Ho degli affetti.»
«Affetti patriottici?»
«Naturalmente. Non ci crederà, ma sono di quelli che al cinema hanno pianto vedendo bruciare l’Hindenburg. E le assicuro…» A quel punto si fermò. «Perché sorride?»
«Non importa.»
«Lo dica, per favore.»
«Anch’io ho pianto quando ci sono state le nozze del duca di Windsor.»
«Non scherzi.» Apparentemente seccato, Küssen si era adagiato sulla sedia. «Le sto parlando sul serio… E adesso, perché mi guarda così?»
«Per niente di particolare. Pensavo che una delle vostre caratteristiche, dei nazionalsocialisti, fosse il vostro indiscutibile talento per il cinismo.»
L’altro fece un’espressione di dignità offesa.
«Quel talento è stato sostenuto da quasi dodici milioni di voti tedeschi. Senza contare quelli che vivono fuori dalle frontiere, nei Sudeti, in Austria…»
«Sì. Capisco che questo possa rendere cinico chiunque.»
Rimasero in silenzio per qualche istante, guardandosi negli occhi. Da gitano a gitano, pensò Falcó, divertito. Küssen prese la fetta di limone della sua acqua minerale e se la succhiò, pensoso.
«Sa cosa ha detto il suo capo all’Ammiraglio Canaris e a me a San Sebastián?»
«No.»
«Ha detto, come se fosse una virtù, che lei era un uomo senza affetti. E che questo garantiva la sua efficienza.»
Falcó non disse nulla. Küssen continuava a succhiare la fetta di limone.
«Immagino che il suo capo avesse ragione» aggiunse l’austriaco dopo un istante. «Gli affetti finiscono per causare sofferenza, e questo rende vulnerabili, ha detto… Perciò, secondo lui, lei si tiene lontano dagli affetti come da una malattia, sostituendoli con la lealtà, che è fredda e più facile da gestire.»
«Caspita… Tutto questo vi ha raccontato l’Ammiraglio?»
«Più o meno. E ha anche detto: “Ci sono uomini nati per comandare e uomini nati per obbedire, ma lui non è né l’uno né l’altro”.»
Falcó prese il suo bicchiere e si adagiò sulla sedia, sarcasticamente interessato.
«Fino a questo punto vi ha aperto il suo cuore?»
«Così pare.»
«Era loquace, quella sera. Di solito non lo è.»
Bevve un sorso che gli cancellò il sorriso da lupo scettico. Nessuno sapeva conquistare le persone come l’Ammiraglio, pensava. Il vecchio e freddo pirata. Con quegli impeti di confidenza più falsi di una moneta di piombo. Paragonato a lui, Falcó era soltanto un attore dilettante.
In quel momento vide Nelly Mindelheim dirigersi verso l’ingresso.
«Mi scusi» disse a Küssen, alzandosi in piedi.
«Che sorpresa» disse la nordamericana.
Odorava sempre di polvere da toilette, di profumo costoso e di soldi. L’elegante completo che indossava sotto l’impermeabile tenuto sulle spalle come un mantello – giacca, gonna plissettata, guanti di camoscio – favoriva la sua silhouette vagamente arrotondata e le snelliva il volto sotto i capelli biondi e la falda del cappello. Gli occhi azzurri, densi di rimmel violetto, guardavano compiaciuti Falcó.
«Davvero» disse lui. «Come la tratta Parigi?»
«In maniera meravigliosa. Cos’altro posso dire?… È una città affascinante.»
«Dov’è la sua amica Maggie?»
«Ora scende. Andiamo a fare spese in rue Sant-Honoré.» Le si illuminarono gli occhi con un’idea repentina. «Vuole farci compagnia?»
«È allettante.» Falcó fece un gesto desolato verso il bar. «Mi piacerebbe molto, ma sono con una persona, e ne ho per un bel pezzo.»
La donna sembrava delusa.
«Che peccato. Sarebbe stato divertente avere la sua opinione quando ci mostreranno quelle modelle così prive di curve. Lei se ne intende di moda femminile, a quanto ricordo.» Fece una smorfietta disinvolta. «Anche se più per svestire le donne che per vestirle.»
Aspettava, sorridente, qualcosa di ingegnoso in risposta alla sua sfacciataggine. Falcó la fissò negli occhi, molto sereno, abbozzando un sorriso dolce. Disposto a non deluderla.
«Quale altro scopo ha il vestito di una donna se non di incitare a toglierglielo?»
Lo disse con naturalezza, limitandosi a esprimere un fatto oggettivo. Lei sbatté le palpebre, lusingata.
«Ha proprio ragione.»
Rimasero per un po’ indecisi, riluttanti a lasciare le cose così. Falcó corrugava la fronte, simulando di pensare in tutta fretta ciò su cui aveva perfettamente premeditato.
«Potremmo bere qualcosa più tardi» suggerì con apparente improvvisazione. «Ho un impegno a cena, ma dopo sono libero.»
Era ovvio che a Nelly Mindelheim quell’idea piaceva.
«La vita a Parigi comincia dopo mezzanotte» disse.
«Esatto.»
La nordamericana annuì lentamente, decisa e complice. Sbatteva di nuovo le sue ciglia viola, anticipando il piacere.
«È un’idea stupenda» concluse. «Con Maggie, è chiaro.»
Lo disse come se si fosse appena ricordata della sua amica. La voce le si era arrochita, e il fatto non passò inavvertito a Falcó. Di colpo, quello che doveva essere un semplice alibi tattico si trasformò in una prospettiva interessante. Nelly e Maggie. Ricordò l’episodio dell’espresso Hendaye-Parigi, la strettezza della cuccetta inferiore, i loro tre corpi allacciati e nudi, e sentì un immediato stimolo fisico.
«Con Maggie, naturalmente» disse.
Sorrideva come uno squalo simpatico e tranquillo.
«Di questo si trattava?» chiese Küssen. «È il motivo per cui mi ha dato appuntamento qui?»
Falcó era tornato al suo posto. Senza rispondere, finì il suo vermouth e si accese una sigaretta.
«Quando sarò giovane e bello voglio essere come lei» disse l’austriaco.
Falcó si rimise in tasca portasigarette e accendino, sbuffando il fumo.
«E Bayard?… Da parte mia, è tutto pronto.»
L’espressione di Küssen si fece furba. Si torceva i baffetti con una smorfia perversa. Guardò di sottecchi il barman, occupato dietro il bancone, e abbassò la voce.
«Sono stati fatti tutti i bonifici sul conto corrente in Svizzera?»
«Tutti.» Falcó gli passò una busta, dopo averla tirata fuori da una tasca dell’impermeabile. «Lì c’è la ricevuta dell’ultimo, fatto da Ignacio Gazán.»
«Un individuo che scomparirà nel nulla, immagino, da un momento all’altro.»
«Esatto. Non appena risolverà un altro paio di faccende.»
Küssen mise la busta in tasca.
«Anch’io scomparirò, come le ho detto.»
«Prudente precauzione.»
Compiaciuto, l’austriaco si tastò la giacca all’altezza della tasca in cui aveva messo la busta.
«Un bel capitale, quello che il nostro amico Bayard ha in Svizzera senza saperlo.»
«Quando ne saranno al corrente i russi?»
Küssen si strinse nelle spalle. Dovrebbero già esserlo, disse. Secondo le notizie che aveva, Ambra – la talpa sovietica alla Tirpitzufer che faceva da doppio agente – aveva trasmesso a Mosca un rapporto completo su Léo Bayard. Comprendeva una decina di lettere impeccabilmente false, trascrizioni di presunte conversazioni telefoniche, copie di messaggi intercettati, foto e documenti cifrati.
«Anche della mia identità, suppongo» sospirò Falcó.
«È possibile.»
«Da lì il tuffo dal ponte… Hanno deciso di cominciare da me. Un piccione nel tiro al piccione.»
«Non lo escludo.»
Il dossier Bayard, proseguì Küssen, era molto ben elaborato e includeva due gioielli: una comunicazione segreta dell’Abwehr al SD di Heydrich in cui si menzionava Bayard in contatto con l’MI6 britannico, e un rapporto degli inglesi che lo confermava. Entrambi autentici.
«Autentici, ha detto?» si sorprese Falcó. «Anche quello inglese?»
«Assolutamente.» Küssen non poté evitare di pavoneggiarsi un po’. «Siamo riusciti a fare in modo che quei decadenti gentiluomini entrassero nella faccenda… Il che, ovviamente, supporta l’autenticità dei documenti tedeschi.»
Falcó continuava a rimuginarci sopra.
«A Londra credono davvero che Léo Bayard, con la sua biografia, sia un fascista sotto copertura?»
L’austriaco si guardò intorno prima di sporgersi un po’ di più verso Falcó.
«Che ci credano o no è la cosa meno importante» disse in un sussurro. «Quello che conta è che i loro servizi hanno elaborato un documento in cui lo affermano. Incrociandolo con il nostro, e messo il tutto nelle mani della NKVD con l’aggiunta del conto corrente svizzero, Bayard è fregato.» Si raddrizzò sulla sedia. «Capisce?… Quello che gli faranno sarà affare dei russi.»
Falcó era immobile. Pensava, sebbene senza risultati soddisfacenti. Il fumo della sigaretta che aveva in bocca gli faceva socchiudere gli occhi metallici e freddi. La allontanò lentamente.
«Continuo a non capire perché gli inglesi, sempre così pacifisti e misurati, si prestino al gioco.»
«I pacifisti non sono mai bravi psicologi. Il gruppo di pressione conservatore lì è molto forte. Guardi come sotto sotto appoggiano Franco. E, così come in Francia, li preoccupano più i comunisti che i nazisti… Com’è quella frase di voi spagnoli sulla trippa e i gatti?»
«Non c’è trippa per gatti.»
«Esatto. Quelli del MI6, è chi è sopra di loro, credono che la Germania possa essere rabbonita con il negoziato e la collaborazione; ma che si possa combattere il comunismo soltanto con la mano dura. Vogliono utilizzare Hitler contro Stalin. Perciò nell’operazione Bayard collaborano di tutto cuore. Tutto per la pace, l’ordine e la legge in Europa.»
Suonava ragionevole, si disse Falcó. La classe dirigente britannica non nascondeva le proprie simpatie per i franchisti nella guerra di Spagna. Sapeva ciò che era in gioco, che erano in ballo la sua egemonia e il suo futuro.
«Mi domando cosa succederà a Bayard» sospirò Küssen.
Falcó fece un’espressione indifferente.
«A partire da questo momento non sono più affari nostri.»
L’austriaco lo osservava con un interesse quasi maligno.
«Lo incontrerà?»
«Può darsi.»
Küssen si passò la lingua sulle labbra, in attesa.
«E crede che lo uccideranno o si limiteranno a screditarlo?»
«È andato troppo oltre in molte cose. È prevedibile che gliela facciano pagare… Il Komintern pretenderà una punizione esemplare.»
Küssen si mostrò d’accordo.
«Soprattutto adesso, con il caso Tuchačevskij.»
Falcó lo fissò, sorpreso.
«Il generale russo?»
«Proprio lui. Non ha sentito la radio stamattina?… Le notizie sull’ultima purga di Stalin?»
«Avevo altre cose da fare.»
«Be’, immagino che uscirà sui giornali del pomeriggio.»
E Küssen fece un rapido rapporto: i russi avevano annunciato l’arresto di sette generali dell’Armata Rossa, tra cui Tuchačevskij, per alto tradimento. Li accusavano, come era ormai d’abitudine nelle purghe sovietiche, di essere agenti al soldo delle potenze occidentali.
«E c’è la felice coincidenza» aggiunse «che il generale Tuchačevskij, fino a ieri eroe del popolo, sia molto amico di Léo Bayard… Il quale, durante la sua ultima visita in Russia, è stato invitato nella sua dacia sul mar Nero e vi ha passato qualche giorno.»
«Caspita. Carambola perfetta.»
«Sì. Tutto quadra. La storia del generale russo non poteva capitare in un momento più opportuno. Dio li fa, vero?… È un tocco di casualità da maestro.»
Falcó considerava le cose a partire da quella nuova informazione.
«Ha pensato a Eddie?» chiese Küssen.
Falcó lo guardò stupito.
«Perché?»
«È ovvio che tutto questo danneggerà anche lei. Può anche trasformarla in una vittima. Di solito quella del NKVD non è chirurgia di fino.»
«È possibile» ammise Falcó.
«E non le importa?»
«Prima ha parlato di affetti. O l’ha fatto citando le parole dell’Ammiraglio… Una malattia, ha detto, no?»
«Sì.»
«Be’, qui sono d’accordo. In questo mestiere, gli affetti sono una malattia che spesso uccide.»
«Del resto, non è che quella donna sia una persona piacevole» disse Küssen dopo averci pensato per un istante.
«No, non lo è.»
«Bella, ma aspra.»
«Già.»
«Che vada al diavolo.»
«Immagino di sì.»
Falcó guardò l’orologio. Aveva ancora diverse ore davanti, credette di interpretare Küssen.
«Venga a cena da Prunier. Le prometto che non parleremo di Bayard, né di Eddie.» Abbassò un po’ di più la voce. «E nemmeno di Picasso… Soltanto di tartufi sotto la cenere, aragosta e vino ben freddo. Ci meritiamo entrambi un addio alla grande.»
«La ringrazio, ma non posso. Magari un altro giorno.»
«Quale altro giorno?… Le ho già detto che me ne vado da Parigi.»
«Be’, ci rimarrà sempre quella scommessa che abbiamo fatto a San Sebastián, ricorda?… Quella su Berlino.» Il suo sorriso era affilato come un coltello. «Quando bombarderanno il ristorante Horcher.»
Küssen scosse la testa, scandalizzato, toccandosi la pelle bruciata del viso.
«Per favore. Come le viene in mente?»
«Già, certo… Come mi viene in mente?»
Non pioveva, ma il selciato era umido, lucido di alcuni vaghi riflessi lontani. Al polso sinistro di Falcó, il nuovo orologio segnava mezzanotte meno un quarto. Guardò l’ora alla luce dell’accendino e se lo rimise in tasca.
Il momento di cominciare, pensò.
Era immobile in un angolo in ombra di rue du Pont de Lodi, che sboccava perpendicolarmente su rue des Grands-Augustins, di fronte allo studio di Picasso. Indossava un giaccone di pelle nera e la visiera di un berretto di lana calata sugli occhi. A una trentina di passi di distanza, il cancello del numero 7 era al buio, come il cortile posteriore e il palazzo che c’era dietro. Vide soltanto una luce fra le tende di una finestra al secondo piano.
Era una buona nottata per agire, pensò di nuovo. Una notte perfetta in una strada deserta, buia e silenziosa. C’era un commissariato di polizia al numero 19, ma tranne un lampione accesso all’ingresso non si scorgevano altri segni di vita. Dopo essersene assicurato, camminò verso il cancello.
La doppia anta era chiusa, ma tutto era studiato e previsto in anticipo; perciò ci mise meno di un minuto per aprire la serratura con i grimaldelli che tirò fuori dalla tasca. Poi attraversò il cortile, valigia in mano, fino a fermarsi davanti a un portone: non quello della casa dove si trovava lo studio di Picasso, ma quello vicino. Usò di nuovo i grimaldelli per aprirlo, passò accanto alla garitta del portinaio e salì per le scale strette e buie, guidandosi con il corrimano sebbene avesse una torcia elettrica in tasca. Le suole di caucciù Dunlop che aveva sotto le scarpe gli permettevano di muoversi in silenzio. L’unico rumore erano i leggeri scricchiolii dei gradini di legno quando li calpestava.
Giunto all’ultimo piano, Falcó si fermò accanto a una botola che portava sul tetto, aprì a tentoni la valigia e si mise lo zainetto in spalla e il rotolo di corda a tracolla, da una spalla al fianco opposto. Poi fece scorrere il chiavistello della botola e si ritrovò sotto il cielo nero e senza stelle che distillava umidità. Le tegole erano scivolose, e l’inclinazione le rendeva ancora più pericolose; perciò avanzò con precauzione, aggrappandosi al cavo del parafulmine, verso il tetto della casa vicina.
Perlomeno, si consolò, in quel momento non pioveva. Era la prima volta che si trovava là sopra; ma nella testa aveva, ben studiato, lo schizzo che uno spazzacamino pagato dalla gente dell’hotel Meurice aveva tracciato per lui due giorni prima mentre lavorava, o fingeva di farlo, su quei tetti. Niente di meglio che avere buoni contatti, pensò Falcó. E, soprattutto, soldi per pagarli.
Quando si fermò, appoggiato a un camino, aveva i pantaloni bagnati e le mani gelate e doloranti. Se le scaldò un po’ sotto le ascelle e si guardò intorno. Da lì il paesaggio era una sinistra successione di ombre geometriche, spigoli di tetti e una foresta di camini neri, da cui emergeva a volte il chiarore di qualche luce più sotto. Sarebbe rimasto a fumare una sigaretta, seduto placidamente con la schiena contro il camino, ma non era il momento. Avrebbe anche preso con piacere una cafiaspirina, perché la situazione gli faceva battere con forza il sangue nelle tempie. Per il resto, era sereno e all’erta.
A differenza che ad altri uomini e donne, a Lorenzo Falcó il pericolo iniettava una fredda lucidità. Quasi godeva della sensazione di solitudine e di rischio là sopra, su un tetto parigino e con un artefatto esplosivo sulla schiena. In realtà, senza «quasi». In un certo qual modo, quella situazione assomigliava a quando giocava da bambino nella casa di famiglia con suo fratello e i suoi cugini. A Jerez, a sette o otto anni, aveva passato un pomeriggio nascosto in una tinozza della cucina mentre tutti lo cercavano, allarmati. E la sensazione era molto simile: la tensione della clandestinità, la certezza di sapersi in un territorio insolito, a cui non molti volevano o potevano accedere, o dove pochi osavano avventurarsi.
Gli uomini, pensò ancora una volta, nascono, camminano, lottano e si spengono. Nel frattempo, era formidabile continuare a giocare giochi mai dimenticati, vivere in margini fabbricati da sé stessi; naturalmente, a patto che si fosse disposti a pagare quando fosse arrivato il conto. Che alla fine arrivava, o sarebbe arrivato. Però nel frattempo il sangue scorreva nelle vene in un altro modo, e sentirlo così era un privilegio prossimo alla felicità: azione, donne, una sigaretta, un’aspirina, alberghi di lusso, pensioni sordide, passaporti falsi, frontiere incerte attraversate all’alba, un completo di Savile Row, un berretto proletario, un paio di scarpe su misura di Scheer & Söhne, un bicchiere di vino in un bordello da quattro soldi, una lametta da barba nella fascia di un cappello da ottanta franchi, una pistola identica a quella che aveva scatenato la Grande Guerra, un sorriso ironico e divertito di fronte allo spettacolo di un mondo che Falcó si beveva fino all’ultima goccia della bottiglia. Una sfida, insomma, alla vita e anche alla morte, in attesa della risata finale.
Sebbene muovendosi con grande precauzione per non scivolare, raggiunse senza troppa difficoltà il tetto della casa vicina. Lì passò la corda da alpinista intorno a un camino, vi ci assicurò e avanzò fino al bordo di un cortile piccolo e stretto. Andò mollando la corda via via che vi scendeva e si ritrovò tra vasi di piante e vecchie cianfrusaglie, davanti a una porta a vetri che non oppose resistenza al giravite con cui forzò il chiavistello interno. Dopo avere aperto la porta, entrò in una cucina con qualche mobile, un acquaio e un vecchio fornello a gas. Quando accese la torcia, vide uno scarafaggio correre sul pavimento.
Aveva memorizzato tutto molto bene durante le sue precedenti visite. Sapeva che la cucina era vicino all’ingresso, e che poi c’era un corridoio. Avanzò con lo zainetto in spalla, con cautela per non inciampare in nulla, finché il fascio della torcia illuminò la stanza che ricordava piena di ciarpame, quadri ricoperti da teloni, libri, pile di giornali e pacchi non aperti. Siccome lì c’erano delle finestre, fece in modo di usare la torcia giusto il necessario, nascondendo con la mano la maggior parte della luce.
Arrivò alla scala a chiocciola e si fermò ai suoi piedi, in ascolto. Nessun rumore al piano di sopra né nel resto della casa. Salì con estrema precauzione, arrivando così allo studio con mattonelle nude, travi di legno e grandi finestroni, al di là dei quali c’era soltanto la notte. E muovendo con accortezza il fascio della torcia verso sinistra, dietro una grande scala appoggiata a un supporto, vide il Guernica che occupava l’intera parete.
Accese una sigaretta e fumò senza fretta, davanti all’enorme quadro, percorrendone la superficie con la luce smorzata della torcia. Era quasi terminato, o dava quell’impressione. Con il tipo di pittura di Picasso, era impossibile saperlo. La cosa certa era che tutta la tela era ancora dipinta senza colori, soltanto con toni dal nero al grigio. Visto con così poca luce, fra le tenebre, l’insieme era una specie di incubo cupo, eterogeneo e geometrico: il toro, il cavallo, la donna che urlava con il bambino morto fra le braccia, la mano che reggeva la lanterna, le braccia alzate al cielo.
A parte la grandezza, Falcó non ne era eccessivamente impressionato. Come le due volte che lo aveva visto in precedenza, ignorava se da un punto di vista artistico il quadro fosse bello o brutto; non ne aveva la minima idea, né l’avrebbe mai avuta. Quello che invece sapeva con certezza era che l’orrore della guerra e della morte, il sudicio lato oscuro della condizione umana e le sue conseguenze, che lui stesso conosceva bene, erano qualcosa di troppo complesso, di troppo intenso perché qualcuno fosse in grado di plasmarlo su una tela. Nemmeno Picasso.
In ogni caso, concluse, stabilire tutto questo non era un problema suo. Non era lì per giudicare. Non era un critico né un gallerista, ma un agente segreto, una spia e anche un assassino, quando era necessario. Ciò che l’aveva condotto fin lì non era esprimere opinioni sulle qualità artistiche o sul realismo pittorico, sul cubismo e la modernità. Dell’arte non gliene fregava un cazzo. Non era il suo territorio. Così lasciò cadere la sigaretta a terra, schiacciandola con la scarpa, smise di guardare il quadro e si occupò della sua missione.
Arrampicato sulla scala, con la torcia in una mano e l’affilato coltellino svizzero nell’altra, avvicinò la lama quasi al centro della tela e ne tagliò un bel pezzo, di circa quattro palmi di lunghezza per tre di larghezza, esattamente dove c’era la testa del cavallo dipinto. Raaas, fece quando si lacerò. Poi scese con precauzione, infilò il pezzo arrotolato nello zainetto e preparò il terreno.
I danni dovevano limitarsi al quadro. Cercando sempre di non far rumore, allontanò dalla tela i barattoli di pittura e altri materiali infiammabili. Tirò fuori dallo zaino l’artefatto esplosivo e lo legò con diversi giri di cerotto al gradino centrale della scala, in modo che si trovasse molto vicino al centro della tela, sotto il rettangolo tagliato. Una volta che fu tutto pronto, diede corda alla chiave della sveglia, vi incassò una bacchetta metallica di cinque centimetri con una tacca e vi annodò l’estremità del cordino legato alla linguetta isolante situata tra le puntine della molletta di legno. Soltanto allora collegò l’ultimo cavo alla pila elettrica. Guardò l’orologio e lo confrontò con l’ora in cui aveva fissato l’allarme della sveglia. Aveva tre ore per trovarsi lontano da lì, con Nelly Mindelheim e la sua amica Maggie. Ogni cosa a suo tempo. Al suo momento.
Indietreggiò di qualche passo e, come avrebbe fatto un artista di fronte alla propria opera, con un ultimo guizzo della torcia verificò il dispositivo. Tutto era al proprio posto. Rozzo, ma efficace, l’artefatto era di bassa potenza; però quando si fosse chiuso il circuito, la polvere sarebbe esplosa in maniera non troppo forte, ma sufficiente a fare a pezzi il quadro. Magari ci sarebbe stato un piccolo incendio, magari no. Era difficile da prevedere. In ogni caso, sperava che il rumore allertasse in tempo i vicini. Non era sua intenzione dare fuoco alla casa, tra le altre cose perché nessuno glielo aveva ordinato. Anche se in realtà non gli importava se lo studio con tutto ciò che conteneva si fosse incendiato o no. Aveva fatto cose peggiori nella vita. E gliene restavano ancora da fare, finché la sua roulette avesse continuato a girare.
Raccolse da terra il mozzicone schiacciato e se lo infilò in tasca. Poi se ne andò come un gatto silenzioso senza lasciare tracce alle spalle, passando dalla cucina, dal cortile e dai tetti. Così come era arrivato.
Si svegliò nella penombra tra lenzuola sgualcite, in disordine, e accanto a due corpi di donna addormentati, il cui calore tiepido profumava di carne e di sesso recente. Dalle tende socchiuse filtrava un po’ di luce esterna e Falcó, confuso, tardò a ricordare che era la luce elettrica dei lampioni di place Vendôme e che si trovava in una stanza del Ritz.
Rimase immobile ancora un istante, con gli occhi aperti, sentendo su un fianco un’anca femminile nuda e, dall’altro lato, dei seni abbondanti schiacciati contro il suo braccio. Girando il volto, scorse vicinissimo al suo il profilo confuso di Nelly Mindelheim, che respirava con ritmica leggerezza, i capelli in disordine sulla fronte. Allora all’improvviso ricordò, e giratosi dalla parte opposta avvertì la sagoma immobile di Maggie, anche lei addormentata.
Era stata un’intensa e ben risolta campagna, concluse: cocktail al bar, conversazione scintillante e a tratti arguta, costellata di sottintesi e buoni auspici, e poi la discreta ascesa alla suite delle donne, il botto del tappo della bottiglia di champagne, le ultime battute prima del silenzio pieno di attese, rafforzato da Falcó quando, dopo avere spento l’ultima sigaretta, si avvicinò a Maggie con grande aplomb per toglierle gli occhiali e poi introdurle, senza troppe storie, una mano sotto la gonna, accarezzandole le cosce tra le calze e delle interessanti giarrettiere che si sarebbero rivelate rosse. A quel punto Nelly era già appiccicata a Falcó, baciandogli la nuca e il collo, sbottonandogli tutto ciò che aveva addosso, strappandogli la camicia e la cintura mentre cercava con urgenza il centro del suo corpo e del suo desiderio, leccando, succhiando, mordendolo con avidità. Da parte sua, tentando di non avere fretta e di conservare la calma, consapevole che la campagna sarebbe stata lunga, Falcó cercava di coordinare il tutto per soddisfare entrambe le signore, battendosi sui due fronti con ragionevoli risultati. E il resto dell’operazione a tre sponde – tre bocche, tre sessi, tre desideri intensi – era trascorsa in una lunga e splendida routine.
Allungando una mano sopra la testa di Maggie, con cautela per non svegliarla, Falcó raggiunse l’orologio che aveva lasciato sul comodino. Erano le cinque meno un quarto della mattina, verificò sollevandolo finché la debole luce esterna non illuminò il quadrante. Poi, mentre lo lasciava di nuovo sul comodino, pensò che l’artefatto accanto al Guernica doveva ormai essere esploso. Speriamo che non sia andata a fuoco l’intera casa, pensò. Speriamo che i danni si siano limitati a quelli previsti.
Con la testa sul cuscino e gli occhi aperti, rimase a lungo a riflettere sulle successive mosse della partita. Sugli altri giochi in corso. Da quella parte tutto era sul punto di concludersi. Questione di un paio di giorni, al massimo. Forse solo di ore. Pensò a Léo Bayard, ancora ignaro di quello che stava per capitargli; e anche a Eddie Mayo, chiedendosi come sarebbe uscita da quell’avventura. Fino a che punto l’operazione in corso avrebbe potuto trascinare anche lei. In ogni caso, ormai né lui né lei lo riguardavano più. Qualunque fosse, la sorte di entrambi era segnata.
Nelly si agitò un po’, e i seni si appoggiarono sul petto di Falcó. Lui aspirò l’odore caldo della carne di donna, e questo stimolò di nuovo la sua. La mano destra scivolò lungo il ventre femminile fino al sesso, intrecciando le dita al vello riccio e umido. Allora Nelly emise un breve sospiro e sussultò un istante, svegliandosi lentamente.
«Tesoro» sussurrò, ancora mezzo addormentata.
Una delle sue mani cercò il sesso dell’uomo, accarezzandolo con dolcezza. A quel punto, la carne tesa e dura era di nuovo pronta al combattimento, e Falcó non si fece attendere. Baciò la bocca della donna e si rizzò su un gomito mentre lei apriva le gambe lasciandogli la strada aperta. Penetrò con facilità in quel ventre accogliente, tappezzato di miele.
«Porco» mormorava adesso Nelly. «Dammelo tutto, sì… Vieni qui, porco.»
Il «tesoro» e le altre tenerezze appartenevano ormai al passato, notò Falcó. Cambio di tono, raffiche dense di oscenità. Violenti scossoni delle pelvi. Era ovvio che la nordamericana era completamente sveglia e ritrovava il suo stile naturale.
«Picchiami, porco. Picchiami forte.»
«Non c’è fretta, ragazza. Tranquilla… Dopo ti picchio.»
«Fallo adesso.»
«No, dai. Dopo.»
«Ti ho detto di picchiarmi.»
«No.»
«Figlio di puttana.»
«Sì.»
Alle loro spalle, come c’era da attendersi, anche Maggie si era svegliata e sfregava il sesso contro le gambe dell’uomo prima di avvicinarlo alla bocca di Nelly. E mentre operava con la maggiore efficienza possibile, diligente con l’una e con l’altra, attento alle loro richieste e ai loro desideri, teso come una molla, cercando di mantenere la calma e di coordinare la triplice coreografia della faccenda, Falcó si mise a pensare al Guernica per non venire troppo presto.