7
Un cliente di Charvet
Lorenzo Falcó dedicò la prima parte della mattinata a visitare banche. Vestiva in un grigio molto formale, con un cappello Trilby dello stesso colore. Andò prima al Crédit Lyonnais, boulevard des Italiens, e poi al Crédit Commercial degli Champs-Élysées e alla Banque de Paris et des Pays-Bas, in rue d’Antin. In tutte, da conti aperti a nome Ignacio Gazán, fece importanti trasferimenti di denaro alla filiale della banca nordamericana Morgan in place Vendôme, e da quest’ultima ordinò di inviare la cifra totale, centomila franchi, a un conto svizzero numerato della succursale della Morgan a Zurigo. Il conto era stato aperto dal suo ex socio nel traffico d’armi Paul Hoffman, in cambio di una sostanziosa commissione. Poi fece una telefonata dal bar del Ritz, bevve un bicchiere di latte tiepido ed entrò da Charvet dopo aver guardato un istante le cravatte, i colletti e i polsini di camicia esposti in vetrina, approfittando dei riflessi nel vetro per confermare – alle sue spalle tutto sembrava in ordine – di non essere seguito.
«Buongiorno, Christophe.»
«Oh, signor Montes, che piacevole sorpresa… Benvenuto.»
Lì, Falcó era Sebastián Montes, un industriale valenciano. Un’identità usata da dieci anni. Il commesso, che indossava un tight impeccabile, si era piegato sulla vita fin quasi a toccare il bancone con la fronte. Era alto e distinto, con una perla alla cravatta e il pizzetto da moschettiere. Si strinsero la mano.
«Ho bisogno di una mezza dozzina di camicie. Ed è urgente.»
«Quanto urgente, se mi permette?»
«Non più di una settimana.»
L’uomo aggrottò la fronte mentre faceva rapidi calcoli; il tempo normale, Falcó lo sapeva, era di un mese. Alla fine si rilassò in un sorriso.
«Possibile, trattandosi di lei. Anche se sa già che il sovrapprezzo…»
«Sì, lo so.»
Il commesso aveva allontanato l’altro dipendente – un ragazzo che indossava anch’egli un tight – e sfogliava il registro dei clienti. Dopo un po’ si fermò a una pagina, con un dito sulle annotazioni, e guardò soddisfatto Falcó.
«Sono cambiate le sue misure?»
«No, che io sappia.»
«E i suoi gusti?»
«Nemmeno.»
«Allora, perfetto.» Annotò qualcosa e chiuse il registro. «Cotone americano bianco, colletto classico inglese con stecche di madreperla, polsini doppi…»
«Esatto.»
«Niente iniziali ricamate?»
«Mai.»
«Saranno pronte lunedì prossimo.»
«Grazie, Christophe.»
L’uomo guardava l’abbigliamento di Falcó trattenendo un’espressione di cortese disapprovazione.
«La cravatta che indossa è nostra, ma non la camicia.»
«In effetti» sorrise Falcó. «È di Burgos, vicino alla Puerta del Sol di Madrid.»
«Ah, li conosciamo. Una ditta competente… Tragico, quello che succede in Spagna, vero?»
«Lo è, sì. Molto.»
«Cosa ne è stato dei nostri colleghi?… Il loro negozio è ancora aperto?»
«Non lo so. È parecchio tempo che non passo da quelle parti.»
Il commesso annuì con gravità.
«Capisco.»
«Immagino che abbiano fucilato gran parte della clientela abituale» disse Falcó. «Adesso confezioneranno tute con tela blu proletaria.»
«Mio Dio. Così stanno le cose?»
«Anche peggio.»
Falcó guardava la colorata esibizione di cravatte appese agli espositori.
«Qualcuna in particolare?» s’interessò il commesso.
Falcó ne indicò una di seta blu a pois rossi, davvero bella.
«Quella va bene.»
«Certamente.» L’uomo la prese fra le mani con raffinata delicatezza, mostrandogli il rovescio. «Una seven folder del tutto canonica, tagliata prima di piegarla con un perfetto angolo di quarantacinque gradi. Né uno di più, né uno di meno.»
Falcó accarezzò la duttile seta. La sensazione al tatto era molto piacevole.
«Me la mandi insieme alle camicie.» Ne indicò un’altra color malva. «E anche quella.»
«Certo… In quale hotel, stavolta?»
«Madison.»
«Ah. Un albergo molto elegante. Avrà tutto lì lunedì.»
Mentre il commesso faceva il conto, Falcó aprì il libretto degli assegni e tolse il cappuccio alla stilografica.
«Pago tutto.»
«Come preferisce.»
Dopo essersi assicurato che il dipendente giovane fosse occupato in un’altra estremità del negozio, Falcó tirò fuori anche il portafoglio.
«Christophe…»
«Mi dica.»
«In questi giorni mi chiamo Gazán.» Gli mise discretamente in mano, insieme all’assegno, una banconota da cento franchi. «Ignacio Gazán.»
Il denaro scomparve in un istante. L’uomo l’aveva intascato con una rapidità più adatta a un baro professionale che a un camiciaio parigino.
«Certamente, signore. Da Charvet, i nostri clienti si chiamano come sembra loro opportuno.»
Uscendo dal negozio, Falcó guardò l’orologio e camminò senza fretta per rue de la Paix, passeggiando davanti alle gioiellerie, alle case di moda e alle profumerie. Di buonumore, canticchiava Tout va très bien, madame la Marquise imitando Tino Rossi. Da Paquin guardò compiaciuto due splendide modelle alle quali facevano delle foto davanti all’ingresso, e all’angolo di boulevard des Capucines si trattenne davanti a un negozio di auto di lusso dove era in mostra l’ultimo modello nordamericano: una splendente Chrysler Imperial decappottabile che costava 21.120 franchi, che significavano quasi 27.000 pesetas della Spagna nazionale e il triplo nella zona repubblicana. Poi, con un sorriso perfido, proseguì il cammino chiedendosi cosa avrebbe detto Léo Bayard sapendo che l’ultimo accredito su un conto svizzero della cui esistenza non aveva la minima idea, ma nel cui codice numerato figurava il suo nome, gli avrebbe consentito di comprarsi quattro automobili come quella. O magari uno di quegli aerei con cui aiutava ad alzarsi in piedi i paria della terra, meglio noti come famelica legione, come recitava il testo spagnolo dell’Internazionale.
Aveva ancora il sorriso sulle labbra quando, arrivato al Café de la Paix, comprò «Le Figaro», l’«Humanité» e «La Dépêche» e si sedette a sfogliarli a un tavolino del dehors, di fronte all’edificio dell’Opéra. Ordinò al cameriere un tom collins che bevve senza fretta mentre fumava una sigaretta. Poi guardò l’orologio e rimase per un po’ a osservare le auto che passavano e la folla che a quell’ora camminava sui marciapiedi: non c’erano in nessun posto del mondo, pensò ancora una volta, donne belle come a Parigi. Alla fine guardò di nuovo l’ora, si alzò e attraversò la piazza verso l’ingresso del métro, tra il mormorio del traffico e i clacson delle automobili.
Quella dell’agente segreto, come qualunque vita clandestina, richiedeva talento, freddezza e attitudine alla sopravvivenza. E anche capacità di improvvisare e sapersi adattare al contesto, nonché predisposizione a catturare l’insieme a partire da semplici dettagli. Falcó ci era abituato, perciò si fermò in fondo alle scale fingendo di aspettare qualcuno, per assicurarsi che nessuno di quelli che scendevano gli stesse alle calcagna. Sei tu a decidere, pensava, e non il nemico che forse adesso ti sta seguendo. Quello era un altro principio basilare nell’addestramento del suo mestiere. Per identificare un possibile pedinatore, bisognava costringerlo a scegliere. A manifestarsi.
Dopo aver dato un’occhiata, andò allo sportello e pagò settanta centesimi per un biglietto di seconda classe, superò il tornello e camminò fra la gente, sotto i cavi che correvano sul soffitto e le lampadine elettriche che davano una luce scarna, zenitale, piuttosto lugubre, ai tunnel coperti di piastrelle bianche e di grandi cartelloni pubblicitari, all’odore di umanità densa e al rumore dei treni.
Quando scese sulla banchina della linea Porte de la Villette-Porte d’Ivry vide da lontano Sánchez seduto su una panchina sotto un cartellone dell’Ovomaltina. L’agente nazionale indossava lo stesso abito sgualcito della volta precedente, senza cappello, e fingeva di leggere un giornale. Stavolta portava la cravatta. Falcó gli passò accanto senza guardarlo, si piazzò nella zona corrispondente al suo vagone e vide che l’altro rimaneva seduto e attento.
Arrivò il treno, le porte si aprirono, uscirono ed entrarono passeggeri, Falcó salì sul vagone e, tre secondi prima che si chiudessero le porte, quando si cominciò a sentire il fischio pneumatico, scese di nuovo sulla banchina. Il convoglio partì e Falcó rimase là, in attesa del successivo mentre con la coda dell’occhio vedeva Sánchez alzarsi dalla panchina e fermarsi vicino a lui con aria casuale, il giornale ripiegato nella tasca destra della giacca. Significava che tutto sembrava in ordine. Entrarono nel treno successivo ciascuno da una porta, riunendosi a un’estremità del vagone.
«Ieri sera mi hanno portato a Les Halles» disse Falcó a bassa voce. «Un antiquario di una cinquantina d’anni, capelli a spazzola, con una tosse da trincea.»
L’altro lo guardò, inquieto. L’eleganza dei suoi modi faceva ancora a pugni con gli abiti che indossava, e Falcó capì che era una scelta deliberata. Si domandò cosa stesse facendo prima dell’Alzamiento del 18 luglio. Aveva la stessa aria stanca del pomeriggio precedente.
«È Verdier» dedusse Sánchez, storcendo i baffi. «La gente della Cagoule.»
«L’avevo immaginato.»
L’uomo scuoteva la testa, contrariato. Per mantenere l’equilibrio, si reggeva alla sbarra del soffitto. Il colletto della camicia era logoro e sporco. Gli occhi erano sempre arrossati, e Falcó suppose che fossero decimi di febbre.
«Che bastardi.»
«Sono venuti con un tesserino del Deuxième Bureau.»
«Non mi sorprende. Hanno gente lì e in molti altri posti.»
«Quell’individuo ha detto che voi gli avete chiesto di lasciarmi in pace.»
«È così.»
«Non avreste dovuto farlo.»
«Erano sulle sue tracce.»
«So badare a me stesso.»
Continuavano a conversare a bassa voce. In quel momento, il treno entrò nella stazione di Pyramides.
«Ciò nonostante» aggiunse Falcó, «quel Verdier non sembra disposto a darvi retta. Lo punge la curiosità.»
«Lei ha detto qualcosa di compromettente?»
Falcó lo guardò senza rispondere, e l’altro fece un gesto di scuse.
«Abbiamo buoni rapporti con loro, ma non possiamo controllarli» disse. «Al contrario. Questo è il loro territorio… Vuole che faccia qualcosa?»
Le porte si chiusero e il treno ripartì. Seduti e in piedi, c’erano donne con cappelli, borse e ceste, uomini che leggevano libri o giornali. Due turisti con una Kodak appesa al collo chiacchieravano in inglese. Nessuno si era piazzato vicino a loro.
«Meglio non fare nulla» disse Falcó. «Preferisco le cose come stanno. Un’indiscrezione può mandare a monte tutto.»
«Crede che le daranno problemi?»
«Non so, non credo. Me la caverò.»
«Quello che è chiaro è che tengono sotto tiro Bayard e la sua cerchia.»
«Già. Ma questo può essere un bene anche per noi.»
L’uomo gli rivolse un’occhiata confusa.
«Non capisco.»
«Lo capirà. Per il momento è soltanto un’idea. Un complemento al piano originale… Avete già fatto qualche foto?»
«Sì. Gliene ho portato qualche copia.»
«E i negativi?»
«Anche.»
Approfittando del movimento del vagone in una curva, Sánchez gli mise in mano una busta che Falcó s’infilò in tasca.
«Stamattina ho fatto diversi bonifici a Zurigo» disse. «Centomila franchi in totale.»
«Anche noi. Quarantamila.»
Si scambiarono un sorriso di complicità.
«Non è male, per un giorno solo.»
«Davvero è necessario tutto questo?» chiese Sánchez. «Potremmo liquidare Bayard senza tanti preparativi e spendendo meno… I cagoulards sarebbero perfino contenti di sparargli quattro colpi gratis.»
«È diverso. Non si tratta di fabbricare un martire, ma un traditore.»
L’altro rimase a pensare mentre si tormentava i baffi, poco convinto.
«Quando è prevista l’ultima fase?»
«Una settimana, forse. Poi metteremo il formaggio nella tana del topo e dovremo soltanto sederci a vedere cosa succede.»
«Chi crede che lo cercherà per primo?»
«Ci sono varie possibilità. Mi sto occupando proprio di questo.»
Di nuovo, Sánchez assunse un’aria pensosa.
«Sarebbe simpatico che fosse proprio la Repubblica» disse alla fine.
S’interruppe per tirare fuori il fazzoletto e portarselo alla bocca, soffocando un accesso di tosse. Mentre lo riponeva, a disagio, guardò Falcó.
«Con il nuovo ambasciatore è arrivato un uomo della Dirección General de Seguridad di Valencia, a mettere ordine da queste parti» aggiunse. «Si chiama Emilio Navajas.»
«Cosa sapete di lui?»
«Duro e comunista. È stato minatore a La Unión, dove si è iscritto al partito quando quelli con la tessera erano ancora quattro gatti. Tra agosto e dicembre ha controllato la prigione clandestina delle Adoratrices, a Cartagena. È stato in Russia almeno due volte.»
«Qualche particolare che ci sia utile? È corruttibile?»
«Non credo. Fa parte della linea dura, di quelli che liquidano a destra e a sinistra. Per tipi come lui, fascismo, anarchia e democrazia sono uguali. La stessa salsa.»
«Potrebbe occuparsi lui di Bayard» rifletté Falcó.
Sánchez lo guardava, speranzoso.
«Lei dice?… Credevo che pensasse ai comunisti francesi, o magari ai russi.»
«Continuo a pensarlo. Con i russi sembra più pulito.»
L’altro sembrò soddisfatto per quella possibilità.
«Senta, sarebbe perfetto. Ordine diretto di Stalin. Un’opera d’arte.»
Il treno si era fermato nella stazione del Palais Royal e Falcó si preparò a scendere dal vagone.
«Starete sorvegliando quel Navajas, immagino» disse.
«Naturalmente. E lui sorveglierà noi.»
«Mi tenga al corrente.»
«Certo.»
La porta si aprì davanti a un cartellone che annunciava la prima del film Pépé le Moko. Sul manifesto, accanto a una mora dagli occhi seducenti, Jean Gabin contemplava la vita e l’amore con una faccia da gangster duro. A Falcó piaceva Jean Gabin: aveva l’aria di saper bere e combattere. Gli ricordava molto Paco Guasch, un magnaccia di La Criolla, nel Barrio Chino di Barcellona, che nove anni prima, nel 1928, gli aveva insegnato a boxare sporco e a usare bene il coltello.
«Riguardo alla Cagoule» disse Sánchez, «se la cosa si complica per lei, ci avvisi subito.»
«Lo terrò in conto.»
«Quella è gente pericolosa.»
Mentre scendeva sulla banchina, Falcó si voltò a metà. La sua era una smorfia insolente. Efferata.
«Nel caso, tutti possiamo essere pericolosi.»
Rue des Grands-Augustins descriveva una leggera curva prima di prolungarsi in linea retta fino alla riva sinistra della Senna. Era metà pomeriggio. I tre si erano incontrati davanti al numero 7: Eddie Mayo, Falcó e Hupsi Küssen. Solenne, l’austriaco spinse il cancello sotto l’arco e li invitò e entrare nel cortile.
«Benvenuti nella cattedrale dell’arte… Il sommo sacerdote è dentro.»
Cappello in mano, Falcó cedette il passo a Eddie Mayo e percorse dietro di lei il cortile lastricato, seguiti da Küssen. La fotografa era davvero attraente, pensò ancora una volta: alta, bionda, con il portamento elegante della modella che era stata. Quel pomeriggio indossava un completo dall’inconfondibile aria Schiaparelli: pantaloni neri, ampi, deliberatamente maschili, con una giacca corta tipo bolero, scozzese a quadri. E neanche un gioiello. Nemmeno gli orecchini.
In fondo al cortile c’erano un’altra porta a forma di arco, un breve corridoio male illuminato e una scala stretta, semicircolare. Tre piani più sopra, una massiccia porta di rovere era aperta.
«Maestro?» chiamò Küssen, suonando il campanello.
Una voce maschile risuonò all’interno, lontana, invitandoli a entrare. Dopo un ingresso dalle cui finestre entrava una luce polverosa, raggiunsero una stanza piena di cianfrusaglie, quadri coperti da tele e pacchetti non aperti, e poi, con una scala a chiocciola salirono fino a uno studio grande, diafano, con le piastrelle nude e un soffitto di travi di legno su finestroni con una vista su tetti e camini. C’erano dei radiatori e anche una stufa stretta con un tubo altissimo, un divano, sedie sgangherate e qualche mobile coperto da oggetti di ogni tipo: pupazzi di cartone, statuette di legno, fil di ferro e argilla, stampe, bozzetti, giornali, posacenere pieni di mozziconi. Il resto erano cavalletti, boccette multicolori, tubetti di colori a olio, tele bianche e dipinte a metà. C’era un odore fortissimo di pittura, trementina e fumo di tabacco.
L’uomo che andò loro incontro era basso e con le spalle larghe, mentre i capelli, brizzolati e radi, erano pettinati in modo da dissimulare un po’ l’avanzata calvizie. Indossava dei pantaloni informi, un vecchio pullover macchiato di pittura ed espadrillas sporche. La cosa più notevole erano i suoi occhi: grandi, scuri, penetranti. Molto intensi e vivi. Guardavano fissamente, senza ironia, anche se la bocca, che aveva appena baciato la mano di Eddie Mayo, sorrideva.
«Sempre così bella» disse. «Come sta il tuo uomo?»
«Bene, come al solito… Con sulle spalle la sua passione spagnola.»
«Léo è un bravo ragazzo.» Il pittore parlava a lei, ma guardava con leggero sospetto Falcó. «Lo vedrò presto?»
«Certo. Ti manda i suoi saluti.»
«Ha in previsione di tornare laggiù?»
«No, per il momento.»
«Ti ho già detto che sei bellissima?»
«Quanto sei scemo.»
L’uomo sorrise, compiaciuto, come se, provenendo da una donna come Eddie, quello fosse un elogio. Il suo accento spagnolo era roco, indurito nelle R. Falcó aveva visto delle foto di Pablo Picasso, però nessuna coglieva l’essenza del personaggio: una disinvoltura eccessiva, una certa sdegnosa sufficienza che andava dallo sguardo intenso a ogni suo minimo movimento. La sicurezza, immaginò, di uno abituato a essere, da quasi tre decenni – Falcó aveva studiato anche il suo dossier – oggetto della venerazione altrui. Hupsi Küssen aveva fatto ricorso all’espressione sommo sacerdote, e la verità era che gli si addiceva.
«Lui è Nacho Gazán, caro maestro» disse l’austriaco. «Collezionista e buon amico.»
«Spagnolo?»
«Dell’Avana.»
«È un piacere.»
La mano, con pittura secca sulle unghie, era vigorosa. Anche la stretta lo fu.
«È un onore, signor Picasso.»
«Mi chiami Pablo… O, se preferisce le formalità, maestro, come fa Hupsi.»
Falcó lasciò il cappello sullo schienale di una sedia. Picasso, decise, non gli era del tutto simpatico. La sua bonomia era più condiscendenza che altro. Alzando lo sguardo, in fondo allo studio e accanto a una finestra, vide un’enorme tela che copriva l’intera parete. Non c’erano colori, tranne toni neri e grigi, con alcune parti ancora abbozzate a carboncino. Conteneva un cavallo, una testa di toro e figure umane in pose tormentate, il tutto mescolato in una strana matassa.
«Maestro mi sembra adeguato» disse Falcó.
Il suo sorriso era affascinante: il migliore del suo repertorio socievole, stile simpatico. Di sottecchi notò che Eddie Mayo gli guardava la bocca, e che Picasso si accorgeva che lei lo guardava.
«Come preferisce» rispose il pittore.
Falcó si guardava intorno, cercando il quadro destinato all’Esposizione internazionale, ma non ne vide nessuno relazionato alla guerra. C’erano alcune grandi tele appoggiate a una parete, una sull’altra, e pensò che forse era una di quelle. O magari una di una certa grandezza che stava su un cavalletto, coperta da un lenzuolo sporco.
«Impressionante» disse, cercando di fare in modo da sembrare impressionato.
Seguì qualche minuto di conversazione banale: pittura, mostra fotografica di Eddie, passione per il collezionismo di Nacho Gazán. Efficace come al solito, Küssen parlò dell’interesse di quest’ultimo ad acquisire qualcosa del pittore, foss’anche un’opera minore. Non poteva andarsene da Parigi, aggiunse, senza un Picasso nella sua collezione.
«Al momento non ho nessun quadro in vendita.»
«Qualunque cosa andrà bene, maestro.»
L’artista fece un gesto d’indifferenza, indicando un angolo dello studio dove si trovavano varie tele appoggiate una sull’altra e un tavolo pieno di disegni e bozzetti.
«Lì c’è ancora qualcosa» disse a Falcó. «Può scegliere lei stesso.»
«No, la prego» protestò lui. «Mi affido a lei.»
Inquisitori, gli occhi scuri lo perforavano.
«Quanto è disposto a spendere?» chiese il pittore a bruciapelo.
Falcó non esitò quasi.
«Questo non è un problema.»
«Come sa, Hupsi prende il dieci per cento.»
«Naturalmente… Lui è la mia sanguisuga privata.»
Risero, Küssen più di tutti, e si avvicinarono al tavolo. C’erano collages di carta di giornale, bozzetti su carta e cartoncino fatti a matita o a inchiostro, e altri dipinti a olio: nature morte di frutta, teste umane, uccelli, figure astratte. Tutto spezzato in linee e angoli, frammentato in violenti contrasti. Picasso ne toccò alcuni superficialmente, sdegnoso.
«Cosa gli raccomandiamo, Eddie?… Tu sembri conoscere meglio il signore.»
«Oh, non tanto. Non credere.»
«Le ha comprato una foto formidabile della sua mostra alla galleria Hénaff» sottolineò Küssen. «Quella della bocca che morde un’arancia.»
Il pittore non guardava Falcó, ma Eddie. Con aria di rimprovero.
«Ricordo quella foto… Sono stato sul punto di scambiarla con qualcosa di mio. Qualcosa di buono, voglio dire.»
«Invece arrivi tardi, perché ti hanno anticipato.»
«Peccato… Con te arrivo sempre tardi.»
«Così pare. Parlane con Dora quando arriva.»
«Chi è Dora?» chiese Falcó, con l’aria di non capire bene.
«La sua ultima amante» disse lei con naturalezza. «Adesso il maestro è bigamo. Anche se in realtà lo è sempre stato. Perfino trigamo, o comunque si dica.»
«Per te le lascerei tutte, lo sai.»
«Sì. Per un paio d’ore.»
Picasso scoppiò in una risata brutale. Ora sì che guardava Falcó.
«Léo è un tipo fortunato… Conosce le foto che Man Ray ha fatto a Eddie?»
«Poco.»
«Questo non c’entra, Pablo» disse lei, infastidita.
Il pittore stava indicando a Falcò la parete sopra il tavolo. Lì, attaccate con le puntine da disegno, c’erano stampe di quadri moderni e classici – Falcó riconobbe Las Meninas – e foto ritagliate dalle riviste.
«Non ho mai visto nudi belli come quelli in cui ha posato per Man» disse Picasso. «Ma di sicuro lei non conosce neanche questa fotografia… La guardi bene. È la mia preferita.»
Falcò si avvicinò per guardarla. Era ritagliata da «Vogue» e mostrava tre modelle vestite con perfetta eleganza, con in testa cappelli cloche di dieci anni prima, appoggiate allo steccato di un ippodromo. Erano di profilo, e una di loro, la più bella e dai tratti più delicati, era Eddie Mayo.
«Ero molto giovane» sentì che diceva la donna. «Appena arrivata dall’Inghilterra.»
Falcó guardò la foto ancora per un istante. Poi prestò attenzione ai bozzetti su cartoncino del tavolo. Finì per scegliere uno studio di donna di grandezza media, con due occhi sulla fronte e un naso greco e diritto, appena macchiato di vermiglio, blu e grigio.
«Cosa le pare di questo, Eddie?»
Lei fece un cenno di approvazione.
«È deliziosamente infantile.»
«Quando ero giovane potevo dipingere come Raffaello» commentò Picasso, «ma ho investito tutta la mia vita nell’imparare a disegnare come i bambini.»
Falcó pensava, divertito, a cosa gli avrebbe detto l’Ammiraglio quando gli avrebbe portato quella roba. Alla sua faccia inorridita vedendo quegli scarabocchi su cartoncino. O a quella del pittore, se avesse saputo che sarebbe stato pagato con i fondi riservati della Spagna nazionale.
«Quindicimila franchi» disse Picasso.
«Addirittura» protestò Eddie. «Nacho è un amico.»
«D’accordo. Dodicimila.»
«Niente da fare. Settemila, Pablo, o non lo prendiamo.»
«Prendiamo?»
Lei si mise sottobraccio a Falcó, con aria protettiva.
«In questa faccenda siamo soci. E voglio che conservi una buona impressione di te, non quella del taccagno brontolone che sei… In fin dei conti, è un tuo compatriota.»
Picasso rise di nuovo. Aveva preso il cartoncino e con una matita rossa lo firmava in un angolo. Poi lo passò a Küssen mentre rivolgeva a Falcó uno sguardo intenso. La durezza sembrava essersi un po’ attenuata. Forse per il riferimento alla Spagna.
«Ci è stato?» domandò il pittore.
«Non dalla sollevazione dei militari.»
«Che tragedia, vero?»
«Indubbiamente… Lei pensa di andarci?»
«Non so, non credo.» Picasso assunse un’espressione ambigua. «Insistono perché vada. Una foto con me gli sarebbe utile, immagino… Io sono fondamentalmente un uomo di sinistra, è ovvio. Ma forse sono più utile qui.»
«Capisco.»
Il pittore sembrò esitare un istante. All’improvviso alzò un dito macchiato di pittura.
«Le voglio mostrare una cosa. Venga.»
Falcó lo seguì fino a un altro tavolo sgangherato. C’erano barattoli con pennelli, boccette di solvente, tubetti di pittura e anche un mucchio di bozzetti disegnati con inchiostro nero, matita e carboncino. Picasso gliene mostrò alcuni: figure umane, teste di toro e di cavallo, una lampada disegnata con brevi e semplici linee, una madre con un figlio morto in braccio, ai piedi di una scala. Tutto aveva uno stile secco, dai tratti violenti. In alcuni, l’energia dell’artista aveva lacerato la carta. Falcó osservò che quei disegni avevano un rapporto con la grande tela che occupava la parete sul fondo. E Picasso lo confermò, indicandola.
«Non avrà colori, perché non voglio distrarre chi la osserva… Sarà una tavolozza di neri e di grigi. Un monumento alla disillusione, alla disperazione, alla distruzione. Un bussare alla porta della coscienza dell’umanità.»
Falcó ebbe un brivido, suo malgrado. La luce declinante che entrava dalla finestra e il suo effetto ottico sul vetro davano una tenue patina rossastra alla tela; come se quest’ultima, prima di essere realtà, iniziasse già a insanguinarsi lentamente. E all’improvviso, tutto acquistò un senso.
«Si chiamerà Guernica» disse Picasso.
Léo Bayard si unì a Eddie Mayo, Küssen e Falcó a Les Deux Magots. Arrivò all’imbrunire con l’aria affaticata, una sigaretta fra le dita e la giacca sulle spalle che lasciava scoperti il gilet e le maniche della camicia. Il naso aquilino sembrava più affilato per la stanchezza e mostrava leggere borse sotto gli occhi.
«Gide e Mauriac sono due imbecilli» disse dopo avere appeso il cappello all’attaccapanni ed essersi seduto. «Vogliono fare una dichiarazione pubblica sui processi di Mosca e sulla repressione in Spagna. Mi sono rifiutato, è chiaro. E mi ci è voluto tutto il pomeriggio per convincerli che non è il momento; che adesso la cosa importante è appoggiare Stalin contro Hitler e Mussolini… Tutto il resto può aspettare.»
«Però su qualcosa hanno ragione» obiettò Eddie. «Tutto questo silenzio sul lato oscuro…»
«La Spagna vale bene qualche silenzio» la interruppe di malumore Bayard.
Guardava Küssen e Falcó come se li chiamasse a testimoni. Non era disposto, aggiunse con vivacità, a pugnalare alle spalle il comunismo. Non avrebbe mai aperto bocca contro i processi di Mosca, e nemmeno contro quelli di Barcellona. Non aveva combattuto in Spagna per poi tradire sé stesso.
Insoddisfatta, Eddie scuoteva la testa. I capelli biondi, lisci e a scaletta, oscillavano con stile.
«Lo sai che non sono d’accordo, Léo. Per te è vero soltanto quello che va a vantaggio del partito, e falso ciò che lo danneggia.»
«Un partito di cui non faccio nemmeno parte.»
«Fa lo stesso, giustifichi qualunque cosa. Dai carta bianca a Stalin.»
Si sporgeva sul tavolo, appoggiandovisi, all’improvviso quasi veemente. Tuttavia, l’azzurro artico dei suoi occhi rimaneva sereno. Falcó osservò le sue mani, che erano davvero eleganti: dita slanciate, agili, con le unghie dipinte di rosso scarlatto. Continuava a non portare anelli né gioielli. E neanche l’orologio.
«Secondo te» aggiunse lei, «ogni atto di forza da parte sua diventa necessario.»
Bayard si scostò il ciuffo dalla fronte. Sembrava infastidito.
«E cosa c’è di male in questo?» chiese. «Sono momenti duri, e Stalin è un leader ammirevole, un prototipo democratico. Ciò che importa è il simbolo.»
Eddie non si dava per vinta.
«I processi di Mosca e Barcellona… Li accusano di essere fascisti e agenti dei nazisti, Léo.»
«Alcuni potrebbero esserlo.»
«Per favore. Non dire sciocchezze.»
Bayard fece un ultimo tiro dalla sigaretta e la spense bruscamente nel posacenere.
«Non ricominciare, ti prego… Come l’Inquisizione non incrinava la fondamentale dignità del cristianesimo, quei processi non incrinano quella del comunismo.»
La donna si adagiò sulla sedia, come se rinunciasse a discutere.
«Diranno che sei al soldo del Komintern. Lo fanno già.»
«Non importa. So chi sono, e lo sai anche tu. Non si tratta di aiutare la Spagna soltanto per la Spagna. È la prima grande battaglia di una lunga guerra, che è appena iniziata.»
«Fai come tanta gente là, di tutte e due le fazioni… Credono alle atrocità del nemico e negano quelle dei loro compagni.»
«Esageri, cara. E questo è molto poco britannico.»
«Ovviamente. Ai miei compatrioti, le stragi in Spagna importano meno della partita di calcio del giorno prima.»
«Perciò amo te e non loro.»
«Non essere stupido. Condiscendente e stupido.»
Eddie si voltò verso Falcó e l’azzurro sembrò stemperarsi un po’.
«Tutto questo l’annoierà molto» disse.
Aveva cambiato tono. Era più dolce. Falcó fece un’espressione conciliante.
«Non creda. Lo trovo interessante.»
«Davvero?» si burlò Bayard. «L’Avana è troppo lontana.»
«Non tanto quanto pensa.»
Si avvicinò un cameriere e Bayard ordinò acqua minerale con una fetta di limone. Poi si rivolse a Küssen.
«Com’è andata con Picasso?»
«Molto bene» rispose l’austriaco. «Ha detto a Nacho di tornare a trovarlo quando vuole. Forse perché ha comprato un bel bozzetto a colori. Un ritratto di donna.»
«Di chi?»
«Non ne ho idea… Però Eddie è riuscita a fargli abbassare il prezzo della metà.»
«Sul serio?»
«Certo. Ha morso l’osso e non se l’è lasciato strappare via.»
Bayard fece un ammicco malevolo.
«Questo non va bene per la tua commissione, Hupsi.»
«Jawohl… Non si può vincere sempre.»
«Quanto chiedeva?»
«Quindicimila» disse Eddie.
«Maledetto svergognato. È diventato così taccagno che pensa soltanto ai soldi… A che punto è il quadro per l’Esposizione internazionale?»
«Avanza lentamente. Forse troppo.»
«Credo che sia un errore.» Bayard fece schioccare la lingua in segno di riprovazione. «Il pubblico non è preparato. Non lo capiranno. Un quadro di guerra è un quadro di guerra. Il suo, invece, potrebbe significare qualunque cosa.»
«Continua a macerarsi su quell’opera.»
«Macerarsi? Sei indulgente, cara. Ci mette del teatro come chi mette sale nella minestra. C’è qualcosa del truffatore in lui. Ha capito il meccanismo e lo sfrutta a fondo.»
«Pablo è un artista enorme» protestò la donna.
«Ma certo. Chi lo mette in dubbio?… Il più grande che conosco, e sono parecchi. Ma è anche un baro molto sveglio. E un cinico. La metà dei motivi di quel quadro li aveva già pensati per altre opere. Lo chiamerà Guernica come avrebbe potuto chiamarlo Terremoto a Lisbona.»
«Dovresti dirlo a lui.»
«Gliel’ho già detto. Mi ha riso in faccia e ha detto che con il materialismo storico me la cavo bene, ma che di arte non ho la minima idea.»
«E ha ragione.» Eddie guardava Falcó. «Non le sembra, Nacho?»
«Tu sì che sei un’opera d’arte» disse Bayard.
La donna soffocò uno sbadiglio.
«Un’opera d’arte che sta morendo di fame.» Le si illuminò il viso. «Perché non andiamo al Mauvaises Filles?» Si voltò di nuovo verso Falcó. «Lo conosce?»
«No.»
Glielo spiegarono. Club a Pigalle, locale alla moda. Ci si poteva trovare di tutto, stile cabaret berlinese, adesso che Berlino aveva smesso di essere quello che era stata. E anche se ci si poteva incontrare qualche americano, non faceva ancora parte dei loro soliti circuiti di massa. Perciò il locale era ancora autentico. Tollerabile. Tanto più con quel nome delizioso, sottolineò Bayard. Cattive ragazze.
Falcó mostrava desolato il suo abito da pomeriggio: lana di Scozia grigio e scarpe brogue marroni.
«Non sono vestito in maniera adeguata. Dovrei andare in albergo a cambiarmi.»
«Neanche noi, non importa. E non fa freddo.» Eddie si toccò il bolero e i pantaloni ampi. «L’atmosfera è informale.»
«Siete miei ospiti» si offrì Küssen.
«Ovviamente» disse Bayard. «Con la tua percentuale per il bozzetto di Picasso.»
Stavano per alzarsi quando Falcó vide comparire sulla porta del caffè le due americane dell’espresso da Hendaye: Nelly e Maggie. Vedendolo da lontano, la prima agitò una mano, gioviale.
«Scusatemi un momento.»
Camminò verso di loro sistemandosi il nodo della cravatta.
«Oh, Maggie, guarda chi c’è. Che piacevole sorpresa. Il torero comunista.»
La bionda Nelly sorrideva, felice per l’incontro inatteso. Aveva sempre un buon profumo. Indossava un bel completo rosa a pois blu e un cappello di paglia, molto elegante anche se prematuramente estivo. Accanto a lei, l’amica restava seria, circospetta e grigia. Quanto sei cambiata, pensò Falcó guardandola. La ricordò senza occhiali, con la treccia sciolta. Alta, goffa, nuda e procace, alla breve luce delle stazioni dove il treno passava senza fermarsi.
«Come ti tratta Parigi, amore?» chiese Nelly.
«Non mi lamento.»
«Lo vedo, che non ti lamenti.» Guardava il gruppo al tavolo. «Sono tuoi amici?… Credo di avere già visto due di loro.»
«È possibile.»
«Sei ancora più bello nei caffè che nei treni.» Si chinò un po’, confidenziale, mettendogli una mano sul braccio. «Quali sono i tuoi progetti parigini?»
«Ve l’ho già detto in treno. Affari da hidalgo spagnolo.»
«Rimani molti giorni?»
«Un po’.»
«Noi resteremo due settimane. Alla fine abbiamo trovato una stanza al Ritz.»
Falcó sfoggiò il suo sorriso numero cinque. Quello che voleva dire «certo, cara, e non appena sarà possibile. Ci mancherebbe».
«È bene saperlo» disse.
«Mi fa molto piacere sentirlo. Vero, Maggie?… Sarebbe anche divertente continuare la nostra conversazione dell’altro giorno. Con un po’ più di spazio, ovviamente. E di prospettiva.»
Falcó sorrise di nuovo. Stavolta con il sorriso numero sette, molto più intimo.
«E senza tutti quegli scossoni nelle curve?»
«Esatto, tesoro.» Nelly rideva falsamente scandalizzata, facendo in modo di fingere male. «Anche se non capisco cos’hai contro gli scossoni.»
«Niente mi farebbe più piacere.»
«Allora già sai.» Gli tese una mano tintinnante di bracciali, infilata in un carissimo guanto color crema. «Il telefono del Ritz è sull’elenco.»
Aspettarono sul marciapiede, alla luce di un lampione, mentre Petit-Pierre andava a prendere l’auto. Bayard, con il cappello gettato all’indietro, le mani in tasca, si chinava su Eddie sussurrandole all’orecchio qualcosa che li fece ridere entrambi. Guardavano Falcó.
«Davvero conosce quell’americana bionda?» indagò lei.
Falcó rimase un po’ sconcertato.
«Certo… Si chiama Nelly. Ci siamo conosciuti sul treno da Hendaye.»
«E non le ha detto il suo cognome?»
Ci pensò, sforzandosi di ricordare.
«Be’, per la verità non me l’ha detto. E io non gliel’ho chiesto.»
«Caspita… Di che tipo di conoscenza si è trattato?»
«Superficiale.»
L’auto si fermò accanto al cordolo. Falcó e Bayard si accomodarono dietro, nel confortevole sedile di pelle, con Eddie in mezzo a loro. Küssen andò davanti, accanto all’autista. L’auto era una Vauxhall Touring a quattro marce, color bordeaux e cromature brillanti. Molto bella, pensò Falcó. E molto poco stalinista. Oppure sì.
«È Nelly Mindelheim» disse Eddie.
La sorpresa di Falcó era autentica. Chiunque leggesse qualche rivista illustrata conosceva quel nome.
«Quella di New York?»
«Sì, l’ereditiera» rispose Bayard. «Molto appassionata d’arte, a proposito. Credo che Picasso l’abbia svenata ben bene un paio di mesi fa… No, Hupsi?»
«Esatto.»
«Le ha fatto pagare una fortuna per una tela con un violino e qualche mela. O magari erano pomodori.»
«Mele» precisò Küssen.
«È anche appassionata di bei ragazzi» disse Eddie. «Colleziona uomini e quadri… E non soltanto uomini, a quanto dicono.»
«Ninfomane in due direzioni» precisò Bayard, ridendo.
Petit-Pierre guidava stolido e silenzioso, indifferente a ciò che non fosse il traffico, attento a lasciar passare i tram agli incroci.
L’automobile aveva fatto lo stesso percorso compiuto da Falcó con gli scagnozzi dell’antiquario Verdier, verso il negozio in rue Mondétour. Però, una volta superate Les Halles, si addentrò fra le luci e i cartelloni pubblicitari illuminati di rue Montmartre.
«Eddie e io l’abbiamo conosciuta in casa di amici… L’affascina l’Europa ed è disposta a spendere qui la fortuna della sua famiglia. Vuole aprire una galleria d’arte in avenue Montaigne, nientedimeno.»
Eddie toccò Küssen su una spalla.
«Dicono che ha dovuto vendere la sua casa di Venezia. È vero?»
«Sì» confermò l’austriaco. «A una festa a palazzo Grassi, un po’ brilla, ha detto al conte Ciano, il genero di Mussolini, che suo suocero sembrava avere problemi di erezione. V’immaginate?… Quella notte stessa, la milizia fascista locale è andata a farle una serenata sotto la finestra. Ha dovuto andarsene in fretta e furia.»
«Non conosco la donna che era con lei» disse Eddie. «Quella con la faccia da bietola.»
«Un’amica» rispose Falcó. «A quanto pare, l’accompagna nei viaggi e si occupa della logistica.»
«La logistica» ripeté Eddie con sarcasmo.
L’illuminazione esterna e i fari delle altre auto alternavano contrasti di luci e ombre sul suo viso, accentuando la luminosità degli occhi. La macchina, le cui sospensioni erano eccellenti, avanzava con leggerezza sull’asfalto. Via via che si avvicinavano a Pigalle si vedeva più gente che camminava sui marciapiedi e seduta ai dehors dei caffè.
«Lei dovrebbe frequentare quell’americana» suggerì scherzoso Bayard. «Lì c’è un futuro.»
Falcó rise.
«Il mio è già risolto, grazie mille.»
«È ebrea» buttò lì Eddie.
Lo guardava con pensosa curiosità. E soltanto una donna, pensò Falcó, poteva riversare tante cattive intenzioni in due semplici parole. Sorrise, e si rese conto che lei notava quel sorriso. Forse perché aveva cercato di suscitarlo.
«Pecunia non olet» disse Küssen, serio e filosofico.