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L’antiquario di rue Mondétour
Le persecuzioni, l’emigrazione, la lotteria della morte sulle barricate, la ferocia delle guerrigliere, l’estirpazione inumana della loro femminilità e, infine, l’opera spossante, ossessiva, della ricostruzione sovietica e della lenta creazione del mondo nuovo…
In bretelle e maniche di camicia, con il nodo della cravatta allentato e una sigaretta fumante fra le labbra, Lorenzo Falcó lesse per la quinta volta l’ultimo paragrafo che gli rimaneva da rivedere, ripassando i segni a matita sulle parole adeguate. Poi, minuziosamente, trascrisse il risultato con la stilografica – una successione di lettere e numeri in chiave – sul foglio di carta con l’intestazione dell’hotel che aveva sul tavolo, fece un’ultima revisione e, soddisfatto, cancellò con una gomma ogni traccia della matita. Per finire, con un coltellino svizzero separò l’intestazione dal resto del foglio e verificò un’ultima volta il messaggio:
H3A11B4W-Y5TR709-R4E-94TS9M3-
2OAS-D3P8SI1OE
Sembrava tutto giusto. In ordine e pronto per essere trasmesso alla sede dello SNIO a Salamanca, dove l’Ammiraglio attendeva notizie. Falcó spense la sigaretta in un posacenere dove c’erano altri cinque mozziconi, si alzò e si massaggiò le reni doloranti. Una fastidiosa pulsazione gli martellava da un po’ la tempia destra; perciò aprì il comò, prese il tubetto di cafiaspirine che stava accanto alla Browning e al portafoglio, masticò e, con l’aiuto di un bicchier d’acqua, inghiottì l’amara pastiglia triturata. In piedi con le mani in tasca, rimase per un istante immobile a guardare il libro accanto al messaggio, sul tavolo. Era il testo base del codice che utilizzava in quella missione, e pensarci gli strappò una smorfia divertita e rassegnata a un tempo.
Maledetto Ammiraglio, pensò. Con il suo contorto caratteraccio. Con quel corrosivo senso dell’ironia così galiziano, così suo. Spietato bastardo.
La bolscevica innamorata (L’amore nella Russia rossa) era un romanzetto da edicola, di meno di un centinaio di pagine, e Falcó era certo che il suo capo non l’avesse scelto a caso. Il Cinghiale non faceva mai nulla a vanvera. In copertina, accanto all’immagine di una coppia russa abbracciata sullo sfondo di un paesaggio rurale, un grande ritratto di donna guardava dritto il lettore: bionda, con i capelli corti e gli occhi grandi, incredibilmente simile a un’altra bolscevica reale, in carne e ossa, che lui conosceva bene: Eva Neretva. In realtà, ne era il ritratto quasi perfetto; se il romanzo non fosse stato pubblicato sette anni prima, chiunque avrebbe potuto credere che lei stessa avesse posato per l’artista.
Infilò il libro e il messaggio cifrato in un cassetto del comò e guardò dalla finestra mentre dava corda all’orologio, in attesa che l’analgesico facesse il suo effetto prima di lavarsi i denti e andarsene a dormire. Sotto la ringhiera di ferro del balcone, la statua di bronzo di un filosofo o di uno scrittore francese piazzata davanti all’albergo – un certo Diderot, del quale Falcó non aveva mai letto nulla – era un’ombra tra le foglie addormentate degli alberi; e più in là, sull’altro lato del boulevard, la luce indecisa di un lampione illuminava in penombra il campanile della chiesa di Saint-Germain, il cui alto pinnacolo piramidale si perdeva nell’oscurità.
Falcó pensava a Eva Neretva, alias Luisa Gómez, alias Eva Rengel, alias chissà chi. In quel periodo, si disse, a differenza di altri ancora recenti, sopravvivevano le femmine più dure, intelligenti e tenaci, filtrate da nuove prove. La Storia, accelerata nella sua modernità, imponeva una selezione naturale in cui indubbiamente le donne emergevano come nuove eroine del secolo. Facevano cose che non avevano mai fatto prima, e le affrontavano con più disciplina, con più fede, perfino con più crudeltà degli stessi uomini. Forse perché non avevano ancora avuto il tempo di costruirsi una retroguardia, e lo sapevano. Per loro, in quella fase ancora pericolosa, sconfitta equivaleva ad annientamento. La debolezza, la pietà, erano lussi che non potevano permettersi. E forse le sopravvissute, quelle che avrebbero visto l’alba dopo la notte scura che si allungava sull’Europa e sul vecchio mondo, dopo tutto sarebbero state la vera razza superiore. Il futuro.
Immaginò cosa avrebbe detto l’Ammiraglio sentendolo rimasticare quelle idee, e non riuscì a evitare una risata intima, fra i denti. Una smorfia cinica che gli indurì le iridi grigie. Per Falcó, aveva detto il suo capo a San Sebastián, c’erano soltanto due tipi di donne: quelle che si era portato a letto e quelle che avrebbe potuto portarsi. Ma il Cinghiale si sbagliava. Ce n’era un terzo tipo, e lui lo stava analizzando da un po’ di tempo.
A disagio, ancora immobile davanti alla finestra, concluse che ignorava la risposta a troppe domande: se Eva Neretva era viva o morta, dopo il fallimento della sua missione a Tangeri e la perdita del Mount Castle; se aveva obbedito al richiamo da Mosca, affrontando il suo destino; se le purghe che per ordine di Stalin stavano decimando i servizi segreti sovietici, compresi i loro agenti in Spagna, l’avevano raggiunta; se il suo capo, Pavel Kovalenko, la utilizzava per salvare la propria testa; se l’NKVD era stato comprensivo con la sua agente o le aveva fatto pagare il conto in un campo di lavoro in Siberia o in uno scantinato della Lubjanka. Tra le altre cose.
Troppe incognite per quell’ora di notte, si disse rassegnato. Il mal di testa era svanito, perciò preparò il pigiama sul copriletto e cominciò a togliersi la cravatta. In quel momento squillò il telefono.
«Pronto?»
Non sentì nulla all’altro capo della linea. Soltanto il clic quando si interruppe la comunicazione. Chiamò il centralino, e la telefonista disse che si trattava di una chiamata esterna. Una voce maschile che chiedeva di Ignacio Gazán. Non si era identificato.
«Grazie.»
Riflessivo, rimise lentamente la cornetta sulla forcella e guardò in strada. Poi, per riflesso professionale, spense la luce della stanza, andò alla finestra e scrutò all’esterno. Non vide nulla di sospetto. Tra le cime degli alberi si scorgevano due macchine parcheggiate, mentre le luci di qualche automobile percorrevano il boulevard. Sembrava tutto in ordine, ma il suo istinto allenato alla clandestinità, a fiutare il pericolo, era all’erta. Era appena entrato in un territorio incerto, che sarebbe diventato ostile, e per alcuni minuti esaminò freddamente i pro e i contro, i rischi possibili e probabili, le ipotesi ragionevoli e le eventualità pericolose.
Comincia sul serio il gioco, pensò. O almeno non lo gioco più da solo.
Dopo essersi assicurato che la porta fosse chiusa a chiave, andò verso il comò. Prese la pistola e, tirando all’indietro il carrello, spinse la pallottola in canna. Poi aprì il cassetto dove aveva riposto il libro-codice e il messaggio cifrato, li prese e li nascose nel doppiofondo di una valigia, dove c’erano la scatola di fiammiferi che gli aveva dato Sánchez, una busta con i soldi e il silenziatore Heissefeldt. Accese una sigaretta e si sedette sul letto, fumando al buio. Rimuginando sul segnale d’allarme che gli sfarfallava nel cervello. Aveva le orecchie attente a qualunque rumore in corridoio, ma sentiva soltanto il tic-tac della sveglia sul comodino. Dopo un po’ si alzò, andò in bagno, si lavò i denti e fece dei gargarismi con il Listerine. Infine tornò a letto e ci si stese vestito, senza togliersi le scarpe, con la pistola sotto il cuscino.
Sentì un rumore di passi prima che bussassero alla porta. A quel punto si era già alzato, teso e preparato. Con le imposte aperte e senza luce nella stanza, i suoi occhi abituati all’oscurità distinguevano bene i contorni. Con il pollice tolse la sicura della Browning e andò a piazzarsi nell’angolo e nel posto adeguati, camminando sui talloni per non fare rumore, pronto a ogni evenienza.
«Chi è?»
«Polizia.»
«Un momento, per favore.»
Calcolò in fretta. Se era vero, le cose cambiavano. Ma poteva anche non esserlo. Ogni visita notturna insinuava sorprese spiacevoli. Nel primo caso, la pistola era di troppo e avrebbe dato luogo a situazioni imbarazzanti. Nel secondo, c’erano sempre altre risorse. Dopo aver rimesso la sicura, nascose la pistola sotto il materasso e svitò il cappuccio della stilografica che stava sul comò. Nelle sue mani, conficcato con velocità come uno stiletto in un orecchio, in un occhio o nella gola, l’aguzzo pennino d’oro poteva essere un’arma mortale come tante altre. Come tanti altri oggetti dall’apparenza inoffensiva: si trattava soltanto, in realtà, della volontà di usarli per fare del male. Perfino la chiave della porta poteva rendere un servizio adeguato. Perciò, quando la fece girare e la tolse dalla serratura, Falcó la tenne nella mano destra, stretta fra le dita, appoggiata nel palmo e con la punta all’infuori.
«Cosa desiderate?»
Due uomini con i cappelli in testa. Uno portava l’impermeabile – lungo, nero – e l’altro no. Quest’ultimo era davanti alla porta. L’altro più lontano, nel corridoio, con la schiena appoggiata alla parete. Rilassati. In linea di principio, nessuno dei due atteggiamenti sembrava minaccioso.
«Potrebbe venire con noi?» chiese il più vicino.
«Per che cosa?»
L’uomo guardò la chiave che Falcó aveva in mano e poi lanciò una rapida occhiata alle sue spalle, verso la stanza in penombra.
«Una semplice formalità» disse. «Una procedura di polizia senza importanza.»
«Be’, non mi sembra l’ora…»
«Ha ragione.»
Il tono era cortese. L’uomo – un tipo bruno e basso, con la barba – si era infilato una mano nella giacca e adesso mostrava un tesserino di riconoscimento; ma non era della polizia, bensì del Deuxième Bureau. Falcó conosceva bene i documenti di identificazione dei servizi segreti francesi, con la loro fascia tricolore e il timbro speciale in un angolo. Lui stesso ne aveva utilizzato uno in una determinata occasione, anche se nel suo caso era falso. Quello che aveva ora davanti sembrava autentico, sebbene non fosse possibile saperlo con certezza.
«Deve venire con noi.»
«Dove?»
«Al nostro ufficio di Les Halles.»
Non aveva detto commissariato, ma ufficio. Falcó continuava a guardarlo, con aria interrogativa.
«Per fare cosa?»
«Una semplice chiacchierata… Una cosa d’interesse reciproco.»
Il tizio non aveva abbandonato il tono cortese. Falcó lanciò un’occhiata all’uomo nel corridoio, che se ne stava ancora appoggiato al muro, le mani nelle tasche dell’impermeabile. Sembrava rilassato come il collega e, a meno che non portasse una pistola nascosta, nel suo atteggiamento continuava a non esserci nulla di minaccioso.
«Abbiamo una macchina di sotto» aggiunse il piccoletto barbuto. «L’accompagniamo e la riaccompagniamo con grande piacere. Non ci vorrà più di un’ora… Forse un’ora e mezza, al massimo.»
Falcó sospirò tra sé. Non aveva scelta. Voltandosi, accese la luce, si mise il gilet e la giacca, si sistemò la cravatta, e insieme agli altri oggetti personali s’infilò in tasca la stilografica dopo aver riavvitato il cappuccio. I due tizi lo guardavano dal corridoio, senza entrare.
«Sono a vostra disposizione» disse.
Uscendo, prima di chiudere la porta, prese il cappello; assicurandosi al tatto, prima di infilarselo, che la lametta Gillette fosse ancora nascosta nella fascia. Non dimenticò neanche il tubetto di cafiaspirine. C’era la possibilità che quella notte ne avesse ancora bisogno.
L’umidità del fiume, fra le cui banchine aleggiava una leggera bruma, faceva brillare l’asfalto e sfumava la luce gialla dei lampioni quando attraversarono la Senna sul Pont Neuf, a bordo di una Citroën 7 guidata dal tizio con l’impermeabile. L’altro gli era seduto accanto e Falcó dietro, con piena libertà di movimento. Il che lo tranquillizzava molto, anche se continuava a rimanere all’erta.
«Sigaretta?» gli offrì l’uomo seduto accanto al conducente, voltandosi all’indietro.
«No, grazie.»
«Sono Caporal.»
«Ragione di più… Quello è un tabacco per uomini veri.»
L’altro rise, divertito, e l’accese sfregando un fiammifero.
«Hai sentito, Marcel?… È spiritoso, il signore.»
«Già.»
Un odore forte e dozzinale invase l’automobile. Falcó guardava dal finestrino. A quell’ora il traffico era scarso, sebbene andasse aumentando via via che si avvicinavano alla zona di Les Halles. Lì cominciavano a confluire, dai dintorni, carri a cavallo e furgoncini carichi di carne, frutta, verdura e altri prodotti che dall’alba avrebbero alimentato l’immenso ventre di Parigi.
«Siamo arrivati» disse quello che fumava.
La macchina si era fermata. Non si trovavano più in un quartiere elegante, ma in una strada popolare. Antichi lampioni di ferro che un tempo erano stati a gas, appesi alle facciate dei palazzi, illuminavano con la luce elettrica insegne di locali a stento leggibili nella penombra: AUBERGE DU BEAU NOIR, VIANDES EN GROS, LE PETIT BISTROT. C’erano resti di verdure e di imballaggi lasciati a terra, bancarelle chiuse con le assi e mucchi di sacchi e di casse. Emanavano un forte odore. Da un camion fermo davanti a un magazzino, una decina di operai con i camici macchiati di sangue scaricava quarti di bue mettendoseli in spalla. Sulla porta di un bar, un gendarme baffuto, il mantello sulle spalle e i pollici nella cintura, chiacchierava con una prostituta dai capelli rossicci e con un petto prominente.
Attraversarono la strada. I due accompagnatori precedevano Falcó, apparentemente senza preoccuparsi troppo di lui. Li seguì fino a un edificio d’angolo, e per precauzione automatica cercò il nome della via sulla targa stradale: RUE MONDÉTOUR, gli parve di leggere. I due uomini si erano fermati davanti a un negozio con la scritta ANTIQUITÉS sulla porta. La serranda metallica era alzata e lo invitarono a entrare.
Di ufficio, non aveva nulla. O, naturalmente, non del tipo di ufficio che gli avevano dato a intendere. Così Falcó, stoico per carattere e per mestiere, si tolse il cappello, inspirò a fondo, toccò con le dita la lametta nascosta nella fascia del cappello ed entrò nel negozio, teso come se stesse per incassare una coltellata.
La prima cosa che vide fu un’enorme collezione di fermacarte di vetro, di tutte le forme e i colori possibili. Erano decine, forse un centinaio. Stavano su un tavolo addossato a uno specchio, e quell’effetto sembrava moltiplicarli all’infinito. Lì accanto, c’era una lampada a stelo accesa, in stile art déco, e la sua luce creava un effetto formidabile di luccichii e riflessi, come se provenisse dallo scrigno di uno strano tesoro.
«Buonasera» disse l’uomo seduto su una poltrona accanto alla lampada.
Falcó lo fissò con il cappello in mano, senza rispondere. Aveva il viso magrissimo e portava i capelli bianchi tagliati a spazzola; en brosse, come dicevano in Francia. Questo gli conferiva un certo stile militare. Doveva avere cinquant’anni abbondanti. Indossava una giacca di lana su una camicia con il colletto duro, con il nodo della cravatta largo e spesso, e dei pantaloni un po’ consunti, di velluto nero. Portava pantofole da casa di felpa. Un gatto dal pelo dorato dormicchiava ai suoi piedi.
«Si sieda, per favore.»
Con una mano ossuta indicava una sedia a dondolo. Falcó si guardò intorno. I due che l’avevano condotto lì erano scomparsi. Nella penombra rischiarata dalla lampada si scorgevano quadri antichi, statue di pietra e di marmo, vasi, porcellane, bronzi e ogni tipo di piccoli oggetti in vetrine e cristalliere. Da una radio Philips, incongruentemente moderna in quel posto, suonava musica classica: una melodia lenta, solenne, che poteva essere Beethoven, pensò Falcó. O Wagner. Tedesco, sicuro. Uno di quelli là.
«Può fumare, se vuole.»
Falcó aveva tirato fuori il portasigarette, ma si fermò quando sentì la respirazione sibilante dell’interlocutore. Era secca, vecchia. Il tizio sulla poltrona sembrava averci grande familiarità; notò il suo gesto e gli fece cenno con una mano, invitandolo a proseguire.
«Non si preoccupi, fumi pure. Non mi dà fastidio.»
Falcó lo guardò con interesse. Sapeva cogliere la differenza tra la respirazione di un asmatico o di un tubercolotico dalle tracce che lascia nei polmoni il gas asfissiante. Non era la prima volta che ascoltava quel tipo di respiro spezzato. Era frequente nei veterani della Grande Guerra. Quelli che erano sopravvissuti, naturalmente. I meno fortunati aveva smesso di averlo da un bel pezzo.
«Non farò giri di parole» disse l’uomo.
«Non sa quanto gliene sono grato.»
«Conosciamo il suo nome e quello che sta facendo a Parigi. Ciò che ignoriamo è perché e per conto di chi.»
Falcó si sedette, prendendosi il suo tempo mentre accendeva una sigaretta. Cauto. Tentava di situarsi in una compagnia così inattesa. Di prendere le misure.
«Conoscete?… A chi si riferisce quel plurale?»
«Questo non importa.» L’uomo lo osservava con fastidiosa fissità. «Lei è di nazionalità spagnola e a quanto pare è da poco arrivato dall’Avana. O almeno così dice.»
Continuò a guardarlo in silenzio, come se si aspettasse una conferma formale; ma Falcó rimase zitto e impassibile. Alla sua sinistra c’era un tavolo con un posacenere di alabastro, una bottiglia di Courvoisier e una coppa. L’altro indicò la bottiglia di cognac, però Falcó fece un gesto negativo.
«Sappiamo anche che ha rapporti con persone indesiderabili.»
Sollevato un lembo del mistero, Falcó si permise il primo sorriso.
«Indesiderabili per chi?»
«Per la dignità della Francia.»
«Non dica sciocchezze.»
«Lei è comunista?»
Sarebbe stato assurdo rispondere. Con una smorfia scettica, Falcó si portò la sigaretta alle labbra, in attesa. L’altro corrucciò la bocca.
«Sento in lei il fetido fiato del popolo.»
Il sorriso di Falcó, per nulla impressionato, si trasformò in una risata.
«Mi ha fatto venire fin qui per parlarmi di igiene popolare?»
Un altro fischo interno alterò la respirazione del suo interlocutore.
Come se si trattasse di un segnale, il gatto si allontanò dalle sue pantofole e andò a strusciare il fianco sulla piega dei pantaloni di Falcó.
«Léo Bayard è un bolscevico pericoloso, privo di scrupoli. Ha ucciso suoi compatrioti, spagnoli, al comando di una banda di mercenari… E adesso lei lo frequenta. L’ha incontrato appena è arrivato a Parigi.»
Falcó annuì, equanime.
«Ho incontrato anche altri.»
«Lo sappiamo… Un mercante austriaco chiamato Küssen, a cui prima o poi faranno pagare il conto. Uno dei tanti rifugiati che beneficiano della complicità criminale del governo francese.»
«Io colleziono arte.»
«Arte degenerata, sì.» La lampada e i suoi riflessi scolpivano spigoli minacciosi sul volto ossuto. «Infami perversioni ebraiche.»
Falcó si permise un’altra risata, acida stavolta. Quella di chi sta esaurendo la pazienza.
«La fidanzata di Bayard non ha niente di ebraico.»
L’altro stava per dire qualcosa, ma lo interruppe un nuovo fischio. Il gatto lo guardava, quasi solidale. Prese fiato e ricominciò.
«Non l’ho fatta venire qui per parlare di quell’inglese rossa» disse alla fine, acido. «È lui che ci interessa, e anche quello che lei sta macchinando con lui. Non sappiamo quali sono le sue intenzioni.»
Non era un terreno comodo, concluse Falcó. Perciò decise di giocare la carta dell’indignazione. Cominciava a essere opportuno mostrare un po’ di rabbia innocente.
«Ascolti, chiunque lei sia…»
«Può chiamarmi comandante, se vuole.»
«Non voglio chiamarla in nessun modo.» Esasperato, scostò il gatto con un piede. «E non devo neanche darle spiegazioni. Tranne chiederle di giustificare il tesserino del Deuxième Bureau che mi ha mostrato uno dei suoi uomini poco fa. Suona seria, la faccenda del tesserino… In realtà…»
«Noi siamo presenti in molti luoghi» lo interruppe l’altro.
«Vedo che continua a far ricorso al plurale.»
«È un modo di parlare come un altro.»
«Già.» Guardava con fastidio il gatto, che gli si era avvicinato di nuovo. «Ma questa convocazione non è ufficiale, a quanto vedo. Appartiene all’iniziativa privata… Perciò, buonanotte.»
Si alzò bruscamente in piedi, spaventando il gatto, con l’apparente intenzione di andarsene. In realtà, di vedere cosa succedeva. Però l’uomo rimase seduto, inalterabile.
«Abbiamo contatti con i rappresentanti di Franco a Parigi» disse. «Con i patrioti spagnoli. E abbiamo chiesto di lei.»
Falcó era sempre in piedi, con il cappello in una mano e la sigaretta nell’altra, guardandolo con stupore non del tutto finto. Di colpo, come se gli fosse accesa una luce nel cervello, capì tutto. Fu una vampata di certezza improvvisa, e maledisse quanto potesse essere stupido. Quel presunto Sánchez, l’agente nazionale spagnolo, l’aveva avvisato al caffè del boulevard Saint-Michel: La Cagoule, naturalmente. L’organizzazione clandestina fascista francese. Che potesse morire sul colpo se non si trovava di fronte al comandante Verdier, capo della sezione di Parigi e veterano della Grande Guerra.
«Avete chiesto di me?»
«In effetti. E la risposta dei nostri amici è stata sorprendente.»
«Sì?…» Falcó si sedette lentamente. «Allora sorprenda anche me. Mi tiene sulle spine.»
«Dicono di scordarcene, di non intervenire.»
«Così le hanno detto?»
«Proprio così. Lasciatelo in pace, è stata la risposta.»
«Avrete parlato con persone affidabili, immagino.»
«Completamente.»
Falcó fingeva sconcerto, anche se non aveva del tutto bisogno di fingerlo.
«E cosa ci faccio qui stanotte?»
«Mi domando perché dobbiamo lasciarla in pace… O meglio, lo domando a lei.»
«Non sono stati loro a dirvelo?»
«No.» L’uomo fischiò di nuovo. «Hanno soltanto chiesto di tenercene fuori.»
«Sarà perché sanno che sono inoffensivo.»
«O forse per il contrario.»
Falcó cercava di riflettere in fretta, senza perdere la calma. La sigaretta, che aveva dimenticato, gli bruciava le dita. La spense nel posacenere.
«E allora?» chiese, per guadagnare tempo.
«Confido che me lo dirà lei.»
«Mi spiace non poterla aiutare.» Guardò il gatto, che tornava all’attacco. «Non so perché quegli amici suoi e di Franco lo dicano. Non sapevo nemmeno che fossero al corrente della mia esistenza… Perché non chiede anche agli altri, a quelli del governo repubblicano?»
«Non abbiamo gli stessi rapporti, né le stesse affinità.»
«Io sono di origini spagnole, ma con un passaporto cubano autentico e in regola.»
«Sì, questo l’abbiamo verificato. Sembra corretto.»
«Ho soldi e sono una persona rispettabile.» Ora Falcó alzava il tono, facendo l’offeso. «E mi riservo anche il diritto di frequentare chi mi sembra opportuno… Sono venuto a risolvere delle faccende private, e penso di farlo nonostante le sue tessere dei servizi segreti, la sua collezione di fermacarte e il suo maledetto gatto, che mi sta riempiendo di peli i pantaloni.»
Verdier, se davvero era lui, guardò il gatto e fece schioccare due dita magre come artigli.
«Vieni qui, Poliu.»
Dopo aver rivolto un’occhiata piena di rancore a Falcó, a coda dritta, il felino tornò alle pantofole del padrone.
«E quello che sta succedendo in Spagna?» indagò lui. «Non la riguarda?»
Falcó si strinse nelle spalle.
«Quello che succede lì non ha a che fare con la mia presenza a Parigi. Come ho detto, compro arte e fabbrico sigari.»
«Però Bayard…»
«Bayard è un tipo famoso e interessante. E la sua fidanzata, un’artista riconosciuta. Mi sono simpatici. Mi piace bere qualche bicchiere con loro. Ho conosciuto un certo Gatewood.»
«Il giornalista nordamericano?»
«Sì.»
«Un altro maledetto comunista.»
«Ma appassionato al cognac francese, a quanto ho potuto verificare.»
Il suo interlocutore lo guardava incredulo. Scandalizzato.
«Davvero le è simpatica quell’immondizia marxista?»
«Alcuni più di altri. Però sono divertenti e intelligenti. E Eddie Mayo è molto bella.»
L’altro scosse la testa con ripugnanza. Il suo sguardo bruciava di fuoco patriottico. Fanatico e pericoloso.
«La Francia è sul bordo dell’abisso, capisce?… Abbiamo un governo di sinistra stupido e demagogico, e una società apatica, vigliacca, incapace di reagire. Soltanto la forza delle idee nuove potrà rigenerare l’Europa. Le democrazie sono marce. Disciplina e mano dura, cauterizzando le parti malate: questa è la ricetta… In Germania, in Italia, in Spagna la stanno già applicando.»
«E perché lo dice a me?»
«Ha letto Spengler?»
«Nemmeno la copertina.»
«Nei momenti critici della Storia c’è sempre un plotone di soldati che salva la civiltà occidentale.»
«Bene, d’accordo. Ne sono contento. Ma non mi ficchi in queste cose. Io sono apolitico.» Decise di adornarsi con mezza veronica. «E di quello Spencer non me ne importa un’acca.»
«Spengler.»
«Comunque si chiami.»
Un fischio. Una pausa accigliata e un altro fischio.
«I suoi soldi la mettono in salvo, vero?… Arte e sigari, dice.»
«Lei è pazzo.» Si alzò, l’aria infastidita. «Vada al diavolo.»
«Non ci inganna. Scopriremo chi è e cosa vuole. Glielo prometto.»
Suonava come una minaccia seria. Fingendo indifferenza, Falcó si mise il cappello leggermente inclinato, in maniera spavalda. Sul sopracciglio destro.
«Allora se scoprite qualcosa che non so, ditemelo. Adesso vorrei tornare in albergo, perché sono stanco e domani devo continuare a chiacchierare con bolscevichi e altri nemici dell’Occidente… I suoi scagnozzi hanno promesso di riportarmici. Li avvisa?»
«Non si preoccupi. L’accompagneranno.»
«Non mi preoccupo, ma la ringrazio. Sarebbe scomodo cercare un taxi a quest’ora.»