PIAZZA DELLA PSICANALISI

Non voglio dirvi dove abito, vedrete trappoco perché. Posso, però, indicarvi il quartiere, anzi debbo, se no certi particolari della mia storia non si capiscono. Dunque, abito all’EUR, nella parte più spaziosa e deserta di quel deserto e spazioso quartiere. La mia casa, tutta di cemento, di vetro e di metallo guarda ad una vasta piazza di liscio, grigio, solitario asfalto. Nella zona, strade e piazze hanno tutte nomi assai suggestivi: Viale della Letteratura, Viale dell’Arte, Viale dell’Umanesimo, Viale della Scultura, Viale della Civiltà Romana, Piazza della Poesia. Mettiamo che io abiti in Piazza della Psicanalisi. Dico: mettiamo; ma è escluso che esista una piazza con questo nome; l’EUR è, infatti, un quartiere costruito sotto il fascismo e si sa che il fascismo represso e repressivo, non amava la psicanalisi. Tuttavia mi farebbe piacere abitare in una piazza che si chiamasse cosi, se non altro perché sono dottoressa in psicanalisi e ricevo ogni giorno a ore fisse, come si può leggere sulla targa di ottone della porta.

Alla psicanalisi mi sono aggrappata durante la veglia più lunga della mia vita. Stavo seduta alla scrivania, davanti alla macchina per scrivere; la pistola che avevo stretto poco prima con tanta forza da lasciarmi l’impronta nella palma, era posata accanto al portacenere pieno di cicche; e mi sforzavo di portare a conclusione un saggio al quale lavoravo da quasi un anno. Il saggio era centrato intorno l’idea seguente: “Sigmund Freud ha proiettato la luce della ragione nella vita interiore. Là dove c’era il buio, ha eretto un palcoscenico bene illuminato sul quale recitano sempre la stessa commedia, sempre gli stessi attori:

l’Es, l’Ego e il Superego. Ma intorno questo palcoscenico chiaro e visibile le tenebre sono più fitte che mai.“ Scrivevo a fatica ma con ostinazione disperata, battendo sui tasti con due sole dita. Ogni tanto mi alzavo, andavo alla finestra, guardavo giù nella piazza e vedevo che il corpo era tuttora lì, disteso bocconi, le braccia protese in avanti, oltre il capo. Sono andata alla finestra alle due e mezzo, alle tre, alle tre e mezzo, alle quattro. Certo, saranno passate delle automobili, anche se era notte; ma nessuno si è fermato, pensando ad un accidente mortale e temendo che gli fosse attribuito. Alle cinque, il corpo era ancora nel mezzo della piazza, e il mio saggio non era finito. Allora mi sono alzata dalla scrivania e mi sono distesa sul lettuccio sul quale di solito si mettono i miei pazienti. Avrei voluto dormire. Invece, eccomi ricostruire quasi meccanicamente la storia del mio rapporto con Giacinto, l’uomo disteso morto giù nella piazza. Perché la ricostruivo? Certo non per nostalgia e neppure per orrore. Perché non la capivo e avrei voluto arrivare a capirla.

In principio c’era stato il ghigno. Nella faccia di Giacinto larga e piatta, dagli occhi leggermente obliqui, quel ghigno beffardo e disgustato, come di perpetua nausea colpiva perché non pareva dipendere da lui: Giacinto, infatti, non era disgustato da nulla e il ghigno ce l’aveva anche quando dormiva. Perché il ghigno mi ha attirato? Ecco a questo punto, si entra nell’incomprensibile: perché stava a indicare, almeno per me, quel genere di persona che comunemente va sotto il nome di canaglia. Avrei potuto dire criminale ma allora non avrei potuto passare da Giacinto a me. Giacinto era una canaglia; e io, consapevolmente anche se incomprensibilmente, avevo voluto, facendone il mio amante, appunto, incanaglirmi.

Non importa dire dove e come ho incontrato Giacinto. Mettiamo che sia stato in un bar e che lui, dopo uno sguardo d’intesa, mi sia venuto dietro e sia salito nella mia macchina e si sia seduto accanto a me nel momento in cui accendevo il motore. Dopo quella prima volta, l’ho preso a vedere in casa mia, sempre a notte alta. Lui stava con certi suoi compagni o meglio complici fino a mezzanotte e oltre, in un caffè o in un ristorante; quindi veniva a trovarmi, previa telefonata. L’aspettavo in piedi presso la finestra; lui lasciava la macchina, con significativa precauzione, in una strada non lontana e veniva a piedi, attraverso la piazza deserta e poco illuminata, dirigendosi

verso la mia casa. Appena lo vedevo, mi tenevo pronta a premere il bottone della porta d’ingresso. Che sentimento provavo, quando lo scorgevo in fondo alla piazza, riconoscibile dalla piccola statura e dalla larghezza sproporzionata delle spalle? Un turbamento fondo che mi fermava il respiro; e, insieme, odio di me stessa.

Poi, tutto si svolgeva in maniera abitudinaria e quasi rituale, pur nell’impazienza e nella furia dei sensi. Giacinto era, in realtà, una canaglia molto noiosa. Faceva e diceva sempre le stesse cose, sentenzioso, pieno di buon senso, logico e terra terra. Se non ci fosse stato quel ghigno che mi aveva affascinato, avrei potuto credere di fare l’amore con un qualsiasi piccolo borghese in tutto e per tutto, comune e normale. Ma questa sua normalità, invece di rassicurarmi, mi spaventava. Mentre lo guardavo che, disteso sul letto, col busto nudo fuori delle coperte, fumava e parlava, pensavo che per fare una canaglia di quel genere, così tranquilla e così solida, così simile, insomma, al suo contrario, ci volevano secoli e secoli di criminalità, diciamo così, positiva, cioè legata indissolubilmente ai cosiddetti valori eterni della famiglia. Sì, altro che psicanalisi! Psicanalizzare Giacinto, questo campione vivente di immoralità arcaica, sarebbe stato come psicanalizzare le coppie di sposi scolpite sulle tombe etrusche oppure le statuette callipigie di Malta, E io con la mia scienza viennese, di fronte alla sua refrattarietà mediterranea, mi sentivo impotente come un operaio armato di un piccolo scalpello di fronte ad un blocco di calcestruzzo.

Parlando, come si dice, del più e del meno ma preferibilmente di negozi (ne aveva due davvero: uno di accessori d’automobile, gestito da un suo fratello e uno di maglieria, ci stava la moglie), fumando esattamente tre sigarette, bevendo qualche volta acqua limone e zucchero, Giacinto restava con me un paio d’ore, quindi mi lasciava per recarsi dall’“ altra” donna. Già, perché proteggeva, come si dice, una prostituta di nome Valeria che “lavorava” per lui tutte le notti in un viale della periferia. Valeria era la sola a passargli i sudati guadagni oppure ne aveva delle altre? Non saprei; ad ogni modo mi aveva parlato soltanto di Valeria, forse proprio perché essa cercava di essere con lui qualche cosa di più di un oggetto, anzi gli si ribellava, dandogli, secondo la sua stessa espressione, dei continui “dispiaceri”, così che, una volta o l’altra, concludeva pensoso, sarebbe stato costretto a darle una “lezione”. Lo ascoltavo, stupefatta di ascoltarlo, cercando di capire perché continuavo a vederlo e sempre urtandomi contro la stessa oscura, ottusa incomprensione. Poi lui schiacciava la terza sigaretta, si vestiva e se ne andava a rilevare Valeria. Mi mettevo di nuovo alla finestra e lo guardavo attonita, mentre attraversava con passo spedito la vasta piazza deserta. Quindi, senza pensar nulla, sazia del corpo e vuota nella mente, me ne andavo a dormire.

Uno di quei giorni salgo in macchina e corro difilata al viale della periferia, dove so che Valeria sta di fazione ogni notte. Giunta nel viale, prendo a guidare piano, guardando alle donne ritte in piedi, ciascuna davanti al suo fuocherello, sullo sfondo dei tronchi enormi dei platani. Ho riconosciuto subito Valeria: una bionda piccola, con una capigliatura alta sulla fronte, gli occhi azzurri, la faccia quadrata, il petto molto sviluppato e i fianchi molto stretti. Mi sono fermata, le ho fatto un cenno con la mano e lei mi ha risposto con un gesto di diniego: credeva che fossi un’omosessuale. Ho insistito pronunciando il suo nome; allora si è mossa, maestosa nonostante la piccola statura, per via di quella cresta di capelli e anche di non so che fierezza nel portamento. Ha messo la testa al finestrino, mi ha chiesto come mai sapevo il suo nome. Non sapevo che dire, ero venuta in quel viale spinta da un impulso anch’esso, come tutto ciò che riguardava Giacinto, oscuro e incomprensibile; ho farfugliato che ero una sociologa e facevo una inchiesta sulla prostituzione e perché non sarebbe venuta a casa mia? L’avrei pagata, non avrebbe perduto il suo tempo. Mi ha fissato a lungo con quei suoi occhi incavati e penetranti; poi ha detto che accettava; abbiamo fissato il compenso e il giorno; quindi me ne sono andata.

L’appuntamento era sabato, presunto giorno del suo disturbo mensile, durante il quale non avrebbe lavorato. Venerdì, apro il giornale e nella cronaca di Roma leggo un titolo che mi incuriosisce; abbasso gli occhi, vedo il ritratto di Valeria. Allora leggo la notizia. Era stata trovata nel portabagagli di una macchina, morta, legata in modo che si era lentissimamente strangolata da sé. Mi getto sui particolari, ma di Giacinto neppure l’ombra. Però, si supponeva che Valeria avesse voluto ribellarsi e fosse stata uccisa in quel modo crudele come ammonimento a qualsiasi altra che avesse voluto seguire il suo esempio.

Quello che ho fatto dopo quella mattina è forse la cosa meno comprensibile di questa storia incomprensibile. Ho continuato a vedere Giacinto e, intanto, mi sono fatta spiegare da lui il funzionamento della sua pistola che portava sempre in una tasca interna della giacca. Gli ho detto che avevo paura di notte, in quelle strade così larghe e così deserte, e che volevo chiedere il porto d’armi. Lui mi ha senz’altro approvato: era vero, giravano gruppi di teppisti che aggredivano le donne sole; facevo bene ad armarmi, anzi lui ci teneva a regalarmela, la pistola, non quella che aveva che era troppo grossa per me, una più piccola, da signora. Così, di lì a qualche giorno, mi ha portato la pistola, mi ha spiegato il meccanismo e ha provveduto lui stesso a fare scivolare una palla nella canna. Qualcuno, forse, vorrà sapere se Giacinto ha commentato in qualche modo la fine orrenda di Valeria. Sì, l’ha commentata. Ha detto, sentenzioso, come il solito: “Era una ragazza strana. Doveva finire così.”

Una di quelle notti lui mi telefona che sta venendo; allora mi metto dietro la finestra, stringendo in pugno, con violenza spasmodica, la pistola. Eccolo che appare in fondo alla piazza e si avvia, piccolo e largo di spalle, verso la mia casa. Tutto ad un tratto, da un rettangolo di ombra nera proiettata sull’asfalto da un palazzo tutto nero e spento, ecco, esce d’improvviso, con velocità fulminea, una macchina scura, corre addosso a Giacinto, lo investe alle spalle. Vedo Giacinto fare un balzo per aria con le braccia protese in avanti, come un tuffatore che si getti nell’acqua da una sponda; poi la macchina gli passa sopra, si allontana e il corpo di Giacinto sta disteso bocconi, immobile, con le braccia allungate oltre la testa. Intanto la macchina è arrivata in fondo alla piazza. Ora eccola che ritorna, pur sempre con la stessa velocità scatenata, passa di nuovo sul corpo di Giacinto, quindi scantona e scompare. Tutto questo dura un attimo ma si imprime per sempre nella mia memoria, per la sua intensità allucinata come di scena di cinema veduta anch’essa per un solo attimo intenso mediante il metodo stroboscopico.

Ecco fatto. A questo punto della rievocazione, ho guardato l’orologio e ho visto che erano le otto e mezzo. Mi sono alzata dal letto, sono andata alla finestra, ho tirato su, lentamente, l’avvolgibile. Un sole sfarzoso mi ha abbagliato dardeggiando i suoi raggi da un viluppo di nuvole scure e stracciate. Ho abbassato gli occhi verso la piazza; c’era un discreto via vai di impiegati che si recavano agli uffici; il corpo non c’era più. Mi è sembrato di vedere un furgone dei carabinieri, laggiù, proprio nel luogo da dove era partita la macchina omicida. Involontariamente, ho pensato allora che, tra i tanti svantaggi della città, c’era, purtuttavia, il vantaggio dei servizi: qualsiasi oggetto che ingombrasse il traffico o, comunque, turbasse l’ordine, veniva prontamente rimosso. Poi ho chiuso le finestre e sono andata a dormire.