L’IDEA DELLA DEA
Esco di casa per andare dall’uomo che ho amato durante gli ultimi due anni e ho cessato di amare dodici ore fa. Il mio amore è durato quanto è durato il successo di quest’uomo, un regista cinematografico molto noto; ed è finito ieri sera allorché, nella sala della casa di produzione in cui si proiettava il suo ultimo film, si è rifatta la luce e gli spettatori, in gran parte critici cinematografici, si sono guardati in faccia in silenzio e quindi, uno dopo l’altro, se ne sono andati alla spicciolata, senza neppure stringere la mano all’autore, come è l’uso. Nella mia poltrona, al buio, ho seguito la lenta ma inarrestabile discesa del film verso il disastro e, nello stesso tempo, quella del nostro amore verso la freddezza e il distacco. Bonifazio, il mio regista, mi sedeva accanto; gli tenevo la mano nella mano, un’abitudine degli inizi del nostro rapporto; poco prima del finale, gliel’ho ritirata e, quando lui ha tentato di riprenderla, l’ho respinto, sussurrandogli, chissà perché, questa frase imprevista non solo per lui ma anche per me: “Lasciami. Tutto tra di noi è finito.” Si è subito raggomitolato su se stesso, come se l’avessi colpito al cuore con una freccia avvelenata. Poi mi ha accompagnato a casa in silenzio e sulla soglia si è congedato così: “Ti prego di risparmiarmi ogni ulteriore commento. Ora noi dobbiamo salvare soprattutto il nostro amore. Ciao, ci vediamo domani mattina.”
Salvare il nostro amore! Mentre guido pian piano, in maniera automatica, la macchina per le strade allegre e affollate del mezzogiorno, abbasso gli occhi verso la mia persona e mi accorgo che la fine del nostro amore è già leggibile nei miei vestiti.
Già, perché bisogna sapere che Bonifazio si è fatta fin da principio un’idea di me alla quale, per forza di cose, ho dovuto alla fine uniformarmi. Diceva che avevo un corpo di dea e un’anima di bambina; e che lui non sapeva che farsene della bambina e non amava che la dea. È, insomma, un autentico masochista, Bonifazio; e per fargli piacere ho dovuto falsare il mio vero carattere in fondo infantile, capriccioso, volubile e ingenuo comportandomi, invece, come una virago autoritaria, impassibile, spietata. Analogamente, nel modo di vestire, ho dovuto rinunziare alla libera straccioneria hippy, verso la quale mi sentivo naturalmente portata, e adottare, invece, uno stile molto “vestito”, cioè andare in giro addobbata come una statua sopra un altare. Ma, adesso, grazie al tonfo del film, sto finalmente ribellandomi all’idea assurda che sono una dea. Guardandomi, mi accorgo che stamane, quasi senza accorgermene, invece dei soliti paramenti delle sartorie di lusso, ho indossato un maglione tutto slentato e un paio di vecchi pantalonacci stinti. Bonifazio non ha voluto saperne della bambina che c’è in me perché in realtà voleva essere lui il bambino tra noi due, lui sempre bisognoso di essere accarezzato, cullato e magari anche punito. Ma ogni bel gioco dura poco: la bambina ora si libera della dea, ritrova se stessa.
Tuttavia non c’è dubbio che il fiasco di Bonifazio mi crea una quantità di problemi nuovi. Non sono così sciocca né così ingrata da non riconoscere che debbo molto, a livello materiale, a Bonifazio. Ha trovato un impiego a mio padre disoccupato; mantiene agli studi, in Svizzera, mio fratello; dà ogni tanto del lavoro, come comparsa, a mia sorella; ci permette di abitare in un appartamento di sua proprietà senza pagare alcun affitto. Qualcuno penserà forse che tutto questo Bonifazio lo abbia fatto e continui a farlo perché gliel’ho richiesto. Nulla di meno vero. È stato lui ad impormi i suoi aiuti che, in fondo, non riguardano che k mia famiglia, con lo scopo piuttosto chiaro di legarmi a lui, rendendosi utile, anzi indispensabile. Insomma, a dirla in breve e brutalmente, sono stati i successi e non i favori a farmi stare con Bonifazio, a causa del mio bisogno quasi fisiologico del successo il quale è per me, al tempo stesso, il surrogato, il simbolo e la prova della potenza sessuale. Ma adesso Bonifazio non ha più successo; e io scopro che non è egualmente, tanto facile lasciarlo perché è entrato nella mia vita o meglio in quella della mia famiglia; e che quel suo furbo
calcolo di legarmi a lui con gli aiuti ai miei, si rivela giusto, alla fine, in quella maniera misteriosamente vischiosa che è propria delle cose che ci crescono addosso e quando ce ne accorgiamo, è troppo tardi ormai per liberarci. Dunque, che lo voglia o no, mi trovo di fronte ad un avvilente dilemma: o lasciare Bonifazio sacrificando la mia famiglia; o restare con lui sacrificando me stessa.
Per fortuna, arrivata a questo punto morto nelle mie riflessioni, l’occhio mi cade ad un tratto su un grosso fascicolo verde che sta posato sul cruscotto, tra un sacchetto di caramelle e la scatola dei fazzoletti di carta. È il copione di una sceneggiatura; sta lì da un mese; me l’ha dato un giovane regista, Girolamo, che ha avuto quest’inverno un grande, autentico successo con il suo primo film. Me l’ha dato chiedendo assurdamente a me, ben nota per la mia ignoranza crassa, di leggerlo e poi telefonargli il mio parere e infatti ci ha anche scritto, sulla copertina, col lapis rosso, il numero del telefono: una maniera come un’altra per dirmi che gli piacevo e farmi dire che lui piaceva a me. Il fascicolo, come ho detto, sta lì da più di un mese e, naturalmente, non l’ho letto; ma durante questi trenta giorni il messaggio sottinteso in quella strana richiesta di consulenza ha agito, lentamente ma profondamente. Ne ho la prova: questa mattina mi sono vestita da stracciona forse non tanto per far dispetto a Bonifazio che mi vuole dea; quanto per far piacere a Girolamo che, lui almeno a giudicare dal suo modo di vestire, mi vuole hippy. Quel maglione deformato, quei pantaloni sbrindellati “sono” il mio parere favorevole sul copione; come la richiesta di leggere il copione “era” una dichiarazione d’amore della più bell’acqua. Ma come fare adesso per comunicargli il messaggio sottinteso nei miei vestiti? Semplice: telefonandogli, fissandogli un appuntamento, insomma facendomi vedere.
Freno d’improvviso sul viale in cui sto avanzando a passo d’uomo, quindi faccio uscire la macchina dalla fila e vado a fermarmi davanti ad un grande bar affollato. Scendo, entro nel bar, compro alla cassa il gettone, vado a rinchiudermi nella cabina del telefono. Sono molto timida; mi accorgo che, mentre formo il numero, il cuore mi salta in petto e il respiro quasi mi manca. Quando la voce di Girolamo dice: “pronto” nella cornetta, per un momento, prima di nominarmi con un filo di voce, debbo lottare contro il turbamento che mi opprime. Ma
guardate che vuol dire il successo! Subito dopo, il suo tono squillante, baldanzoso, aggressivo, come un liquore potente e di effetto immediato, mi solleva dalla depressione che mi ha ispirato la sera avanti il fiasco di Bonifazio, mi vivifica, mi fa quasi lievitare fisicamente, tanto che mi pare d’improvviso di essere allo stretto nell’angusta cabina telefonica. Ci diciamo una quantità di cose, confusamente, tumultuosamente, come esplodendo ambedue nello stesso momento. Alla fine, lui mi chiede con un resto di incertezza se potrà vedermi in settimana. Sfacciata, gli rispondo che sarò da lui quel pomeriggio stesso.
Quando esco dalla cabina, ho la precisa impressione che la gente che affolla il bar, si volta al mio passaggio, come se la conversazione con Girolamo mi abbia resa d’improvviso visibile, in una maniera dilatata e provocante. Allora, quasi con sorpresa, scopro che, senza accorgermene, ho risolto il mio dilemma: resterò con Bonifazio e così non danneggerò la mia famiglia che ormai dipende da lui; ma il successo di cui, a quanto pare, non posso fare a meno, d’ora in poi lo chiederò a Girolamo. Sono così contenta di questa soluzione che, una volta in macchina, prima di riprendere la guida, mi guardo nello specchio al disopra del parabrezza e, infantilmente, mi strizzo l’occhio e mi tiro la lingua. Poi, invece di andare direttamente da Bonifazio, corro a casa mia, mi strappo di dosso maglia e pantaloni e mi addobbo di nuovo dei panni solenni che mi trasformano in statua.
Più tardi, salgo in ascensore al superattico di Bonifazio. L’ascensore è un carro fatato nel quale sta ritta in piedi una dea serena, impassibile, disumana. E infatti, quando Bonifazio mi apre la porta e mi vede sulla soglia che lo guardo, muta e immobile, ha quasi un movimento come per gettarsi ai miei piedi. Ma si trattiene e mi precede andando a sedersi al suo tavolo di lavoro. Io sto di fronte a lui, in silenzio, offrendomi ai suoi sguardi. Alla fine dice con sincerità, umile: “Come sei bella. Almeno quanto il mio film è brutto.”