TEMPORALE E FULMINE
Ogni tanto mi vengono quelli che io, nel mio gergo privato, chiamo temporali. Cos’è, per me, un temporale? E un lento accumularsi, dentro di me, attraverso mesi e anni, dell’odio per qualche cosa che, però, non so cosa sia. Quest’odio si fa sempre più minaccioso e più incombente, proprio come un temporale che si addensa all’orizzonte in una bella giornata d’estate. Quindi, tutto ad un tratto, su un pretesto qualsiasi, l’odio scoppia e allora e soltanto allora, scopro qual era l’oggetto dell’odio attraverso il torrente di parole giuste e precise anche se furibonde con le quali, quasi in stato di “trance”, mi esprimo e mi sfogo. È una specie di ciclone e nessuno ci resiste, io per prima. Quale è stato il mio temporale più importante e più memorabile? Certamente quello che, a diciott’anni, mi ha scatenata contro mio padre, medico veterinario a G., piccola e assonnata cittadina di provincia. Quella volta ho urlato per tre ore filate, senza mai interrompermi, in presenza di mia madre, delle mie sorelle e dei miei fratelli esterrefatti. Cosa urlavo? Di tutto, contro mio padre, contro la famiglia, contro la città, contro il mondo intero. Urlavo che ero stufa di quella vita provinciale e meschina; che volevo vivere e non languire; che, se continuava così, sarei scappata con un camionista di passaggio, sarei andata a fare la battona. Urlavo pure che non ne potevo più del perbenismo, che la morale borghese non faceva per me, che mi sentivo la vocazione dell’avventuriera cosmopolita di alto bordo. Urlavo, purtroppo, anche che i miei genitori mi facevano schifo, enumeravo uno dopo l’altro tutti i loro difetti fisici e morali. Che cosa non ho detto durante quel mio temporale: è stato proprio come una tromba marina che succhia dalla terra ogni sorta di porcheria e poi te le risputa fuori a chilometri di distanza.
A proposito, come è finito il temporale dei miei diciott’anni? Malissimo, perché, tra la mortificazione di aver trattato così i genitori e l’impossibilità effettiva di continuare a vivere in quel modo, ho sposato il primo venuto; ed ora eccomi qui, con questo primo venuto tra i piedi e un temporale che, secondo me, lo riguarda, il quale si va addensando, lo sento, praticamente dal giorno in cui gli ho detto di sì in chiesa.
Ma eccolo il mio primo venuto. In fondo allo sterminato soggiorno del nostro superattico di superlusso, eccolo che avanza, tra i gruppi di poltrone e di divani, meschino, anonimo, insignificante, vestito di grigio scuro come un qualsiasi funzionario di basso rango o avvocatuccio o altro verme simile, occhialuto, calvo e, naturalmente, con la barba lunga, e con il lutto, si capisce, per non so che parente remoto, cioè con la fascia nera al braccio, la cravatta nera, il fazzoletto bordato di nero. Cammina piano e come sconcertato, oppure è l’impressione che fanno le sue gambe incurvate e storte? E stringe in mano, in un solo mazzo, un fascio di giornali spiegazzati. Come vedo i giornali, ecco, subito, qualche cosa scatta dentro di me, quasi una molla di furore troppo a lungo repressa; e, infatti, subito, esplodo: “Ah, ci siamo, i giornali, eccoti te e i tuoi giornali! Quanti ne leggi, eh? Cinque, dieci, quindici? Quelli di Roma, quelli di Milano, quelli della tua sporca città? Ma si può sapere che vai cercando, che ci trovi in questi tuoi giornalacci? Sta’ tranquillo, né te né io appariremo mai nei giornali. E infatti, i giornali io non li guardo neppure. Leggono i giornali quelli che vivono, che partecipano alla vita, che hanno una vita; ma tu, ma io forse che viviamo? No, caro mio, noi vegetiamo e allora perché tanti giornali? Leggono forse i giornali le piante grasse della mia terrazza?”
Adesso mi sta davanti, brutto e misero, mi guarda fisso attraverso i suoi enormi occhiali, forse vorrebbe parlare, ma non gliene do il tempo: “E poi, è giunto il momento di dirlo, sono stufa di te, del nostro matrimonio, di tutta l’insopportabile baracca. Sì, abbiamo un superattico che è costato mezzo miliardo, arredato da un architetto famoso, in cui ogni mobile pesa un quintale e vale milioni; ma che ci facciamo in questo appartamento? Niente, assolutamente niente. O meglio sì, ci facciamo la vita di famiglia. Ah la famiglia, parliamo un po’ della famiglia, parliamone una buona volta. Tu hai il culto della famiglia e buon pro ti faccia; ma sbagli, volendolo imporre anche a me. Lo sai o non lo sai che io, in quest’appartamento da mezzo miliardo, finora non ho veduto che quelli della tua famiglia? Certo, sono numerosi; ma, come si dice a Roma: ammazza ammazza, è tutta una razza. La famiglia! Io so cosa vuol dire vivere in famiglia, oh se lo so. Vuol dire avere una tribù di fratelli, sorelle, cognati, cognate, zii, nonni e nipoti, da spastasciuttare a pranzo e a cena tutti i giorni. Vuol dire passare le serate davanti alla televisione, con quella vecchia scimmia pelosa di tua madre e con quella bertuccia non meno pelosa di tua sorella zitella. Vuol dire spupazzare suocera e cognata nei pomeriggi, andando da una vetrina all’altra, da un negozio all’altro, senza comprare nulla. E, del resto, perché dovrei comprare dei vestiti, dei gioielli, delle pellicce, come tante altre donne? Per sfoggiarli di fronte alla tribù, per far bella figura in famiglia?”
Mi guarda, lascia cadere in terra i giornali, si fruga in tasca, accende con mano tremante una sigaretta. Lo so, nessuno gli ha mai parlato in questo modo della sua famiglia; ma io sono ormai lanciata, il suo dispiacere, invece di smorzare il mio furore, l’avviva. Urlo: “Sì, ho una famiglia, si può dire, perfetta; ma dove supera perfino la perfezione, è nella religione. Ah, la religione, non c’è che dire, siete religiosi, voialtri, al punto che si potrebbe affermare che avete un Dio tutto vostro, un Gesù tutto vostro, una Madonna tutta vostra e, soprattutto, una caterva di santi tutti vostri. Pellegrinaggi ai santuari; preghiere fitte fitte dalla mattina alla sera; non si trema per la religione in questa casa. Questo non è un appartamento ai Parioli, è un convento, è una chiesa. E, infatti, dagli con le immagini, coi santini, con le statuette, con i rosari portati da Lourdes e con le bottiglie dell’acqua del Giordano portate da Gerusalemme! Dagli con le fotografie di vescovi e monsignori con la dedica autografa e la benedizione! Ma io non sono religiosa, neanche un po’, capito? E nella mia città, a messa, ci andavo, per far piacere ai miei genitori, soltanto la domenica, e non, come qui, tutte le mattine!”
Lui fuma e mi guarda; mi guarda e fuma. Non l’ho mai visto così, quasi mi fa paura; ma tant’è, il temporale è ancora in corso e deve sfogarsi: “Ma lo sai, quello che soprattutto non posso sopportare in questa nostra bella vita di famiglia? Il vostro modo di parlare. Sono italiana, parlo l’italiano e non capisco un’acca di quello che dite. Ma si può sapere cosa confabulate, di che cosa parlottate, che diavolo andate sussurrando tra di voi? I cosiddetti investimenti eh? I conti nelle banche italiane e svizzere, eh? Le azioni, le obbligazioni, i titoli, l’oro in sbarre e monetato, eh? Sì, sei un uomo di affari, guadagni molto, a quanto pare; ma questa non è una buona ragione per parlare nel vostro incomprensibile dialetto in mia presenza. Di che avete paura? Che vada a spifferare che avete i depositi all’estero? Che vi porti via la chiave della cassaforte? Ma con me non c’è bisogno di tanti misteri, di tanto dialetto. Sono nata povera; ma sono fiera e dei tuoi soldi non so che farmene. Ci sputo sopra ai tuoi soldi. Dunque parlate in italiano, davanti a me, parlate pure di interessi in italiano. Io non vi vedo e non vi sento! “
Adesso va ad un tavolo lontano, schiaccia la sigaretta appena accesa in un portacenere, torna lentamente verso di me, con le due mani sprofondate nelle tasche della giacca. Ma ecco l’ultimo scroscio del mio temporale: “Infine, debbo dirtelo: sei troppo borghese, troppo tradizionale, troppo serio per me. Guarda soltanto come ti vesti. Sembri uno delle pompe funebri. Ma non la vedi, per le strade, la moda dei giovani? Pantalonacci, camiciotti, barbe e capelli lunghi, sandali e chitarre! Tu e la tua famiglia, cominciando con quelle babbuine delle tue sorelle e finendo con quelle marmotte dei tuoi fratelli, siete troppo gente d’ordine per me. Adesso voglio dirti una cosa che non ho mai detto a nessuno, si vede che è giornata di confidenze, oggi: lo sai qual è il mio ideale d’uomo, lo sai eh? Ebbene, sì, Alain Delon, quando fa il gangster, il ladro, il rapinatore, il delinquente, insomma. Sì, questo è il mio ideale, l’uomo bello e intrepido, che non ha paura di niente e di nessuno, dalla pistola facile, dalla vita leggendaria. Alain Delon che se la fa nei night, negli alberghi di lusso, che schizza da Parigi a Nuova York, da Nuova York a Rio de Janeiro e da Rio a Parigi. Sì, questo è il magnifico risultato che hai ottenuto col tuo culto della famiglia, la tua religione, la tua morale, il tuo perbenismo: che tua moglie sogna, ad occhi aperti, di essere la moglie di un gangster.”
Ci siamo, il temporale è finito, mi sono sfogata; e adesso, tutto ad un tratto, sono un po’ spaventata. Anche perché lui mi guarda con uno sguardo che non gli conoscevo, uno sguardo nuovo, fisso, deliberato e, in qualche modo, disumano. Si avvicina con brevi passi rigidi; quando mi sta sotto, leva una sola mano dalla tasca, poi vlan, vlan e vlan, mi schiaffeggia più volte con una forza oltraggiosa anch’essa nuova. Traballo tra gli schiaffi, riprendo il mio equilibrio, lo guardo, quindi do in un grido strano come se lo vedessi per la prima volta, e scappo. Eccomi nell’anticamera; eccomi, a precipizio, per le scale; eccomi nella strada. Rallento il passo, mi avvio verso un giardino pubblico che si trova non lontano dalla nostra casa.
C’è un grande prato in cui giocano alcuni bambini e tante panchine intorno. Ne scelgo una vuota, seggo, cerco di riflettere. Ma gli schiaffi sono stati così violenti che non ce la faccio a restare calma; e così, mio malgrado, comincio a piangere. Passa gente; mi vergogno di essere vista che piango; sulla panchina qualcuno ha lasciato un giornale; lo prendo e fingo di assorbirmi nella lettura. Le lagrime mi cadono dagli occhi sul foglio, mi imbrogliano la vista.
Poi, pian piano, le lagrime rallentano; e ci vedo meglio. Allora, tutto ad un tratto, ecco, proprio nella prima pagina del giornale, ancora velata dal pianto ma riconoscibile, vedo la fotografia di un uomo che mi sembra di conoscere. Riguardo, e mi convinco: è lui, è proprio la sua faccia, la faccia di colui che dentro di me, quando l’ho sposato, ho battezzato col nomignolo poco lusinghiero di “primo venuto”.
Spiego il giornale; vedo che due colonne sono dedicate a lui; d’improvviso ricordo che gli ho gridato che né io né lui saremmo mai venuti fuori sui giornali. Ma vediamo di che si tratta.
Prendo a leggere, non credo ai miei occhi. In quelle due colonne c’è tutto, proprio tutto quello che non ho mai saputo di lui e che lui finora mi ha nascosto: rapine, omicidi, associazione a delinquere, droga, prostituzione. Già, anche prostituzione. C’è pure una sua intervista con un giornalista, in cui, naturalmente, nega tutto. Con una dichiarazione finale in cui lo riconosco: “Ma lei vuol scherzare. Io non so nulla di nulla. Io sono un padre di famiglia.”
Adesso capisco perché questa mattina è apparso così sconcertato e disfatto, con quei giornali penzolanti dalla mano. Per la prima volta, stava sui giornali; si sentiva, come si dice, smascherato di fronte al mondo e, soprattutto, a me. E dire che gli ho gridato in faccia che il mio tipo d’uomo ideale era il gangster. Eccomi servita.
C’è stato il temporale; ma c’è stato anche il fulmine; e io sono stata colpita in pieno. Incenerita!
E adesso ditemi un poco. Ho sposato un uomo d’ordine della più bell’acqua; e ho scoperto che era un delinquente. Cosa avrei dovuto fare, allora? Sposare un delinquente per poi scoprire che era un’anima bella, un tipo superiore? Oppure, cercare altrove, chissà dove, qualche cosa di nuovo e di sconosciuto che mi faccia evitare questo dilemma che in fondo, lo sento, non c’è? Ahimè, la colpa è mia, ho sbagliato, ma dov’è stato lo sbaglio?