LA VITA ADDOSSO
Schiaffi, pugni, calci. Borgata, fogna, rifiuti. Baracca, letto, seggiole. Madre, padre, sorella. Scuola, grotta, seminterrato. Negozio, banco gioielli. Prigione, prigione, prigione… Avrei potuto dirvi che sono nata e cresciuta in una borgata in cui le fogne stavano allo scoperto e i mucchi dei rifiuti giungevano ai tetti. Che abitavo in una baracca dove c’erano soltanto due seggiole e un grande letto in cui dormivo insieme con mio padre, con mia madre e con mia sorella. Che un giorno invece di andare a scuola, sono scappata con un ragazzo che si chiamava Mauro e abbiamo fatto l’amore in una grotta di tufo e ci siamo visti lì per un anno e poi siamo andati a vivere in un seminterrato. Che dopo aver tirato avanti con scippi e furtarelli, abbiamo tentato un colpo in un negozio di orefice ma è andato male. Mauro è scappato e io sono finita dentro… Avrei potuto raccontarvi la mia vita in questo modo; ma ho preferito dirvela con parole nude, tutte cose e fatti, per darvi il senso di una vita appunto come la mia, che mi è sempre stata, per così dire, addosso, come stanno addosso in un tram gli altri passeggeri e si vorrebbe uscire per respirare e non si può. E pazienza se fossi stata una di quelle donne che la vita l’aggrediscono e sono loro a stare addosso alla vita e a non lasciarla vivere. Ma io sono, purtroppo, come scorticata viva: timida, apprensiva, tutto mi offende, mi ferisce, mi fa male.
Sono uscita dalla prigione dopo quasi quattro anni e ho subito ritrovato Mauro che era ormai l’uomo a cui volevo bene. Ci siamo rimessi insieme e, forse per vendicarci, abbiamo ritentato il colpo nello stesso negozio di orefice, questa volta cercando di forzare di notte la serranda. Ma è andata male di nuovo, la polizia è arrivata, io sono scappata e Mauro è finito dentro. L’hanno condannato; e io allora, in attesa che uscisse mi sono presentata come cameriera in una famiglia che aveva messo l’annunzio sul giornale.
Questa famiglia era composta di moglie e marito e, strano a dirsi, era una coppia molto simile alla nostra, di me e di Mauro. Come Mauro, il marito era molto bruno, con la faccia rossa, non tanto alto, robusto; come me, la moglie era una biondina dal viso delicato ma con un corpo poco in accordo col viso, ridondante e formoso. Però la somiglianza si fermava qui. Il marito era un professore e la moglie traduceva da una lingua straniera; mentre Mauro e io eravamo praticamente analfabeti. E poi i libri! Nel loro appartamento, in cima ad un palazzo antico, i libri cominciavano nell’ingresso, tappezzavano il salotto, continuavano nel corridoio, invadevano la camera da letto, si allineavano persino nel bagno, persino in cucina. La vera differenza tra Mauro e me e questa coppia era in questi libri e nelle parole da libro che quei due adoperavano parlando tra di loro e con i loro amici. Parole, come ho notato subito, che invece di avvicinare le cose, di confondersi con le cose, le allontanavano, le annullavano. La vita, insomma, non stava addosso a quei due come a Mauro e a me, perché loro tenevano a distanza tutte le cose di cui è fatta, con le parole che si scambiavano e quelle che leggevano nei libri, tutte parole che erano prima di tutto parole e poi, magari, qualche volta, anche cose. Sì, loro si difendevano dalle offese della vita con le parole, come si difendevano dalla pioggia e dal vento con le grosse mura del loro palazzo. Ma Mauro ed io stavamo allo scoperto; e quando parlavamo, parlavamo soltanto di cose. Quanto ai libri, come si fa a leggerli se non si crede, come quei miei padroni, che le parole non sono cose?
Finalmente Mauro è uscito di prigione; e io ho lasciato quella coppia così somigliante e così diversa da noi e sono andata a vivere con lui in una palazzina vecchia e scalcinata, coi balconi tondi fatti come la poppa delle navi, sotto il terrapieno della ferrovia. Adesso Mauro stava con un gruppo di ladri che aveva conosciuto in prigione e si dava da fare con loro; e io dovevo restare a casa a far la guardia alla refurtiva, cucinare per loro, essere sempre pronta, insomma, a servirli. Le giornate erano lunghe, stavo per lo più distesa sul letto, ascoltando il fracasso dei treni che passavano. Sotto il letto c’era una valigia in cui Mauro via via chiudeva le cose più preziose che aveva rubato e da questa valigia si vede che venivano su su fino a me, attraverso il materasso, come dei vapori inebrianti perché non facevo che fantasticare. Praticamente, nelle mie fantasie, immaginavo sempre, più o meno, le stesse cose: Mauro ed io seduti davanti un tavolo pieno di libri, in una casa piena di libri. Calmi, sereni, tranquilli, distesi, parlavamo. Oh quanto parlavamo! E la nostra serenità, lo capivo, veniva dalle parole che dicevamo, tutte vaghe, indirette imprecise, prive di peso, fatte di nulla. Parole, parole, parole. Alla fine, dietro i vetri del finestrone presso il quale stavamo seduti, si accendeva l’incendio del tramonto. Il salotto affondava nel buio. E noi, sereni, distanti, tranquilli, continuavamo a parlare.
Una di quelle sere, Mauro è rientrato di corsa, tutto trafelato, con la faccia di chi è stravolto al tempo stesso da una gran gioia e da una gran paura. Mi ha mostrato due borse di similpelle, piene gonfie, e ha detto che dentro quelle borse c’era abbastanza per vivere tranquilli il resto dei nostri giorni. Tranquilli! Ho pensato ai miei sogni pieni di parole e ho chiesto cosa c’era nelle borse.
Il cuore mi ha dato un tuffo sentendolo rispondere che c’erano preziosi or ora rapinati ad un commerciante: gli orefici, lo ricorderete, ci avevano sempre portato sfortuna. Mauro ha poi spiegato che questa volta, però, lui non aveva voluto dividere con gli altri; si sarebbe tenuto tutto per sé. Ma gli altri l’avevano capito e l’avrebbero cercato e così ci conveniva scappare più che in fretta. Dove? Mauro mi ha mostrato due biglietti di aereo: saremmo andati all’estero. Intanto, però, io dovevo nascondermi addosso le due borse e andare ad aspettarlo in un certo bar, poco lontano. Lui, poi, sarebbe passato a prelevarmi.
Di questa spiegazione non ho trattenuto che una cosa sola:
il fatto che dovevo nascondermi le borse addosso. Ho preso ad accennare pian piano di no, col capo, arretrando verso il letto. Già imbestialito, lui mi ha chiesto: “Ma si può sapere che hai?”
“Ho che non voglio mettermi niente addosso.”
“Cosa?”
“Non guardarmi così: mi fai paura.”
“Cosa? ”
Non ha aspettato la mia risposta, mi ha acciuffato per i capelli, mi ha sbattuto sul letto. Allora, mentre lottavo contro di lui che ora mi schiaffeggiava e ora mi spogliava, ho pensato che la vita ora l’avevo proprio addosso, senza pietà. Sì, era la vita e non Mauro che mi strappava la camicetta e la gonna, mi afferrava alla gola, mi dava prima un ceffone e poi un altro, quindi mi prendeva per un braccio e, nuda com’ero, mi tirava in mezzo alla stanza e mi assestava addosso le borse, una sotto la pancia e una sul petto, come si assestano i finimenti ad una mula recalcitrante. Mauro mi ha aiutato a rivestirmi, poi mi ha spinto fuori casa dicendomi: “Cammina dritta, senza fermarti, fino al bar e aspettami là.” Ho preso a scendere la scala a testa bassa; le guance mi bruciavano ancora per gli schiaffi; le borse mi pesavano, l’una sulle gambe e l’altra sul seno, come se fossero state di piombo; e io mi dicevo che la vita non mi aveva mai tanto oppresso come in quel momento. Ma alla seconda rampa, in un punto in ombra, due uomini mi hanno preso d’improvviso sottobraccio. Due altri si sono slanciati su per le scale, in direzione del nostro appartamento.
Ho chiuso gli occhi, ho aspettato. I due che mi tenevano, parlavano; ma io non li sentivo perché tendevo l’orecchio ad un altro rumore: l’urlo che può fare un uomo quando l’ammazzano. Invece non ho sentito nulla; e l’attesa si è prolungata. Finalmente c’è stato un rumore di passi, gli altri due erano tornati. Tenevo sempre gli occhi chiusi. Ho sentito una voce che diceva: “Però, in qualche posto hanno da essere. Vediamo un po’ cosa ci dice questa. Andiamo.”
Siamo discesi, quei due mi stringevano sempre sottobraccio e le borse mi sbattevano più che mai sul petto e sulle gambe. Una macchina ci aspettava davanti al portone, mi hanno fatta salire e ho capito dai discorsi, che mi portavano in qualche luogo in cui, con le buone o con le cattive, mi avrebbero fatto dire dove erano i preziosi. Allora, con un filo di voce, ho pronunziato: “Le due borse le ho addosso.”
La macchina ha subito sterzato come se avesse avuto orecchie e l’avesse fatto da sé. Ci siamo fermati, doveva essere in campagna, a giudicare dal buio. In quattro, come cani su un cervo moribondo, mi sono saltati addosso. Con mani frenetiche mi hanno strappato la camicetta, mi hanno rivoltato la gonna, mi hanno quasi strangolato tirando via la borsa che avevo sul petto e quasi segato il ventre strappando quella che avevo in grembo. Li ho lasciati fare, con gli occhi chiusi sapevo di certo che Mauro era morto e speravo che ammazzassero anche me. Uno voleva ammazzarmi; ma un altro ha risposto che sarebbe stato un peccato, ero giovane e piacente e potevo rendere molto e lui se la sentiva di farmi lavorare. Così ho capito che invece di ammazzarmi, mi avrebbero avviata a quel mestiere che, finché Mauro era vivo, non avevo mai voluto fare per nessuna ragione. Mi hanno gettato in faccia camicetta e gonna, la macchina è ripartita, mi sono rivestita alla meglio. Poi ho chiuso di nuovo gli occhi e ho pensato che ormai non avrei più potuto neppure dire che la vita mi stava addosso. Ridotta al corpo che non mi apparteneva più e presto sarebbe stato messo in vendita, io sarei stata d’ora in poi una sola cosa con la vita e mi sarei, per così dire, oppressa da me. Chi, infatti, è mai riuscito a liberarsi del proprio corpo e, ciononostante, a continuare a vivere?