GIUDITTA A MADRID

Non c’è niente di più squallido che un collant bucato e strappato proprio nella parte più intima del corpo. Mentre spiego al mio ragazzo che è giunto il momento di lasciarci, guardo al mio corpo disteso sul cencioso divano-letto e mi accorgo che il collant, il solo che avessi ancora sano, è ormai da buttar via. La strana aria come di sirena che il collant conferisce al corpo femminile, smussandone le forme e velandone i colori, è compromessa da uno strappo irregolare che parte dal fianco e finisce nell’inguine, scoprendo un bel po’ di pelle bianca, come se la sirena avesse perduto una parte delle scaglie. Intanto allo altro capo del filo, sento la voce di lui che mi chiede, con angoscia, perché voglio che ci lasciamo.

Rispondo subito: “Perché c’è un uomo nuovo nella mia vita”; e quasi quasi sono tentata di aggiungere: “Grazie al quale avrò tutti i collant che voglio e molte altre cose ancora.” Il mio ragazzo allora alza la voce per chiedermi se quest’uomo nuovo lo amo.

Con scrupoloso rispetto della verità rispondo: “Non l’amo, ma gli voglio bene, e poi è ricco e tanto mi basta.” Non l’avessi mai fatto. A questa mia frase sincera, crolla la diga del rispetto, e il fiotto finora contenuto degli insulti mi investe, tumultuoso. Ascolto la voce rabbiosa un po’ distrattamente, allargando con la punta del dito lo strappo del collant, quasi con infantile piacere distruttivo. Ma quando lui mi dice che la battona, ritta in piedi di fronte al suo fuocherello, in un viale suburbano, è cento volte meglio di me, perché almeno non maschera la vendita del proprio corpo con la scusa del voler bene; decido dentro di me freddamente e fermamente, che ne ho abbastanza; e ricorro ad un trucco telefonico già adottato con altri corteggiatori troppo insistenti: fingo che la linea sia caduta, e prendo a gridare: “Pronto, pronto”, come se non sentissi più la voce del mio ragazzo, che invece sento benissimo.

Lui, per un poco, continua a insultarmi; quindi comincia anche lui a gridare: “Pronto, pronto”, convinto che tra di noi non ci sia più comunicazione. Andiamo avanti così, a gridarci l’un l’altro, lui sempre più disperato e io sempre più indifferente: “Pronto, pronto”; quindi, pian piano, con riflessiva spietatezza, riposo il ricevitore e interrompo la telefonata. Auffa! anche questa è fatta. Mi levo dal divano e mi accingo a fare le valigie. L’uomo nuovo della mia vita mi aspetta all’aeroporto. È un uomo d’affari, va in Spagna per una questione di esportazioni, vuole che l’accompagni.

Ma quando comincio a trasportare la roba dai cassetti nella valigia, mi accorgo che il mio guardaroba è più o meno tutto quanto nelle condizioni del collant: reggipetti scoloriti, slip bucati, calze rammendate, camicette strinate, gonne sformate, pantaloni sdruciti: tutti i miei indumenti, quelli di sotto come quelli di sopra, testimoniano gli svantaggi dell’avere un animo orgoglioso e disinteressato. È vero, ho avuto molti amori sinora; ma tutti da brava stracciona onesta e appassionata, che non si cura dell’interesse e pensa soltanto al sentimento. Sarebbe così, ora, la prima volta che al sentimento subentra l’interesse; vita nuova, dunque, anche se, oltre che nuova, disinvolta e cinica. A proposito di disinvoltura, dopo un rapido esame del lagrimevole stato del mio guardaroba, prendo una decisione del tutto in accordo con la situazione: lascerò nel mio quartierino di studentessa povera tutti i miei stracci; indosserò soltanto un soprabito e mi presenterò all’aeroporto, all’uomo nuovo della mia vita, nuda come sono venuta al mondo. Se non è stupido, capirà il significato simbolico della mia nudità. E una volta a Madrid, provvederà a rivestirmi dalla testa ai piedi.

Così, poche ore dopo, mentre l’aeroplano si avvia barcollando verso la pista, dico al mio compagno seduto accanto a me: “Sono venuta non soltanto senza valigia ma anche senza vestiti: guarda” e, noncurante del suo gesto di scandalo, apro il soprabito affinché possa vedere che non ho niente addosso, proprio niente. Soggiungo: “A Madrid, mi comprerai quello che mi serve, no?” E lui: “Compreremo tutto.” Nello stesso tempo mi prende la mano perché è affettuoso, molto, ed esige che lo sia anch’io. Ci stringiamo le mani; poi l’aeroplano, con spinta potente, si slancia in avanti, corre per un breve tratto, si stacca dal suolo e si leva, obliquo, verso le nuvole.

A Madrid, scendiamo in un albergo di lusso; quindi passiamo tutto il pomeriggio del primo giorno andando da un negozio all’altro per ricostituire il mio guardaroba. È come giocare con una di quelle bambole moderne, che si vendono nude coi vestiti a parte, e le bambine si divertono a rivestirle, cominciando dallo slip fino alla camicetta e alla gonna. La bambola sono io, nuda sotto il mio soprabito; e rivestirmi per il mio compagno è un gioco erotico perché è innamorato e si diverte a spendere per me e a me fa piacere che si diverta in questo modo. Reggipetto, collant, slip, pantaloni, gonna, camicetta, calze, reggicalze, scarpe, fazzoletti, borsa, guanti, vestaglia e, infine, una grande e leggera valigia da aereo per metterci tutta questa roba: il pomeriggio vola, leggero, allegro, tenero e scherzoso, proprio come se giocassimo ambedue con questa bambola da rivestire dalla testa ai piedi che è il mio corpo.

Ogni tanto, per strada, lui si ferma, mi apre il soprabito e dice: “Vediamo, vediamo un po’ cosa manca ancora”; e io non posso fare a meno di scoppiare a ridere, felice. Alla fine, torniamo all’albergo stanchi e contenti, con la mia grande valigia piena di roba nuova. Il mio compagno se ne esce per i suoi affari; e io, una volta sola, mi lascio andare ad un ingenuo compiacimento per il lusso nel quale mi trovo immersa per la prima volta nella mia vita. Com’è dolce e soffice, sotto i piedi, la moquette della camera! Come sono lusinghieri i tanti specchi che nell’ombra si rimandano la mia immagine! Come sono lievi, fresche, lisce le lenzuola tra le quali, alla fine, mi lascio scivolare con delizia per un breve riposo! Sì, decisamente l’uomo che non amo ma a cui voglio bene, sta guadagnando sempre più terreno. Certo, se tra di noi le cose continueranno in questo modo, finirò per amarlo davvero.

Il giorno dopo lui ha di nuovo i suoi affari; e allora, trovandomi sola, me ne vado a visitare il museo del Prado. Non che la pittura mi interessi molto ma, infine, una volta vestita e, aggiungo, molto ben vestita, cosa può fare una donna sola, bella ed elegante, in una città straniera in cui non conosce nessuno, se non andare a visitare un museo? Eccomi, dunque, girare per il Prado, di sala in sala, lasciando errare lo sguardo sui capolavori della pittura. Penso che dovrei fermarmi di fronte ad un quadro ed esaminarlo con cura; ma, in qualche modo, mi sento come distratta e lontana. Poi, d’improvviso, ecco, mi fermo, affascinata. È un grande quadro che rappresenta un soggetto famoso: L’uccisione di Oloferne per mano di Giuditta. Ma non è il soggetto ad affascinarmi; bensì la straordinaria somiglianza tra me e Giuditta. Stessa persona robusta e quasi atletica; stesso seno formoso; stessa schiena vigorosa; stessi fianchi capaci; stessa nuca delicata; stessa testa piccola; stesso viso dagli occhi grandi, neri e limpidi, dal naso profilato, dalla bocca rossa e carnosa come una ciliegia.

Sono io, non c’è dubbio, sono proprio io; e quello che faccio misteriosamente mi si addice. Cosa faccio? Levo in alto la testa di Oloferne, sanguinosa, dai capelli penzolanti e dalle palpebre basse, or ora spiccata dal busto che, infatti, mi giace davanti, decapitato. Perché poi questo gesto terribile mi si addice, proprio non lo so. Ci penso un poco, quindi non venendo a capo di nulla, esco dal museo, torno all’albergo.

Ci trovo il mio compagno; e così andiamo insieme a visitare l’Escuriale, non lontano da Madrid. Durante la visita e poi al ristorante del luogo dove mangiamo, lui si dimostra affettuosissimo e innamoratissimo. All’Escuriale, durante la visita all’appartamento privato di Filippo II, noncurante del fatto che la piccola camera si affaccia sull’abisso grigio e gelato della chiesa, vuole abbracciarmi a tutti i costi; al ristorante mangia con una mano sola, con l’altra mi stringe la mia, ficcando le sue dita tra le mie, quasi a suggerire analogo abbraccio dei nostri corpi. Tanta passione, lo sento, comincia a farmi effetto. E se mi risolvessi ad amarlo? Non sono un puro spirito; sono una persona fatta di carne e ossa; il desiderio di un uomo e tutte le cose che stanno a testimoniare il desiderio medesimo, cioè i regali, il lusso, la roba nuova e, insomma, il denaro, già proprio il semplice, brutale denaro in biglietti di banca, in monete spicciole, tutto questo non mi lascia indifferente. Chi ha detto che l’amore è un sentimento puro e disinteressato? Chi l’ha detto non conosceva l’amore che è, in realtà, una pianta dai fiori belli e profumati e dalle radici affondate nel concime.

La sera andiamo in un locale caratteristico e ci sediamo ad un tavolo per bere il vino e guardare le danze folcloristiche. Il mio compagno non fa che mormorarmi frasi appassionate e io non posso negare che ogni tanto gli rivolgo uno sguardo più o meno infiammato. Lui, naturalmente, vede la fiamma nel mio sguardo e raddoppia di attenzioni e di passione. Su un piccolo palco, a poca distanza da noi, una donna in mantiglia balla il flamenco; e io allora eccitata da quell’esaltante scoppiettìo di nacchere e battere di tacchi della danza, tutto ad un tratto, cedendo a non so quale impulso, gli metto la bocca all’orecchio, e gli mormoro con voce calda e vibrante: “Ti adoro.” E lui, di rimando: “Anch’io.”

È molto tardi quando rientriamo all’albergo, e, allacciati, come due ragazzi, attraversiamo l’atrio sotto gli occhi impassibili del portiere di notte. In camera facciamo l’amore e quindi ci addormentiamo così come siamo, nudi ambedue. Dormo forse un paio d’ore e poi mi sveglio di soprassalto. Il buio mi circonda, sono tutta nuda, mi rendo conto che sto inginocchiata sul letto e che stringo in pugno un lungo e acuminato coltello da caccia che abbiamo comprato il giorno prima durante le nostre scorribande per i negozi. Mi sento tutta tesa e convulsa; proprio lo stato d’animo di chi sta per commettere un delitto. Spaventata, frenetica, cerco e trovo la lampada sul tavolino da notte, l’accendo e vedo con orrore che la punta del coltello è rivolta verso la schiena nuda del mio compagno il quale, per la posizione reclinata, dà l’impressione di essere senza testa. D’improvviso, ecco, mi torna il ricordo del quadro al Prado, in cui si vede Giuditta che sorge, vendicativa, accanto al busto decapitato di Oloferne. Automaticamente, getto il coltello, infilo il soprabito esco in punta di piedi dalla camera.

Scendo giù nell’atrio, corro a chiudermi nella cabina del telefono, formo il numero del mio ex ragazzo, a Roma. Allora mi avviene qualche cosa di sinistro. Al telefono, quasi subito, sento la voce di lui che dice: “Pronto”; mi affretto a rispondere: “Sono io, ti sto telefonando da Madrid, pronto pronto”; ma lui, sia vendetta, sia guasto del telefono, ecco, come io con lui a Roma, si limita a gridare “pronto, pronto” come se qualche cosa, frapponendosi tra di noi, ci impedisse di comunicare. Andiamo avanti a dirci: “Pronto, pronto” a vicenda, lui con voce tranquilla e io, sempre più disperata; alfine, con un clic, la comunicazione si interrompe davvero. Esco dalla cabina e risalgo alla camera.

Al buio, mi sfilo il soprabito, mi ficco sotto le coperte. Sono Giuditta non ancora assassina che si corica accanto a Oloferne ancora vivo. Penso che, per ora, non mi conviene oltrepassare questa fase iniziale dell’episodio biblico; poi vedremo. Ben presto, mi addormento.

Da qualche tempo mio marito si direbbe che scompone la mia persona in due parti ben distinte, l’una irritante, superflua, negativa; l’altra lusinghiera, necessaria, positiva. Non ci ho messo molto a capire che la prima comincia dal collo in su, e la seconda dal collo in giù. Quando parlo, mio marito mi interrompe, mi becca, mi rifa il verso, mi dà della cretina. Quando invece sto distesa sul letto o cammino davanti a lui senza parlare, il suo sguardo si sofferma sul mio corpo con una strana approvazione tutta mischiata di rammarico. Questo suo atteggiamento, naturalmente, provoca in me un’analoga tendenza dissociativa. Sempre più, mentre parlo, le idee mi si confondono, la parola mi si fa timida, incerta, imbrogliata; sento che tutto il tempo mio marito pensa: “Ma che cretina! Si può essere più cretina di così.” Al contrario, sempre più, quando sto distesa o cammino e lui mi guarda mi viene fatto di mettermi in posa, come per farmi osservare e vagheggiare meglio. E tutto il tempo sento che mio marito pensa: “Ma guarda un po’ che corpo splendido ha da avere questa cretina di mia moglie! ”

Per capire il contegno di mio marito, bisogna sapere che è un produttore cinematografico di quelli, come si dice, venuti su dalla gavetta, del tutto privo di ambizioni artistiche, specializzato in film di consumo del genere, per lo più, scollacciato. Anzi, è proprio in occasione di uno di questi film che io, diva molto nota del cinema erotico, l’ho conosciuto. Si è innamorato di me; lo vedevo com’era, piuttosto volgare in verità, ma buono e affettuoso; alla fine, forse soprattutto perché ha insistito tanto, l’ho sposato. Ma dopo il matrimonio, stanca di esibire sullo schermo, in primi piani giganteschi, le forme provocanti del mio celebre corpo, gli ho posto, brutalmente, l’aut-aut: o mi dava una parte di protagonista in un film serio, d’arte; oppure preferivo starmene a casa, far la moglie. Lì per lì, mi ha promesso tutto quello che volevo. Ma poi, sbollita la passione, ha visibilmente ricominciato a pensare a me come protagonista di un film erotico, dei suoi soliti. Non me lo diceva, non ne aveva il coraggio; ma me lo lasciava capire con quel suo modo di guardarmi, di cui ho già detto, tra l’ammirazione e il rimpianto.

Il rammarico ammirativo di mio marito si è accentuato da ultimo, poiché un film su cui lui puntava in maniera particolare, ha fatto un tonfo definitivo fin dalla prima sera. Mio marito, adesso, era diventato intrattabile, sempre, si sarebbe detto, sul punto di esplodere in incontrollati e ciechi furori. E i suoi sguardi, tra il disappunto e il compiacimento, si erano fatti ormai così frequenti e così pesanti, da ispirarmi una imbarazzante consapevolezza del mio corpo, di modo che, continuamente, mi avveniva di pensare: “Il mio seno destro che fa? Esplode fuori della camicetta oppure se ne sta buono buono, chiuso dentro la coppa del reggiseno? E il mio ventre sporge nudo fuori dei pantaloni, oppure si nasconde, calmo e serio, con la cintura al di sopra dell’ombelico? E che cosa avviene alla mia natica destra? Si alza, si abbassa, ruota più della sinistra?”

Una di quelle sere, mentre stavamo tutti e due, soli, nel nostro soggiorno, seduti lui da una parte e io dall’altra sul divano, di fronte alla televisione, d’improvviso, spinta da un impulso irresistibile, mi sono levata di scatto, noncurante di cosa facessero il mio seno destro, il mio ventre e la mia natica sinistra, e mi sono slanciata a spegnere il video. Quindi sono tornata a sedere e ho affrontato mio marito: “Di’ un po’ il tuo ultimo film sta andando male sul serio, no?”

Ha subito ringhiato: “Non dire scemenze. Va benissimo. È un grande successo!”

“Ma se in prima visione non è durato neppure una settimana! ”

“Sei la solita cretina. Non lo sai che le sale hanno i loro impegni? Ma vedrai, poi, nelle seconde visioni, come si riprende.”

“I critici hanno detto che è un film non soltanto brutto e volgare ma anche noiosissimo. Si direbbe che almeno questa volta i critici hanno ragione.”

“I critici non capiscono niente. Quello è un film che farà un mucchio di soldi.”

Siamo rimasti zitti tutti e due guardandoci, come due duellanti prima dell’assalto. Poi ho fatto la prima mossa: “Io sono tua moglie e ti voglio bene e mi dispiace vederti cosi nervoso, così infelice. Adesso rispondimi con sincerità. Se ti dicessi: va bene, per amor tuo rinunzio al film serio, d’autore, accetto di essere la protagonista più o meno spogliata di uno di quei film erotici nei quali ho riportato, o meglio il mio corpo, o ancor meglio i miei seni, il mio ventre, il mio sedere hanno riportato tanto successo, tu che diresti?”

Ci credereste? Benché grasso e corto di fiato, si è gettato in terra davanti a me, mi ha preso un piede, ha tolto la scarpa si è chinato a baciarmi le dita e poi ha gridato: “Evviva, evviva, evviva: riconosco finalmente, la mia cara, la mia carissima Lucilla.”

Così era proprio vero! Nella sua testa c’era una sola speranza, ormai: farmi tornare all’esibizionismo che mi aveva reso famosa. E quello sguardo misto di compiacimento e di dispetto che mi rivolgeva sempre più spesso, era quello dell’uomo d’affari che vede il suo “capitale” restare inutilizzato e infruttifero. Ho fatto scattare il piede che lui, come un pazzo, andava tempestando di baci; il calcio l’ha preso in piena faccia; quindi mi sono levata in tutta la mia imponenza e gli ho sibilato: “Tu da qualche tempo mi guardi come, al tempo della schiavitù, un mercante di carne umana guardava una schiava di sua proprietà calcolando a quale prezzo gli conveniva metterla in vendita. Ebbene, no. Non mi metterai in vendita né oggi né domani, né mai. Con grande tua rabbia e costernazione, questi seni cascheranno giù, diventeranno due tasche grinzose, questo ventre si sformerà come una vecchia borsa della spesa, questi fianchi si allargheranno come quelli di un barcone da carico, senza che tu possa ricavarne un solo fotogramma. E adesso ti dico addio.”

Era caduto indietro e mi guardava, toccandosi la bocca con le dita, dove l’avevo colpito col piede. Poi ho visto le due labbra formare la parola “cretina”; e l’ho prevenuto, gridando: No, non sono cretina, ricordati e mettiti bene in testa questo:

non sono cretina, proprio per niente e presto, molto presto te

lo proverò.“ Dette queste parole, gli ho voltato la schiena e sono uscita con impeto, quasi di corsa. Ma come si muove male, in maniera insieme goffa e provocante, una donna come me quando non controlla al millimetro gli spostamenti del corpo!

La frase di sfida a mio marito non era casuale né improvvisata. Da qualche tempo mi sentivo più sicura di me perché un paio di mesi prima, Gildo, il direttore di una casa di produzione rivale di quella di mio marito, mi aveva fatto una proposta di lavoro secondo il mio gusto. “Un film d’arte? un film d’autore?”, aveva esclamato quel giovanotto colto, civile, moderno e aggiornato, togliendosi gli occhiali e fissandomi con occhi di espressione intensa, quasi a frugare dentro i miei e a creare con me, fin da principio, un rapporto umano, intimo e complice. “Ma mia cara Lucilla, io per lei non posso immaginare che un film d’arte, che un film d’autore, soltanto quello, lei ci pensi su, prenda il suo tempo. Il giorno che si è decisa, venga a trovarmi qui in ufficio. E se la decisione gli vien fatto di prenderla fuori delle ore di lavoro, venga pure a casa mia. A qualsiasi ora. Sarò là ad aspettarla.”

Avevo accettato, come si dice, in linea di massima; ma sapevo in cuor mio che avevo bisogno di un pretesto per abbandonare mio marito il quale, di certo, non avrebbe sopportato che io tornassi sullo schermo in una produzione diversa dalla sua. Adesso il pretesto mio marito me l’aveva dato e io, così com’ero, in pantaloni e maglietta, sono passata nell’anticamera e quindi sono discesa nella strada. Gildo abitava a non grande distanza da noi; ho fatto a piedi due o tre di quelle straducce solitarie ed eleganti del mio quartiere, lungo le file di macchine fittamente parcheggiate presso i marciapiedi deserti. Correvo; e tutto il tempo sentivo che mi dimenavo scompostamente con il corpo; e maledicevo mio marito che mi aveva fatto venire questa consapevolezza; e mi dicevo che tutta questa vergogna stava per finire e io avrei esordito in un film degno di me e mi sarei dimenticata del corpo, definitivamente. Ecco

il portone, ecco il campanello, ecco la grata. Alla sua voce bene educata che chiedeva chi era, ho risposto tutto di un fiato: “Sono Lucilla, aprimi, sono scappata di casa, ho lasciato mio marito, debbo parlarti.” Che c’era tra me e Gildo perché mi annunziassi in questo modo? Nulla, a dire il vero, nulla all’infuori

di quella sua promessa di farmi interpretare un film serio. Cioè tutto, poiché la speranza di esprimermi era, ormai, tutto per me.

Il portone si apre con un ronzio discreto molto rassomigliante alla sua voce; entro, salgo di corsa pur sempre dimenandomi con tutto il mio corpo scatenato e violento; non aspetto che il respiro si calmi, suono; come Gildo appare, mi getto singhiozzando nelle sue braccia. Avete mai avuto l’impressione di imporre a qualcuno una parte per la quale non era preparato? Così Gildo. Mentre, stringendomi affettuosamente, chiudeva la porta e mi guidava verso il soggiorno, ho sentito ad un tratto con lucidità che lui, questa parte di amante non si sentiva di assumerla. La sua mano mi sfiorava appena la spalla; il suo corpo si inarcava in fuori in modo da non toccare il mio; il suo mento mi premeva il capo come per impedirmi di risalire con la mia bocca verso la sua. Mi ha pilotato fino a un divano; poi è andato a sedersi di fronte a me, a grande distanza. Ho smesso, allora, improvvisamente, di piangere e gli ho detto: “Scusami, non avviene mica tutti i giorni di abbandonare il proprio marito.”

Ha risposto, togliendosi gli occhiali e fissandomi con quei suoi occhi magnetici: “Fai pure. Io ti capisco e rispetto il tuo dolore.”

L’ho guardato a questo punto con un’attenzione nuova, per vedere cos’era che non andava in lui, oltre alla voce troppo bene educata. E allora ho capito. Gli occhi belli, scuri, fondi, sempre inalterabilmente fissi e intensi, come quelli di un ipnotizzatore, formavano un contrasto sgradevole con il naso e con la bocca, il primo un po’ storto e schiacciato, la seconda informe anche se tumida. Per modo di dire, con quegli occhi, ci era nato; invece il naso e la bocca, veniva fatto di pensare che glieli avessero plasmati, alla meglio, come a chi è stato vittima di qualche grave incidente. Gildo mi ha sorriso e poi ha ripreso: “Adesso io ti dirò come ti vedo nel film che interpreterai per noi. Sta a sentirmi bene, perché non c’è nulla di scritto, nulla di definito. Semplicemente ti vedo, come ti vedrei sullo schermo, a film ultimato, seduto in poltrona nella sala della produzione.”

È stato zitto un momento quindi ha incominciato: “Vedo una donna bellissima tormentata da un dramma tipicamente esistenziale. Questa donna ha una mente, ha un’anima; ma tutti si ostinano a non dare importanza che al suo corpo. E allora lei, per vendicarsi, decide di essere come tutti la vogliono, nient’altro che uno stupendo, meraviglioso, affascinante pezzo di carne. Sempre per vendicarsi, strafa, eccede, si comporta, a dirla in breve, come una ninfomane. La vedo andare con un uomo, subito dopo con un altro, e poi un altro e un altro e un altro. La vedo scatenarsi tra tutti questi amanti; il suo corpo è infaticabile; la sua nudità non perdona. La vedo salire scale, entrare in stanze, gettarsi su letti, passeggiare per appartamenti, affacciarsi a finestre, uscire su balconi. E questo pur sempre vestita della sola sua bellezza, in una continua esibizione del corpo. Ma, attenzione, ancora una volta. Questa donna non si comporta così perché le fa piacere; tutto questo lei soffre a farlo, e lo fa soltanto per vendicarsi dell’incomprensione degli uomini. Come a dire: avete voluto che fossi un corpo e basta. Benissimo. Sarò come mi volete. Anzi sarò un supercorpo. Che ne dici? Il titolo del film potrebbe appunto essere: ‘Il supercorpo’.”

Avevo avuto tutto il tempo di preparare la mia risposta perché lui aveva parlato con lentezza, quasi al ritmo dell’immaginario film in cui affermava di vedermi. Così ho risposto, spedita: “Ti dirò a mia volta cosa vedo. Vedo un furbastro di direttore di produzione che, ben sapendo che il mio nudo rende, vuol farmi fare, con la scusa del dramma esistenziale, uno dei soliti film erotici, di consumo. Vedo questo stesso furbastro recitare la sua filastrocca pensando che sono una cretina e che lui può portarmi quanto vuole per il naso. Vedo, infine, questa stessa cretina fargli marameo e tornarsene dal marito che, almeno lui, non sa nulla di drammi esistenziali e tira soltanto a fare i soldi.”

Così me ne sono andata, sono tornata a casa, a dormire accanto al mio mercante di carne umana. Da quella notte ho rinunziato al film serio. Ma mio marito, dal canto suo, non mi ha mai più chiesto di tornare al cinema.