Domenica
Ci siamo separati all’alba. Una stretta di mano, calorosa, riconoscente, da una parte e dall’altra, ma senza pensare di rivederci. E senza la domanda che mi aspettavo: cosa avevo intenzione di fare degli appunti che avevo accumulato, sei taccuini di scritte frettolose. Avrei risposto che non ne sapevo ancora nulla – come potevo immaginare che la sua storia avrebbe dormito vent’anni in una camicia? Ma lui non mi ha chiesto niente. Credo che avesse preso l’abitudine di versare la sua vita sulla strada che aveva davanti senza mai fermarsi a raccoglierla.
Avrà notato che l’ultimo sguardo che ho posato su di lui era carico d’inquietudine? Avrà sospettato ciò che tramavo? Credo che fosse già troppo preso dal suo appuntamento per prestarmi ancora la minima attenzione supplementare. Mi ero trovato sulla sua strada un giorno in cui le ore si stiracchiavano. Avevo riempito un vuoto e forse appagato una sua segreta volontà di consegnare la sua esistenza alla carta. Adesso desiderava che mi allontanassi. Ho lasciato la sua camera d’albergo.
Di quanto stavo per fare non ero né fiero né vergognoso. Dovevo farlo, ecco tutto. Qualche minuto prima di mezzogiorno sono andato al suo appuntamento. Non sul Lungosenna dell’Orologio, ma là di fronte, sull’altra riva del fiume, a sedermi al primo piano di un caffè. Come avrei potuto fare diversamente? Era l’inevitabile conclusione delle giornate precedenti. M’interessava sapere se quella donna esisteva, che tipo era, se sarebbe venuta all’appuntamento e come sarebbe stato il loro incontro dopo ventotto anni.
Non ero né fiero né vergognoso, dicevo? Invece sì, una cosa di cui almeno un poco mi vergognavo c’era: mi ero portato il binocolo. Era necessario. Non so cosa dicano le guide sulla larghezza del fiume in quel punto, ma avevo passeggiato sui suoi argini abbastanza spesso da sapere che non è facile vedere da una riva all’altra. A riconoscere un uomo che cammina su e giù, sapendo che deve essere là, se si riesce a distinguerne la sagoma, la testa canuta, il collo proteso, si può ancora riuscire. Ma poterne osservare il volto, gli occhi impazienti, il polso che ruota in continuazione, scoprire che tiene in mano quello che sembra un mazzolino di mughetti tardivi…
Il mio orologio segna mezzogiorno e mi sento non poco in ansia. Se lei viene, ricomincerà una vita. Sono trascorsi molti anni, ma il tempo è un’illusione. Il passato, ore e giorni e settimane e decenni, ha lo spessore della cenere; il tempo a venire, dovesse anche andare fino all’eternità, si vive un secondo dopo l’altro. Basta che Clara venga, e la loro storia, dopo un piccolo intralcio, ripartirà per la sua strada. Ma se non veniva? Era quell’eventualità ad angosciarmi. Ossyan non viveva più che per quell’appuntamento, ma si sarà chiesto che cosa avrebbe fatto se, all’ora indicata, lei non fosse arrivata?
Cominciavo ad avere dei dubbi sui veri motivi che lo avevano indotto a scegliere quel posto per l’appuntamento. Quella ringhiera, quel ponte così vicino, quel fiume che nei secoli ha raccolto tanti giuramenti disperati…
Il mio orologio segna mezzogiorno e tre minuti. Ogni volta che alzo il binocolo per guardare attraverso la vetrata, la giovane coppia del tavolo accanto si scambia dei bisbigli disgustati. Non so che cosa immaginino. Quello che faccio non li riguarda, ma mi mettono a disagio. Laggiù il mio uomo si agita. In ogni caso questa è l’impressione che mi dà da lontano, ha girato due o tre volte su se stesso, si è appena affacciato sul fiume, dove passa una chiatta. Alcuni turisti, sul ponte, fanno dei cenni, forse diretti a lui. Lui non risponde e si gira dall’altra parte. Non vedo più la sua faccia. Le sue spalle mi sembrano più curve.
Lascio sul tavolino il prezzo del caffè e me ne vado. Camminando in fretta. Forse non sarà contento di vedermi arrivare, forse rinuncerà alla sua calma per dirmi di non impicciarmi più dei fatti suoi… Ciò non toglie che, fino a nuovo ordine, in questa città sono il suo unico amico, o quanto meno l’unica persona che il suo destino non lascia indifferente.
Imboccando il ponte del Change, lancio un’occhiata all’uomo, che è sempre immobile, e un’altra occhiata al mio orologio. Mezzogiorno e nove. Affretto il passo.
Giunto in mezzo al ponte mi immobilizzo. Trattengo il fiato. Davanti a lui c’è una donna. Minuta, coi capelli grigi, un vestito severo ma il volto sorridente e gli occhi già chiusi. Lui, che ha sempre la testa china e la schiena appoggiata alla ringhiera, non l’ha vista. Lei si avvicina. Mormora qualche parola, suppongo. Infatti Ossyan solleva la testa. Anche le sue braccia si sollevano, lentamente, come le ali di un uccello da tempo disavvezzo al volo.
Adesso sono l’uno contro l’altra, appiccicati. Scuotono la testa entrambi nello stesso modo, all’unisono, come per far vergognare il destino che li ha separati.
Si stringono con rabbia. Credo che non si siano ancora detti quasi niente, e che piangano. Mi sento tremare le labbra.
Poi si allontanano un pochino l’uno dall’altra, senza staccarsi. Le loro quattro mani restano intrecciate, ma loro non sorridono più. Clara sembra lanciata in una lunga
spiegazione; Ossyan ascolta, chino in avanti, con la bocca socchiusa. Di cosa starà parlando, Clara? Forse gli parla dell’avvenire, del loro avvenire insieme. Ma può anche darsi che gli stia spiegando, con mille riguardi, perché il loro amore è ancora impossibile.
Ripartiranno tenendosi per mano, o ciascuno per conto suo? Sono tentato di aspettare, vorrei tanto saperlo. Ma no, basta così, bisogna che mi allontani.
Ci sono parecchie coppie di passanti che si sono fermate e li osservano intrigate, intenerite. Io non posso osservarli nello stesso modo. Io non sono un passante.