Venerdì mattina
Sono persuaso che Ossyan era sincero quando cercava di minimizzare le sue imprese. L’idea che lo si potesse prendere per un “dirigente” gli risultava insopportabile, fin dall’infanzia. Allora esagerava in senso opposto, al punto che le sue smentite, troppo veementi, rendevano gli interlocutori perplessi e sospettosi.
Fu questa, in ogni caso, la mia personale reazione. Un bel po’ dopo che ci eravamo lasciati, rileggendo un giorno i miei appunti, mi venne voglia di vedere le cose da più vicino. Me ne andai nel Sud della Francia alla ricerca di coloro, uomini e donne, che avevano vissuto quell’epoca torbida, con le sue organizzazioni partigiane, i suoi rastrellamenti, i suoi sussurri, le sue reti clandestine. Dopo un mese di incontri sorprendenti, di interrogatori ingenui e di accertamenti, avevo raggiunto la convinzione che in effetti c’era stata, in certi ambienti, una leggenda legata al nome di “Baku”, e che il ruolo di quest’ultimo nella Resistenza non era stato, per tutto il tempo, quello di semplice corriere.
Ma era davvero essenziale appurarlo? L’importanza del ruolo non è, dopo tutto, che questione di apprezzamento. Quell’uomo mi aveva consegnato ciò che era la verità per lui. Cioè i fatti con i sentimenti che li accompagnavano. Quando una persona racconta se stessa, l’obiettività non è forse la strada segnalata dalla menzogna?
Mi ripromisi di non cercare più verifiche e di non scavare più. Ma di accontentarmi delle sue parole e del mio ruolo maieutico. Levatrice di verità o levatrice di leggende, che bella differenza! “Dunque eravamo arrivati al momento in cui lei lasciava la Francia per tornare in patria. Suppongo che a Beirut la attendessero…”
Non avevo detto a nessuno su quale nave sarei stato, ma mio padre l’aveva saputo, Dio sa come, e l’aveva fatto sapere a tutta la città. Si erano anche diffuse cento voci intorno alla mia attività nella Resistenza. Si sussurrava anche il mio nome di battaglia, Baku.
Baku, Jacques, Bertrand, i documenti falsi, la guerra, la Resistenza – non avevo ancora ventisette anni, e già una vita trascorsa. Davanti a me, altre vite. Forse.
L’arrivo al porto. La folla assembrata sul molo. I miei occhi umidi al momento di affrontare la passerella. Quella ragazza con i capelli mossi che si avvicina per mettermi al collo una ghirlanda. Mi chino. Le sue braccia nude mi sfiorano le guance. Mi raddrizzo. Voci sconosciute si mescolano dietro di me. Un fotografo mi fa segno di non muovermi, di mantenere il sorriso e di fissare l’obiettivo. Tutti si immobilizzano, trattengono il respiro, per lunghi secondi. Silenzio. Poi lentamente, un gesto dopo l’altro, la scena si rianima, le voci di nuovo si fanno numerose. Applausi, evviva. Ecco mio padre che viene avanti. Sulla testa ha un feltro rosso. Un cappello da festa. La folla si apre per lasciarlo passare. I nostri sguardi si incontrano. Quello sguardo d’attesa che tanto pesava, un tempo, sulle mie spalle, quel giorno mi sembra più leggero. Mi padre si toglie il cappello e mi abbraccia. Mi stringe forte. Applausi di nuovo. Mi allontana da sé, tenendomi per le braccia, mi squadra. Io, nei suoi occhi, leggo improvvisamente qualcosa di diverso dalla gioia attesa, qualcosa di diverso dalla fierezza. Quando di nuovo mi tira a sé, farfuglio una domanda. Lui risponde: “Più tardi, a casa, ti spiegherò tutto.”
Ero inquieto come uno può essere quando di colpo si trova al centro di una gioia intensa e un po’ immeritata. Quella impressione che la disgrazia stia in agguato, come un rivale geloso al primo incrocio. Ma, al di là dei presentimenti, in quella folla mancavano troppo persone.
Di tutta la famiglia, non c’era che mio padre. Gli altri dov’erano? E intanto, mio nonno, il miglior fotografo del paese, che in tutte le occasioni era sempre là, a metterci in fila, a strapazzarci, ad abbagliarci con il suo flash. Per niente al mondo avrebbe voluto perdersi quella foto!
Sì, era intanto questo che turbava la mia gioia, di quella fotografia mancava il fotografo! Salendo sull’auto che mi aspettava, lo cercavo ancora con gli occhi.
“Dov’è il nonno? Non lo vedo.”
“Nubar è partito! ”
Espressione oscura quando è riferita a un uomo di settantanni. Non osavo dire più niente, per paura di sentire le parole che temevo.
Ritardare di qualche secondo la verità, le lacrime…
Allora mio padre ha aggiunto: “Se ne è andato in America, con tua nonna e con lo zio Aram.”
Ero sollevato, quasi contento, come se il nonno me lo avessero restituito; non si sogna mica, dopo la morte di una persona cara, di scoprire a un tratto che tutto quello che si è potuto vedere e udire non era che un incubo? Avevo avuto, per lo spazio di un secondo, quell’impressione di miracolo.
La situazione non si era chiarita. Credevo che Nubar avesse da tempo rinunciato ai suoi progetti di emigrazione.
Ma all’improvviso un’altra preoccupazione.
“E Iffett, dov’è? Non vedo nemmeno lei.”
“Tua sorella è in Egitto. Si è sposata all’inizio della guerra. Non abbiamo potuto avvertirti.”
“Chi è suo marito?”
“Non lo conosci. Mahmud. Figlio di una antica famiglia di Haifa, i Carmali. Lavorava qui in una banca inglese, ma adesso l’hanno trasferito al Cairo. Un bravo ragazzo, nostro genero. Retto e affabile, ma un po’… così.”
Pronunciando queste ultime parole, mio padre aveva fatto un gesto che gli avevo già visto fare qualche altra volta, voltare le palme delle mani e la faccia verso il cielo, poi verso terra, poi di nuovo verso il cielo, due o tre volte di seguito, molto in fretta, come per mimare una prosternazione. Era il suo modo di dire qualcosa come “bigotto”, o “rana da acquasantiera”… Non bisognava prenderlo sempre alla lettera: qualsiasi persona avesse visto mormorare qualcosa sgranando un rosario aveva diritto a quella caricatura da miscredente.
“Mia sorella non è infelice, almeno?”
“No. E’ lei che se l’è scelto, e credo che vadano d’accordo. Non temere per Iffett, sa farsi rispettare. Non è lei a darmi dei fastidi… Parlo di fastidi? Quello che ho dovuto sopportare in questi ultimi anni è stato ben di più che qualche fastidio. Non vorrei guastarti il piacere del ritorno, ma devi sapere: una grave disgrazia si è abbattuta su di noi: solo oggi ho appena avuto il mio primo momento buono dopo quattro anni. Vedrai, la nostra casa sarà ormai brulicante di gente.”
Come l’ho sempre vista, ho sibilato dentro di me, con una specie di irritazione divertita. Quel brulichio, quel va-e-vieni ininterrotto! Non ne conservavo il migliore dei ricordi.
Per mio padre era tutt’altra cosa, perché d’un tratto gli si riempirono gli occhi di lacrime. Le sue mani si stringevano una sull’altra, per la rabbia.
“Da quattro anni, più nessuno entra in casa nostra. Come nella mia infanzia, a Adana. Degli appestati! ”
Ho posato la mano sulle sue, con gli occhi già appannati: ero afflitto ancora prima di sapere quale disgrazia ci aveva colpiti.
“Tuo fratello… Salem… sia maledetto il giorno in cui è nato!”
“Non dire così!”
“Perché non devo dire così! Perché è sangue del mio sangue? E se avessi dentro di me un cancro che mi rode, dovrei amarlo perché carne della mia carne?”
Ho rinunciato a interromperlo. Le mie proteste erano del resto meramente formali, neanche io ho mai avuto un grande affetto per mio fratello.
Prima della guerra, quando ero andato via, Salem non era che un adolescente linfatico e obeso, refrattario agli studi, accidioso e attaccabrighe. Tutti erano convinti che non ne sarebbe mai venuto fuori niente di buono. Che avvenire gli si poteva predire? Avrebbe cominciato col dilapidare la sua parte di eredità, poi, a colpo sicuro, si sarebbe messo a vivere alle spalle di suo fratello, o di sua sorella…
L’avevamo tutti sottostimato. Voglio dire che avevamo sottostimato la sua capacità di nuocere. La guerra, si sa, risveglia in molte persone l’intelligenza e le energie. Qualche volta per il meglio. Ma più spesso, per il peggio.
Negli anni del conflitto, come in ogni parte del mondo, infierivano anche nel nostro paese penurie e razionamenti. E di pari passo il contrabbando, e ogni specie di traffici loschi. Certe persone ci si ficcavano per sopravvivere, altre per arricchirsi. Mio fratello ci si era dedicato anche lui, ma non era né per sopravvivere né per arricchirsi.
Si assentava spesso. Poteva uscire per una porta secondaria in qualsiasi ora del giorno o della notte. La sua camera era, in un certo senso, ai margini della casa. Mio padre non si era accorto di niente. Se mia sorella fosse ancora stata con loro, certamente avrebbe notato che qualche cosa stava accadendo. Forse nemmeno Salem si sarebbe spinto fin dove s’è spinto. Andata via lei, più nessuno gli impediva di seguire la sua inclinazione.
E un giorno è capitato quello che doveva capitare: dei soldati dell’esercito francese sono venuti a prendere posizione intorno alla nostra casa, chiedendo agli occupanti, con l’aiuto di un altoparlante, di non opporre resistenza, e di uscire con le mani in alto.
Era un assalto in piena regola, come si fosse trattato di occupare una posizione nemica. Mio padre non poteva intuire una qualsiasi spiegazione. Urlava dalla finestra di camera sua che c’era sicuramente un malinteso. Poi aveva visto con sgomento che i militari tiravano fuori dal granaio sacchi di iuta, casse, bidoni metallici, scatole di cartone. Ce n’era nell’autorimessa vuota, in un ripostiglio sotto la scala interna, e persino in camera di mio fratello, nel suo armadio e sotto il letto. Quell’individuo aveva fatto di casa nostra un deposito per i contrabbandieri, e mio padre non si era accorto di niente. Salem si era anche arrangiato a sistemare certe mercanzie nello studio fotografico di mio nonno, che, quello stesso giorno, riceveva lo stesso trattamento.
Ciò che rendeva assai più grave la cosa era il fatto che il giorno prima c’era stato uno scontro, a sud della capitale, vicino a una caletta frequentemente utilizzata dai contrabbandieri. Un doganiere era morto, due trafficanti erano stati feriti e catturati, ed era stato interrogandoli, nel corso della notte, che le autorità avevano avuto il nome di mio fratello. Era – bell’onore per la nobile casata dei Ketabdar! – uno dei cervelli della gang. Al momento della sparatoria si trovava sulla riva tra quelli che aspettavano la mercanzia. Quegli stessi avevano sparato sui doganieri, prima di darsi alla fuga. Era stato lui in persona a sparare? L’ha negato, e nessuno ha potuto provarlo. C’erano molti fucili in casa, ma erano ancora nella loro casse, e nessuno era stato utilizzato. L’arma del crimine non è mai stata reperita.
Si sono ritrovati tutti in prigione. Mio fratello, mio padre, mio nonno, mio zio materno Aram, professore di chimica all’Università americana, uno scienziato puro sempre tra le nuvole delle sue formule, e che capiva ancora meno di mio padre cosa gli stesse accadendo. In prigione anche il giardiniere e suo figlio.
“A tuo fratello non è mai mancato niente! Perché ci ha fatto questo?” ripeteva mio padre.
Come spiegargli cosa era mancato a mio fratello? Non avevo avuto anch’io, qualche volta, nella mia adolescenza, l’impressione di essere prigioniero in quella casa, senza speranza di evaderne? Non avevo avuto voglia di demolire tutto, i mobili, i visitatori, i muri? Cosa mi tratteneva? Sapevo di essere amato. Oggetto di una devozione eccessiva, certamente, chi mi incitava ad andarmene più lontano possibile, ma per tornare una volta diventato uomo fatto, sicuro delle proprie aspirazioni e capace di farle prevalere. Se non avessi avuto la certezza di essere amato, l’amarezza avrebbe continuato a crescere dentro di me, e un giorno, con l’aiuto della guerra, avrei fatto il passo. Come per un assassinio o per un suicidio, perché il modo di agire di Salem partecipava dell’uno e dell’altro.
Assassinio e suicidio quasi riusciti. In quegli anni di guerra, non si scherzava con il contrabbando, soprattutto quando si trattava di traffico di armi e di munizioni. Per sua fortuna, l’ufficiale francese che era stato incaricato della pratica, il colonnello D’Héloire, conosceva bene mio padre.
Era venuto più di una volta a casa nostra prima della guerra, per delle inaugurazioni di mostre, o per conferenze. Ex allievo della Scuola di Lingue Orientali, era uomo di cultura, e anche collezionista di fotografie d’epoca. Non ignorava che persone deliziose e inoffensive fossero mio padre e Nubar, e sapeva anche che calamità avesse sempre rappresentato per loro mio fratello, fin dall’infanzia. Si era dunque dato da fare per liberare i due uomini al più presto; ma avevano già trascorso trentacinque giorni in prigione! Gli altri, tra i quali mio zio Aram, sarebbero stati rilasciati qualche mese più tardi. Ad eccezione di mio fratello, ben inteso. Ma il colonnello riuscì anche a salvargli la testa, per via dell’età – non aveva ancora vent’anni al momento dei fatti. Ci furono tre esecuzioni capitali tra i contrabbandieri. Salem se la cavò con quindici anni di prigione, che le successive amnistie ridussero di due terzi.
Per tutti i miei, quell’affare fu la peggiore delle umiliazioni. Tutte le persone che bazzicavano la nostra casa prima di quegli avvenimenti, per lunghi mesi si trovarono a vivere nella paura di essere arrestati. Dopo tutto, se casa Ketabdar era effettivamente stata un covo di trafficanti e un deposito di merci illegali, tutti coloro che la frequentavano non diventavano sospetti? Quando mio padre era uscito di prigione, ben poche persone, estremamente poche, avevano osato venire ad augurargli un buon ritorno. Per quelle rare persone, “che le dita di una mano basterebbero a enumerare”, lui provava una gratitudine indefettibile. Gli altri, tutti quei fedeli visitatori che prima erano avvitati alla sua tavola, aveva giurato di non vederli mai più. Fu in quell’atmosfera che i miei nonni materni avevano deciso di partire per l’America. Il loro figlio, traumatizzato per la sua incarcerazione con un’accusa così degradante, non aveva più la faccia di presentarsi davanti ai suoi studenti. Il rettore dell’università gli aveva rilasciato una raccomandazione così elogiativa che aveva potuto ottenere, in pochi giorni, un permesso di emigrazione per lui e per tutta la famiglia.
Le sue ineguagliabili qualità di chimico avevano certamente avuto molto peso in quel periodo di guerra: appena giunto negli Stati Uniti, era stato assunto da una fabbrica di esplosivi nel Delaware.
Mio padre era ormai solo. Senza mia sorella, senza Nubar, senza di me, senza la corte che abitualmente lo circondava.
Solo, con la sua vecchia madre pazza, di cui si occupava ancora personalmente di tanto in tanto, benché in permanenza ci fosse accanto a lei un’infermiera che le faceva da dama di compagnia.
Non credo che sarebbe sopravvissuto a quel disonore se, qualche mese dopo la sua uscita di prigione, non avesse ricevuto la visita del colonnello D’Héloire, che veniva a portargli la notizia più riconfortante che poteva esserci: suo figlio primogenito, Ossyan, era diventato un piccolo eroe della Resistenza.
Come aveva potuto saperlo, l’ufficiale? Una combinazione di circostanze.
D’Héloire apparteneva alle truppe della Francia Libera che, con l’aiuto degli inglesi, avevano conquistato il Levante nel ‘41 contro i pétainisti.
Poco dopo aver concluso la storia dei contrabbandieri, aveva effettuato una missione clandestina in Provenza, nel corso della quale aveva incontrato Bertrand; avevano evocato il Vecchio Paese, il suo passato, la famiglia ottomana, il mio nome era venuto fuori durante la conversazione…
Ma torniamo a mio padre. Per lui il mio impegno nella Resistenza assumeva in quel contesto un significato che, quel giorno, al mio arrivo nel porto non avrei potuto supporre. Avevo sempre pensato che sarebbe stato contento delle mie scelte, stanti le sue convinzioni, e anche a causa di quel sogno aberrante che da sempre nutriva di fare di me un “dirigente rivoluzionario”. Quel sogno non era morto, se lo portava ancora dentro, ma seppellito sotto altre preoccupazioni ben più pressanti: ciò che in quel momento vedeva era l’artigiano della nostra riabilitazione. Mio fratello non aveva forse infangato il nostro nome e la nostra casa? Il mio impegno ci ripuliva da quel fango. L’obbrobrio non aveva forse allontanato la gente dalla porta di casa nostra? Il mio ritorno, con la mia aureola, li avrebbe riportati verso di noi. Lui era pronto ad accoglierli, ormai senza rancore, con soltanto un desiderio di rivincita sulla sorte. Il giorno dopo il mio arrivo fu occasione di una grande festa. La nostra casa brulicava di ospiti, alcuni invitati, altri venuti spontaneamente. Distribuiti nel grande salone, nell’atrio, sulle scale. Qualcuno passeggiava nel giardino per lunghe pause piene di risate.
Mio padre si pavoneggiava. Ed io stesso, in quelle circostanze, non potevo più negare con lo stesso vigore di essere stato l’eroe che tutti credevano. Quel giorno non si trattava più di privilegiare la decenza e la modestia, né di valutare con scrupolo i miei meriti, si trattava invece di restituire a mio padre e alla nostra casa l’onore calpestato. Ovviamente, non dicevo niente di falso, nemmeno di abbellito: la vanità non ha mai fatto parte dei miei numerosi difetti. Non mentivo; ma neppure smentivo. Lasciavo dire, lasciavo credere. Ero felice di sentire la risata ritrovata di mio padre.
Dieci giorni dopo ha perso sua madre. La sventurata Iffett aveva ottantasette anni e, da qualche mese, non lasciava il letto.
“Se fosse morta l’anno scorso, sarei stato solo al suo funerale.” Questa fu la prima riflessione di mio padre. Intanto, sì, una sorta di consolazione ma che non andava per nulla a discapito della pietà filiale. Poi aveva pianto.
Con quella madre che aveva sempre conosciuto inferma di mente, aveva rapporti di connivenza che lui solo conosceva. Qualche volta sono stato testimone di scene sconcertanti a proposito delle quali non ho mai osato interrogarlo. Per esempio, al momento di decidere se dovesse o no permettermi di andare a proseguire gli studi in Francia, l’aveva consultata. Non era la prima volta: se me ne ricordo più chiaramente, è perché ci aveva tenuto a farlo davanti a me.
Le aveva sussurrato qualche parola all’orecchio. Mia nonna aveva avuto l’aria di starlo a sentire, attentamente. Poi aveva aperto la bocca. Come per parlare. Ma la sua bocca era rimasta aperta così, per un lungo momento, rotonda e nera per l’ombra, senza emettere parola. Mio padre aspettava. Senza impazienza. Allora lei aveva emesso alcuni suoni confusi che, per me, sembravano borborigmi, o ansiti. Mio padre l’aveva ascoltata. Annuendo gravemente con il capo. Poi era venuto a dirmi che la nonna non vedeva inconvenienti. Era una farsa? Poteva sembrare, ma non lo era, lo posso affermare; mio padre non avrebbe mai voluto mettere in ridicolo la vecchia Iffett. No, la consultava in quel modo, perché quella era per lui l’unica passerella verso sua madre, e bisogna ammettere che essi avevano un loro linguaggio e che si capivano. Non è stato il solo a piangere. Anche a me, tutt’a un tratto, era mancata. Quella nobile dama, pazza da settant’anni, era, nella casa, una presenza benedetta. Pura, fantomatica, canticchiante, infantile. Grazie a lei avevamo, nei confronti della vita, tempo, saggezza, ragione e una filosofia spontanea del dubbio e dell’ironia.
Aveva vissuto nascosta: mio padre non voleva seppellirla vergognosamente. Ci teneva che i suoi funerali riunissero i più alti dignitari del paese, a qualsiasi comunità appartenessero. Le mie pretese prodezze, il mio ritorno trionfale, rendevano di nuovo la cosa possibile. È per questo che poc’anzi parlavo di “consolazione”. D’altra parte non ci si preparava certo ad omettere di sottolineare, negli omaggi funebri, che era nata figlia di un sovrano e che era morta nonna di un eroe.
Mio padre rimaneva diviso, mi sembrava, tra la tristezza di avere perso sua madre e la soddisfazione di averle potuto offrire, in extremis, funerali degni del suo rango. Lo osservavo. Ogni tanto si raccoglieva, curvando le spalle. Trattenendosi a fatica dal singhiozzare; in altri momenti scorreva con lo sguardo la folla di personalità, raddrizzandosi allora nella posa di venerabile in lutto. In tempi normali non sarebbero state quelle le sue reazioni. Era l’effetto della ferita…
Il giorno dopo l’inumazione ero seduto alla sua destra nel salone per ricevere le condoglianze, quando mi sono venuti a dire all’orecchio che una “straniera” chiedeva di vedermi, e che, stante le circostanze, non osava entrare.
La straniera era Clara!
Avrei voluto prenderla tra le braccia e stringerla forte. Ma non c’era nulla che mi autorizzasse a farlo. I nostri rapporti precedenti, quell’unica volta in cui avevamo parlato, ciascuno seduto nella propria poltrona, prima di ripartirsene ciascuno per la sua strada; e neppure le circostanze presenti, il lutto, la casa piena di gente vestita di nero. Non potevamo nemmeno esprimere con troppa evidenza la gioia di essersi ritrovati. Lei ha cominciato scusandosi di essere “sbarcata” così, nel bel mezzo di una giornata triste. Io le ho proposto di fare due passi in giardino.
Era soltanto di passaggio. La sua nave aveva gettato l’ancora il giorno prima nel porto di Beirut. Sarebbe ripartita quella sera stessa sulla rotta per Haifa. Non era sicura di voler rimanere in Palestina, era venuta per accompagnare un vecchio zio.
Come se avessimo paura di parlare di noi, era intorno a quello zio che aveva girato la conversazione. “I miei genitori dicevano che a vent’anni aveva già le manie di un vecchio scapolo. Unico maschio nato tardi, dopo sei ragazze, aveva ereditato una fortuna che lo avrebbe dispensato per sempre dal lavoro.”
“Come mio padre,” mormorai volgendo per un attimo lo sguardo alla casa.
“Salvo che lo zio Stefano non ha mai voluto ingombrarsi di una famiglia. Nella sua casa di Graz la sua vita era regolata da un maggiordomo di gran classe che sapeva a che ora portargli il caffè e come dosargli il whisky alla sera. Mio padre, che ha sgobbato tutta la vita, non parlava di mio zio se non con una smorfia da strangolatore, e nemmeno mia madre cercava di difendere suo fratello, un esempio così brutto per i bambini. Tutti gli ebrei di Graz avevano d’altronde una pessima opinione di Stefano Temerles, il quale ricambiava di cuore, non aveva nessun amico ebreo, e se ne vantava.
Venendo a sapere che era stato deportato, mi ero domandata come avrebbe potuto sopravvivere in un campo.
A rigor di logica, avrebbe dovuto essere il primo a soccombere. Ebbene, sono tutti morti, tutti i miei… salvo lui, salvo lo zio Stefano.
Ignoro come sia sopravvissuto. Lui non ne parla mai. E io non ho certo voglia di risvegliare l’incubo in lui. Non gli parlo che degli anni felici, e mai al passato.
In sua presenza, ho l’impressione di sfogliare continuamente un album di famiglia immaginario.
E lui ‘guarda’, senza mai dire una parola, senza lasciare trasparire un’emozione. Né gioia, né sorpresa, né sospiri, né nostalgia, niente. Qualche volta mi dico che è sopravvissuto soltanto grazie all’apatia. Sì, per apatia. Gli altri avevano desideri, voglie, ambizioni, speranze che, rivolgendosi contro di loro, li laceravano. Lui non provava niente di simile. Non si aspettava niente, nient’altro se non quanto gli veniva dato. Per caso nessuno gli ha dato la morte. Oggi è tutta la famiglia che mi resta. Non so bene se per me è un giovane antenato o un vecchio figlio. Un po’ dell’uno e dell’altro.
Quando lo ho ritrovato – mi disse – tramite un’associazione che si occupa dei deportati, gli ho domandato cosa contasse di fare. Non era più il caso di tornare a Graz. Voleva andarsene in Palestina. Ce l’ho portato.
Adesso l’ho lasciato sulla terrazza dell’hotel, dietro a un doppio whisky. E’ diventato amico del barman. Li ho sorpresi stamani in una lunga conversazione, mentre con me non trova mai niente da dire. Credo che parlino dei cappelli delle donne prima della guerra, e del whisky che era distillato meglio.“
Clara non aveva incontrato nessuna difficoltà a farsi portare a casa mia. “Ho l’impressione che tutti ti conoscano in questa città.”
Le avevo un po’ raccontato il mio ritorno, l’accoglienza, la piccola leggenda. Se ne era mostrata molto più entusiasta di me: “Una bella avventura!” Avevo alzato le spalle. Poi avevamo evocato insieme i nostri ricordi di “ex combattenti”.
La nostra passeggiata si era prolungata per un’ora e più, avrei potuto camminare così per giorni e notti senza nemmeno avvertire il più piccolo segnale di stanchezza. Ogni parola che dicevamo, su di noi, sugli altri, sulle pagine di storia che erano state voltate, di quelle che avrebbero potuto aprirsi, su come evolveva il mondo – ogni parola ci avvicinava. Come a Lione, quattro anni prima: quella impressione di essere, a distanza, stretti uno all’altro!
Eppure, anche le nostre mani gesticolanti si sfioravano appena.
In quel momento, non mi dicevo: “L’amo.” Né a me, né tanto meno a lei. Quello che sto per dire può sembrare ridicolo sulla bocca di un vecchio signore: provavo tutti i sintomi di amarla perdutamente, ma nella mia testa le parole non venivano. In momenti del genere si avrebbe bisogno di una specie di confidente che, anche prendendosi gioco di voi, persino, a stretto rigore, per dispetto, mormori la parola “innamorato”, affinché uno possa rivolgere la domanda a se stesso: perché in quel caso la risposta non avrebbe alcun dubbio.
Ma lei ha guardato l’orologio, ed era come se mi strappasse le arterie. Sentivo fisicamente male dalla parte del cuore. Ho detto: “Non ancora!” con tono supplichevole. Lei ha ripreso a camminare e a parlare.
Qualche minuto dopo ha di nuovo guardato l’orologio e si è immobilizzata.
“Non posso lasciare lo zio per troppo tempo. E, quanto a te, la gente ti sta aspettando…”
Eravamo davanti all’ingresso principale della casa. Arrivavano ancora visite. Sotto gli sguardi di tutti, non potevamo nemmeno scambiarci un bacio, non eravamo mica in Francia… e ho soltanto stretto la mano. Poi l’ho guardata allontanarsi.
Sono tornato nel salone, e mi sono seduto a fianco di mio padre. Le persone che erano arrivate durante la mia assenza si erano messe tutte intorno alla stanza, e ora si avvicinavano a me, una dopo l’altra, per abbracciarmi e scambiare qualche frase di circostanza. Cercavo di essere gentile con tutti, anche se la mia testa era altrove. Pensavo ancora a lei, è chiaro, non mi accontentavo di rivivere quei momenti deliziosi o di lamentarmi della sua partenza. Dentro di me cresceva una specie di rabbia. Mi dicevo: la prima volta ce ne eravamo andati ciascuno per la sua strada, contando sul caso per incontrarci di nuovo. C’era la guerra, la clandestinità, non si poteva fare in altro modo.
Oggi, ci siamo ritrovati, come per miracolo, ed ecco che ci separiamo affidandoci ancora una volta, al caso.
E se il caso ci abbandonava? E se non avessi mai più potuto rivederla? Non mi ero mosso come un cretino lasciandola andare via così? Una stretta di mano, e la mia vita, la mia felicità, si erano allontanate, magari per sempre. E io lì, a guardare, tranquillo!
Non potevo nemmeno scriverle, lei non sapeva ancora dove si sarebbe stabilita in Palestina, e nemmeno per quanto tempo. Forse c’era un modo di farle pervenire una lettera, ma non ci eravamo neppure presi la briga di trovarlo. Finché eravamo stati insieme, avevamo parlato di una cosa e dell’altra – soprattutto di suo zio – come se avessimo dovuto passeggiare così, fianco a fianco, fino alla notte dei tempi. Poi ci eravamo separati, in pochi secondi, per non rendere troppo penosi gli addii.
Più ci pensavo e più mi arrabbiavo. Sforzandomi per di più di non lasciare trasparire niente…
E all’improvviso, a metà di una frase, mi sono alzato. Ho farfugliato qualche parola di scusa al mio interlocutore del momento, poi a mio padre. Sono uscito, quasi correndo. Sono saltato su un’auto. “All’Hotel Palmira, vicino al porto!”
Lungo il percorso, sempre rispondendo meccanicamente alla conversazione dell’autista, cercavo di preparare mentalmente cosa avrei detto a Clara per giustificare la mia visita inattesa. E all’albergo, mentre aspettavo in fondo alla scale che un cameriere bussasse alla sua porta per dirle di scendere, preparavo ancora la mia frase. Volevo sembrare il meno impacciato possibile.
Quando lei è scesa, un po’ agitata, non ho trovato niente di meglio da dire che: “Ho dimenticato di farti promettere di scrivermi!” Ero proprio impacciato, devo ammetterlo. Ma tanto meglio, più uno si mostra impacciato, in certe circostanze, e più è commovente.
Clara mi aveva ascoltato aggrottando le sopracciglia e annuendo con il capo, come se le stessi dicendo qualcosa di molto grave. Poi aveva guardato a destra e a sinistra. Nessuno ci poteva vedere. Allora aveva posato un bacio sulle mie labbra, furtivo, come il becchettio di un uccello.
Quando mi sono ripreso dalla sorpresa, lei stava già risalendo di corsa le scale. Sono ripartito.
Dio com’era blu il cielo, quel giorno!
Mi ha poi scritto due mesi dopo. Una lettera di sette o otto pagine, ma ne ero rimasto un po’ deluso.
No, non proprio deluso, diciamo che non mi ero tolto la fame. E so perché. Lei faceva come se quel bacio non ci fosse mai stato. Peggio ancora: mentre, durante la nostra passeggiata in giardino, avevamo cominciato spontaneamente a darci del “tu”, in quella lettera lei scriveva “Sie sind” e non “Du bist”, un passo indietro…
Sì, mi scriveva in tedesco. Era in francese che avevamo preso l’abitudine di parlare, fin dal nostro incontro di Lione. Lei si esprimeva correttamente, anche se con qualche errore, ogni tanto. Ma per scrivere si trovava più a suo agio con Goethe che con Chateaubriand…
Dunque mi dava del “lei”, come se rimpiangesse quel bacio…. E nella lettera, niente di molto personale, comunque niente su noi due. Mi parlava ancora di suo zio, della difficoltà di trovare un alloggio idoneo: sperava forse di trovare l’equivalente della casa di Graz? Non avevano trovato nient’altro che un alloggio al piano terreno di uno stabile costruito in fretta, due camere, cucina-soggiorno e bagno, da coabitare con altre due famiglie. E in un quartiere di Haifa dove cresceva la tensione tra arabi ed ebrei. Non passava giorno senza scontri o attentati. Clara non si aspettava tutta quella violenza. Nella lettera mi parlava due o tre volte di un “tragico malinteso”, che si trattava di chiarire.
Non sopportava l’idea che, all’indomani della disfatta del nazismo, due popoli detestati da Hitler si ergessero l’uno contro l’altro, giungendo fino ad ammazzarsi, essendo persuaso ciascuno di essere perfettamente nei propri diritti e l’unica vittima di un’ingiustizia. Gli ebrei perché avevano da poco subito ciò che di peggio può conoscere un popolo, un tentativo di annientamento, e perciò erano determinati a mettere in opera ogni cosa perché un fatto simile non si ripetesse mai più; gli arabi perché quel male veniva in qualche modo riparato a spese loro, mentre non c’entravano in alcun modo in quel crimine perpetrato in Europa.
Clara, nella sua lettera, valutava le cose con calma, e anche senza nessun partito preso, mentre ormai i risentimenti erano al massimo tanto tra gli ebrei quanto tra gli arabi. E, d’altra parte, lei non si accontentava di fare delle analisi. Agiva. Resisteva come durante la guerra. Ma questa volta resisteva contro la guerra.
In effetti, quando ho detto di una certa delusione a proposito di quella prima lettera, volevo soprattutto dire che mi aspettavo una lettera d’amore, o, per lo meno, una lettera che prendesse atto della nostra relazione nascente; e invece mi ero trovato tra le mani la lettera di una “compagna d’armi ”.
Clara sembrava profondamente scossa dal conflitto che si svolgeva intorno a lei, e si diceva determinata a battersi con tutte le forze, per “superarlo”. Così mi comunicava, con una certa solennità, che si era unita con un gruppo di militanti denominato PAJUW Committee, iniziali di Palestine Arabo and Jewish United Workers. Mi parlava a lungo dei loro obiettivi, erano certamente pieni di buone intenzioni. E malgrado l’esiguo numero dei loro adepti – non furono mai altro che un valoroso gruppuscolo – speravano di cambiare il corso della storia.
Io stesso guardavo quell’iniziativa con scetticismo?
Non quanto lo possa lasciare intendere quello che dico oggi.
Dopo trent’anni di conflitti, l’idea soltanto che il valoroso comitato PAJUW abbia potuto esistere ci fa sorridere.
Per qualcuno può essere un sorriso di scherno; per me è piuttosto un sorriso intenerito. Allora non reagivo allo stesso modo. Se cerco di rimettermi nello stato d’animo di quell’epoca, cosa che non è mai un esercizio facile, credo proprio che avrei applaudito il progetto di Clara e dei suoi compagni. Perché corrispondeva ai miei ideali. Non soltanto perché era proposto da lei.
Come rivela il suo nome, quel comitato era nettamente di sinistra. Cosa vuole mai, in quei tempi coloro che desideravano opporsi all’odio razziale o religioso sapevano dire soltanto, “Lavoratori, unitevi!” Ciò non ci ha portato molto lontano, ma sembrava essere la sola maniera per dire: “Non ammazzatevi tra di voi!”
Torniamo piuttosto a Clara e alla sua lettera. Avevo risposto molto rapidamente. Lo stesso giorno o l’indomani. In francese. Le dicevo “tu”, subito, sperando che ne prendesse atto e poi, a sua volta, facesse lo stesso. Ma nessun altro segno di intimità. Seguivo anzi il suo esempio, raccontando a mia volta cosa stavo facendo da qualche settimana. Cioè, essenzialmente, delle conferenze nel corso delle quali raccontavo “la mia guerra”.
Non ne ho ancora parlato, ma quelle conferenze erano allora la mia principale attività, se non la sola, e avevano contribuito a farmi conoscere in tutto il paese.
Avevo cominciato per caso, in un certo senso, per via di un contrattempo. C’era, non lontano da casa nostra, una associazione sportiva e culturale i cui animatori, che ben conoscevano mio padre, avevano deciso di dare una festa in onore di quel “valoroso resistente”, che ero io. Una settimana prima della data convenuta, era morta la nonna.
Avevano affittato una sala e affrontato delle spese. Ma, ovviamente, non era più il caso di fare una festa. Né musica da ballo e cotillons. Per non annullare tutto, mi avevano proposto di andare semplicemente a parlare della “mia guerra”, a braccio, raccontando qualche aneddoto, e di rispondere a qualche domanda. Era una cosa che il lutto non mi impediva di fare.
Sulla pista originariamente prevista per il ballo, avevano messo delle file di sedie. E per me un tavolino con un bicchiere d’acqua.
Non avevo preparato niente. Avevo cominciato evocando alcuni ricordi, tutto quello che mi tornava in mente, con parole semplici e in tono confidenziale. La gente, abituata a discorsi che sembrano discorsi, stava zitta. Sentivo nel loro silenzio, nel loro respiro, nei loro sospiri, qualche volta da qualche sillaba di approvazione o di stupore che attraversava la sala, che si stava sviluppando qualcosa tra me e quella folla. Quella sera stessa ho ricevuto altri tre inviti a parlare, poi, nelle settimane seguenti, venti, trenta, sessanta, in tutti i quartieri della capitale, nella altre città del Litorale e in certi paesi della Montagna.
Dappertutto la gente stava a sentire, per due, tre ore, senza che l’attenzione scemasse. E io provavo una gioia fino ad allora sconosciuta. Loro erano sedotti ed io ero meravigliato di avere saputo sedurli. Non ero mai avaro del mio tempo.
Quanto a mio padre, con i sogni che nutriva nei miei confronti, è inutile dire con che occhi mi seguiva durante tutti quegli incontri. Ciò che c’era di nuovo, era che io stesso cominciavo un po’ a credere a quel destino di “dirigente”, di trascinatore di uomini.
Arrivando sull’onda della mia avventura nella Resistenza, quella nuova esperienza mi spingeva a considerare, per la prima volta, e sempre un po’ sulla difensiva, che, dopo tutto, c’era forse qualcosa di vero in quel presentimento di mio padre verso di me, come in quello di Nubar. Forse, dopo tutto, avevo davvero un avvenire predestinato.
Dico per l’appunto “forse”, perché se quell’idea prevaleva non era senza resistenze da parte mia, lo ripeto.
Le ho detto ieri – o era l’altro ieri? – che dopo la guerra non avevo più testa per studiare. Forse era a causa di quella specie di euforia. Sì, senza dubbio le cose sono iniziate in quel modo. Avevo la sensazione che nessuna strada si sarebbe più potuta chiudere davanti a me.
Dovevo soltanto procedere, come se gli ostacoli non esistessero. È così che si prepara la caduta.
Ma adesso sto un po’ anticipando. Alla caduta non c’ero ancora arrivato, avevo ancora le ali integre, non avevo esaurito le mie gioie.
Un giorno, in occasione di una delle mie conferenze, che aveva luogo in un cinema di quartiere, ho creduto di intravvedere, seduta in fondo alla sala, una persona che aveva lo sguardo di Clara. Non mi aveva annunciato il suo arrivo.
Non resistevo più al mio posto. Innamorato com’ero, che felicità! Per il conferenziere: un disastro. Parlare, come facevo, esigeva di guardare a fondo in se stesso, raggiungere il più alto grado di concentrazione e di dare tutto come un attore sul palcoscenico. Quel giorno, dal momento in cui l’avevo riconosciuta, la mia mente si era messa a divagare. Troppe domande, immagini, troppa impazienza…
Avevo dunque tagliato corto, ero corso verso la conclusione. “Circostanze familiari,” aveva spiegato il moderatore, facendomi promettere che sarei tornato.
Mezz’ora dopo eravamo seduti nel salotto di casa mia. Avevo subito presentato Clara a mio padre, che aveva scambiato qualche frase con lei, poi si era elegantemente ritirato.
Veniva con un progetto. Per il giornale del suo comitato, del quale stava per uscire il primo numero, pensava di pubblicare testi di resistenti, arabi ed ebrei, che si erano battuti contro i nazisti in diversi paesi occupati. Si vedeva bene l’intenzione: convincere gli uni e gli altri che avrebbero dovuto ritrovarsi dalla stessa parte, battersi insieme per un avvenire comune… In quell’ottica, la mia testimonianza poteva essere interessante…
Nella sala Clara si era seduta sulla poltrona più rigida. Gliene avevo proposta un’altra, ma lei trovava che quella fosse meglio per scrivere. Poi aveva tirato fuori un calepino che aveva appoggiato sulle ginocchia. Indossava una lunga gonna pieghettata, a motivi scozzesi verdi e neri, e uno scamiciato bianco. Aveva un po’ l’aspetto di una scolara. Voleva che le raccontassi la mia esperienza della guerra, un passo dopo l’altro, dal mio arrivo in Francia e fino al mio ritorno in patria… Per me, che non facevo che raccontare quella stessa storia da settimane, davanti a platee sempre più numerose, sarebbe stata una cosa semplicissima. Eppure, restavo silenzioso, cercando invano come cominciare.
Siccome il silenzio si prolungava, aveva voluto rendermi le cose più facili. “Immagina di essere davanti a una sala piena, di fronte a una platea che non sa niente della tua vita, e comincia.”
“D’accordo, adesso comincio. Non è semplice, così, in due, in un salotto, e considerando il fatto che anche tu sai un mucchio di cose su quel periodo. Ma adesso provo. Lascia che mi concentri un momento.”
Di nuovo, un lungo silenzio.
“Clara, vorrei che tu mi facessi una promessa. Qualunque cosa io possa raccontare, non interrompermi, con nessun pretesto, prima che io ti abbia detto: ho finito. E, soprattutto, non mi guardare, guarda soltanto il tuo calepino.”
“Promesso!”
Sorrideva dei miei infantilismi. Perplessa, forse, intenerita. C’era stato un nuovo silenzio. Poi avevo detto queste parole, che non ho ancora dimenticato:
“Ho molto riflettuto dopo il nostro ultimo incontro, e adesso so, senza ombra di dubbio, che sono innamorato di te. Sei la donna della mia vita, e non ce ne sarà mai un’altra. Ti amo con tutto me stesso quando ci sei, e ti amo anche quando non ci sei. Se tu non provi le stesse cose, non insisto: è un sentimento talmente forte e talmente spontaneo che deve impadronirsi totalmente di te, non è un’inclinazione che si può fare propria con il tempo. Allora, se tu non lo senti, tra un minuto parleremo d’altro, e non ti annoierò mai più. Ma se, per mia fortuna, tu senti quello che sento, allora io sono l’essere più felice del mondo e ti chiedo: Clara, vuoi diventare mia moglie? Ti amerò fino all’ultimo respiro…”
Avevo detto tutto senza tirare il fiato, per paura che lei mi interrompesse, per paura di inciampare sulle parole.
Non l’avevo guardata nemmeno una volta. E nemmeno quando mi ero zittito, l’avevo guardata. Avevo paura di vedere nei suoi occhi qualcosa che facesse pensare all’indifferenza o alla compassione. O anche della sorpresa. Perché sapevo per certo che se con la mia dichiarazione l’avessi sorpresa, qualsiasi manifestazione di meraviglia mi avrebbe fatto pensare che non ci trovavamo nella stessa disposizione d’animo – e tutto ciò che lei avrebbe potuto dire, dopo, non sarebbe stato che buona educazione e consolazione. Dunque non la guardavo, e se avessi potuto distogliere le orecchie come gli occhi, l’avrei fatto. Perché proprio come nel suo sguardo, temevo di sentire nelle sue parole, nell’intonazione della sua voce, l’indifferenza, la compassione… Ascoltavo soltanto il suo respiro, caldo come un sospiro. “Sì.”
Aveva detto “sì”.
Era la risposta più bella, più semplice, e pure era quella che meno mi aspettavo.
Avrebbe potuto lanciarsi in formulazioni contorte per spiegare che, in quelle circostanze, non le sembrava possibile che…
L’avrei interrotta bruscamente, per dirle: “Non parliamone più! ”
Lei mi avrebbe fatto promettere che saremmo comunque rimasti buoni amici, io avrei detto: “Sicuro”, ma non avrei voluto vederla mai più e nemmeno sentire pronunciare il suo nome.
Avrebbe, invece, potuto spiegarmi che anche lei sentiva le stesse cose, dal nostro primo incontro… Avrei saputo io cosa dire, e cosa fare.
Quel “sì” semplice, quel “sì” secco, mi lasciava senza voce.
Avevo quasi voglia di domandarle: “Sì, cosa?” Perché poteva semplicemente aver voluto dire “sì, ho sentito”; “sì, ne prendo atto”; “sì, ci penserò”.
L’avevo guardata, inquieto, incredulo.
Era il vero “sì”, il “sì” più puro. Con gli occhi pieni di lacrime e un sorriso di donna amata.