Giovedì mattina
Secondo i miei appunti, l’avevo incontrato di mercoledì. L’indomani mattina, fin dalle nove, eravamo in una stanza d’albergo, stretta, ma con il soffitto alto. Sui muri una stoffa colore dell’erba, disseminata di margherite piatte; uno strano prato verticale…
Mi invitò a sedermi sull’unica poltrona. Per quanto stava a lui, preferiva andare su e giù per la camera.
“Di che cosa vorrebbe che cominciassimo a parlare?” domandò.
“La cosa più semplice sarebbe cominciare dal principio. Dalla sua nascita…”
Camminò per due buoni minuti in silenzio. Poi rispose con una domanda:
“Lei è sicuro che la vita di un uomo cominci con la sua nascita?.” Dunque gli lasciai la parola, ripromettendomi di intervenire il meno possibile.
Non aspettava una risposta. Era soltanto un modo per introdurre il suo racconto
La mia vita è cominciata – disse – mezzo secolo prima della mia nascita, in una stanza che non ho mai visitato, sulla riva del Bosforo… Un dramma si è compiuto, è risuonato un grido, un’onda di follia s’è propagata, e non doveva fermarsi più. E così, al momento della mia venuta al mondo, la mia vita era già cominciata da un pezzo.
Istanbul aveva conosciuto certi avvenimenti. Gravi, per chi li aveva vissuti; risibili, ai nostri occhi. Un monarca era stato destituito, suo nipote aveva preso il suo posto. Mio padre me ne ha parlato venti volte, citandomi nomi, date… Ho dimenticato tutto, o quasi. D’altronde, poco importa. Per la mia storia conserva qualche importanza soltanto quel grido, l’urlo che una giovane donna emise quel giorno.
Il sovrano destituito era stato assegnato agli arresti domiciliari, ai margini della capitale. Gli erano vietate le uscite, vietate le visite, salvo autorizzazione preliminare. Separato dai suoi, fatta eccezione per quattro vecchi servitori. L’uomo era distrutto. Melanconico, stralunato, come tramortito. Ormai annientato. Aveva nutrito grandi sogni per l’Impero, sogni di progresso, di ritrovata grandezza; credeva di essere amato da tutti, non riusciva a capire il silenzio che lo circondava. Rimuginava le sue amarezze: non aveva saputo scegliere i suoi uomini, tutti quanti l’avevano consigliato male, avevano abusato della sua prodigalità, sì, tutti lo avevano tradito.
Si era chiuso in camera. “So che nessuno vuole più obbedire ai miei ordini; ma se qualcuno si propone di entrare qui dentro, lo strangolo con le mie mani! ” L’avevano lasciato solo con se stesso per tutta la notte, poi per tutta la mattina. Fino all’ora di pranzo. A quell’ora avevano battuto alla sua porta. Non aveva nemmeno risposto. Erano preoccupati, ma chi avrebbe osato sfidare i suoi ordini?
I servitori si erano consultati. Una sola persona al mondo poteva disobbedirgli senza incorrere nella sua collera. Sua figlia, la sua bambina tanto amata, Iffett. Lei e lui erano legati da un affetto profondo, lui non le rifiutava niente. Lei aveva insegnanti di piano, di canto, di francese, di tedesco. Persino in sua presenza lei osava vestire all’europea, con abiti che acquistava a Vienna o a Parigi. Solo lei avrebbe potuto varcare senza rischio la porta del sovrano destituito.
Ottengono l’autorizzazione dalle nuove autorità per farla venire. Lei prova dapprima a girare piano piano la maniglia. Ma la porta non si apre. Chiede a coloro che l’accompagnano di allontanarsi, e chiama: “Padre, sono io, Iffett. Sono sola.” Nessuna risposta. Tutta tremante, ordina alle guardie di forzare la porta, giurando loro che se ne prenderà tutta la responsabilità. Due spalle vigorose ci provano. La porta cede. I due aitanti giovani scappano senza nemmeno gettare un’occhiata nella stanza.
La ragazza entra. Chiama ancora: “Padre!” Fa due passi. E’ in quel momento che emette l’urlo che risuona nella camera, nel corridoio, nei vestiboli, risuona nelle strade di Istanbul, poi in tutto l’Impero; e anche al di là dell’Impero, nelle cancellerie delle grandi potenze.
Il sovrano destituito aveva le vene aperte e la gola nera. I vestiti avevano già bevuto il suo sangue.
Un suicidio? Può darsi. Ma forse anche un omicidio. Perché gli assassini avrebbero in realtà potuto passare dai giardini. Non si è mai appurata la verità. In ogni modo, la questione non ha più alcuna rilevanza, se non per qualche storico…
Iffett rimase lì, impietrita dal terrore; al suo grido aveva fatto seguito una specie di affanno. Nei suoi occhi, molti anni più tardi, si poteva ancora indovinare quel terrore.
Passate le prime settimane di lutto, siccome si aggirava ancora per i corridoi con lo stesso sguardo, con lo stesso affanno, ci si dovette arrendere all’evidenza: Iffett, la figlia prediletta, la ragazzina coccolata, così allegra e graziosa, aveva perso la ragione. Forse per sempre.
A sua madre non restava altra scelta che rivolgersi al vecchio dottor Ketabdar. Discendente di una famiglia di letterati originaria della Persia, era lui che si prendeva cura, nelle grandi dimore di Istanbul, di coloro che davano segni di alienazione; far ricorso a lui era già un’ammissione di disperazione.
Il medico conosceva la paziente. L’aveva incontrata sei mesi prima, in tutt’altra occasione. Venuto per curare una cameriera isterica, aveva udito la principessa al pianoforte. Suonava un’aria viennese, ed era rimasto là, ad ascoltarla, in piedi accanto alla porta. Quando s’era fermata, le aveva rivolto qualche frase di incoraggiamento, in francese. Lei gli aveva risposto, tutta sorridente. Avevano scambiato qualche frase, e l’anziano signore se ne era andato contento. Non aveva più dimenticato quell’incontro, quella musica, quelle mani lisce, quel volto, quella voce.
E quando quel giorno era entrato di nuovo nella sala dove si trovava il pianoforte, e aveva visto la stessa ragazza andare e venire in uno stato di grande agitazione, e l’aveva udita emettere grugniti da demente, con gli occhi persi, le dita contratte, non aveva potuto trattenere le lacrime. La madre di Iffett lo aveva notato, e s’era messa a singhiozzare. Mortificato, l’aveva pregata di perdonarlo; era suo compito riconfortare le famiglie dei pazienti, non allarmarle di più.
“E se la portassi lontano da Istanbul?” aveva domandato la madre. “A Montreux, per esempio…”
Ahimè! No, aveva detto desolato l’anziano signore, un viaggio non sarebbe servito a niente. Se bisognava davvero cambiarle tutte le idee, allontanarla da tutto ciò che poteva ricordarle il dramma, non sarebbe bastato. Nello stato in cui si trovava, doveva essere seguita in permanenza da personale qualificato. La madre aveva serrato i pugni contro il petto. “Non lascerò mai richiudere mia figlia in un manicomio! Piuttosto morire!” Il medico aveva promesso di riflettere su una soluzione migliore.
Fu rientrando a casa, quella sera, nella sua carrozza, attraverso le stradine chiassose di Galata, sballottato, mezzo addormentato, che il dottor Ketabdar s’era sorpreso a fantasticare un’ipotesi insensata. Che tuttavia era tornato il giorno dopo a sottoporre alla madre di Iffett: poiché lo stato di sua figlia avrebbe richiesto cure costanti per anni, e siccome non era proprio il caso di ricoverarla, lui si proponeva di portarla a Adana, nel sud dell’Anatolia, dove possedeva una casa; si sarebbe consacrato a lei giorno e notte, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, lei sarebbe stata la sua unica paziente, e a poco a poco, a Dio piacendo, avrebbe potuto ritrovare il suo spirito.
Occuparsi di lei giorno e notte, un anno dopo l’altro? E in casa sua? La madre avrebbe giudicato il medico presuntuoso e inopportuno se avesse parlato così in altre circostanze. Perché ciò che non veniva detto chiaro e tondo, e tuttavia era evidentemente suggerito, era che il medico - che era vedovo – pensava di sposare Iffett. In altre circostanze, dicevo, la cosa sarebbe stata impensabile. Ma ormai più nessuno poteva sognare di dare in moglie la figlia squilibrata del sovrano destituito a uno di quegli alti personaggi che prima aspiravano a quell’onore. La madre si era dunque rassegnata. Piuttosto di lasciare ricoverare sua figlia fino alla fine dei suoi giorni, era meglio affidarla a quell’uomo rispettabile che sembrava averla a cuore, che l’avrebbe curata e preservata dalla vergogna e dagli scandali…
Strana famiglia, nevvero? Un marito vecchio che prima di tutto era medico curante; una sposa giovane, fuori di testa, che lui circondava di cure e di affetto, ma che talvolta passava intere giornate a gemere o a urlare senza ragione nelle orecchie dei servitori, qualcuno dei quali ne era esasperato, altri mossi a pietà.
Nessuno dubitava che si trattasse di un matrimonio fittizio, destinato soltanto ad evitare la sconvenienza della coabitazione, sotto lo stesso tetto, di un uomo e di una donna, giorno e notte, al riparo da ogni sguardo. Matrimonio di convenienza, dunque, matrimonio di facciata; o piuttosto di compiacenza. Un atto di devozione, insomma.
Sì, da parte del vecchio medico un’azione caritatevole.
Solo che, un giorno, Iffett rimase incinta.
Era la conseguenza di un momento di sbandamento? Oppure il frutto di una terapia audace? Uno poteva domandarselo!
A credere al figlio della coppia, che non è altri che mio padre, si dovrebbe pensare alla seconda spiegazione: il dottor Ketabdar aveva le sue teorie; pensava di dimostrare che una donna come la sua, che aveva perduto la ragione in conseguenza di uno choc, avrebbe potuto ritrovarla per mezzo di un altro choc. La gravidanza, la maternità… ma soprattutto il parto. Lo choc brutale della vita che viene a compensare lo choc brutale della morte. Il sangue per cancellare il sangue. Teorie… teorie…
Perché si potrebbe altrettanto bene immaginare il contrario: il marito medico, costantemente accanto alla moglie, per vestirla, per spogliarla, per farle il bagno tutte le sere, una donna giovane e bella che amava profondamente al punto di consacrarle ogni istante della vita, come avrebbe potuto contemplarla così, senza emozionarsi? Come avrebbe potuto percorrere con le mani e con gli occhi la superficie del suo corpo liscio senza che crescesse in lui il desiderio?
Oltretutto lei non era sempre in stato di crisi. Sembrava persino, ogni tanto, dare segni di lucidità. Oh, non una vera lucidità! Io l’ho conosciuta, verso la fine della sua vita, e l’ho osservata. Non è mai stata lucida abbastanza per rendersi conto del suo stato. E per fortuna: ne avrebbe sofferto troppo. Ma poteva trascorrere lunghe ore tranquille, duranti le quali non gridava, non gemeva, e poteva dimostrare grande tenerezza verso coloro che le stavano accanto.
Talvolta, si metteva a cantare, con voce malferma, eppure melodiosa. Ho ancora nell’orecchio una canzone turca che evoca le ragazze di Istanbul a spasso sulle spiagge di
Oskuder. E un’altra, dalle parole oscure, dove si parlava di Trebisonda e della morte. Quando la nonna cantava, tutta la casa faceva silenzio per ascoltare. Poteva essere così commovente. Con viso sereno e un modo di muoversi aggraziato, fino ai suoi ultimi giorni. È facile immaginare che suo marito abbia potuto avere voglia di prenderla tra le braccia. E che lei si sia stretta contro di lui con una risatina da brava bambina. Dopo di che, per giustificare la cosa ai suoi stessi occhi, il dottor Ketabdar avrebbe elaborato le teorie adeguate. Certamente in buona fede.
Ma quelle teorie si sono rivelate inoperanti, si potrebbe obbiettare, dal momento che certamente, nemmeno nella sua vecchiaia, la nonna non era ancora guarita! Ma non è così semplice. Non è guarita, è vero, lo choc salutare non si è verificato. Ma ha saputo essere una madre amorosa per suo figlio. E quando, più tardi, ha vissuto con noi, nella nostra stessa casa, non abbiamo mai avvertito la sua presenza come un fardello. Le sue crisi erano lontane tra loro, e senza conseguenze durevoli.
Se la maternità non l’aveva guarita, certamente non aveva aggravato il caso, anzi, mi sembra che le abbia dato qualche giovamento. Ma poche persone erano disposte a vedere le cose sotto questa luce.
Il vecchio medico è stato criticato… Che dico, criticato? E’ stato trascinato nel fango! Si sono davvero scatenati. Mormorii, imprecazioni, insulti, calunnie. Sicuro, era sposato, ineccepibilmente sotto ogni aspetto legale, e nessuno poteva rimproverargli di aver concepito un bambino con la sua sposa legittima. Ma non ci si poteva impedire di pensare che, in ragione delle circostanze, esistesse una specie di contratto morale, e che, rendendo madre quella donna che aveva perso la ragione, il dottor Ketabdar avesse, in un certo senso, abusato di lei, e che avesse agito in modo irresponsabile e indegno, contrario a qualsiasi deontologia medica, guidato soltanto dai suoi bassi istinti…
E quando, per difendersi, aveva tentato di esporre le sue curiose teorie, si era ancora più screditato. Come?, dicevano i suoi detrattori: usare sua moglie come una cavia di laboratorio?!
Mortificato dall’ostilità che lo assediava da ogni parte, al tramonto di una vita esemplare, il vecchio medico si era lasciato prendere dal sentimento di aver sbagliato, di aver tradito la propria missione, e di essere precipitato nell’indegnità.
Nessuno più tra i suoi colleghi, nessun membro dell’Augusta Famiglia, nessun notabile di Adana voleva oltrepassare la soglia della sua casa.
Mio padre mi diceva: “Ci trattavano come appestati! ”
E rideva forte!
La nostra casa di Adana non l’ho conosciuta, no, non l’ho nemmeno mai vista. Ma si è trovata sul percorso della mia vita, a monte. E credo proprio che abbia contato per me quanto le case che ho effettivamente abitato.
Si ergeva al centro della città, e tuttavia era appartata. Aveva alti muri di cinta e un giardino di alberi ombrosi. Costruita in arenaria, diventava rossiccia sotto la pioggia e si ricopriva di una fine polvere color ocra con il tempo secco. La gente passava accanto ad essa facendo finta di non vederla. Doveva essere luogo di insondabili turbamenti; paure legate a tutte le cose che appartenevano alla famiglia regnante; timori legati anche alla presenza della pazzia; legati anche al dottor Ketabdar, del quale si diceva allora che esercitava pratiche occulte, inconfessabili.
In una casa simile, nelle braccia di una simile coppia, il bambino appariva come un oggetto incongruo, che aggiungeva alla situazione ancora un altro elemento di irrealtà. Era là contro natura, in un certo senso, si vedeva in lui non un dono del Cielo, ma il risultato di un traffico con il mondo delle tenebre.
Lui, il bambino, mio padre, usciva poco. Non è mai andato a scuola. Aveva questo in comune con altri marmocchi di alto lignaggio ottomano, era la scuola che veniva da lui. Nei primi anni aveva avuto un precettore vero e proprio; poi, a mano a mano che cresceva, insegnanti diversi per le diverse materie. Non riceveva mai ragazzini della sua età, e non ne frequentava nessuno. Non aveva amici, non vedeva nessuno all’infuori degli insegnanti.
Questi non erano persone qualsiasi. Coloro che accettavano di venire ogni giorno nella casa “appestata” vivevano anche loro, per la maggior parte, al limite delle normali consuetudini del tempo. Il professore di turco era un imam spretato, il professore di arabo un ebreo di Aleppo scacciato dalla famiglia, quello di francese era un polacco, atterrato dio sa come in quella città dell’Anatolia. Rispondeva al nome di Wassa – senza dubbio il diminutivo di un patronimico tre volte più lungo…
Fino a quando il dottor Ketabdar era in vita, i docenti si contentavano di insegnare. A ore fisse. Nessun ritardo veniva tollerato. Nessuna divagazione era apprezzata. Ascoltavano le sue direttive, gli rendevano conto dei progressi dell’allievo, e venivano ogni venerdì, in visita di cortesia, a percepire i loro emolumenti.
Alla morte del vecchio medico, la disciplina si era allentata. Mio padre doveva avere sedici anni. Più nessuno ne teneva le redini. Le ore di insegnamento si prolungavano in discussioni interminabili, gli insegnanti erano spesso invitati a pranzo, a cena, tutti insieme. Una piccola corte si era formata intorno al giovinetto. Si parlava di tutto, ed era malvisto professare idee comuni, cantare indebitamente le lodi della Dinastia o vantare i meriti della Fede.
Un foyer di libera espressione, come ce ne sono stati in tutte le città dell’Impero, in quegli anni. Ma non bisogna credere che nella nostra casa di Adana si ordissero dei complotti. Ci si manteneva, prudentemente, lontano dalla politica. C’erano nel gruppo troppi stranieri, troppi minoritari soprattutto: armeni, greci… Qualsiasi modo di mettere in discussione le autorità ottomane li avrebbe messi in difficoltà. Appena appena, si parlava qualche volta delle suffragette, dell’obbligo scolastico, della guerra russo-giapponese, o ancora di qualche ribellione lontana, in Messico, in Persia, in Spagna o in Cina. Le cose che più risultavano appassionanti erano di tutt’altro genere: le scoperte, le nuove tecniche. Al posto d’onore troneggiava la fotografia. E quando un giorno, durante una discussione accalorata, venne fuori l’idea di dare un nome a quel cenacolo, fu, senza la minima esitazione, “Il Circolo Fotografico”.
Siccome era il solo ad avere i mezzi finanziari per una passione di quel genere, mio padre aveva fatto venire – da Lipsia, credo – il materiale più recente, e dei manuali di iniziazione.
Molti membri del Circolo si sarebbero poi cimentati in quell’arte. Tra tutti, quello che dimostrava maggior talento era il professore di scienze naturali, Nubar, un armeno. Era anche il più giovane degli insegnanti, aveva appena sei o sette anni più del suo allievo. Tra loro si sarebbe presto stabilita un’amicizia durevole.
Legami del genere, tra un turco e un armeno, già in quell’epoca apparivano molto inusuali. Stavo per dire “anacronici”. E sospetti, anche. Relazioni d’affari, in certi ambienti, si vedevano ancora, sembra; una vera amicizia, una complicità profonda, no. I rapporti tra le due comunità si deterioravano a vista d’occhio, a Adana più che altrove.
Ma quanto accadeva fuori dalle mura di casa Ketabdar non aveva alcuna incidenza su quanto capitava dentro. Forse addirittura produceva l’effetto contrario: siccome una vera amicizia, un’amicizia fraterna, tra un turco e un armeno diventava cosa rara, risultava ancora più preziosa tra i due giovani. Mentre molti altri proclamavano a gran voce la loro differenza, quei due rivendicavano come unica differenza la loro amicizia. Si giuravano, con una solennità un po’ infantile, che nulla mai li avrebbe separati. E anche che nessuna occupazione avrebbe fatto loro abbandonare la passione comune per la fotografia.
Qualche volta, durante le riunioni del Circolo, mia nonna lasciava la sua camera per venire a sedersi tra loro. Proseguivano le loro discussioni, e parlando, ogni tanto la guardavano; anche lei guardava, sembrava ascoltare con interesse; le sue labbra si muovevano; poi, senza ragione apparente, si alzava nel bel mezzo di una frase e tornava a chiudersi nella sua stanza.
Altre volte si mostrava agitata, gridava, in camera sua. Allora suo figlio si alzava e la raggiungeva, per curarla come suo padre gli aveva insegnato a fare. Quando si era tranquillizzata, tornava dagli amici che riprendevano la conversazione là dove era stata interrotta.
A dispetto di quella disgrazia, la nostra casa aveva conosciuto in quei tempi alcuni anni felici. È sicuramente l’impressione che danno le foto dell’epoca. Mio padre ne aveva conservate molte centinaia. Tutto un baule, sul quale aveva tracciato, con fierezza, in inchiostro seppia: “Il Circolo Fotografico. Adana.”
Le faceva vedere qualche volta alle persone che stimava. Spiegando nei particolari le circostanze di ogni ripresa, le tecniche usate, le astuzie di inquadramento e di illuminazione. Su quegli argomenti poteva essere inesauribile, come un imbonitore da fiera… al punto che un visitatore straniero un giorno, aveva frainteso le sue intenzioni: aveva creduto che il suo ospite volesse vendergli quelle stampe e gli aveva proposto un prezzo. Mio padre era stato sul punto di metterlo alla porta, il poveretto piangeva confuso.
Tutte le foto sono rimaste infine in quel baule, fino alla sua morte. Salvo due o tre, che aveva incorniciato. Tra queste un ritratto notevole di sua madre. Seduta, un po’ troppo rigida, su una poltrona, con gli occhi girati verso la finestra, a sinistra, come una scolara discola.
Era stato lui ad averla fotografata, certamente. Visto lo stato in cui versava, nessuno dei suoi amici si sarebbe permesso di riprenderla. Un atto troppo azzardato, e troppo intimo.
Ciò detto, la maggior parte delle foto contenute nel baule non erano sue. C’erano quelle di Nubar, e di cinque o sei altri membri del Circolo.
Le più vecchie risalivano al 1901. La più recente era del 1909. Aprile 1909. Preciso, nevvero? Potrei essere ancora più preciso: il 6 aprile. Mio padre ne ha parlato davanti a me abbastanza perché non possa dimenticarlo. Dopo quella data, non ha mai più voluto tenere in mano una macchina fotografica.
Cos’era successo, quel giorno? Un cataclisma, in un certo senso. Il cataclisma dal quale sono nato io.
C’era stato qualche subbuglio a Adana. La folla aveva saccheggiato il quartiere armeno. Un assaggio di quanto sarebbe successo, sei anni dopo, su scala ben più vasta. Ma era già stato orribile. Centinaia di morti. Forse migliaia. Innumerevoli case incendiate, tra le quali quella di Nubar. Ma lui aveva avuto il tempo di fuggire, con sua moglie, che aveva un nome poi diventato raro, Arsinoe, la loro figlia di dieci anni e il figlio di quattro.
Dove trovare rifugio, se non a casa del suo amico, il suo unico amico turco? Il giorno dopo erano rimasti rinchiusi in casa, tutti insieme, nella vasta casa Ketabdar. Ma l’indomani, il 6 aprile, appunto, siccome si diceva che la calma era stata ristabilita, Nubar aveva voluto avventurarsi dalle parti di casa sua per vedere se non avesse per caso potuto salvare qualche libro, qualche foto. Si era munito di una macchina portatile, e mio padre aveva deciso di accompagnarlo, con un equipaggiamento dello stesso genere.
Le strade sembravano effettivamente tranquille. La distanza da superare non era che di qualche centinaio di metri, e lungo la strada i due amici avevano potuto scattare qualche foto.
Stavano per raggiungere la casa di Nubar, quando esplode, all’improvviso, un clamore. Qualche strada più in là, sulla destra, c’è una folla che brandisce dei randelli e, in pieno giorno, delle torce. I nostri fotografi ritornano sui loro passi, Nubar correndo quanto le gambe gli consentivano, mio padre, dal canto suo, mantenendo la sua andatura da sultano. Perché affrettarsi? La folla è ancora lontana. E infatti si ferma; con cura valuta la distanza e l’inquadratura; poi prende una foto dell’avanguardia dei facinorosi.
Nubar urla, fuori di sé. Allora mio padre si decide a correre, stringendo al petto la macchina, come fosse un bambino. E oltrepassano tutti e due, sani e salvi, il cancello del giardino.
Ma la folla è alle loro calcagna. Un migliaio di energumeni inferociti che battono i piedi nella polvere, che adesso scuotono il cancello. Tra pochi secondi saranno dentro, per uccidere, razziare e incendiare. Ma forse esitano ancora. Dietro il cancello, quella dimora imponente non è quella di un ricco negoziante armeno, ma quella di un membro della famiglia reale.
L’esitazione si prolunga ancora? Le cancellate che stanno scrollando sempre più forte non cederanno, liberando i facinorosi dai loro ultimi scrupoli? D’altra parte la folla si ammassa ancora di più, le grida di morte non cessano di amplificarsi.
Sopravviene in quel momento un distaccamento dell’esercito. Un ufficiale, uno solo, e giovanissimo, con un pugno di uomini, ma la loro irruzione non è senza effetto. Dall’alto della sua cavalcatura, forte della sciabola che agita e del suo colbacco nero di lana arricciata, il comandante scambia qualche parola con i facinorosi, poi fa segno al giardiniere di lasciarlo entrare.
Mio padre l’accoglie come il salvatore, ma il militare non ha tempo per gli scambi di cortesie. Esige seccamente che gli sia consegnato il materiale fotografico che è la causa di quel disordine. Siccome mio padre rifiuta, l’altro si fa minaccioso: se non gli obbedisce, si ritirerà con i suoi uomini e non risponderà più di niente.
“Lei sa chi sono io?”, dice mio padre, “lei sa soltanto di chi sono nipote?”
“Sì, lo so, risponde l’ufficiale. “Suo nonno era un nobile sovrano che ha incontrato una morte atroce. Dio abbia l’anima sua!” E nel suo sguardo, mentre così diceva, c’era più tracotanza che compassione.
Fu giocoforza cedere. Consegnare l’intera panoplia importata a caro prezzo per le attività del Circolo Fotografico. Non meno di una decina di macchine fotografiche tra le più perfezionate… Mio padre era da poco riuscito a nascondere proprio quella che aveva appena usato, spingendola con il piede sotto a un mobile. Dentro c’era l’immagine che per poco non gli era costata la vita.
I soldati portarono via il resto. Dalla finestra del primo piano Nubar e mio padre li videro gettare per terra quei gioielli, davanti ai facinorosi, calpestarli ostentatamente, finirli a colpi di calcio di fucile, poi gettare i rottami a piene mani oltre il cancello…
Soltanto allora la folla aveva consentito a disperdersi.
I due amici si guardarono increduli. Appena sollevati dall’essere scampati alla morte, tanto erano rattristati.
Gli anni belli erano finiti. Finiti gli anni del Circolo. La fotografia, la loro amante comune, la loro casta amante europea, per la quale avevano appena rischiato la vita, non l’avrebbero più potuta abbracciare allo stesso modo. Mio padre sarebbe diventato collezionista, esclusivamente. Non avrebbe mai più scattato nemmeno una foto. Quella dei facinorosi sarebbe stata l’ultima. Al contrario, Nubar sarebbe diventato fotografo professionista. Ma non a Adana. Non era il caso, per lui, di restaurare la vecchia casa. L’idea stessa di uscire di nuovo per le strade malsicure del quartiere armeno gli era diventata insopportabile.
In quella città, c’era nato. Ma l’avvenire non abita tra le mura del passato.
Rimaneva da scegliere il luogo dell’esilio.
Molti armeni fuggirono in quell’occasione da Adana, e da altre località di provincia, per raggrupparsi nella capitale, a Istanbul. “Scappare dalle grinfie della tigre, per andare a rannicchiarsi sotto il suo muso? Non sarò io quello,” disse Nubar.
Lui aveva in mente l’America. Solo che, per una impresa del genere, gli occorreva molto denaro, e anche molti preliminari, contatti da prendere, documenti da ottenere. Insomma, del tempo. Ma Nubar aveva fretta. Non voleva restare più di qualche giorno a casa del suo amico; ed era ben deciso a non uscire da casa Ketabdar se non per lasciare il paese.
Sarebbe stata sua moglie – sì, Arsinoe – a suggerirgli la soluzione. Trattandosi di lei, suggerire è la parola giusta. Era la persona più timida e riservata al mondo, sempre con i piedi uniti, le mani giunte, gli occhi a terra, l’immagine di doversi scusare e fare cento mosse schive prime di osare immischiarsi in ciò che non la riguardava, cioè la sua vita. Lei aveva un cugino che da qualche anno si era stabilito sui monti del Libano. Di tanto in tanto, mandava qualche lettera incoraggiante. Forse si dovrebbe andare laggiù, per un po’ di tempo, aspettando l’America?
E’ vero che, anche laggiù, si era in territorio ottomano. Ma, per la Montagna,2 da mezzo secolo c’era uno statuto
autonomo, garantito e sorvegliato da vicino dalle grandi potenze. Se per degli armeni non era ancora il rifugio ideale, era tuttavia la destinazione meno rischiosa. E, in ogni caso, la meno inaccessibile.
Nubar aveva rimuginato l’idea per due giorni. Una volta presa la decisione ne aveva informato l’amico.
“Così,“ pare gli abbia detto mio padre, ”hai deciso di lasciarmi. La casa non è dunque abbastanza spaziosa per»
te…
“La tua casa è spaziosa, ma il paese è stretto.”
“Se il paese è stretto per il mio migliore amico, perché non dovrebbe esserlo anche per me?”
Nubar non era nello stato d’animo di spiegare in cosa potevano divergere le prospettive di un precettore armeno e di un principe turco… D’altra parte mio padre non aveva atteso la risposta. Era già sceso a passeggiare nervosamente in giardino, sotto i noci, fumando a grandi boccate. Nubar lo sorvegliava ogni tanto dalla finestra. Poi aveva deciso di raggiungerlo. Lo vedeva sconcertato.
“Sei l’amico più caro, sei l’ospite più generoso, quello che non si può lasciare senza rimorsi. Pensa bene a cosa ci sta capitando. Né tu né io l’abbiamo voluto. Ma né tu né io possiamo impedirlo. Io dovevo…” Né l’amico, né l’ospite stavano a sentire quanto diceva. Dopo un’ora aveva maturato la sua decisione.
“E se partissi con te?”
“Per il Libano?”
“Magari…”
“Se vieni… Se venissi con me… ti darei…”
“Cosa mi daresti?”
I due amici avevano all’improvviso ritrovato la giovialità, la loro giovinezza. E il loro gusto comune per le battute di spirito. Ma quel gioco li avrebbe portati lontano…
“Cosa potrei darti?“ si era domandato Nubar a voce alta. ”Tu possiedi terreni, interi villaggi e una residenza principesca, mentre io, della mia povera casa, non ho più pietra su pietra! Avrei potuto darti il più prezioso dei miei libri; anche a chi possiede tutto si può sempre regalare un libro raro.
“Avrei potuto darti le mie foto più belle, le meglio riuscite, quelle di cui andavo più fiero… Ma non ho più niente. Tutto bruciato, i libri, le foto, i mobili, i vestiti. Ho perso tutto.
“Non mi resta altro da offrirti che la mano di mia figlia!”
“D’accordo,” disse mio padre. “Vengo con te!”
Erano seri i due amici, a proposito di quella promessa? Ho l’impressione che la cosa fosse cominciata per l’uno e per l’altro come una battuta. Ma poi, nessuno dei due aveva voluto tirarsi indietro per paura di offendere l’altro.
La figlia di Nubar aveva dieci anni. Sembra che fosse grande, per la sua età, una brunetta piuttosto gracile, con abiti tristi; una ragazzina tirata nel senso della lunghezza, piuttosto che un abbozzo di donna. Si chiamava Cecilia. Sposerà l’amico di suo padre cinque anni dopo. Nel 1914. Poco prima dell’estate. Poco prima della guerra. Ci sarà un ricevimento sontuoso, forse l’ultima festa nella storia in cui turchi e armeni canteranno e danzeranno insieme. Tra mille altri, sarà presente il governatore della Montagna che in quel tempo era appunto un armeno, Ohannès pascià. Vecchio funzionario ottomano, per l’occasione improvviserà un discorso sulla fraternità ritrovata tra le comunità dell'impero: “Turchi, armeni, arabi, greci ed ebrei, le cinque dita dell’augusta mano del sultano.” E sarà a lungo applaudito.
Nubar, nemmeno in piena festa riusciva a liberarsi delle sue inquietudini; ma lo sposo era allegro come un ragazzino della strada. “Dài, suocero, vieni fuori dai tuoi pensieri, vieni con noi! Guarda tutta questa gente che ride e batte le mani intorno a te: non abbiamo forse trovato qui ciò che mancava a Adana? Abbiamo ancora bisogno di emigrare negli Stati Uniti?“
Tutto sembrava effettivamente andare per il meglio. In previsione del matrimonio, mio padre si era fatto costruire una casa nei dintorni di Beirut, nella località chiamata La Collina dei Pini. Una sontuosa dimora di arenaria, a imitazione di quella che aveva lasciato. Da Adana aveva portato con sé i mobili di famiglia, i gioielli di sua madre, i vecchi strumenti di suo padre, i tappeti, titoli di proprietà e contratti a casse intere e, ben inteso, tutte le sue fotografie.
Sulla parete più grande del soggiorno della nuova casa Ketabdar dominava e incombeva l’immagine più inattesa: quella dei facinorosi, le loro teste fasciate di turbanti, le loro facce sudate sotto le fiamma odiosa delle torce; per tutta la vita mio padre si sarebbe tenuto sotto gli occhi quel singolare trofeo. Per anni sarebbero passati visitatori, a ondate, per scrutare quei personaggi, cercando invano qualche viso familiare. E mio padre li lasciava frugare, per un bel po’, prima di dire: “Non state a cercare, non c’è nessuna faccia da riconoscere, è la folla, è il destino.”
Si sedeva sempre di fronte a quegli uomini; al contrario Nubar gli voltava sempre le spalle. Anzi, ogni volta che entrava nella stanza, abbassava invariabilmente gli occhi per evitare di vederli.
Mio padre avrebbe voluto che il suo amico si decidesse ad abitare finalmente con lui. Ma Nubar aveva preferito affittare, poco distante, una casa molto più modesta, che gli serviva anche da studio. Il governatore l’aveva prescelto come fotografo ufficiale e, in pochi mesi, la sua attività era diventata fiorente. Come il frumento in alta montagna che si sbriga a crescere perché sa che la primavera sarà corta.
Durante quell’estate cominciò la guerra del Quattordici. Per coloro che l’hanno conosciuta sarà sempre la Grande Guerra. Dalle nostre parti, però, non ci furono trincee, né massacri, né ypérite. Si sarebbe sofferto meno per le battaglie che per la fame e le epidemie. Poi, per l’emigrazione che spopolò i villaggi. Ormai, dappertutto nella Montagna, e per molto tempo, innumerevoli case sarebbero rimaste senza fumo.
In quei tempi, a Adana, come in tutta l’Anatolia, cominciavano i massacri. Le terre del Levante vivevano i loro momenti più vili. Il nostro Impero agonizzava nella vergogna; in mezzo alle sue rovine veniva fuori una folla di paesi abortiti: ciascuno pregava il suo dio di fare tacere le preghiere degli altri. E sulle strade si allungavano le prime colonne di profughi.
Era l’ora della morte. Tuttavia, mia madre era incinta. Non di me, no, non ancora. Era incinta della mia sorella maggiore. Io sono nato dopo la guerra, nel Diciannove.
Non parlo spesso di mia madre. E’ perché l’ho conosciuta pochissimo. E’ morta mettendo al mondo il mio fratello minore. Non avevo ancora quattro anni.
Non ho conservato di lei che un ricordo. Ero andato in camera sua, a piedi nudi. Mi aveva preso la mano e l’avevo posta sul suo ventre rotondo. Forse voleva farmi sentire il bambino che si muoveva. L’avevo guardata senza capire. Aveva le lacrime agli occhi. Le ho domandato se aveva male. Si era asciugata gli occhi con un fazzoletto che teneva stropicciato, mi aveva sollevato dal suolo e poi mi aveva preso tra le braccia, stretto a lungo al petto. Respiravo il suo odore caldo con gli occhi chiusi. Avrei voluto che non mi rimettesse mai più per terra…
Perché piangeva? Un dolore? Un dispiacere di donna? Una malinconia passeggera? Ancora oggi, vorrei tanto saperlo!
Ho di lei anche un’altra immagine, della quale però sono meno sicuro. Vedo mia madre accanto alla porta con un vestito aderente, che si allargava alle caviglie, e con un cappello con la veletta sulla testa. Come per andare a una festa di beneficenza. Ma di questo, le dico, sono meno sicuro. Devo aver visto la foto, più tardi, e immaginato di aver visto la scena. C’era in lei qualcosa di inerte. La posa trattenuta, il sorriso scialbo, e nemmeno una parola. Non ero io quello che lei guardava.
Tutto qui. Nessun altro ricordo. Nessuna immagine delle sue sofferenze o della sua morte. Tutto ciò mi era stato risparmiato.
Qualche volta mi sono domandato, molto più tardi, se avesse accettato senza risentimenti che si fosse promessa la sua mano, impegnato il suo futuro, sulla base di una battuta… Può anche darsi, dopo tutto. All’epoca si faceva così. I padri promettevano, le figlie mantenevano. In certe circostanze potevano opporre resistenza, se lo sposo che avevano scelto per loro risultava odioso, o quando amavano un altro… Qualche volta ci perdevano la vita. Nel caso di mia madre, non credo abbia sofferto per la scelta che avevano fatto per lei. Suo marito era un uomo generoso. Per nulla facile da viverci insieme, perché aveva capricci di figlio e di discendenza principesca. Ma per nulla musone, né collerico, né sornione. Quando doveva detestare qualcuno ne soffriva… E per di più era un bell’uomo; sempre ben messo, un po’ dandy, e anche più che un po’, quasi maniaco quando si trattava dei suoi capelli, dei suoi colletti inamidati, del taglio dei suoi baffi biondi, dei risvolti della giacca, o delle sfumature del suo vétiver.
Per indovinare quali possano essere stati i sentimenti di mia madre nei suoi confronti, ho un indice che non può sbagliare: i suoi genitori. Nubar e la mia nonna materna hanno avuto, per tutta la vita, un costante affetto per mio padre. Bastava vedere con quali occhi se lo covavano, allegri per ogni sua allegria, inquieti per qualsiasi sua inquietudine, inteneriti per le sue peggiori disavventure, per sapere che non era stato un cattivo marito per la loro figlia.
Detto questo, mia madre non ha conosciuto molte gioie durante la sua breve esistenza. Ha avuto tre gravidanze, tutte e tre penose. La prima fu appunto nel 1915. Non so se oggi ci si può rendere conto di cosa significasse per un’armena, in quell’anno disgraziato, portare il figlio di un turco ottomano.
E’ vero che suo marito non era un turco ottomano qualsiasi. Il suo comportamento era esemplare. Come lo era la sua indefettibile amicizia per Nubar. Ma chi, in quei frangenti, si prendeva la briga di osservare i comportamenti di qualcuno? Chi cercava di conoscere di ciascuno i veri convincimenti? In momenti del genere si attribuiscono a chiunque, e senza possibilità di appello, le opinioni della sua razza.
Così, il vecchio governatore armeno, che pure era devoto alla nostra dinastia, fu liquidato da un giorno all’altro. E, d’un solo tratto di penna, lo statuto speciale della Montagna fu abolito. Tutte quelle persone, tutti gli armeni che si erano rifugiati in quella regione con il solo scopo di sfuggire alle autorità ottomane, si sentivano improvvisamente prese in trappola!
Nubar si rimise a sognare di emigrare in America. Ma ormai sua figlia era sposa e madre, non si poteva più partire senza di lei e la sua famiglia. E mio padre non voleva sentirne parlare.
In principio, per prendere tempo, diceva che bisognava aspettare che sua moglie avesse partorito e si fosse ristabilita. Poi trovò il pretesto che sua madre, visto il suo stato, non sarebbe mai stata autorizzata ad entrare negli Stati Uniti, e che non era proprio pensabile che lui potesse abbandonarla…
Non era la vera ragione. Comunque non la sola. Non sarebbe certo stata mia nonna la prima demente ad attraversare l’Atlantico. Credo piuttosto che mio padre, a dispetto del distacco che ostentava per la sua illustre famiglia, a dispetto del disdegno che mostrava talvolta, non fosse indifferente alla sua genealogia. Finché rimaneva in Oriente, restava principe, nipote di un sovrano, discendente dei grandi conquistatori, senza nemmeno aver bisogno di farlo vedere. In America, sarebbe diventato un pedone anonimo. E quello, non avrebbe mai potuto sopportarlo.
Parlando di lui, ieri, senza dubbio ho lasciato intendere che fosse ribelle anche contro i titoli nobiliari e gli onori resi al lignaggio o al rango. In un certo senso lo era… senza però esserlo del tutto. Non voglio dire che fosse incoerente. Soltanto, aveva una certa coerenza tutta sua. Se imprecava spesso contro la sua famiglia ottomana, le rimproverava soprattutto la sua rovina.
Dunque guardava di più al passato che all’avvenire? Non è facile da stabilire. Dopo tutto, l’avvenire è fatto delle nostre nostalgie. O di che altro?
Quell’epoca in cui uomini di tutte le origini vivevano gli uni accanto agli altri negli Scali del Levante, e mescolavano le loro lingue, è una reminiscenza remota? O è una prefigurazione dell’avvenire? Coloro che rimangono attaccati a quel sogno sono dei passatisti o degli utopisti? Io sarei incapace di rispondere. Ma era proprio in quello che mio padre credeva. In un mondo color seppia dove un turco e un armeno potevano ancora essere fratelli.
Se gli avessero restituito quel suo mondo così com’era, si sarebbe messo a pregare il cielo perché più niente mai si muovesse; siccome sapeva che ciò era impossibile, si era collocato per tutta la vita in una principesca posizione di fronda a tempo indeterminato. Se non fosse stato principe, non sarebbe diventato rivoluzionario. Non ne voleva più sapere di un mondo che procedeva immutabile sui suoi binari; posso dire che tutto ciò che deragliava lo incantava - l’arte d’avanguardia, le rivolte corrosive, le invenzioni estreme, le lobbie, le eccentricità; e persino la follia. Talvolta, soltanto le idee più rivoluzionarie potevano appunto confortare in lui tenaci istinti aristocratici.
Perciò – e questo è soltanto un esempio – non ha mai voluto che i suoi figli frequentassero una scuola. Ci teneva a farci seguire il suo stesso percorso: un precettore, degli insegnanti a domicilio. Se qualcuno, per caso, gli faceva osservare che tutto ciò non quadrava con le sue opinioni di avanguardia, si difendeva con veemenza. Affermava che gli uomini nascono ribelli e che la scuola si impegna a farne degli esseri sottomessi, rassegnati, più facili da addomesticare. I futuri dirigenti rivoluzionari non potevano seguire un simile percorso! Non potevano lasciarsi annegare nel gregge informe!
Per i suoi figli voleva insegnanti che nessuna scuola avrebbe accettato. I veri maestri, diceva, sono quelli che vi insegnano verità differenti. Immagino che mio padre cercasse in tal modo di riprodurre ciò che di meglio aveva conosciuto nella sua giovinezza. Quella complicità di intelligenza e di cuore con Nubar e gli altri membri del Circolo Fotografico. Avrebbe voluto ritrovarla e trasmetterla. C’è riuscito, in parte; ogni mattina, l’arrivo degli insegnanti non era mai per me un momento di timore. Ricordo ancora certe nostre discussioni e qualche confidenza; forse c’è stato davvero, con l’uno o con l’altro, un pizzico di complicità… Ma la rassomiglianza tra le due case Ketabdar, quella di Adana e quella dei dintorni di Beirut, si ferma lì. Se la prima viveva fuori del mondo, dietro i catenacci dei cancelli, appena frequentata da un pugno di irriducibili, la seconda era, viceversa, un’arnia al sole. Salotto aperto, braccia aperte, tavola aperta per gli invitati di un sol giorno come per i frequentatori abituali – pittori incompresi e giovani poetesse, scrittori egiziani di passaggio, orientalisti di ogni specie. Un chiacchiericcio ininterrotto…
Per un ragazzo come me, avrebbe potuto essere la festa continua. Fu invece piuttosto un supplizio, direi addirittura una calamità permanente! Eravamo costantemente invasi, dall’alba alla notte. Da persone talvolta stupefacenti, strambe o erudite, ma prevalentemente da parassiti insignificanti, da seccatori, cioè da scrocconi attirati dai soldi di mio padre, dalla sua smodata ricerca di novità, e dalla sua assoluta incapacità di discriminare…
Le gioie dell’infanzia, era altrove che le trovavo. Nelle rare, troppo rare, volte che riuscivo a scappare lontano dalla casa di famiglia.
I migliori ricordi che mi restano di quell’epoca? Per tre anni di seguito, nelle vacanze estive, sono andato con i miei nonni materni in un villaggio di alta montagna, non lontano da quel posto incantevole che al paese chiamano Canat-Bakich, e che è il Canale di Bacco. Ogni giorno, appena svegli, mio nonno e io salivamo a piedi verso la cima. Avevamo soltanto il bastone per camminare meglio e qualcosa per calmare la fame – qualche frutto, delle focaccine arrotolate farcite.
Dopo due ore di salita raggiungevamo una baita di caprai che si diceva fosse stata costruita al tempo dei Romani, ma che non aveva nessun antico splendore. Soltanto un rifugio di pietra appena sbozzata con una porta così bassa che persino io, che avevo dieci anni, dovevo curvarmi per entrare. All’interno c’era una seggiola, colle gambe malferme e l’impagliatura sfondata, e l’odore di capra. Ma per me era un palazzo, un regno. Appena arrivato, mi ci sistemavo. Mio nonno si sedeva fuori, su un grosso sasso, appoggiato con entrambe le mani al suo bastone. Io mi abbandonavo alle mie fantasticherie. Dio, quanto mi inebriavo! Vagavo sulle nuvole, ero padrone del mondo, mi godevo tutti i piaceri dell’universo.
E quando l’estate finiva e ridiscendevo sulla terra, la mia felicità rimaneva lassù, in quella capanna. Ogni sera andavo a letto, nella nostra vasta magione, sotto le coperte ricamate, circondato da tappezzeria, da sciabole cesellate, da brocche ottomane, ma non sognavo che quella capanna di pastori. D’altronde, ancora oggi, nel secondo versante della mia vita, quando mi capita di rivedere in sogno il territorio della mia infanzia, è quella capanna che mi appare.
Dunque, ci sono andato per tre estati di seguito. Avevo dieci, undici o dodici anni. Poi l’incanto si è rotto. Mio nonno aveva avuto qualche problema di salute, e gli avevano sconsigliato quelle lunghe gite. Eppure mi sembrava vigoroso, con i capelli così neri e i suoi baffi irsuti e più neri ancora, neppure il minimo filo argentato. Ma era un nonno, i nostri giochi di ragazzi non facevano più per lui. Avevamo dovuto cambiare il nostro posto di villeggiatura. Per andare in begli alberghi, con piscina, casinò e serate danzanti. E io avevo ormai perduto il mio regno infantile.
No, mio padre non veniva mai con noi in vacanza. Le vacanze consistevano appunto nel non stare vicino a lui…
Partivamo, con il cuore sempre più leggero, a mano a mano che la casa si allontanava. Lui, restava; aveva soltanto disprezzo per quella “transumanza”, per quelle coorti di cittadini che, a una data stabilita, fuggivano verso le montagne dal caldo delle zone litorali.
Forse aveva ragione, dopo tutto. Più andrò avanti negli anni e più darò ragione in ogni cosa a mio padre. Suppongo sia così per tutti gli uomini. Le mie fisime vanno a poco a poco a collimare con le sue. Per atavismo o per rimorso. Ma su un punto non sarò mai d’accordo con lui – ed è stato proprio quello a spingermi costantemente a fuggire: quel desiderio che lui aveva di fare di me un grande dirigente rivoluzionario. Ma non era un’ambizione qualsiasi come tanti genitori possono averne per i loro figli. Era un’ossessione. Che adesso può far sorridere: nella mia infanzia, nella mia adolescenza, raramente mi ha fatto sorridere. E più tardi, in età adulta, mi ha ancora perseguitato, come una maledizione.
Mio padre, vede, era l’esempio vivente di quello che si ha consuetudine di chiamare un despota illuminato. Illuminato perché voleva per noi un’educazione da uomini liberi. Illuminato perché prodigava a sua figlia gli stessi insegnamenti che ai suoi figli. Illuminato, anche, per la sua passione per le scienze contemporanee e per le arti. Ma despota. Despota già nella maniera di esporre le sue idee, a voce alta, precisa, senza possibilità di appello. Despota soprattutto nelle esigenze espresse nei nostri confronti, nei confronti del nostro avvenire: persuaso che la sua ambizione fosse nobile, non si domandava se i suoi figli avessero il desiderio o la capacità di conformarsi ad essa.
All’inizio, la pressione si esercitava in modo uguale, o quasi, sui tre figli. Ma, a poco a poco, mia sorella e mio fratello sono riusciti a defilarsi, lasciandomi solo a sopportare, per tutta la vita, il peso sfiancante della grandiosa fissazione paterna.
Quando morì mia madre, nel settembre del Ventidue, per complicazioni dopo il suo terzo parto, mia sorella non aveva più di sette anni. Eppure era immediatamente diventata la padrona di casa. Fu lei a farsi carico di spiegarmi, con gli occhi asciutti, che la mamma era partita per un lungo viaggio e che, per non farla soffrire in quel paese lontano dove si trovava, dovevo dormire tranquillo; dopo di che, suppongo, era andata sul letto a piangere tutte le lacrime dell’anima sua.
Di noi tre, soltanto lei ha saputo, fin dall’infanzia, conquistare il suo posto. Si sarebbe detto che, per lei, mio padre era un tetto; per me era un soffitto. Le stesse parole, le stesse intonazioni della voce paterna che per lei erano rassicuranti e le davano fiducia, per me erano soffocanti o mi smontavano.
Ho ancora davanti agli occhi una scena che deve essersi ripetuta, in modo identico, per migliaia di volte.
Al mattino, quando mio padre si alzava, non si faceva mai vedere, nemmeno da me, prima di essere rasato, pettinato, vestito, profumato, insomma pronto per uscire. Cominciava ricevendo il barbiere; poi, dopo essersi preparato, socchiudeva la porta e chiamava mia sorella, perché andasse a “fargli specchio”. Cioè, lui si metteva davanti a lei, silenzioso e ritto, come davanti a uno specchio. Lei lo ispezionava. Gli sistemava un nodo, toglieva un filo di polvere, esaminava da vicino il bruno di una macchia sulla pelle. Per tutta la durata dell’operazione lei ostentava una smorfia dubbiosa, e quando, alla fine, dava il suo assenso annuendo, non era mai con slancio. E anche lui sembrava attendere il verdetto senza certezza.
Compiuto il rituale, lasciava la camera; i suoi primi passi erano ancora esitanti, poi a poco a poco recuperava la sua andatura sicura. Fino al salotto, dove lo aspettava il caffè.
Ho detto prima pronto “per uscire”, non era che un modo di dire. La parola giusta sarebbe “insediarsi”. Mio padre usciva poco. D’abitudine, al risveglio, si sporgeva soltanto da una finestra aperta, al primo piano, per respirare l’aria del mattino. Il suo sguardo sostava per un attimo sul mare, la città, i pini: soltanto un colpo d’occhio come per verificare che ci fossero ancora. Poi scendeva gli scalini e rientrava in salotto. Le prime visite non si sarebbero fatte attendere. Qualche volta l’aspettavano già.
Suppongo che finché era viva mia madre fosse lei a “fargli specchio” ogni mattina. Avendola rimpiazzata in quel rito, mia sorella aveva conquistato su mio padre un ascendente che io non mi sarei mai nemmeno sognato di avere. E fu così che lui non ha più cercato di imporle alcunché.
Anche il mio fratello minore, come lei, si sarebbe presto liberato del problema. Ma in un altro modo, più subdolo. Avrebbe messo in atto ogni cosa che potesse scoraggiare, dissuadere nostro padre dallo spingerlo verso alte ambizioni. Era convinto che papà l’avesse detestato da quando era venuto al mondo, perché aveva causato la morte di nostra madre. Papà non avrebbe mai potuto, consapevolmente, assumere un atteggiamento così meschino. Ma quando un ragazzo si sente male amato fin dalla nascita, non si sbaglia mai del tutto.
Molto presto si è manifestata una differenza tra mio fratello e noi – per noi, voglio dire l’intera famiglia. Tutti quanti eravamo magri, slanciati, con una tendenza naturale alla prestanza e all’eleganza. Tutti: mio padre, che era forte e agile, malgrado l’inevitabile pancetta degli uomini maturi e prosperi; mia madre, un tempo; Nubar; le mie due nonne; mia sorella ed io eravamo tutti un po’ fatti sullo stesso modello. C’era, molto banalmente, un’aria di famiglia. Salvo mio fratello. Dalla più giovane età, è sempre stato obeso, e tale è restato. Si è sempre rimpinzato come un porco.
Mi pare di non avere ancora detto il suo nome: Salem. D’altra parte era la prima causa del suo rancore! In sé, un nome come un altro. È persino il solo dei nostri tre nomi che non sia inusitato. Il mio, nessun altro al mondo ce l’ha. Dopo cinquantasette anni, non sono ancora riuscito ad abituarmi. Quando mi presento, ho tendenza a fare in modo di evitare di pronunciarlo.
Ieri, quando ci siamo incontrati, ho detto soltanto “Ketabdar”, non è vero? Non indovinerebbe mai il nome di cui mio padre mi ha… fatto carico: Ossyan! Sì, Ossyan! “Rivolta”, “Ribellione”, “Disobbedienza”. Si è mai visto un padre chiamare il proprio figlio “Disobbedienza”? Quando ero in Francia lo pronunciavo molto in fretta. E i miei interlocutori, qualche volta, accennavano a un certo bardo scozzese. Vigliaccamente annuivo, piuttosto di dovergli spiegare i capricci di mio padre.
Ma andiamo avanti. Volevo soltanto dire che il mio nome era il più pesante da portare; e che quello di mia sorella – Iffett, come la nonna – era altrettanto raro a Beirut; la maggior parte delle persone capivano Yvette.
Vero è che, tra le due guerre, il paese era già sotto mandato francese… in effetti, era appena stato posto sotto mandato francese, dopo quattro secoli di dominazione ottomana. Ma immediatamente nessuno voleva più intendere il turco!
In fondo, per noi che appartenevamo, malgrado tutto, alla famiglia ottomana, non era forse il miglior momento per stabilirsi in Libano. Cosa vuole, noi non abbiamo scelto, è stata la Storia a scegliere per noi. Ciò detto, non voglio sembrare ingiusto, né ingrato. Se è vero che a Beirut la gente preferiva parlare francese e dimenticare il turco, nemmeno una sola volta ci hanno lasciato pensare che avremmo potuto essere indesiderabili. Proprio al contrario, sembravano nello stesso tempo divertiti e fieri del fatto che l’occupante di ieri fosse tornato in qualche modo ad abitare tra loro in qualità di ospite. Sono stato sempre trattato, da tutti quanti, dai più vicini agli estranei, come una sorta di piccolo principe. Mai ho avuto la sensazione di dover nascondere le mie origini, se non per pudore, per la preoccupazione di farne un’imposizione…
Ma stavo parlando d’altro… ah, sì, del nome di mio fratello, Salem. Dicevo che è molto meno inusitato del mio. Era anche un nome diffuso, che suonava bene. Soltanto, come lei sa, significa “indenne”, o qualcosa di simile: cosa che, per un ragazzo la cui madre è morta mettendolo al mondo, evocava una circostanza dolorosa.
Nella mente di mio fratello, lo avevano chiamato così per ricordagli, per tutta la vita, che era sopravvissuto a sua madre, e forse addirittura per punirlo di averla “uccisa”…
Non era quella l’intenzione di mio padre. Nemmeno per sogno. Nel suo spirito, si trattava soltanto di celebrare, con quel nome, il solo evento fausto di un parto tragico, e cioè che il bambino almeno ne era venuto fuori indenne.
Detto questo, è davvero un’abitudine detestabile quella di affibbiare ai bambini dei nomi che esprimono le opinioni dei genitori, le loro infatuazioni o le loro preoccupazioni del momento; un nome deve essere – ne converrà – la pagina più bianca, perché la persona ci possa scrivere, durante la sua vita, ciò che saprà scriverci. Chiamare mio fratello in quel modo era, secondo me, un’idea molto inopportuna. Ma non c’era sicuramente nessuna intenzione punitiva o denigratoria. D’altronde, all’inizio, mio padre aveva per Salem le stesse ambizioni oltranziste che per me.
Mio fratello avrebbe fatto qualsiasi cosa per liberarsene. Trascurava gli studi, si comportava come un teppista con gli insegnanti, che invece erano persone meravigliose, non tutti ma per la maggior parte. Si vendicava anche rimpinzandosi, già l’ho detto. E ha fatto ben di peggio.
A dodici anni, per esempio, aveva rubato due superbi manoscritti del XVII secolo, decorati con miniature, per andare a venderli a dei rigattieri, facendo in modo di fare accusare il figlio del giardiniere. Mio padre si era sentito umiliato quando aveva scoperto la verità, e, per la prima volta nella sua vita, aveva picchiato uno dei suoi figli, selvaggiamente, ferendolo a sangue con la fibbia della cintura.
Aveva persino giurato di cacciarlo di casa e di dare la sua camera al figlio del giardiniere, a titolo di riparazione; ma il ragazzo e i suoi genitori avevano prudentemente rifiutato. Piuttosto di cacciarlo di casa, mio padre aveva finalmente scacciato il suo figlio minore dai suoi sogni per il futuro. Forse credeva in tal modo di punirlo. Proprio al contrario, l’aveva liberato.
Non così per quanto riguarda me, ahimè. Sulle sole mie spalle riposavano ormai tutti i sogni di mio padre.
E che sogni! Se volessi farne la caricatura più somigliante, direi che sognava un mondo dove non ci sarebbero stati che uomini cortesi e generosi, vestiti in modo impeccabile, che avrebbero salutato con profonda riverenza le donne, disprezzato con veemenza qualsiasi discriminazione razziale, di lingua e di religione, e si sarebbero appassionati come bambini per la fotografia, l’aviazione, la TSF e il cinematografo.
Prenda quello che dico come una specie di risata nervosa. O come un ridacchiare vergognoso. Perché quel mondo che lui sognava, quel XX secolo che avrebbe dovuto prolungare il XIX in tutto quanto aveva di più nobile, l’ho sognato anch’io. E se avessi conservato oggi il coraggio di sognare, lo sognerei ancora. In questo ci somigliamo… come padre e figlio, se lei mi permette questa banalità. Dove non lo seguivo più era quando cominciava a dire che il mondo ha bisogno, per essere svegliato e perché gli siano tracciate le strade da percorrere, di alcuni uomini eccezionali, di rivoluzionari con i piedi in Oriente e lo sguardo a Occidente.
Quanto a lui, il suo sguardo era verso di me che lo dirigeva. Ero tenuto a capire che quell’uomo provvidenziale, colui dal quale si aspettavano miracoli ero io.
Qualche volta ci si mettevano in due. Nubar e lui. Due vecchi ingenui, due ingenui incurabili. Tu sarai un grande rivoluzionario, figlio mio! Tu cambierai la faccia del mondo, figlio mio! Sotto il loro sguardo, non mi restava che una sola voglia: quella di scappare. Cambiare nome, cambiare cielo. Come spiegare loro che quell’affezione per me, quell’eccessiva fiducia, quella venerazione prematura mi atterrivano e mi paralizzavano? Come spiegargli che potevo avere progetti diversi per l’avvenire? E non erano progetti meno generosi, posso assicurarglielo. Anch’io, a modo mio, volevo cambiare il mondo. Mentre mio padre si ostinava a farmi leggere le biografie dei conquistatori e dei grandi rivoluzionari, da Alessandro e da Cesare a Napoleone, a Sun Yatsen e a Lenin, senza dimenticare il nostro avo, il Magnifico, i miei eroi si chiamavano Pasteur, Freud, Pavlov, e soprattutto Charcot…
Il fatto è che, d’altra parte, mi ricollegavo agli interessi del nonno paterno, che era medico, non è vero?, e anche neurologo come Charcot, che lui aveva incontrato una volta, mi hanno detto, in occasione di un soggiorno in Svizzera. La presenza in casa, per tutta la durata della mia infanzia, di una nonna demente aveva certamente aguzzato la mia curiosità per la psichiatria e per la neurologia.
La mia decisione l’avevo presa, direi, fin dall’età di dodici anni. Era una sorta di patto con me stesso, che confermavo ogni notte nell’oscurità della mia camera: sarò medico! E ogni volta che mio padre mi parlava delle sue ambizioni nei miei riguardi, io rimanevo muto, senza nulla lasciare trasparire dei miei veri sentimenti, mentre dentro di me ripetevo con rabbia: sarò medico! Non sarò né un conquistatore, né un dirigente rivoluzionario, sarò medico! L’unica esitazione nel mio spirito riguardava la finalità ultima della scienza che intendevo abbracciare. Qualche volta mi vedevo come medico-pratico, e persino come generoso filantropo nella foresta, come il dottor Schweitzer; talvolta, al contrario, come ricercatore, sperimentatore, in un laboratorio, chino su un microscopio.
All’inizio non ne avevo parlato con nessuno. Non saprei dire per quanto tempo questo segreto è rimasto dentro di me. Mi sembra che sia stato soltanto dopo due o tre anni che ho finito per farne parola con mia sorella. In lei potevo avere fiducia. Per non tradirmi, e anche per aiutarmi, lei mi aveva detto: “Sii certo di una cosa, al momento giusto tu non farai nient’altro che quello che avrai deciso di fare. Non stare a domandarti come potrai convincere tuo padre, chiediti soltanto che cosa vuoi veramente, assicurati che sia proprio quello che vuoi. Di nostro padre, quando sarà necessario, sarò io a incaricarmene.”
Se ne sarebbe poi effettivamente fatta carico. Prima di tutto convincendolo che bisognava iscrivermi, per gli ultimi due anni scolastici, in una vera scuola che poteva rilasciarmi diplomi riconosciuti. Non c’era riuscita subito, ma Nubar aveva appoggiato la sua iniziativa, e mio padre aveva finito per cedere. Ne avrebbe, d’altra parte, avuto in cambio un’immensa gratificazione: grazie agli insegnamenti che avevo ricevuto dai miei maestri, fin dall’ingresso nella scuola viaggiavo talmente al di sopra dei miei compagni di classe, che sembrava un gioco: le lingue, le lettere, la retorica, le scienze, la storia… padroneggiavo tutte le materie con una facilità che sembrava confermare la giustezza delle vedute eccentriche di mio padre. Grazie a lui, avevo ricevuto una formazione di qualità eccezionale: è triste che ne abbia fatto un uso cosi pietoso!
Per la prima e la seconda parte dell’esame di stato ho ottenuto, senza bisogno di lavorare più degli altri, le migliori votazioni nazionali. Eravamo nel Trentasei e nel Trentasette. Il mio nome era stampato sulla prima pagina dei giornali. Mio padre era trionfante. Suo figlio caracollava “già” davanti agli altri! Quanto a me, se quei risultati mi incitavano a portare aventi i miei studi lino in fondo, ero più che mai determinato a proseguirli lontano da casa, lontano dalle pesanti pretese paterne. Pensavo sempre di più a Montpellier, dove la facoltà di medicina era tra le più rinomate.
Anche quella volta mia sorella si sarebbe “incaricata” di mio padre. E lo avrebbe fatto con vera abilità. Il suo argomento: la professione medica è la strada ideale per chi voglia cambiare gli uomini: questi infatti acquisisce molto rapidamente un’immagine di sapiente, di saggio, di benefattore, e persino di salvatore; la gente è pronta a dargli fiducia in ogni campo. Al momento opportuno, può trasformarsi molto naturalmente in trascinatore di uomini.
Studiare medicina sarebbe dunque stata la via più astuta per prepararsi all’avvenire che lui sognava per me? Mio padre non aveva detestato quest’idea. Ed è stato con la sua benedizione che mi sono imbarcato a fine luglio sul piroscafo Champollion. Destinazione: Marsiglia.
Appena i fabbricati del porto di Beirut erano scomparsi all’orizzonte, ero sceso a sprofondarmi in una sdraio, esausto, sollevato, libero. Mio padre poteva credere che me ne andassi a preparare subdolamente il mio destino di dirigente rivoluzionario. Io avevo soltanto un desiderio: studiare, studiare. Distrarmi un po’, anche, d’accordo, di tanto in tanto. Ma che nessuno mi parlasse più di rivoluzione, di lotta, di rinascita dell’Oriente, né di un domani radioso!
Mi ero persino ripromesso di non leggere più i giornali.